Intervento su PdL in Assemblea, 11 feb 2003
Signor Presidente, onorevoli colleghi, trovo davvero singolare che il
ministro Moratti ponga ora, mentre inizia alla Camera la discussione su un
testo blindato sulle norme per l'istruzione, il tema di un dibattito con
l'opposizione sul futuro della nostra scuola. Trovo davvero singolare che
il ministro Moratti invochi il confronto, come avviene - ella aggiunge -
nei sistemi maturi, se qui, nel Parlamento italiano, maggioranza ed
opposizione non avranno modo alcuno di confrontarsi.
Forse bisogna ricordare ai colleghi tutti che il disegno di legge che ci
accingiamo a discutere, sapendo che nemmeno una virgola sarà cambiata,
come è stato nelle quindici ore di discussione in Commissione, è una
legge delega, che affida a successivi decreti legislativi del Governo ogni
decisione su come sarà nei prossimi anni la scuola di tutti, sottraendo,
quindi, la discussione al Parlamento. Si tratta di un testo di legge che,
come già chiarito nella questione pregiudiziale di costituzionalità che
abbiamo esaminato nella giornata di oggi, contravviene ad una precisa e
non secondaria norma costituzionale: la Repubblica detta le norme generali
per l'istruzione. Si tratta di un primo pesante limite di questa legge
delega, con la quale il Governo avoca a sé una competenza che non
appartiene al Governo, a nessun Governo. E trovo singolare che il ministro
Moratti invochi ora il confronto, dopo aver avviato la sua azione di
Governo all'insegna del «punto e a capo», dopo aver ostinatamente e
pervicacemente voluto cancellare o abrogare ogni atto delle politiche del
centrosinistra, a cominciare dalle legge di riforma della scuola del 10
febbraio 2000, n. 30, che era dotata di un dispositivo di verifica in
itinere e sulla quale avrebbe potuto esserci un confronto e, sicuramente,
anche un intervento di modifica.
Il ministro Moratti, nel bloccare quella legge, aveva dichiarato che la
sua proposta sarebbe stata frutto di un'ampia discussione e avrebbe avuto
larga condivisione. Così non è stato. È una proposta nata da un
confronto? No. La logica rimane sempre la stessa: quella del «punto e a
capo». «Punto e a capo» rispetto agli atti del precedente del Governo
ma, insieme, «punto e a capo» rispetto alla migliore tradizione di quei
soggetti istituzionali che sono oggi le scuole.
Come è rappresentato, in questo disegno di legge, il patrimonio di
cultura, di riflessione, di esperienze e di lavoro della nostra scuola,
dei suoi operatori e dei suoi organi di rappresentanza? Che ascolto è
stato garantito a questo mondo? In quali sedi? E valga un esempio per
tutti: con l'anticipo della frequenza a due anni e mezzo di età di
bambine e bambini si rischia di mettere in discussione quella qualità
della scuola dell'infanzia italiana che ci viene invidiata nel mondo,
costruita nel tempo dal lavoro generoso ed appassionato dei suoi
operatori. E ciò fa la qualità della scuola dell'infanzia e la sua
capacità di dare basi emotivo-affettive, sociali e cognitive per
costruire potenzialità di apprendimento nei percorsi successivi e per
garantire queste potenzialità a tutte e a tutti.
È in questi anni che è possibile colmare svantaggi di partenza sociali,
culturali e linguistici, avviare una lotta vera, seria, fatta per tempo
alla dispersione scolastica: dopo comincia ad essere tardi. C'è il
problema di rispondere alla domanda dei genitori in quelle situazioni dove
mancano asili nido o altre strutture, come diceva l'onorevole Bianchi
Clerici? Bastava informarsi e voler conoscere le esperienze concrete della
nostra scuola - e ce ne sono: le sezioni primavera, le sezioni ponte - che
rispondono proprio a quelle esigenze. Non ci sono i soldi? Ma non ci
saranno nemmeno soldi e risorse, visto che sono stati tagliati i fondi
agli enti locali per garantire che con questo anticipo, confuso e
pasticciato - lasciatemelo dire -, la scuola dell'infanzia non ridiventi
asilo, parcheggio per bambine e bambini, non in grado di accudire i più
piccoli e di promuovere l'armonica crescita per tutti, piccoli e grandi.
Questa proposta non nasce dal confronto, non si misura nel confronto. Non
si misura con le esigenze del paese, con i bisogni sempre più ampi di
sapere e di competenze delle giovani generazioni. Ignora l'enorme
ricchezza del lavoro della scuola concreta e reale che ha operato ed opera
per garantire diritti e qualità dell'apprendimento per tutti. In questo
senso, è una proposta ideologica e di parte. D'altra parte, con ostinata
indifferenza o insofferenza, sono state rispedite al mittente critiche di
merito: dell'Unione delle province italiane, dell'Associazione nazionale
dei comuni italiani, prima ancora, della Conferenza Stato-regioni, del
Consiglio nazionale della pubblica istruzione, dei tanti soggetti
associativi e sindacali ascoltati nelle audizioni al Senato e alla Camera.
Nessun peso è stato data all'evidente bocciatura del progetto
Moratti-Bertagna, sancita dal flop degli stati generali, dove è stato
impedito persino agli studenti invitati di esprimere le proprie opinioni.
Trovo inaccettabile che si auspichi un confronto dopo un anno e mezzo,
quasi due, di scelte fatte da questo Governo che, ancora prima degli
effetti di questa legge, stanno cambiando la struttura concreta, le
condizioni di funzionamento del sistema dell'istruzione: stanno
intervenendo sulla spesa, sul governo del sistema, sulla partecipazione
democratica.
Le politiche di questo Governo impoveriscono la scuola pubblica, le
tolgono respiro, risorse e qualità. Meno insegnanti, non in questa legge,
ma nelle leggi finanziarie. Meno personale ATA, meno finanziamenti per
l'autonomia (riduzione di fondi per la legge n. 440 del 1997), meno
possibilità di intercettare intelligenze e storie diverse, meno
possibilità di percorsi di integrazione tra storia, culture e abilità
diverse. Meno autonomia alle scuole, meno autonomia culturale del sistema.
Meno democrazia nel governo del sistema, meno partecipazione, meno
garanzie e libertà per chi ci lavora. Meno obbligo e meno scuola per
tutti, meno diritto a un'istruzione di qualità per tutti. Per finire,
questa legge scardina il quadro di riferimento costituzionale entro cui,
fino ad oggi, si è collocato il nostro sistema educativo.
Le politiche del centrodestra smentiscono i documenti europei - il vertice
di Lisbona del 1999: investire sulla scuola per rendere i cittadini più
forti, l'Europa più forte, garantire il diritto alla formazione per tutto
l'arco della vita, per tutte e per tutti - e smentiscono anche l'articolo
3 della nostra Costituzione. L'investimento nel sapere, nell'innovazione,
nella ricerca, la garanzia dell'eguaglianza dei diritti per tutti sono
invece per noi una priorità, sono condizioni della democrazia. Le vostre
politiche fanno di questo settore un'occasione di risparmio: risparmiano
sul futuro delle giovani generazioni. Infatti, se è vero che oggi si sono
moltiplicate le possibilità di accesso al sapere, è anche vero che la
società dell'informazione non va naturalmente verso la società della
conoscenza se non ci sono da parte dei governi politiche, strategie,
investimenti, assunzione di responsabilità nei confronti di tutti. Era
questa la direzione che indicava il libro bianco su «insegnare ed
apprendere» dell'Unione europea del 1993, quando affermava che ogni
società deve investire nel sapere, perché questo investimento svolge un
ruolo essenziale per l'occupazione e la coesione sociale e per il futuro
democratico di ogni paese.
Se l'altra indicazione europea è che occorre acquisire la capacità di
imparare ad imparare nell'ottica di un'educazione permanente - scomparsa
da questa legge -, credo sia necessario riuscire a progettare il sistema
dell'istruzione prefigurando, per quanto sia possibile, scenari di vita o
di lavoro per i prossimi anni.
Per tornare più volte a scuola nel corso della vita, per acquisire il
sapere che permetta di vivere da cittadini responsabili in una democrazia
complessa, per acquisire le competenze richieste dalla celerità del
progresso scientifico e tecnologico - dall'innovazione del settore
tecnologico - è necessario avere acquisito e metabolizzato solide
competenze di base. Perciò, tutti i paesi, non solo quelli europei,
aumentano gli anni di obbligo scolastico: voi li diminuite. Se negli Stati
Uniti il programma di riaddestramento per adulti stenta a decollare - ci
dice Jeremy Rifkin - è anche perché la differenza tra il livello
d'istruzione richiesto dalle nuove professioni nel mondo dell'alta
tecnologia e quello di chi ha bisogno di un posto di lavoro è così
grande che nessun programma di addestramento può sperare di migliorare le
prestazioni intellettuali dei lavoratori fino al punto da renderle
compatibili con il livello di qualificazione richiesto dalle opportunità
di impiego disponibili.
Il ministro Moratti ci parla del progetto Bush sull'istruzione, ma il
progetto denominato «nessun bambino resti indietro» segna un'inversione
di tendenza: nasce dalla verifica del fallimento di un sistema
dell'istruzione basato sull'esistenza di poche scuole d'élite e di scuole
pubbliche impoverite ed abbandonate a se stesse. Colgo l'occasione per
ricordare che il partito conservatore statunitense ha cambiato il suo
programma elettorale su pressione del paese e delle posizioni
dell'opposizione. Il nuovo piano Bush attiene proprio alla possibilità ed
alla capacità del sistema di intercettare intelligenze ed attitudini, di
allargare la platea di coloro che a pieno titolo accedono all'istruzione,
poiché un paese cresce se cresce la qualità umana e professionale della
maggior parte dell'intera popolazione: la vostra legge va esattamente in
direzione opposta.
Il ministro Moratti, in Commissione, ha rassicurato l'opposizione: egli
intende combattere la dispersione scolastica, ma intanto riporta la scuola
ed il paese indietro. La scuola dell'infanzia ridiventa asilo. Si
propongono percorsi a due velocità già nella scuola di base; che altro
è questo anticipo pasticciato, questa implacabile volontà di valutare il
rendimento fin dei primi anni della scuola elementare, di condizionarne
per questa strada i percorsi cosiddetti personalizzati?
Si ripropone la separazione tra scuola elementare e scuola media con
scansioni interne che non trovano riscontro nella tradizione di ricerca e
di innovazione della scuola elementare e della scuola media e che mettono
in discussione l'autonomia delle scuole. La separazione continuerà a
rappresentare un fattore non marginale di dispersione, mentre si ignora o
si sottovaluta il fatto che oltre il 43 per cento delle istituzioni
scolastiche di base sono oggi organizzate negli istituti comprensivi
(scuola materna, elementare e media) che lavorano in direzione opposta,
nel senso della verticalità e della continuità. In questo modo si
lasciano nella più totale incertezza oltre 150 mila insegnanti che in
tali istituti operano.
Si ipotizza il ritorno al maestro prevalente, senza prendere atto,
verificare, riconoscere il prezioso lavoro collegiale, l'esperienza
efficace di maestre e maestri riconosciuta dalla popolazione e da quelli
che voi chiamate gli utenti.
Si diminuiscono gli anni di obbligo scolastico, in controtendenza rispetto
alle scelte di tutti gli altri paesi. Nel cancellare persino la parola «obbligo»
cancellate un preciso dettato costituzionale: l'impegno della Repubblica
ad istituire scuole statali di ogni ordine e grado. Si separano
precocemente i percorsi in due canali gerarchicamente organizzati. Certo,
sappiamo anche noi che la scuola italiana ha ancora il problema dei
ragazzi che perde, della dissipazione culturale; ragazze e ragazzi non
possiedono le competenze, soprattutto, di lettura e scrittura adeguate al
titolo che hanno conseguito. Vi è ancora il problema del condizionamento
dell'ambiente socio-familiare rispetto al successo negli studi. La ricerca
PISA dell'OCSE ci dice con chiarezza che la canalizzazione precoce abbassa
il livello di cultura e di professionalità ed aumenta la dispersione
piuttosto che combatterla.
La lotta alla dispersione si porta avanti rafforzando la scuola
dell'infanzia, la formazione di base, con cicli lunghi e percorsi unitari,
senza cesure continue, arricchendo ed articolando l'offerta formativa
della scuola, costruendo, dopo l'obbligo scolastico, percorsi
diversificati di pari dignità. La lotta alla dispersione scolastica si fa
nella scuola, non scaricando ad altri, alla formazione professionale per
esempio, problemi che la scuola non ha saputo risolvere.
Non si va per questa strada verso il miglioramento della stessa formazione
professionale. D'altra parte, differenziare precocemente i percorsi
formativi non risolve il problema dei ragazzi in difficoltà, mentre mette
in discussione la durata dell'obbligo di istruzione che, di fatto, torna
ad essere di 8 anni, tant'è che il testo legislativo abroga la legge del
1999, ricollocando l'Italia in coda tra i paesi europei quanto a durata
del percorso obbligatorio di istruzione.
Assecondare un precoce avviamento al lavoro significa avviare ad un futuro
di precarietà ed incertezza. Anche la Germania sta tornando indietro
rispetto al sistema duale che sembra non reggere sia rispetto al problema
delle professioni non previste, sia rispetto ad una crisi occupazionale
senza precedenti ed il secondo canale sembra praticamente un binario morto
dal punto di vista dell'accesso ad altre opportunità di livello più
elevato, non comprese nella filiera della formazione professionale.
La scuola che il provvedimento disegna si limita perciò a rilevare
differenze e squilibri sociali, li rende principi regolativi della sua
fisionomia e della sua funzione, riscopre, come ai tempi di Gentile, una
funzione di contenimento della mobilità sociale, non promuove cultura,
non garantisce diritti, non costruisce le condizioni della democrazia. La
scuola che voi ipotizzate disegna due percorsi: quello dei saperi forti,
formalizzati per la futura classe dirigente e quello di chi va subito ad
imparare un mestiere, confermando il proprio destino sociale.
Per questa strada, rinunciate a definire un progetto pubblico condiviso
d'istruzione, quasi fosse impossibile conciliare le libertà individuali
con le finalità comuni di ogni società e affidate il compito di
rispondere ai bisogni formativi dei cosiddetti clienti agli automatismi
della competitività e del mercato. Noi pensiamo, invece, che un paese
cresce, se cresce il livello culturale di tutti i cittadini (era la
scommessa degli anni sessanta alla base della scuola media unica).
Noi pensiamo che un paese cresce se cresce il sapere e la cultura, se vi
è un sapere comune e condiviso, se sapere e cultura si confrontano con la
storia, con la memoria del paese, con le sue radici, con la sua civiltà,
ma insieme con i bisogni di sapere e conoscenza sempre più ampi e
complessi rispetto all'ampliarsi continuo delle conoscenze, alla messa in
discussione di distanze puramente geografiche tra paesi e popoli.
Oggi è necessario dare bussole, chiavi di accesso al sapere, strumenti ed
interpretazioni. Invece, i principi ispiratori di questo provvedimento,
quelli cui dovranno ispirarsi i futuri decreti, ignorano questo dibattito
e quanto è stato già realizzato dalla scuola su questo terreno e
ripropongono una scuola povera culturalmente che ignora la sfida della
complessità e della multiculturalità. Certo, vi è necessità di una
sempre maggiore integrazione di campi di ricerca, di discipline, di
linguaggi, di concetti e di metodologie (per quanto riguarda l'analisi
grammaticale, lasciamo agli insegnanti, e mi rivolgo all'onorevole Butti,
la libertà di scegliere se usare o meno questo strumento) e, nello stesso
tempo, la necessità del rapporto strettissimo, in ogni percorso
formativo, tra sapere e operatività.
Voi riproponete, con una distinzione tardogentiliana, da una parte, la
scuola del conoscere e del teorizzare e, dall'altra, quella del fare, del
produrre e del costruire e, come corollario (istruire quanto basta,
educare più che si può - si diceva all'inizio del secolo - per connotare
una scuola intesa come strumento di contenimento della mobilità sociale),
si rispolverano educazione spirituale e morale, il sette in condotta,
crocifissi in luoghi di culto separati nella scuola, atteggiamenti che
nascondono, in realtà, la volontà di attaccare il pluralismo culturale
della scuola pubblica, la legittimità di dar voce a diverse opinioni, a
diversi punti di vista (insieme la libertà di insegnamento e di
apprendimento) e si confondono scelte individuali con etica pubblica; si
agita ipocritamente il tema della libertà di scelta delle famiglie (alle
quali, peraltro, non viene garantita l'uguaglianza di diritti) e si
propone la scorciatoia dell'imposizione tutta ideologica da Stato etico
della morale di una parte, la promozione di una formazione morale e
spirituale come finalità della scuola (articolo 2). Noi la pensiamo
diversamente.
E pensiamo che la scuola italiana, pubblica laica e pluralista, debba
formare alla cittadinanza nel rispetto dei valori costituzionali:
dell'articolo 3, dell'articolo 32, dell'articolo 33 e dell'articolo 34
della Costituzione, che debba lavorare alla difficile costruzione,
attraverso la cultura e il sapere, di un'etica pubblica condivisa che
rispetti le scelte, le storie, la cultura di ognuno ed ognuna.
C'è infine fra i principi ispiratori dei futuri decreti legislativi
attuativi il tema della valorizzazione dei docenti. Ma risponde a questa
volontà la diminuzione drastica del numero degli insegnanti prevista
nella legge finanziaria? Rispondono a questa volontà un contratto non
ancora concluso, le pesanti intrusioni nella loro libertà di
insegnamento, l'attacco all'autonomia culturale del sistema che affida ai
governi regionali una quota dei programmi, i tentativi, per ora solo
annunciati dall'onorevole Angela Napoli, di modifica dello stato giuridico
per legge, le minori immissioni in ruolo, il governo altalenante e
contraddittorio delle graduatorie permanenti, da subito alterate con il
primo decreto all'inizio dell'anno scolastico 2001-2002? Restano molti
problemi irrisolti, anche nella proposta della formazione dei docenti;
anche in questo caso nessuna considerazione o verifica sul lavoro fin qui
svolto dalle scuole di specializzazione. Anche in questo caso restano
irrisolte ed imprecisate molte questioni.
Di fronte alla necessità di integrare nella cultura professionale dei
docenti i saperi disciplinari, le didattiche, la scienza dell'educazione,
le attività laboratoriali di tirocinio, riaffiora l'idea di una
preparazione prevalentemente disciplinare, sia pure - lo si dice con una
formula generica - in percorsi anche finalizzati all'insegnamento.
Resta tuttora in piedi il problema irrisolto del reclutamento, a meno che
la voluta genericità non nasconda ipotesi successive, neanche tanto
sussurrate, di reclutamento a chiamata diretta da parte della scuola, con
buona pace dei diritti acquisiti, della responsabilità pubblica, della
libertà di insegnamento. Valorizzare gli insegnanti, i dirigenti
scolastici, tutti gli operatori della scuola è ben altra cosa: significa
riconoscere la dignità del loro ruolo, della loro funzione e non decidere
della loro sorte, del loro lavoro, con leggi finanziarie e con decisioni
affrettate e burocratiche.
Il sapere, dice Amartya Sen, è un bene molto particolare: più se ne dà,
più se ne riceve. La crescita della democrazia, lo sviluppo del sapere,
la scienza in senso lato sono la continuazione di quella condivisione. Noi
ci opporremo in Parlamento e nel paese a questo disegno restauratore
regressivo, che intende consegnare la scuola pubblica così impoverita ad
un destino di marginalità e di declino che sta in queste scelte che
stanno destrutturando il sistema pubblico dell'istruzione. Infatti le
famiglie più avvertite cominceranno a cercare e a pagarsi istruzione e
formazione puntando sulla spesso illusoria qualità dei percorsi privati;
certo il Governo li vorrà aiutare potenziando le politiche dei buoni
scuola.
Le vostre scelte, la vostra politica e la vostra legge ripropongono tutti
i limiti e le distorsioni dell'idea neoliberista secondo la quale la
formazione delle classi dirigenti, voi anzi parlate di selezione, si
realizza con l'accanita lotta di individui sul mercato delle posizioni
eccellenti; queste inseguono il modello già fallito negli Stati Uniti
d'America di un sistema a due velocità, con percorsi separati per il
disagio e per l'eccellenza.
La vostra proposta è miope, è un boomerang per il futuro del paese. Noi
abbiamo un'altra idea della società, dei diritti delle persone, della
democrazia: pensiamo che l'istruzione non sia un bene a disposizione solo
di che se lo può permettere. Pensiamo che sia necessario aumentare le
risorse e la qualità del sistema pubblico perché la promozione sociale
dei cittadini è l'obiettivo prioritario della Repubblica. È scritto in
Costituzione, questa Costituzione che in questa legge vale solo come
inciso.
Pensiamo che le spese per l'istruzione siano investimenti, non costi,
persino in momenti di difficoltà economica, e non ci convincono i vostri
ragionamenti, le vostre spiegazioni tecniche, che abbiamo sentito anche
oggi. Per la vostra cosiddetta riforma non c'è uno stanziamento preciso,
né volontà di investire.
Noi pensiamo che sia il possesso di conoscenze sia la capacità di saper
accedere ad altre conoscenze siano oggi una forma di ricchezza e per
questa ragione il sistema di istruzione deve garantire uguali possibilità
per tutti, pena il rischio di nuovi e più drammatici processi di
esclusione tra coloro che sanno e coloro che non sanno.
Se la formazione non diventa leva per ridurre le diseguaglianze, finisce
col diventare il terreno di nuove e più profonde forme di esclusione
sociale.
Pensiamo sia una grande risorsa per l'economia e la democrazia, donne o
uomini, persone, non capitale umano, che sappiano attraversare nuovamente
e continuamente percorsi dell'apprendimento perché ne hanno i requisiti
di accesso, che sappiano vivere da cittadini e lavoratori consapevoli
perché hanno consolidato gli strumenti per capire, interpretare,
scegliere e progettare.
Pensiamo che non vi sia modernità, che non vi sia possibilità di
crescita per il paese, se si rinuncia, come voi fate, a costruire un luogo
plurale e pubblico di educazione delle nuove generazioni, se c'è meno
cultura per tutti, se si dismette l'idea che l'istruzione rappresenti,
oggi più che mai, una leva potente per lo sviluppo dell'economia, c'è
una risorsa preziosa ed insostituibile per la democrazia.
È questo il senso di un'opposizione seria, rigorosa, serrata, ma al tempo
stesso serena, perché sappiamo di interpretare le ragioni dei diritti e
della democrazia che porteremo avanti in quest'aula e nel paese.
Tutta
l'attività parlamentare
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