Il comico

Gruppo Biblico di Evangelizzazione




Il Comico

1.1 Definizione di comico

1.2 Origine e sviluppo

1.3 Tre punti di vista sul comico
    1.3.1 Henri Bergson
    1.3.2  Pirandello e l'Umorismo
    1.3.3. Michail Bachtin

1.4 Riso e sorriso

1.5 Motto, comico e umorismo

1.6 Il comico letterario

1.7 Il comico nel fanciullo



1.1 Definizione di comico
 
Che cos'è il comico? Perché ridiamo? Queste e altre simili domande hanno suscitato la curiosità di tanti filosofi come Platone e Aristotele, Spinoza, Hobbes, Descartes, Vico, Voltaire, Kant, Schopenhauer, Bergson, Croce; retori quali Cicerone e Quintiliano, poeti come Pirandello e Baudelaire e persino il padre della psicoanalisi Freud. "Quella del comico è una tematica complessa, a capirlo si è risolto il problema dell'uomo sulla terra". Così Umberto Eco nella prefazione al libro di Giorgio Celli, La scienza del comico, stabilisce i termini di tale assai discussa categoria .
Vorremmo iniziare questo capitolo sul comico da qualche definizione, prima di tutto da quella di comico, poi di ironia, satira e umorismo, utilizzando il vocabolario di italiano Dir. Alla voce comico, si legge: "Che è proprio della commedia. Genere comico contrapposto al tragico, nell'antica classificazione dei generi letterari. Che ha comicità, che suscita il riso: cogliere il lato comico di una situazione". Alla voce comicità, invece, troviamo: "comico quotidiano" . Alla voce umorismo: "modo di osservare il mondo e di rappresentarlo con racconti, battute, osservazioni, opere d'arte che ne mettano in risalto gli aspetti incongruenti, paradossali, comici, assurdi, ridicoli".

L'ironia, invece, è "una particolare forma di finzione che consiste nell'esprimere a parole il contrario di ciò che si vuol significare, in modo tuttavia da lasciare intendere (soprattutto con l'intonazione della voce) il vero pensiero. Frequente nel parlare comune, per deridere o rimproverare o constatare un evento deplorevole. L'ironia può essere bonaria, sottile, arguta, fine oppure pungente, beffarda, pesante addirittura feroce. Oppure l'ironia viene definita come svalutazione eccessiva, reale o simulata di se stessi, del proprio pensiero oppure come umorismo sarcastico e beffardo".

L'umorismo viene definito da Paolo Santarcangeli "come una forma del sentimento comico derivato non dall'istinto, ma dall'intelligenza, raffinato dalla cultura tant'è che Plutarco lo definiva "uno scherzare seriamente"; il comico include in sé anche l'umorismo perché contiene in sé il ridicolo che esiste già di per sé ancora non rivelato nelle cose, nelle situazioni e negli sviluppi di esse. 

L'umorismo consiste, invece, nell'insieme delle attività esercitate al fine di cercare, rivelare, illustrare una situazione comica" . Alla voce satira: "composizione latina in origine scenica, mista di canti, musica, danza, più tardi esclusivamente poetica, volta a porre in evidenza, a fustigare ridendo, aspetti grotteschi di un'epoca o di un costume o di persone. In quanto tale, la satira non è mai volta a una pura descrizione poetica, impegnata a correggere i costumi, con un linguaggio comico e moralistico a un tempo, ora blando e discorsivo, ora salace e schernevole. Come genere letterario la satira risale alla letteratura latina, così come il nome latino satira var. di satura, femminile sostantivo dell'aggettivo satur, saturo con allusione al carattere misto, composito proprio  delle più antiche forme satiriche (lanx satura, il piatto pieno di cose varie). Per estensione qualsiasi scritto o discorso o spettacolo di intonazione comica e critica insieme" .

Soffermandoci sulle definizioni che alcuni filosofi hanno dato di comico, abbiamo appurato che c'è quasi sempre  il collegamento del comico con il riso. Per esempio Vladimir Jakovlevic Propp sottolinea proprio questo quando parla del comico nel suo libro Comicità e riso: letteratura e vita quotidiana, cioè il fatto che la comicità e il riso non sono "qualcosa di astratto". "L'uomo ride. E' impossibile studiare il problema della comicità, prescindendo dalla psicologia del riso e dalla percezione del comico" . Allora Propp affronta la questione ponendo il problema dei diversi tipi di riso. Si chiede se certe forme di comicità siano collegate con certi aspetti di riso. Poi enumera questi aspetti riprendendoli da un teorico e storico della commedia cinematografica R. Jurenev, che scrive così: "Il riso può essere gioioso e triste, buono e indignato, intelligente e sciocco, superbo e cordiale, condiscendente e insinuante, sprezzante e sgomento, offensivo e incoraggiante, sfacciato e timido, amichevole e ostile, ironico e sincero, sarcastico e ingenuo, tenero e rozzo, significativo e gratuito, trionfante e giustificatorio, spudorato e imbarazzato. E' ancora possibile allungare l'elenco: allegro, malinconico, nervoso, isterico, beffardo, fisiologico, animalesco. Forse anche un riso tetro! . Fra tutti i tipi di riso elencati da Jurenev, non compare quello che, secondo Propp, è più legato alla comicità, cioè il riso che deride. Di che cosa gli uomini ridono? Secondo Propp, ridicoli possono essere l'aspetto dell'uomo, il suo viso, la sua figura, i suoi movimenti, comici possono essere i ragionamenti in cui egli si dimostra poco perspicace; un campo particolare di derisione è costituito dal carattere dell'uomo, dall'ambito della sua vita morale, delle sue aspirazioni, dei suoi desideri. "In breve possono nella vita diventare oggetto di riso la vita fisica, intellettuale e morale dell'uomo" . Propp sottolinea ancora che "ogni popolo ha il suo senso del comico e dell'umorismo" .

Anche Emanuele Banfi, nel suo libro Sei lezioni sul linguaggio comico , ci dà una definizione di comico simile a quella di Propp, nel senso che anche egli vede il comico come una categoria mobile, che varia da paese a paese, da una cultura all'altra. Egli contrappone il comico al tragico; "il tragico è il regno della fissità, esprime valori generali indipendenti dalle circostanze storiche che lo hanno motivato, potenzialmente scissi dai riferimenti socio-culturali in cui esso si è determinato, il comico è, invece, una categoria contingente: ciò che provoca il riso dipende sempre da forze pragmatiche e culturali, che regolano in un particolare hic et nunc, l'atto di comunicazione. Legato alle regole socio- culturali proprie della comunità che lo esprime, il comico è connesso con la lingua in cui esso si realizza; vive entro precisi confini spazio-temporali. Ciò spiega il fatto che il comico è un prodotto difficile da esportare, ciò che fa ridere a Londra e ad Atene non ha necessariamente lo stesso esito a Parigi o a Milano" .

Molti hanno cercato di spiegare quale sia l'energia del comico: quel quid inestinguibile che fa parte degli elementi inseriti nel codice genetico dell'umanità. "Se è difficile cogliere il quid del comico, relativamente più facile è analizzarne la testualità, le strategie linguistiche: la testualità del comico si basa sulla novità, sull'elemento di sorpresa, su ciò che annulla un'attesa che rompe schemi comportamentali e modelli prevedibili " .

Alfredo Civita distingue tre vertici del discorso sul comico: "il primo assume il comico come fatto sociale, il secondo come fatto psicologico soggettivo, il terzo come fatto che ha a che vedere con il linguaggio" . E, come vedremo, è proprio la teoria di Bergson che inaugura una considerazione sociale del problema del comico; "per Bergson, infatti, il riso è un fenomeno sociale non in quanto presuppone o si fonda su un nesso intersoggettivo, ma perché assolve a una funzione sociale. Chi ride, per il fatto stesso di ridere, si fa portatore di un'esigenza della comunità. Dietro al riso del singolo si nasconde un'intenzionalità collettiva e le istituzioni, attraverso le quali la società produce artificialmente il comico danno la misura della rilevanza che la coscienza sociale attribuisce a questa funzione" . Altri filosofi tendono a sottolineare il significato liberatorio, trasgressivo del comico come Giorgio Celli che afferma: "Nel comico esiste sempre, come meccanismo fondamentale l'infrazione di una norma, la trasgressione di una convenzione" . Anche Umberto Eco afferma che "il comico pare popolare, liberatorio, eversivo; perché dà licenza di violare la regola. Ma la dà proprio a chi questa regola ha talmente introiettato da presumerla come inviolabile. La regola violata dal comico è talmente riconosciuta che non c'è bisogno di ribadirla. Per questo il carnevale può avvenire solo una volta l'anno. Occorre un anno di osservanza rituale perché la violazione dei precetti rituali sia goduta" . Gian Pietro Calasso ci dà ancora un'altra definizione di comico: "C'è il buffo, il ridicolo, il brillante, l'ironia, il sarcasmo, l'umorismo, la barzelletta, la vignetta, denominatore comune è il riso unico e onnipresente comune denominatore di tutte le manifestazioni della comicità" .

Ma egli sottolinea anche il fatto che se tutte le manifestazioni di comicità suscitano ilarità, tuttavia al contrario, il riso è reazione prevalentemente, ma non esclusivamente scatenata dalla comicità stessa. Essenziale appare quindi l'integrazione della suddetta definizione con il confronto fra il riso comico e di altra natura, per esempio il riso di disprezzo, di furore, di approvazione, di superiorità, di imbarazzo, vittorioso, erotico. "Comico è ogni fenomeno capace di suscitare un riso comico" . Quasi tutti i filosofi distinguono un comico adulto da un comico infantile.  Il neonato, infatti, non ha il senso del comico che si presenta nello stadio successivo, egli , infatti, ride e piange; il senso del comico si sviluppa parallelamente allo sviluppo del pensiero razionale. L'infanzia si rivela più sensibile dell'età adulta al comico derivante dalle sproporzioni dei gesti, dalle parole, dalle imitazioni. R. Laporta dà esempi relativi a Pinocchio: il bambino ride della lunghezza del naso di Pinocchio (sproporzione), della mazzata in testa inflitta a Geppetto (gesto), del soprannome di Polendina affibbiato a quest'ultimo (parole); da altri esempi risulta come egli si diverta a vedere ridicolizzato l'adulto ed in genere a vedere spodestata dal suo piedistallo l'autorità. Per quanto riguarda i fattori condizionanti il gusto del comico risulta a Laporta che "le femmine incontrano maggiore difficoltà al distacco emotivo, che l'intelligenza costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente, che l'ambiente socialmente più elevato influisce non tanto sulla quantità delle relazioni comiche, quanto sulla loro qualità" . Molti insegnanti riconoscono che il comico favorisce l'equilibrio emotivo, rende gli scolari più socievoli, aperti e tolleranti, combatte la retorica. Convinto di questa funzione pedagogica del comico è Gian Maria Bertin, quando afferma che il comico può sicuramente avere una valenza positiva, soprattutto, nella nostra società, sconvolta dall'estendersi di motivi di conflittualità (intrapersonale, interpersonale, collettiva). E' appunto compito dell'educatore contribuire a ridurre nella vita della comunità in cui è presente (famiglia, scuola, centri di attività giovanile) le tensioni, gli scompensi dell'età infantile e adolescente turbata da stress di ogni genere, ai fini di una maturazione personale che sappia affrontare con lucidità i problemi del presente, qualunque grado di complessità essi abbiano. Perché la comicità possa esercitare una funzione positiva, occorrono, però condizioni psicologiche idonee: la serenità dell'animo, l'accantonamento dei codici etici e logici dominanti, la coscienza comune.

Però nessuna di tali condizioni si sottrae ad obiezioni circa la sua presunta necessità, infatti, il comico si manifesta come un fenomeno ambiguo. Per molti studiosi è condizione strutturale, per la nascita del comico, la percezione di un'incongruenza (in un modo di essere, un comportamento) che può manifestarsi nella vita reale secondo forme svariate: la sproporzione, la deformazione, l'ingenuità, il contrasto tra ciò che si attende e ciò che avviene realmente. La prima, la sproporzione tra l'aspetto consueto e quello oggetto di osservazione fa apparire deformato (grottesco se la sproporzione è massima) il secondo rispetto al primo. Essa ha la sua tecnica preferita nell'esagerazione del tratto (in eccesso o in difetto) che costituisce la regola della caricatura. La deformazione non sempre suscita il riso, l'ingenuità espressa nella domanda del bambino, del sempliciotto può far ridere. Altre forme di incongruenze generatrici di comicità, nascono dal contrasto tra ciò che si dovrebbe fare e ciò che si fa, tra ciò che si vorrebbe avvenisse e ciò che per malasorte o per altra ragione succede effettivamente, ancora incongruenze, causate da malintesi e da equivoci e favorite dal travestimento e dalla maschera e quelle provocate dal sopravvenire improvviso del casuale, dell'imprevisto danno luogo a situazioni irreali in cui  tutto appare traballante, oscillante e sconvolto rispetto alle attese e alle consuetudini e come tale può essere fonte di irresistibile comicità.

Le forme del comico possono distinguersi in tre gruppi a secondo che a) siano assenti l'una e l'altra intenzione di offendere l'altro; b) sia presente l'intenzione di offendere l'altro; c) prevalga l'intenzione di sollecitare situazioni di cordialità interpersonale. La barzelletta è caratteristica del primo atteggiamento, lo scherno del secondo, l'umorismo del terzo. In tutte le definizioni di comico gli autori citano sempre le componenti fondamentali del comico che sono: il contrasto, la deformazione, la sorpresa, il distacco. E' necessario che ci sia il contrasto tra due o più elementi della realtà, che questo contrasto sia improvviso e poi è fondamentale il distacco, occorre cioè che lo spettatore non si immedesimi nell'umanità della situazione, in modo da sentirla come propria, ma mantenga un atteggiamento di distacco contemplativo. E' opinione condivisa che il comico è una caratteristica propria dell'uomo che non può essere vista altro che come manifestazione dell'intelligenza e della creatività. Il comico è una forza regolatrice della vita psichica, in quanto è capace di facilitare l'atteggiamento dell'individuo singolo e della collettività, di fronte a situazioni difficili, conserva e facilita i rapporti sociali messi in pericolo da fattori esterni, aiuta l'individuo a conservare la propria tranquillità psichica. Il comico è uno degli strumenti che l'uomo ha per trasformare la realtà e per metterne in risalto anche gli aspetti più insoliti e assurdi. Il comico, come è già stato sottolineato, è più legato alle particolarità del costume e più ancora della lingua ed è suscettibile di perdere la sua efficacia nel tempo e nello spazio: è inesportabile, come dice Umberto Eco .

 "Il comico, come afferma Nino Borsellino, non raccoglie una memoria collettiva, né fa riferimento a un astro maggiore su cui misurare le proprie distanze. Il suo nucleo originario è un buco nero, un vortice, in cui precipita la sua prima essenza: il riso. Essa consiste in una sorpresa o nell'annullamento di un'attesa: per chi ride la sorpresa è uno shock inoffensivo ovvero compensativo di una minaccia latente, che può prodursi perciò solo in un sistema di relazioni, entro un ambito sociale e produttivo" .
 


1.2 Origine e sviluppo
 

Etimologicamente la parola comico deriva dal greco xomixòs da xomos che significa festa, convito e nella accezione più stretta "festa in onore di Dioniso". Il "comico" indicava gli accessori della rappresentazione scenica e del poeta comico: la maschera, gli strumenti musicali, da cui i latini derivarono comicus e comicum, mentre comoedia passò ad indicare una rappresentazione teatrale, generalmente lieta. Il comico è quella forza, quell'impulso che sorge nell'uomo che gli fa cogliere negli eventi della vita il ridicolo: esso nasce tra il popolo nella vita di tutti i giorni, ma giunge attraverso le scene, le arti figurative, l'oratoria alle più raffinate forme dell'arte.

Il primo popolo di cui abbiamo sufficienti documenti in proposito è quello greco, perciò, approfondire la concezione del comico in Grecia è significativo per risalire alle sorgenti della comicità di tutto l'Occidente. All'inizio i Greci collegavano il fenomeno del riso a quello della gioia, della serenità, infatti la radice di riso viene dal greco gal, gel da cui deriva la parola greca per il riso gèlos che può essere messa in relazione con la bonaccia del mare, con lo splendore e il luccichio, solo più tardi, in epoca classica, il Greco imparerà a ridere del comico, dell'arguzia, dell'ironia e soprattutto riderà quando un uomo forte viene sconfitto. All'inizio in Grecia il riso è associato al vino, al banchetto, alla festa. Una delle tecniche comiche più utilizzate dai Greci è la caricatura, la quale non è altro che l'esagerazione dei difetti fisici di un uomo effigiata attraverso una pittura deformata o il raffronto con creature assai inferiori (bestie, creature deformi). Perciò la caricatura richiede due doti particolari: la tendenza al raffronto e quella all'esagerazione che sono entrambe due doti tipiche dei Greci ed è naturale che la caricatura sia stata una delle fonti fondamentali del loro comico. Il comico, quindi, è presente prima di tutto nella vita individuale e sociale dei Greci dalla licenza dei banchetti sino alla imponenza delle orazioni nei tribunali.

Ma è nella commedia greca che possiamo individuare i tratti più salienti della comicità greca; due furono le tecniche fondamentali usate dalla commedia greca nella costruzione delle azioni comiche, delle trame delle singole commedie: una tipica della commedia antica, la quale ottenne davvero effetti di grande comicità, la tecnica del contrasto; l'altra tipica della commedia nuova, la tecnica dell'inaspettato. Si può dire che ogni commedia di Aristofane tragga la sua trama da un litigio e da un contrasto che s'immaginano svolgersi comicamente o tra singole persone o tra un individuo e un dato gruppo sociale .

La commedia nuova, il cui maggior rappresentante è Menandro, usa la tecnica dell'inaspettato la quale tuttavia non riuscì ad ottenere effetti di vera comicità.

I filosofi greci si misero a studiare il motivo per cui la gente rideva così tanto quando partecipava alle commedie di Aristofane. La prima reazione del filosofo di fronte al fenomeno del comico è nettamente sfavorevole: egli vede in esso soltanto una forza turbatrice dell'ordine costituito, che pone l'uomo in preda a sensazioni strane e incontrollate. La cosa è più che comprensibile: il primo incontro tra la mentalità filosofica, seria, abituata al pensiero rigoroso e la spregiudicatezza d'impulsi e di forme del comico non può che essere uno scontro. E nel mondo greco questo scontro è rappresentato dalla figura di Platone. Quest'incomprensione non può durare a lungo, anche perché l'indagine filosofica e l'analisi spietata dell'autore comico non sono due forze opposte, ma anzi concomitanti. Sia la filosofia che il comico cercano di andare oltre i pregiudizi e le tradizioni e cogliere il mondo nella sua nuda realtà; entrambi vogliono cogliere da ogni situazione umana non solo l'armonia, ma anche le contraddizioni e le assurdità. Platone si è occupato di questo argomento in alcune sue opere importanti: nella Repubblica, nelle Leggi e nel Filebo. Tra i precetti che Platone raccomanda caldamente, nella Repubblica: "Non bisogna essere amanti del riso. Infatti, quando qualcuno si lasci andare ad una forte risata, ciò provoca anche un forte sconvolgimento del suo animo" .

Platone accusa la poesia comica di produrre uno sconvolgimento nell'animo dell'uomo. Qui è importante tener presente che anche riguardo alla poesia tragica Platone si era espresso con un'accusa analoga: egli aveva condannato la commozione dolorosa della poesia perché essa "toglie ritegno al piangere e all'addolorarsi" . "Queste due condanne sono da mettere in correlazione tra loro: come cioè la poesia tragica porta ad un turbamento dell'animo, giacchè toglie ritegno al dolore e alla passione, non diversamente anche la poesia comica turba l'anima, togliendo il ritegno allo stimolo del riso, rendendoci cioè amanti del riso. Entrambe queste condanne hanno origine dall'ideale di equilibrio e di moderazione, che per Platone era fondamentale per la pace dell'anima".

Platone pensava che chi si divertisse a procurare il riso sarebbe caduto nella vergogna e nella volgarità e questa vergogna avrebbe colpito non solo la singola persona che ride, ma tutta quanta la società, giacchè la commedia suol beffeggiare anche gli uomini illustri e addirittura gli dei, cosa per Platone inammissibile. Ma lo stesso Platone, col maturare del suo pensiero, finì per accorgersi dell'esagerata intransigenza della sua condanna e, nelle sue ultime opere, finì per giustificare anche l'esistenza della poesia comica. Così nel Filebo egli ammette che il "comico non sia un vero atteggiamento aggressivo, ma che il ridicolo sorga soltanto a condizione che l'atteggiamento di chi beffeggia sia innocuo" . E questa è un'idea destinata ad avere un importante sviluppo nel pensiero di Aristotele. Ma, soprattutto nelle Leggi, Platone finì per fornire del comico una considerazione assai più comprensiva e in sostanza più intelligente. Egli giunge a dire che: "Senza le cose comiche non si possono neppure apprendere le cose serie, come una cosa non si può apprendere senza il suo contrario" . Proprio da queste dottrine delle ultime opere di Platone deriva il primo spunto dell'estetica del comico di Aristotele. Egli eredita da Platone la divisione di tutta quanta la poesia in seria e faceta e quindi il problema della natura del comico; quindi l'importante concetto della necessaria innocuità del ridicolo che, appena accennato da Platone nel Filebo, diventa uno dei capisaldi della dottrina aristotelica. Ma lo stimolo più forte fornito da Platone alla teoria aristotelica del comico fu quello negativo: Platone cioè aveva denigrato e condannato la poesia comica, Aristotele volle difenderla: e proprio di qui muove la sua teoria. Platone aveva lanciato tre accuse contro la poesia comica: quella di porre in ridicolo uomini illustri e dei, quella di condurre l'animo alla volgarità e quella più grave di tutte, di sconvolgere l'equilibrio della nostra psiche.

Contro ciascuna di queste accuse Aristotele volle rispondere e proprio da queste risposte ebbero origine le sue dottrine estetiche, le quali costituiscono il secondo libro della sua celebre Poetica. Purtroppo questo libro è andato perduto e si è giunti a dubitare della sua esistenza; tuttavia è possibile ricostruirne le linee generali attraverso citazioni e testimonianze di grammatici e filosofi, la maggior parte di epoca tarda, ma di provata attendibilità. Aristotele sosteneva "l'innocuità del ridicolo" . Mentre Platone afferma che il riso è uno sconvolgimento dell'animo, Aristotele sostiene, invece, che il riso non è sconvolgimento, bensì "una sollecitazione utile e piacevole dell'animo, il quale lungi dal ritrarne danno, esce da essa migliorato e sollevato. Giacchè chi si compiace di un riso faceto acquista da esso uno stato d'animo sereno e disposto al bene" . Mentre così, da un lato, il riso produce una felice disposizione interiore dell'animo, questa stessa disposizione produce un effetto strano, la benevolenza verso chi ci circonda, per cui chi ride desidera subito comunicare il riso ai propri simili e il riso diviene una forza intimamente sociale.

Dopo Aristotele si fa viva quindi una concezione del comico assai meno negativa: Aristotele addirittura vedeva nel riso una forza di coesione e di equilibrio tra gli uomini. Egli sottolinea il fatto che il riso è fenomeno esclusivamente umano e questa affermazione la ritroveremo anche in altre teorie contemporanee.

Passiamo ora ad esaminare il contributo che gli autori latini hanno dato allo sviluppo del comico, partendo proprio da uno dei più grandi retori del mondo romano, Marco Tullio Cicerone. In Cicerone il comico ha un valore positivo. Infatti "risibili sono soltanto o massimamente i dati che rivelano qualcosa di sconveniente in modo non sconveniente".

Cicerone sottolinea il valore conciliatore del riso, la sua tendenza di portare alla benevolenza, rileva, inoltre, la divisione in comico di carattere e comico di situazione, né gli sfuggono elementi ancora più importanti: il requisito della partecipazione sociale, la presenza di un contrasto tra due termini, l'importanza dell'inaspettato e dell'assurdo.
L'ultima sintesi del pensiero antico sul comico va cercata in Plutarco, piuttosto che in Quintiliano, anche perché in sostanza egli non dice nulla di sostanzialmente nuovo rispetto a Cicerone di cui segue le orme. Per Plutarco il comico è, per sua natura, una forza critica, disgregatrice, sovvertitrice delle tradizioni, mostrandone il lato ridicolo.

Se dall'antichità ci spostiamo al Seicento, non vi è dubbio che con Hobbes qualcosa cambia riguardo alla concezione del comico. Egli è il primo a formulare con chiarezza la tesi del comico nascente dalla nostra superiorità su altri; sostiene: "La passione del riso non è nient'altro che un improvviso inorgoglirsi che nasce dalla percezione improvvisa di qualche superiorità in noi, a paragone con la debolezza altrui, o con la nostra precedente".

Nel De homine il pensiero di Hobbes è ulteriormente precisato: "Gli spiriti animali sono trasportati ad una gioia improvvisa da qualcosa di conveniente detto o fatto o pensato da altri; e questa è la passione di chi ride. Infatti, se uno ha detto o fatto qualcosa di rimarchevole, a suo giudizio è inclinato al riso. Parimenti se un altro ha detto o fatto qualcosa di sconveniente per cui confrontandoci con lui ci sentiamo più bravi di prima, a stento potremo trattenerci dal ridere. E, in senso universale, la passione di chi ride consiste nell'improvviso riconoscimento della propria bravura, a causa di una sconvenienza altrui. Infatti non si ride in genere che per qualcosa di improvviso; e le medesime persone non ridono più volte della medesima cosa e dei medesimi scherzi. Inoltre, non si ride delle sconvenienze degli amici o dei consanguinei, perché non ci sono estranee. Gli elementi che muovono al riso sono tre congiunti insieme: sconvenienza, estraneità e subitaneità".

L'ipotesi kantiana sul comico è collocata tra le teorie intellettualistiche del comico, che cioè individuano il meccanismo del riso in un atteggiamento puramente intellettuale, in una modificazione della nostra attività di pensiero. La sua famosa spiegazione del riso è questa: "Il riso è una affezione, che deriva da una aspettazione tesa, la quale d'un tratto si risolve in nulla" . Affezione significa moto corporeo; egli, infatti prosegue: "Proprio questa risoluzione, che certo non ha  niente di rallegrante per l'intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità. La causa deve dunque consistere nell'influsso della rappresentazione sul corpo e nella reazione del corpo sull'animo; e non certo in quanto la rappresentazione è oggettivamente oggetto di diletto, ma unicamente perché essa, in quanto semplice gioco delle rappresentazioni, produce nel corpo un equilibrio delle forze vitali" . Kant è convinto che in tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, deve esserci qualcosa di assurdo. Infatti noi ridiamo "non perché ci sentiamo più intelligenti… o per qualcosa di piacevole che l'intelletto ci faccia scorgere nel fatto stesso; ma soltanto perché la nostra aspettazione era tesa, e d'un tratto si è ridotta a niente" . Kant ci fornisce una teoria complessa e articolata su tre livelli: a) quello dello stimolo r, il comico in senso stretto che deve presentarsi con una configurazione che deve contenere qualcosa di assurdo, "qualcosa che per un istante possa produrre illusione"; b) questo qualcosa in un primo momento è capace di produrre una aspettazione tesa e subito dopo, d'improvviso la riduce a nulla; c) questo processo percettivo, questa "rappresentazione influisce sul corpo ed è la reazione somatica a produrre il noto piacere del riso" . In altre parole, per Kant, il riso è il risultato di una subitanea distensione che segua ad una tensione; esso traduce in una manifestazione il sollievo che segue ad un timore; cioè il sollievo di una sicurezza ritrovata. Nel riso l'anima diventa medico del corpo.

Nell'Ottocento un filosofo inglese Herbert Spencer sviluppa una tesi molto vicina a Kant, secondo cui il senso del comico nasce da una "discordanza discendente". Per spiegarne il piacere ed il riso con cui esso si manifesta, egli ricorre, sia pure in chiave eccessivamente fisiologica, alla ipotesi di una forza nervosa accumulata, la quale, non trovando un'altra via per scaricarsi, prende la strada più facile del riso. Con questo egli anticipa in un certo senso l'ipotesi del risparmio di energia di Freud. Secondo Spencer quando, invece di una cosa aspettata ne sopravviene un'altra, inattesa, restiamo attoniti, se la seconda cosa supera la prima; mentre quando ci troviamo improvvisamente di fronte ad una cosa inferiore (degradata), si libera una certa quantità di energia, che può scaricarsi nel riso.

Schopenhauer dà inizio ad un altro filone dell'indagine sul riso, quello del contrasto o incongruità. Per Schopenhauer "il riso sorge dalla percezione di una incongruenza fra un concetto e gli oggetti reali che erano pensati mediante quel concetto, in una relazione qualsiasi: ed esso medesimo è proprio l'espressione di tale incongruenza. Ogni riso è provocato da una sussunzione paradossale e quindi inattesa, si esprima questa in parole o in atti. Tale è in breve l'esatta spiegazione del ridicolo" . Quindi per Schopenhauer, il riso deriverebbe dal conflitto fra ragione e intuizione, dal fatto che il conoscere astratto non riesce completamente a far presa sulla realtà; esso rappresenterebbe l'espressione dell'improvviso manifestarsi di tale incapacità. Schopenhauer mette in risalto il fatto che l'uomo sa ridere di cuore, nella stessa misura in cui sa essere serio. Gli uomini che non ridono mai  hanno scarsa capacità intellettuale e precari valori. Il modo come e perché una persona ride, ne qualifica molto la personalità, il riso è la riprova di una grave scissione tra i nostri concetti e la realtà obiettiva.

Si potrebbero citare ancora tantissimi filosofi, poeti, scrittori che hanno parlato del comico, si è però fatto riferimento, in particolare, agli esponenti rappresentativi dei due filoni di indagine sul comico, appunto quello della incongruità e della superiorità-degradazione.
 


1.3 Tre punti di vista sul comico

1.3.1  Henri Bergson

E' importante citare Henri Bergson, in questo lavoro sul comico, perché è stato uno dei primi a pensare alla dimensione sociale del riso e poi perché quasi tutti i filosofi contemporanei, quando iniziano a trattare della tematica del comico, lo citano sempre o per convalidare le sue idee o più spesso per criticarle. Egli  pubblicò sulla rivista "Revue de Paris", nei numeri del 1 e 15 febbraio e 1 marzo 1899, i tre articoli che successivamente raccolti insieme con poche correzioni formali, costituiscono l'opera chiamata Le Rire. Certamente la sua teoria del comico non si può considerare esaustiva, nel senso che egli abbia toccato tutti i molteplici aspetti del fenomeno, però ha affrontato quelli che possono essere definiti i più importanti. Bergson sottolinea con decisione, nella Prefazione all'opera, che il suo approccio al problema non è di tipo semplicemente "definitorio", ma che egli si propone di ricercare e individuare "i procedimenti di fabbricazione del comico".

Come abbiamo  già detto Bergson sottolinea l'aspetto sociale del riso. A suo parere la società stigmatizza ogni distrazione, ogni rigidità e interviene con un castigo che naturalmente non ha la durezza della sanzione penale, poiché non c'è vera violazione delle norme sociali, ma semplice inadeguatezza. Questo castigo lieve è il riso, che viene quindi percepito da coloro che ne sono oggetto quale umiliazione penosa, che essi cercano ad ogni costo di evitare.
Il riso è anche un messaggio sociale con un significato ben preciso. Questo è uno degli aspetti più interessanti della teoria di Bergson che per certo, al momento della sua enunciazione, rappresentava una via, se non del tutto nuova, almeno certamente poco esplorata. Bergson, all'inizio del suo saggio, afferma che" il comico non esiste al di fuori di ciò che è propriamente umano" . Questa affermazione l'abbiamo già trovata in Aristotele, però egli la rinforza ancora di più, sottolineando anche il fatto che l'uomo non solo sa ridere, ma fa anche ridere. Una caratteristica importante del riso, che è stata evidenziata da Bergson e successivamente ripresa da altri filosofi contemporanei, è l'insensibilità ossia quella certa indifferenza che accompagna il riso quando per esempio ci capita di ridere di uno che scivola.

Il comico esige, dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come "un'anestesia momentanea del cuore: si dirige alla pura intelligenza" . Bergson ha individuato in quelli che "ridono insieme" una specie di solidarietà, o meglio di complicità, che li rende, sia pure in modo momentaneo, riuniti in un gruppo coeso. Il riso crea dal nulla un legame sociale e ha il magico potere di trasformare un gruppo slegato di persone, estranee e indifferenti e spesso quasi ostili, in una struttura compatta e altamente gratificatoria, a patto però che si rida di qualcuno o qualcosa di esterno al gruppo stesso. Il messaggio del riso ha un doppio significato: verso l'oggetto di riso è un rimprovero sociale altamente temuto ed efficace nel reprimere; verso i co-ridenti, una specie di profferta di amicizia, che unisce, sia pur in modo effimero, persone precedentemente anche estranee. Un esempio tipico di questa complicità che si può creare tra persone estranee è quello del treno: se una qualsiasi cosa fa ridere i viaggiatori, essi non si sentiranno più degli estranei e saranno disposti a conoscersi, se poi ad un certo punto sale una persona estranea si sentirà un po' a disagio perché non fa parte di quel gruppo e non avrà voglia di ridere. Bergson non tralascia di evidenziare che il riso susciti anche piacere, che esso possieda una densa realtà psicologica, del resto la facoltà che presiede alla coscienza del comico è l'immaginazione. E' l'immaginazione che scopre il comico, che lo vede.  A questo proposito Alfredo Civita, sottolinea il fatto che "per Bergson non ha alcun senso dire che certe cose del mondo sono comiche in se stesse. Le cose diventano comiche, si trasfigurano comicamente quando l'immaginazione se ne impossessa e le valorizza lungo certi tragitti sulla base della regola, della meccanizzazione della vita".

Bergson, come abbiamo visto, afferma che il comico è quell'aspetto della persona per il quale essa rassomiglia ad una cosa, cioè sottolinea il fatto che l'uomo si rende comico quando fa dei movimenti meccanici, automatici e non spontanei. Però, per Bergson, non basta che l'uomo compia dei movimenti meccanici per provocare ilarità, occorre anche che intervenga l'immaginazione, la fantasia che ci fa cogliere il comico in una situazione o in una persona, cioè ci fa soffermare su un aspetto di quella situazione o di quella persona, piuttosto che su un altro. Poi Bergson, prende in esame gradualmente le diverse forme di comico: prima il comico delle forme e dei gesti, dei movimenti poi quello di situazione , di parole e di carattere. Per quanto riguarda le forme" automatismo, rigidità, piega contratta, ecco i dati per cui una fisionomia ci fa ridere" . Per quanto regolare sia una fisionomia vi si scorgerà sempre il segno di una piega che cambia, l'abbozzo di una possibile smorfia; l'arte del caricaturista sta nel cogliere, questo movimento, talvolta impercettibile, e di renderlo visibile a tutti ingrandendolo. A proposito dei gesti e dei movimenti Bergson sostiene: "Le attitudini , i gesti e i movimenti del corpo umano sono risibili nelle stesse proporzioni in cui esso corpo ci fa pensare ad un semplice meccanismo" . Per il comico delle situazioni è comica ogni disposizione che ci dà, inserite l'una nell'altra, l'illusione della vita e la sensazione netta di una sistemazione meccanica".
L'autore riporta numerosi esempi  di comicità in situazione, tra cui, ad esempio: un giorno una persona incontra un amico che non vede da molto tempo e la situazione non ha nulla di comico; ma se lo stesso giorno questa persona incontra l'amico più di una volta, ecco che la situazione diventa comica. Per il comico di parole si utilizzano procedimenti come l'inversione, l'interferenza di due sistemi di idee nella stessa frase ( è il meccanismo che dà origine al calembour e al gioco di parole) e la ripetizione. Anche per il comico di carattere vale la stessa cosa: quello che lo caratterizza è la rigidità. Per esempio "la comicità di un personaggio non è data dalla sua scorrettezza morale, ma dalla insociabilità dei suoi difetti, che si esplica nell'automatismo e nella disattenzione" . La logica comica è una logica dell'assurdo, egli la associa a quella della follia e più precisamente a quella del sogno. E questa teoria sarà sviluppata, come vedremo meglio in seguito da Freud.

Una delle critiche più frequenti alla teoria di Bergson è quella di essersi occupato troppo degli aspetti sociali del riso e troppo poco di quelli individuali.
 

1.3.2 Pirandello e l'Umorismo

Il saggio di Luigi Pirandello su L'Umorismo (apparso in volume nel 1908 e poi ristampato in una edizione ampliata nel 1920 con integrazioni che non sono sostanziali ai fini della tesi di fondo già sostenuta, ma riguardano la polemica con Croce, che, su La "Critica", aveva recensito negativamente la prima edizione de L'umorismo), è stato da alcuni critici messo in correlazione con Le Rire di Bergson "per lo stesso concetto di "vita" che i due autori hanno come profondità, durata, coscienza e presenza a sé, autenticità, superamento di ogni schema meccanico" . Ma come fa notare Leone de Castris, "per Bergson esistere significa mutare, mutare consiste nel maturare e maturare consiste nel creare indefinitivamente se stessi. Per Pirandello esistere significa frantumarsi, perdere ogni possibilità di consistere e di essere, precisamente l'opposto della durata di Bergson" . Pirandello svolge il suo discorso in termini molto diversi da quelli di Bergson, infatti, egli analizzerà un aspetto autonomo e divergente del comico, cioè l'umorismo.

Infatti, al centro dell'attenzione di Pirandello c'è l'individuo nella sua complessità psicologica ed esistenziale.
Il suo mondo è quello dei piccoli borghesi, con la loro esistenza grigia e soffocata, con la loro sorda disperazione, in cui si avverte una cieca smania di vivere, di affermarsi, sempre frustata ed esasperata, pronta ad esplodere in gesti improvvisi. L'umorismo è l'arma di cui lo scrittore si serve per mettere allo scoperto le ipocrisie dei rapporti umani e la solitudine senza scopo dell'individuo.

Pirandello pone alla vita drammatici interrogativi e, dietro la realtà attuale alienata, scopre l'alienazione di sempre. Non indaga le cause sociali, morali, ideologiche di una forma storica di incomunicabilità e di alienazione, ma ne fa una tipica forma della condizione umana. Secondo Pirandello, invano, cerchiamo di sovrapporre al libero fluire della vita una forma, una personalità che servano a definirci, a possederci, questi fragili schemi vengono di continuo travolti. Ciascuno è uno e centomila, cioè in pratica nessuno. I temi che vengono dibattuti da Pirandello, soprattutto nelle opere teatrali, sono: il nostro rapporto con gli altri e prima con noi stessi, con la maschera che ciascuno di noi si impone, l'urto tra una verità che avvertiamo nascosta nel nostro essere e la finzione della vita associata. Il saggio di Luigi Pirandello sull'Umorismo, è diviso in due parti: nella prima si esamina l'evoluzione storica dell'umorismo, nella seconda l'autore abbozza una propria teoria personale. La prima parte del saggio è una lunga premessa alla seconda e risponde ai modelli accademici del tempo. Con procedimento, già collaudato da Croce, Pirandello affronta preliminarmente le interpretazioni dell'umorismo letterario, con l'intento di dimostrarne l'insufficienza e la parzialità.

Pirandello esordisce con una storia della parola "umore" ricordandone il nesso con gli umori o fluidi o liquori predominanti nel corpo umano, anticamente segno o cagione di varie disposizioni d'animo; col significato aggiunto di fantasia o capriccio, Pirandello sostiene che è innegabile che "ogni popolo ha un suo proprio umore, l'errore comincia quando quest'umore naturalmente mutabile nelle sue manifestazioni secondo i momenti e gli ambienti è considerato quale umorismo oppure quando per considerazioni esteriori e sommarie si afferma sostanzialmente diverso negli antichi e nei moderni" ; sono le questioni propedeutiche da risolvere in vista di una definizione di essenza, caratteri e materia dell'umorismo: se l'umorismo pertenga soltanto all'area della modernità; se sia geneticamente estraneo alla cultura italiana, se sia privilegio delle letterature nordiche. La risposta è, in tutte e tre i casi, negativa: l'umorismo è arte d'eccezione che si è manifestata presso gli antichi e i moderni, presso i popoli nordici e mediterranei, sia pure in pochissime espressioni eccezionali. Molto interessanti sono le pagine iniziali del capitolo quarto, dedicato a L'Umorismo e la retorica, dov'è formulata un'idea di letteratura come trasgressione, come specchio del disordine ( "l'umorismo scompone, disordina, discorda, quando comunemente l'arte in genere, com'era insegnata dalla scuola, dalla retorica, era soprattutto composizione esteriore, accordo logicamente ordinato)".

La seconda parte del saggio pirandelliano è dedicata all'Essenza, carattere e materia dell'umorismo. Questa seconda parte si distingue dalla prima anche sul piano della scrittura, "per una particolare adesione alla materia trattata; per un tono di esperienza diretta e di testimonianza che trasforma l'analisi di un problema critico in esposizione e difesa della propria poetica" . Punto di partenza è il comico; esso si basa sul contrasto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, cioè percepiamo in una persona o in una situazione una incongruenza, una stonatura, tra quello che pensiamo di vedere e ciò che vediamo realmente. Nell' "avvertimento del contrario", quindi, è l'origine del riso, della comicità immediata. La seconda fase è caratterizzata dal "sentimento del contrario". Il passaggio dal comico all'umorismo avviene con l'intervento della coscienza: dapprima confusa e poi sempre più lucida e consapevole di sé e, nel grado più alto, consapevole anche dei propri limiti.

Per chiarire meglio il concetto l'autore riporta questo esempio: "Vedo una vecchia signora coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca e tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere" . Oltre questo primo grado puramente comico, può intervenire la riflessione a svelarci la sofferenza e il dolore nascosti sotto quello squallido trucco: avremo allora un atteggiamento più profondo insieme di partecipazione e di distacco critico che è appunto quello dell'umorismo. Ma c'è un altro aspetto, un'altra implicazione del sentimento del contrario che occorre mettere in luce. E cioè: "questo sentimento del contrario non ha alcuna connotazione etica positiva, non è verità contrapposta all'errore e non è nemmeno come nella impostazione di Bergson, un gesto sociale che rende flessibile tutto ciò che può restare di rigidità meccanica alla superficie del corpo sociale. Il risultato che scaturisce dal sentimento del contrario, invece, lo stato d'animo che in noi si crea dinanzi a una rappresentazione umoristica è solo uno: la perplessità".

A questo proposito Pirandello afferma: "Io mi sento tenuto tra due: vorrei ridere, rido, ma il riso mi è turbato e ostacolato da qualcosa che spira dalla rappresentazione stessa" . Personaggio umoristico è Mattia Pascal che ha sposato Romilda ed è costretto a vivere in casa della suocera. Ormai rovinato economicamente, fa il bibliotecario nell'assai poco frequentata biblioteca del paese. Stanco di una vita grama, fugge di casa e giunge a Montecarlo, dove una forte vincita al gioco lo pone in condizione di vivere per il resto dei suoi giorni. Ma, mentre sta per ritornare a casa, legge su un giornale che, al suo paese Miragno, è stato ritrovato il cadavere di un suicida, riconosciuto, da sua moglie e da sua suocera, come il suo. Morto per lo Stato, Mattia assume un altro nome Adriano Meis, si dedica ai viaggi, fino a che, desiderando un momento di tranquillità si stabilisce a Roma presso una pensione privata. Ma qui il caso comincia a giocargli le sue beffe: il non aver più un'identità pubblica non gli consente di sposare Adriana, di cui si è innamorato, né di denunciare chi lo deruba, né di sostenere in duello il proprio amore: egli si rende conto di non esistere più socialmente. Simula pertanto un suicidio e scompare da Roma, per ritornare a Miragno alla vita di prima. Ma qui scopre che Romilda si è sposata e ha avuto una bambina: che il suo ritorno alla vita è divenuto per tutti un imprevisto insopportabile, perché minaccia di far crollare equilibri ricostruiti.

Decide, pertanto, di lasciare la moglie alla sua nuova famiglia, non fa valere il suo diritto di rientrare in società, ritorna nella biblioteca, va ogni giorno a portare dei fiori sulla propria tomba. Mattia Pascal fugge di fronte a una maschera che gli altri gli hanno dato, non accetta le convenzioni, intraprende il suo viaggio di redenzione, cercando altre individuazioni più vere, la libertà, l'amore autentico, la giustizia, l'onore e gode finalmente del suo senso di disponibilità illimitata, del suo ritorno ad una coscienza pura e senza condizioni. Ma tutto ciò dura poco, perché un più incolmabile caos inghiotte l'uomo nella sua evasione dal caos degli uomini. Evadere è impossibile, vivere è impossibile, se non nei rapporti falsi, nel relativo caos sociale, fuori dei centomila che ciascuno insegue negli altri, non c'è l'uno, il per sé, ma nessuno. Nuove forme ci attendono implacabili.

Pirandello ha ritenuto essenziale, nel processo della creazione artistica, nella concezione di ogni opera umoristica la riflessione "che non si nasconde, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice, lo analizza, spassionandosene; ne scompone l'immagine; da questa analisi, però, da questa scomposizione un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi e che io difatti chiamo: il sentimento del contrario" . A proposito dell'umorismo  Leone de Castris afferma che "esso è una speciale attività della fantasia, nutrita di riflessione che vede il mondo sdoppiato, che non può cogliere un aspetto del reale senza rivelarne il suo aspetto contrario" . Pirandello pensa, infatti, che nella vita quotidiana la maschera predomini  a tutti i livelli: ogni individuo riceve innumerevoli maschere, creandole molto spesso per propria iniziativa o lasciandosele imporre dagli altri, dai rapporti sociali, dalle formalità borghesi. Per Pirandello, come per Bergson, la maschera è il male, la soppressione della vita più autentica. Ma se, per Bergson, il meccanico è solo una dimensione irregolare che la società ha la possibilità di reprimere e di reinserire nei processi vitali proprio attraverso il riso, per Pirandello, esso, designato soprattutto col nome di forma, è il segno di riconoscimento di tutta la vita sociale, a cui l'unica alternativa possibile è in un al di là dalla società, in una improvvisa sospensione di ogni maschera, in un fulminante rapporto con la vita nuda.

Lo svelamento del contrario, è quindi, distruzione dell'unità e della fissità della maschera sociale, frantumazione dei suoi meccanismi, scoperta dell'ombra nascosta dietro di essa. E delle differenza di comico e umorismo, parla anche Giulio Ferroni sottolineando che "mentre nel comico il contrario è solo un primo e parziale scoprirsi della maschera, un iniziale svelarsi della finzione dei rapporti umani: esso ci fa passare davanti una galleria di marionette, avvertendoci della loro natura illusoria, ma senza dirci nulla su cosa c'è dietro di esse, l'umorismo, invece, porta il contrario alle sue ultime conseguenze, trafora le marionette e alla fine ci rimette in contatto con l'autenticità, con l'emergere istantaneo di una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo" .
 

1.3.3 Michail Bachtin

Michail Bachtin ha una diversa concezione del riso e del comico rispetto a Bergson e a Pirandello. Non si occupa del riso come fenomeno psicologico o biologico; non ricerca le condizioni che lo provocano né le finalità a cui è destinato; non lo collega a un istinto né a una funzione sociale specifica. Il riso non può essere compreso se non nel contesto storico in cui sorge. Quello che vale per il riso, vale in generale anche per il comico. Se il riso ha bisogno di un soggetto che ride, di un soggetto che è sempre componente di una comunità storica, alla stessa stregua la comicità non ha un'esistenza astratta e immateriale, ma vive attraverso le cose.

Alfredo Civita sottolinea che Bachtin, "in tutta la sua ricerca ha sempre di mira un archetipo, quello di una comunità originaria che egli individua nella fase agricola dello sviluppo dell'umanità ossia nelle primitive comunità rurali; qui l'individuo non è scisso dalla comunità, tutto è unito, anche la vita e la morte sono legate alla semina e al raccolto" . Con lo sviluppo dei rapporti di produzione, col sorgere delle distinzioni sociali, questo sistema si spezza. Mentre prima il rito era legato alla vita quotidiana, ora tra queste due sfere si costituiscono saldi confini, esiste il lavoro, esiste il quotidiano ed esiste il tempo del culto, della festa e del rito. Il riso rituale, che sorge in questo contesto, è un riso buffonesco, parodiante, osceno che smitizza, abbassa e che spiana tutto quello a cui si rivolge, colloca tutto sullo stesso piano, ma è un piano che ricostituisce quell'unità originaria in cui l'individuo si specchiava nel corpo sociale in cui produzione e culto facevano tutt'uno.

Per Bachtin il riso non si limita a ridicolizzare, alla realtà che nega, contrappone un mondo che è alla rovescia, ma che nel suo stare all'incontrario mostra una visione alternativa della realtà. Bachtin, con il suo libro l'Opera di Rabelais e la cultura popolare, vuol ridare al riso popolare la sua giusta importanza, infatti, secondo lui non è stata ancora messa in evidenza la profonda originalità della cultura comica popolare. Ma il significato e l'ampiezza di questa cultura, nel Medioevo e nel Rinascimento, erano enormi. In tutta la loro varietà, queste forme e fenomeni: divertimenti di tipo carnevalesco, riti e culti comici particolari, buffoni e stolti, giganti, nani, e mostri, una letteratura parodica sterminata e di ogni tipo. Le molteplici manifestazioni ed espressioni di tale cultura possono essere suddivise in tre grandi categorie:

1. "Forme di riti e di spettacoli (divertimenti di tipo carnevalesco, svariate azioni comiche sulla pubblica piazza).

2. Opere comiche verbali di diverso tipo: orali e scritte, in latino o in volgare.

3. Forme e generi differenti dal discorso familiare e di piazza (ingiurie, spergiuri, bestemmie)" .
 

I divertimenti di tipo carnevalesco e le azioni e i riti comici, ad essi collegati, avevano un ruolo enorme nella vita dell'uomo del Medioevo. Oltre al carnevale propriamente detto, con tutte le sue azioni e processioni complicate che occupavano per giorni interi le piazze e le strade, si celebrava la festa dei folli.

Il comico popolare è essenzialmente carnevalesco e festivo e si differenzia da quello del comico borghese che è pieno di risvolti tristi e melanconici e di dimensioni satiriche. "Il comico si configura come creatore di storia, come affermazione di una possibilità di vita collettiva, di una permanenza storica dell'uomo nella natura e sulla natura al di là della morte degli individui. Si traccia così un universo utopico di libertà, fraternità, uguaglianza che ha il potere di liberare da ogni angoscia" . Durante il carnevale è la vita stessa che recita, tutti vi partecipano, tutti sono attori e non semplici spettatori e ognuno rinasce a nuova vita, può finalmente assumere un ruolo diverso, non ci sono più privilegi, regole, tabù, sono aboliti tutti i rapporti gerarchici, i re vengono spodestati e i poveri prendono il loro posto. Il riso carnevalesco è un riso di festa, un riso corale a cui tutti partecipano. Il riso, poi, aveva un'altra funzione importante, era legato alla libertà.

L'uomo medioevale percepiva chiaramente nel riso la vittoria sulla paura. Infatti anche la morte, destituita di tutte le sue consuete valenze negative, viene vista come un processo normale della vita come la nascita, la sessualità, il bere e il mangiare. Rabelais è stato, nella letteratura mondiale, il grande portavoce, l'apice di questo riso popolare e carnevalesco. La sua opera ci permette di penetrare nella natura complessa e profonda di questo riso.

Nel sistema di immagini della cultura comica popolare (realismo grottesco), il principio materiale e corporeo è presentato nel suo aspetto universale, utopico e festoso. Il riso popolare, che organizza tutte le forme del realismo grottesco, è sempre stato legato al basso materiale e corporeo. Il riso abbassa e materializza, contrariamente ai canoni moderni, il corpo grottesco non è separato dal resto del mondo, non è chiuso, né determinato né dato, ma supera se stesso, esce dai propri limiti. L'accento è posto su quelle parti del corpo in cui esso è aperto al mondo esterno, in cui cioè il mondo penetra nel corpo oppure in cui il corpo sporge sul mondo, quindi sugli orifizi, sulle protuberanze, su tutte le ramificazioni ed escrescenze: bocca spalancata, organi genitali, seno, fallo, grosso ventre, naso.

L'esagerazione, l'iperbolicità, la smisuratezza e la sovrabbondanza sono uno dei segni caratteristici dello stile grottesco. Rabelais descrive delle gobbe di incredibile grandezza, dei nasi mostruosi, delle gambe di larghezza eccezionale, delle orecchie gigantesche. Bachtin ha sottolineato la forza liberatrice e rigeneratrice del riso, in questo autore non vi è opposizione tra la situazione comica e il soggetto che ride. La situazione comica contiene in sé il riso e il riso è comicità, i comportamenti comici carnevaleschi, infatti, non fanno ridere, ma ridono essi stessi.
 
 


1.4 Riso e sorriso

Ci sono moltissimi tipi di riso: per quanto riguarda il contenuto sentimentale vi è un riso aggraziato, piacevole, affascinante, mirabile e vi è un riso sgraziato, sgarbato, sgradevole, disdicevole, indecoroso, repulsivo, riprovevole. E ancora per la forma vi è un riso muto, silenzioso, chiuso e un riso aperto, rumoroso, strepitoso, fragoroso. E per l'intensità si va dal sorriso più mite e più tenero al riso scarso e modesto o moderato o temperato, al riso copioso o pieno o diffuso o prodigo, all'eccessivo o sfrenato o smodato o disordinato. Siccome gli eccessi sono sempre un cattivo indizio, chi ride molto e smodatamente dà prova di scarso senno e riesce disgustoso e riprovevole, mentre chi ride poco e moderatamente dà segno di saggezza. Infatti, il saggio e il dotto ridono poco tacitamente o dolcemente.

I giovani, gli adolescenti ridono molto, per qualunque cosa, anche di nessunissima importanza. Il riso dei bambini e degli adolescenti esercita un fascino grandissimo, un potere comunicativo irresistibile su ogni osservatore perché è un riso ingenuo, sincero, benigno, vivo; è un riso della gioia pura sgorgante da un'intima felicità o anche da un piacere fisico, dalla sazietà nutritiva, dal pieno benessere materiale, dalla vitalità e dalla vigoria esuberante. Il riso dell'adulto, invece, è spesso un riso che deride che mette a nudo i difetti della vita interiore e spirituale dell'uomo. In molti casi i difetti sono di per sé evidenti e non hanno bisogno di essere smascherati. Così i piccoli raggiri, un marito tiranneggiato dalla moglie, una menzogna evidente, la stupidità plateale o l'assurdità di certi giudizi sono comici di per sé.

Essi, per così dire, si smascherano da sé con la propria evidenza. Ma, nella maggior parte dei casi, i difetti sono nascosti e hanno bisogno di essere smascherati. Noi ridiamo quando, nella nostra coscienza, le qualità dell'uomo vengono oscurate dalla inattesa scoperta di difetti occulti che emergono improvvisi. Ma vi è anche il riso fine e delicato della persona intelligente, dell'umorista mesto e benevolo. Molti autori ritengono che il riso rivela l'anima di una persona, infatti, "esso è indice di intelligenza, di sentimenti, di temperamento e carattere" .

Dostoevskij, a proposito del riso, dice: "Per conoscere un uomo bisogna studiare non il suo silenzio né il suo modo di parlare o di piangere o di infiammarsi alle idee più nobili, ma il suo riso. Se, per lungo tempo voi non avete potuto decifrare un carattere, e ad un tratto ci riuscite ciò è perché quell'uomo ride molto francamente. Allora tutta la sua anima vi si presenta come su una mano. Quell'uomo ride bene? Vuol dire che è un buon uomo. Ma se egli mostra il minimo tratto di stupidità nel riso, deve essere di intelligenza limitata, anche se applicata a cose intellettuali" . Comunque un uomo intelligente e raffinato più che ridere, sorride, infatti il ragionamento, la cultura, l'educazione, lo sviluppo dei rapporti sociali, l'età moderano il riso e gli scoppi plateali e rumorosi di esso.

Ma che rapporto c'è tra il sorriso e il riso? Qual è il più antico? Quale viene prima? Alcuni autori sostengono che il riso viene prima del sorriso, è più antico, più spontaneo e primitivo, lo precede culturalmente e socialmente, vi è un riso semplice e forte simile a una forza positiva della natura, espressione del trionfo su di essa, quasi fanciullesco e sereno e trionfale. "Esso nasce spesso dalla derisione e dall'aggressività oppure da situazioni di crudeltà verso il prossimo, di beffa, di truffa. Poi con l'affinamento della civiltà e delle relazioni umane, il comico, mescolando sempre più il sorriso al riso, abbandona la sua rozzezza primitiva, la sua crudeltà semplice e si permea di profonda umanità" . Altri sostengono il contrario cioè che il sorriso viene prima del riso e avvalorano questa ipotesi sostenendo che, anche etimologicamente, il sorriso dimostra di essere una formazione primigenia, antecedente al riso, infatti, sorriso viene dal latino sub-risus cioè sotto riso, riso minore, riso lieve; nel sorriso, inoltre, ci sono abbozzate tutte le manifestazioni facciali che caratterizzano il riso e poi, nell'evoluzione dell'uomo, il sorriso appare verso il 30° giorno di vita e il riso verso il 3° mese, e quindi sostengono questi autori il sorriso si sviluppa prima del riso ed è di questo la forma più semplice e ed elementare. Ciò per altro non  impedisce che, nell'età adulta, raffrenandosi con l'educazione, con la vita sociale, con la riflessione, le manifestazioni  clamorose e tumultuose della gioia, l'individuo non possa abbandonare del tutto o quasi il riso ed esprimere i suoi stati di piacere e di gioia con un sorriso moderato e castigato.

Quanto al contenuto e cioè alle cause che producono e sostengono il sorriso, esse, si riducono a sentimenti gioiosi, teneri e dolci. Il sorriso è la perenne gentile espressione di tutti i sentimenti gradevoli. "Il sorriso comporta un messaggio univoco, invariabile, sovraindividuale. L'individuo che sorride non comunica alcuna disposizione aggressiva manifesta e nessun interprete giudicherebbe un sorriso come un preludio ad aggredire o anche un avvertimento a starsene lontano" . Molti studiosi hanno messo in evidenza una funzione importante del sorriso, cioè quella di favorire il legame di attaccamento fra il bambino e la madre, hanno, inoltre, sostenuto la natura innata del sorriso, infatti, l'individuo non ha bisogno di apprendimenti preliminari per metterlo in opera. Secondo Ambrose, infatti, "il sorriso ha la funzione di placare l'aggressività della madre nei confronti del bambino, aggressività che essa accumula a causa della pesantezza delle cure materne" . Il grande teorico dell'evoluzionismo Charles Darwin, propendeva a valutare il sorriso ora solo come un riso attenuato o rudimentale, quale effetto conseguente al riso ed ora il contrario.

Una prima constatazione fondamentale di Darwin che egli chiamò principio dello "effetto immediato del sistema nervoso" , affermava che quando il sistema sensorio è colpito da una forte eccitazione si crea una energia eccessiva che si diffonde nelle direzioni determinate dai collegamenti delle cellule nervose e dalla natura dei movimenti compiuti abitudinariamente (il concetto di riso quale valvola di sicurezza di una energia in eccesso fu formulato prima da H. Spencer). Il secondo principio di Darwin è il principio dell'antitesi, per cui una situazione che provoca una data espressione del sentimento si manifesta automaticamente in modelli motori completamente opposti (ad esempio un modello respiratorio diverso nel riso e nel pianto). Un terzo concetto sostiene che le espressioni emozionali sono residui di vecchie funzioni adattive, che si manifestano anche oggi, seppur in forme attenuate, nei momenti che ricordano situazioni primitive, come il digrignare dei denti nel caso di una aggressione.

Il quasi privilegio umano di ridere si spiega forse meglio, partendo dalle forme più strettamente umane delle due funzioni fondamentali: l'istinto della conservazione e quello della sociabilità. L'istinto di conservazione ispira a tutti gli esseri viventi dei riflessi di difesa e di attacco o degli atteggiamenti di lotta. Nell'uomo la dentatura si è assottigliata nello stesso tempo in cui la mano diveniva capace di formare il pugno e la posizione eretta si affermava. Il linguaggio orale è un monopolio dell'uomo che è l'animale parlante come è l'animale ragionevole o l'animale che ride. In verità, sostiene Charles Lalo, "l'uomo è il solo a ridere perché è solo a fare a pugni e a parlare"  Fabio Ceccarelli sostiene che il riso e il sorriso sono movimenti espressivi diversi, pur facenti parte ambedue della comunicazione sociale che mantiene sotto controllo l'aggressione. Infatti, sia il sorriso che il riso sono apparsi nella nostra specie in conseguenza dell'acquisizione del linguaggio simbolico, quali meccanismi sociativi che servivano a contenere gli squilibri sociali; "per quanto riguarda le relazioni sociali il sorriso appare chiaramente come una relazione tra due individui, una relazione duale, il riso si presenta come una relazione triadica fra almeno tre individui. Si ride di y; il messaggio contro y è un messaggio aggressivo, la relazione sociale del riso è triadica con tre poli e tre messaggi: lo stimolo r e i messaggi a e b. Il messaggio a ha caratteristiche analoghe al messaggio del sorriso cioè antiaggressivo e antigerarchico, mentre il messaggio b appartiene alla categoria dei messaggi di dominanza. Lo stimolo r è la gamma di stimoli capaci di suscitare il riso" .

Ma che cos'è che provoca il riso o il sorriso? Le cause psichiche fondamentali del riso sono: la gioia, il comico, l'umorismo. Il riso di gioia è il riso del bambino, un riso istintivo, fisiologico che dà una piena felicità. Il riso del comico è il prodotto di sentimenti e idee diversi: di superiorità, di potenza, di trionfo da un lato, di umiliazione, di debolezza, di disprezzo dall'altro. L'umorismo, infine, è la frase dolce e carezzevole che volge la mestizia in letizia, è il motto grazioso che tramuta il pianto in sorriso. E' perciò il sorriso del cuore che si vela di accenti di malinconia o la tristezza che svela il suo intimo con parole di letizia.

Altre espressioni che ne indicano la nota caratteristica sono: riso amaro, riso tra le lacrime, il ridere con un occhio mentre con quell'altro si piange: è la gioia venata di tristezza o il dolore che si stempera in sorrisi. E' il riso dell'intellettuale raffinato e riflessivo, dell'uomo di cuore e di pensiero che vede, osserva, riflette, giudica e sopporta le varie dolorose vicende della vita umana, i contrasti individuali e sociali, il male stesso, la follia. E per questo il riso dell'umorista è di solito un riso mite, temperato, moderato, lento, dolce, quindi spesso un semplice sorriso. Egli ride anche di se stesso, delle sue pazzie e manchevolezze, del suo disinteresse, ma concedendosi il perdono. Questo sorriso, spesso, è altamente educativo e correttivo per l'individuo e la società. E per questo è più proprio degli uomini maturi e vecchi, i giovani, infatti, sono più propensi alla satira, alla derisione, allo spirito pungente.
 
 


1.5. Motto, comico e umorismo

Nel quadro del comico che abbiamo fino a ora delineato, come si collocano il motto, l'arguzia, la barzelletta? Come sottolinea Paolo Santarcangeli, nella letteratura critica dell'umorismo, "non mancano pagine in cui la barzelletta è disprezzata ed è considerata come una parente povera o a volte come la negazione dell'umorismo a cui ricorrono persone rozze e grossolane, prive di un vero senso del comico" . Questo è valido, in particolare, per quella specie diffusa della barzelletta, in cui la sconcezza aggressiva appare come fine a se stessa. Il rischio della caduta nella vuota, inutile spiritosaggine è sempre presente, insieme alla frequenza della scurrilità e del turpiloquio. Ma il saper raccontare le barzellette è un'arte difficile e molti autori si sono accorti della considerazione e del degno posto che il motto, l'arguzia meritano. E' qui necessario ricordare che originariamente nell'antico tedesco Witz, il parlare ingegnoso, non è identificabile con un parlare Witzig, come lo intendiamo oggi nel senso di spiritoso, ma traeva la sua origine da Wissen (sapere). L'uomo che possiede Witz, che ha ingegno, è l'uomo che sa. L'inglese wit ha in comune col tedesco Witz i valori semantici originali, che significano, anche, in quella lingua mente sveglia, prontezza di spirito, da qui arguzia, motto di spirito, detto umoristico, scherzo. In via generica l'arguzia si definisce "qualità della mente acuta e penetrante  nei riguardi dell'individuo si rivela come prontezza, vivacità, e grazia tanto nel parlare quanto nello scrivere".

Jean Paul Richter afferma che la "libertà genera l'arguzia e l'arguzia genera la libertà. L'arguzia è un semplice giocare con idee" . Si è sempre amato definire l'arguzia come la prontezza nello scoprire somiglianze tra cose dissimili, di trovare cioè somiglianze riposte. Una delle caratteristiche dell'arguzia è la concisione, l'arguzia dice quello che ha da dire sempre, in poche parole. L'autore che ha fatto uno studio veramente approfondito sul motto di spirito è Sigmund Freud. Infatti, nell'ampio studio del 1905 Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio, il fondatore della psicanalisi si è interessato al comico e in un modo del tutto originale, infatti, ha centrato la sua indagine su un aspetto relativamente marginale della comicità, ma forse l'unico diffuso a tutti i livelli nella conversazione quotidiana: il motto di spirito e la battuta arguta. Il motto di spirito ha suscitato sempre scarso interesse sia negli studiosi della psiche sia negli stessi teorici del comico, e proprio per questo, Freud se n'è interessato. Egli tenta, persino, di stabilire delle connessioni specifiche tra le regole dell'inconscio e le regole del motto. Già Bergson aveva affermato che i procedimenti del sogno sono in molti punti simili a quelli del comico, vi si può scoprire la ben nota ripetizione: le ossessioni di sogno sono sorprendentemente vicine a certe ossessioni comiche.

Freud sviluppa meglio questo discorso e definisce bene la tecnica di ogni motto, facendo leva sul procedimento della riduzione che consiste nel rintracciare il senso originario del motto, ciò che esso voleva dire, mascherandosi con il suo gioco di parole e di concetti: la sua veste arguta viene così isolata e se ne può capire meglio il meccanismo. Nei confronti dei motti di spirito, Freud si pone in un atteggiamento perfettamente analogo a quello da lui tenuto nei confronti del sogno: anche il sogno è, ad esempio, un fenomeno con una faccia esterna che ne nasconde una interna. Anche il motto di spirito è una delle tante forme di produzione di senso, trovandosi sullo stesso piano di tutte le manifestazioni psichiche e culturali che possono essere oggetto di interpretazione. Freud afferma che il carattere arguto dei motti va cercato nella loro tecnica e nella loro forma linguistica. La forma del motto, la successione delle parole di solito si basa su questo schema: c'è la prima parte del motto che crea l'immagine nell'ascoltatore (immagine A), poi c'è la seconda parte del motto che crea una seconda immagine (immagine B) che si annulla subito, trascinando con sé anche l'immagine A, dando vita all'immagine C che è l'effetto comico. Ecco un esempio preso dall'opera di Freud: "il tenore di vita dei coniugi tal dei tali è piuttosto elevato. Secondo alcuni il marito deve aver guadagnato molto ed essersi un po’ adagiato (A), secondo altri è invece la moglie che si è un po’ adagiata e così ha guadagnato molto (B)" . In questo motto abbiamo avuto il caso in cui l'immagine A è stata capovolta dall'immagine B e l'effetto comico C è nato proprio da questo.

Ma come si fa a comporre un motto spiritoso?

Freud analizza vari motti e riassume i vari modi: modi che vanno dalla formazione di nuove parole, alla modificazione di altre, incluso anche l'uso dei termini di parole usate con diverso ordine, di giocare anche sul diverso significato di un'unica parola. Due sono i grandi gruppi in cui vengono distinte da Freud le tecniche argute: lo spirito di parole e lo spirito di pensiero. Le tecniche dello spirito di parole si riassumono in tre categorie fondamentali: 1) condensazione con formazione sostitutiva (associazione di due diverse forme lessicali, la cui sintesi crea una nuova forma, da cui risulta l'effetto arguto: per esempio "familionari" formato da familiari e milionari; 2) impiego del medesimo materiale normale, ma sottoposto a leggere modificazioni, 3) doppio senso vero e proprio (che consiste nell'usare la parola normale di partenza in senso diverso da quello normale).

Le tecniche dello spirito di pensiero si raggruppano in tre categorie fondamentali:1) deviazione dal pensiero normale che include tutte le modificazioni del corso del pensiero stesso; 2) unificazione che consiste nella formazione di inedite unità di pensiero, nell'associazione di frammenti concettuali solitamente separati; 3) figurazione indiretta nella quale si rappresenta qualcosa per via obliqua, sostituendovi il suo contrario, o sfruttando esagerazioni, omissioni. Il motto di spirito ha sempre degli intenti, svela dietro la sua facciata arguta, un desiderio.
Dal punto di vista degli intenti Freud distingue due tipi di motti: il motto astratto o innocente che sembra ricavare piacere unicamente dalla facciata arguta, dal gioco tecnico per sé preso e il motto tendenzioso che, invece, ha fonti di piacere più sostanziali. Quattro sono le specie di motti tendenziosi, a seconda della diversa natura dei desideri che vi si celano: il motto osceno (che recupera il valore di denudamento sessuale della scurrilità), il motto ostile (che recupera il valore aggressivo dell'invettiva e dell'oltraggio verbale), il motto cinico (critico o blasfemo contro le istituzioni), il motto scettico che non assale una persona o una istituzione, ma la sicurezza della nostra conoscenza stessa). Tra il comico e il motto di spirito esiste questa differenza: "mentre il primo lo si scopre, l'altro lo si crea". La comicità è già lì nel mondo e si tratta solo di vederla, il motto richiede, invece, un atto di autentica creazione.

Mentre il motto di spirito proviene dall'inconscio, la sede di origine della comicità è il preconscio. Il piacere dell'arguzia, secondo Freud, deriva dal dispendio inibitorio risparmiato, il piacere della comicità dal dispendio rappresentativo risparmiato e il piacere dell'umorismo dal dispendio emotivo risparmiato. "In tutti e tre i modi in cui lavora il nostro apparato psichico, il piacere discende da un risparmio; tutti e tre concordano su un punto: sono metodi per riacquistare dall'attività psichica un piacere che a rigore è andato perduto, solo per lo sviluppo di questa attività" . Quello che differenzia il motto dal comico e dall'umorismo è che il motto è un processo, il comico implica la presenza di almeno due persone (la persona che coglie il comico e quella in cui esso è scoperto), l'umorismo, pur essendo comunicabile è, in origine, un processo squisitamente individuale e ha, in sé, qualcosa di nobile e di commovente che lo distingue dalle altre specie di comicità: esso consiste nella facoltà di guardare con ironico distacco alle proprie sventure, di contemplarle "sorridendo fra le lacrime" come se fossero cose altrui e di rintracciare gli elementi di comicità che in esse esistono.

Condizione indispensabile per fare dell'umorismo è lo spirito di osservazione, sia esso benevolo o pungente, capace di cogliere i particolari, gli aspetti insignificanti che accompagnano gli avvenimenti e le azioni degli uomini. Allo spirito di osservazione, l'umorista deve aggiungere fantasia, spontaneità, creatività . A volte diventano bersagli dell'umorismo gli aspetti della società e allora l'umorismo si avvicina alla satira: è il caso della satira politica in cui si colpiscono con spietata violenza personaggi e istituzioni. A questo proposito è bene sottolineare che, quanto più la satira politica opera in tutta libertà, senza restrizione, tanto più il Paese in cui essa agisce è libero e maturo. L'umorismo, infatti, condanna ogni forma totalitaria perché ama il colloquio, l'indulgenza e la tolleranza. L'umorismo, come abbiamo già sottolineato, ci richiama al senso del riso o meglio del sorriso e consiste in quella particolare disposizione che ci permette di cogliere, se dotati di spirito di osservazione, gli aspetti curiosi e contrastanti di una situazione: esso non è da confondersi con la comicità che mira al riso aperto, chiassoso e poggia sul grottesco, sulla burla. Scopo dell'umorismo è quello di far riflettere, servendosi del sorriso. L'umorismo è "una sollecitazione ad abbandonare il luogo comune di qualunque maniera di vivere" , ha detto Carlo Silva, famoso scrittore umorista in una intervista fatta da Curzia Ferrari nel libro L'Umorismo e la satira, 1977.
 
 


1.6. Il comico letterario

La comicità, come abbiamo visto, è prima di tutto originata da un'esperienza reale, da una vicenda che accade, da una serie di battute che vengono dette, da gesti e mimiche che vengono compiuti, quindi appartiene alla sfera del sensibile, della vita, dell'oralità. Il grande salto di qualità avviene quando un autore riesce a suscitare il riso, ricreando situazioni comiche in un testo scritto e questo procedimento è più difficile e complicato di quello dell'attore perché, come afferma Elena De Paolis, "implica da parte dello scrittore grandi capacità evocative, linguistiche e stilistiche e da parte del lettore, comporta una mediazione intellettuale, una capacità di comprensione e di interpretazione molto superiori rispetto a quella di un semplice spettatore" . Il comico è, di per sé, un genere letterario molto limitato rispetto alla comicità che pervade molte opere. Come genere esso si riduce alla commedia, la quale, in quanto azione teatrale, affida l'effetto del divertimento non solo al testo scritto, ma anche alla capacità degli attori di rappresentarlo.

Sempre nell'ambito della rappresentazione teatrale, troviamo altre forme del genere comico, come la farsa, cioè una breve rappresentazione di tipo popolaresco, concreta, dissacrante, di antica tradizione, soprattutto medioevale e rinascimentale. La farsa ottocentesca si trasforma in un genere più vivace e leggero, il vaudeville, ricco di equivoci, scambi di persone, battute brillanti. Un po' più ambigua è la definizione di genere letterario comico, attribuita da alcuni alla satira, una composizione poetica con intenti di critica alla realtà culturale e sociale. Oggi si parla di satira riferendosi al commento graffiante, alla vignetta e alla critica politica. C'è, infine, un altro genere letterario comico che ha anch'esso, però, connotati labili ed è la poesia burlesca, presente nella letteratura medioevale come forma di scherzo e di parodia dei generi letterari tradizionali seri e viva anche nel corso del Rinascimento fino al Settecento con forme più ingegnose e divertenti. Nel corso dell'Ottocento in Inghilterra e del Novecento anche in Italia e un po’ ovunque, nel mondo, si è affermato un genere letterario tipicamente comico: il racconto o romanzo umoristico. Nella letteratura umoristica e satirica l'uomo viene, il più delle volte accostato ad animali o ad oggetti e questo confronto suscita il riso. Accostare un uomo ad un animale non suscita affatto il riso sempre e in ogni caso, ma in presenza di certe condizioni. Ci sono animali il cui sembiante o aspetto esterno ci ricorda certe qualità negative degli uomini.

Per questo raffigurare un uomo come un maiale, una scimmia, una cornacchia o un orso sta a significare le corrispondenti qualità negative dell'uomo. La similitudine con animali, ai quali non vengono attribuite qualità negative (l'aquila, il falco, il cigno, l'usignolo), non suscita il riso. Di qui la conclusione che per le similitudini umoristiche e satiriche servano soltanto quegli animali ai quali si attribuiscono qualità negative che ricordano analoghe qualità degli uomini. Chiamare un uomo col nome di un animale è la forma più diffusa di ingiuria comica tanto nella vita che nella letteratura. Nelle fiabe, invece, i comportamenti degli animali e la differenza dei loro caratteri ricordano gli uomini e perciò suscitano il sorriso, ma le figure degli animali non rappresentano figure di uomini in generale, come accade nelle favole. Le fiabe di animali come genere non perseguono fini satirici, non si propongono di deridere. I personaggi non personificano difetti umani. Nella fiaba l'atteggiamento verso gli animali può essere affettuoso. Essi sono chiamati con vezzeggiativi e diminutivi: "leprottino", "galletto", anche l'astuta volpe è chiamata "volpettina-sorellina".

Il personaggio negativo della fiaba, il lupo può essere oggetto di derisione, ma quest'ultima non è provocata dalla figura dell'animale (la figura del lupo non è comica), ma dalla trama. Se, per esempio, in una fiaba sul lupo e la volpe il lupo sciocco, dando retta ai perfidi consigli della volpe, mette la coda in un buco di un lago ghiacciato, così che la coda gela e quando lo aggrediscono è costretto a fuggire, perdendo la coda stessa, ad essere comica non è la figura del lupo, ma l'azione e la storia. La rappresentazione dell'uomo come cosa è comica per gli stessi motivi e nelle stesse circostanze in cui lo è la sua rappresentazione come animale, cioè essa suscita ilarità quando ricorda difetti umani. Un carattere può essere sempre ben definito paragonandolo ad una cosa. Certe espressioni tipo "non ho un carattere, ma una spugna", vengono di frequente usate in letteratura. I grassi, in molti racconti vengono paragonati a cuscini, i magri a degli stuzzicadenti. Spesso gli scrittori umoristici usano  delle tecniche di comicità come l'iperbole, la litote, l'analogia, la contraddizione, il rovesciamento di un nesso logico, i calembours, i paradossi e le freddure di ogni tipo. L'iperbole è una forma dell'esagerazione, è in realtà, una varietà della caricatura. Nella caricatura c'è l'esagerazione di un particolare, nell'iperbole del tutto. Michele Cataudella asserisce che "essa è figura capitale del comico, consiste in una deviazione dalla serie normale dei termini di riferimento, poi soprattutto si rende comica attraverso l'effetto di sorpresa, di stranezza, in certo senso attraverso il grottesco, o meglio in modo più intensivo come spia e strumento del grottesco" . Il calembour è, invece, un gioco di parole. E' uno dei tipi di facezia. Nel calembour il riso nasce quando nella nostra coscienza, il significato più generale della parola viene sostituito dal significato esteriore, letterale. Il calembour può nascere involontariamente, ma può essere anche cercato intenzionalmente. I tipi di calembours sono numerosi e diversi. Un esempio può essere questo: il figlio di un giornalista dice di suo padre: "Dicono che mio padre ha una penna agile". Quando il padre compra una macchina da scrivere, egli domanda: "Adesso diranno che il papà ha una macchina da scrivere agile?". Vicini ai calembours sono i paradossi, cioè quei giudizi in cui il predicato contraddice il soggetto o la definizione il definito. Esempio: "Tutti gli intelligenti sono sciocchi e soltanto gli sciocchi sono intelligenti".

Vicino al paradosso è l'ironia. Se, nel paradosso concetti, che si escludono a vicenda, vengono riuniti nonostante la loro incompatibilità, nell'ironia si esprime con le parole un concetto, ma se ne sottintende (senza esprimerlo a parole) un altro ad esso opposto. A parole si esprime qualcosa di positivo, intendendo esprimere, invece, qualcosa di negativo, ad esso opposto. Il fatto che il difetto venga definito con la qualità ad esso contraria, mette in evidenza e sottolinea il difetto stesso. Quello che qui si vuole evidenziare è che l'espressività della lingua è un importante fattore di comicità. "Si ride, infatti, di ciò che si può fare con le parole, con la loro polisemia, con il loro concatenamento; si ride della mancanza di accordo su certe premesse, si ride della simmetria, delle dissociazioni, del cumulo degli argomenti" . Sono molte le risorse del comico che scaturiscono dalle figure del discorso ( "Tutti gli elementi della retorica sono e possono essere oggetto di comico" come afferma L. O. Tyteca nel libro e pagina appena citate) o anche da semplici elementi della sintassi usati in modo distorto, come risorse stesse del linguaggio, basti citare: l'accumulo, l'iterazione, l'etimologia, fino all'uso di errori nell'impiego del linguaggio, errori volontari di grammatica, ortografia, accento.
Come abbiamo già detto, il comico in letteratura non può essere inteso come un genere, ma piuttosto è da considerarsi come un'attitudine che abita dentro i tre generi classici, stabiliti dalla retorica antica: l'epico, il lirico, il drammatico. Il comico, come afferma Emanuele Banfi, "è dentro i tre generi e li degrada: tale degradazione va intesa non come diminuzione del quoziente estetico del testo quanto come allontanamento all'interno di una nuova testualità, dai parametri della norma canonica; allontanamento che produce, in una modulazione testuale variabile, parodia, ironia, beffa, umorismo, satira" . Nella letteratura italiana il comico ha una presenza debole, la forza dominante è costituita dal "nobile", dallo stile "alto" o tragico.

Michele Cataudella sottolinea che "la composizione degli opposti comico e sublime che sembra prodursi nell'Ottocento, in area romantica, genera una nuova forma di comico o meglio di pseudo comico, chiamato umorismo che per essere espressione intellettuale provoca una caduta della forza comica, trasforma il riso in sorriso e comunque si allontana decisamente dal mondo popolare nel quale era allignato come cultura alternativa ed emarginata".

"In Italia l'umorismo e la satira hanno una tradizione secolare: dal Boccaccio all'Ariosto e al Tassoni, dall'Aretino a Teofilo Folengo, la letteratura è ricchissima di autori di epigrammi e di satire, spesso imitazioni di classici latini e greci, in cui all'aspro morso della critica si mescola il bonario umorismo, la comicità spensierata o maliziosa di secoli tempestosi e tormentati, fra invasioni, dominazioni straniere e repressioni di ogni genere. Nel XVIII secolo, col favore dell'Illuminismo satira e umorismo si trasferiscono nella critica letteraria di Giuseppe Baretti, noto come Aristarco Scannabue nelle mordaci rubriche della "Frusta letteraria", colpiscono i costumi dell'alta borghesia e delle nobiltà  lombarde coi versi del Giorno e delle Odi del Parini; si manifestano sulle scene del teatro goldoniano: un amabile umorismo che proviene dalla succosa radice popolaresca veneziana, una gentile e istintiva capacità caricaturale, destinata a oltrepassare i confini di Venezia e d'Italia" . E non si possono dimenticare i sermoni di Gasparo Gozzi, le satire del costume che il Foscolo scrive in un periodo di relativa libertà, agli inizi del XIX secolo (il Gazzettino del Bel Mondo), il Leopardi dei Paralipomeni della Batracomiomachia, in cui il grande poeta esprime il suo dissenso ironico contro carbonari e reazionari, i poemetti di Carlo Porta in dialetto milanese. Nell'Italia romantica, afflitta dalla reazione postnapoleonica, compaiono alcune figure di poeti e di scrittori che creano un tipo di satira politica e di costume, che sarà alla base per almeno un cinquantennio della tradizione italiana. A Roma Giacchino Belli scrive in romanesco circa duemila Sonetti, molti dei quali, contro il potere dei Papi e degli aristocratici. In Toscana Giuseppe Giusti fu autore di Scherzi dal saporoso linguaggio popolare, dall'arguzia piacevole e al tempo stesso temibile.

Umoristi toscani furono anche in tono minore, Filippo Pananti, Antonio Guadagnoli e Renato Fucini, mentre nelle altre regioni ricordiamo il veneto Arnaldo Fusinato, il medico piemontese Domenico Carbone, Giovanni Riberti. Non si possono dimenticare tre grandi classici: il francese Francois Rabelais, lo spagnolo Miguel de Cervantes e l'inglese William Shakespeare che hanno creato personaggi di una tale qualità umoristica da superare la pura comicità: Pantagruel e Panurge, Don Chisciotte e Sancho Panza, Falstaff. A Pantagruel, figlio del gigante Gargantua, insieme all'amico Panurge, capitano numerose avventure; la comicità si tramuta frequentemente in satira, come avviene nell'episodio dell'Isola Senante, caricatura di Roma e della corte pontificia. Nella sua forma bizzarra e parodistica, sorretta da una prodigiosa energia e inventiva verbale, il romanzo colpisce l'ascetismo medioevale, la filosofia scolastica, divenuta ormai formalistica e ripetitoria, in nome dell'amore per la natura e per una nuova scienza, per la vita attiva e socialmente utile, per una società laica ordinata e libera, retta da spiriti colti. Molto comica è la figura di Falstaff, beone, gaudente e briccone nella commedia giocosa Le allegre comari di Windsor. Egli è disegnato con chiaro procedimento comico: robusto cavaliere, è affetto da vizi, difetti e indegnità. Don Chisciotte della Mancia è protagonista di mille avventure, tutte folli e comiche, insieme al suo grasso servo Sancio.  Don Chisciotte sa fin dove essere comico, triste o folle, nel suo eterno e piacevole colloquio con Sancho, nelle sue piccole e anche nelle sue smisurate avventure. In Inghilterra lo humour acquista forza letteraria durante il secolo XVIII. Cresce nella satira acerba di Jonathan Swift e nel romanzo di Henry Fielding, creatore del celebre Tom Jones. E domina, in maniera decisiva in Laurence Sterne, nel 1700, nel Viaggio sentimentale in Francia e in Italia e Nella vita e opinioni di Tristram Shandy. Un grande classico dello humour inglese del secolo XIX fu J. F. Dickens con Il circolo Pickwick.
 
 


1.7 Il comico nel fanciullo

Abbiamo già accennato a questo argomento, quando abbiamo definito il comico e abbiamo detto che, per molti autori, esso ha una grande valenza pedagogica e formativa, in quanto può, se utilizzato nel modo più appropriato, favorire lo sviluppo della personalità, incrementare l'intelligenza e rendere i bambini più creativi, più elastici, più consapevoli di se stessi e degli altri, e anche più originali . Il senso del comico che ha il fanciullo è diverso da quello dell'adulto perché diversa è l'esperienza che il fanciullo fa rispetto all'adulto e poi perché diversa è la sua capacità intellettiva. Proprio così perché il comico è molto legato all'intelligenza. Di questo sono convinti molti autori tra cui anche Luigi Volpicelli che pensa che "il riso ridesta e suscita l'organismo ricchissimo del nostro pensiero logico, anima e ravviva gli infiniti procedimenti del pensare, scioglie l'intelligenza del bambino, ammorbidisce il suo intelletto, lo addestra all'intuire rapido, vince l'asprezza e la legnosità di un pensare troppo didascalico" . Il comico dipende dal livello intellettuale, morale e sociale a cui vengono colti i significati della realtà, presenta caratteristiche sempre nuove che si aggiungono a quelle già determinate a mano a mano che, procedendo l'età evolutiva, i livelli intellettuali, morali e sociali vanno mutando e parallelamente si trasformano i fattori del distacco del soggetto dalla propria realtà.

Sotto l'aspetto intellettuale il soggetto attraversa dalla nascita una serie di stadi nei quali si vanno via via formando le prime costanze percettive, costituite da oggetti posti al centro di rapporti spaziali permanenti. Nel corso dello sviluppo si verificano nell'organizzazione psicologica delle modificazioni strutturali così rilevanti da contrassegnare delle vere e proprie fasi o stadi cioè livelli qualitativamente diversi tra di loro. Lo sviluppo intellettuale  può essere descritto attraverso le modificazioni che avvengono nel passaggio da uno stadio al successivo. A ciascuno stadio di sviluppo corrisponde una particolare forma di organizzazione interna con i propri contenuti, conoscenze e interpretazioni della realtà. Il primo stadio, lo stadio senso-motorio copre i primi due anni di vita del bambino. L'organizzazione interna consiste di schemi di azione pratici, non esiste alcuna attività mentale. Nel corso dei primi due anni di vita, il bambino passa da una forma di organizzazione puramente biologica (1 stadio) ad una organizzazione psicologica in cui c'è conservazione dell'esperienza (2 e 3 stadio), alla comparsa dell'intenzionalità e dell'intelligenza pratica in cui scopre le proprietà degli oggetti (4 stadio), alla costruzione di schemi nuovi e alla loro coordinazione per affrontare situazioni nuove (5 stadio). Si assiste progressivamente ad una differenziazione del sé dal mondo circostante: la realtà diventa indipendente dalle proprie azioni e nel 6 stadio anche dalle proprie percezioni del momento. Lo stadio preoperatorio va dai 2 anni fino ai 6-7 anni ed è caratterizzato da egocentrismo intellettuale. Verso i tre anni i bambini cominciano a volere interpretare la realtà. Le spiegazioni proposte fino ai 6- 7 anni risentono dell'egocentrismo intellettuale e di un atteggiamento improntato a finalismo, animismo e artificialismo. Poi c'è il periodo operatorio concreto dai 7- 8 anni agli 11-12. E' lo stadio delle vere e proprie strutture intellettuali: le azioni interiorizzate si coordinano e si raggruppano per dar luogo a delle strutture di insieme: le operazioni intellettuali. Questo tipo di pensiero viene definito da Piaget reversibile perché ciascuna azione, reale o mentale, è collegata alla sua inversa.

Cominciamo dallo stadio senso-motorio: il bambino non ha un vero e proprio senso del comico  che in genere è stato definito da quasi tutti i filosofi come la capacità di cogliere contrasti insoliti e improvvisi tra due o più elementi della realtà. Il bambino piccolo ride alla madre, ride quando gli vengono fatte delle smorfie, quando si gioca con lui al  gioco del cucù, ma non ha un vero e proprio senso del comico. Quello tra i 3-4 anni è un periodo contrassegnato da una confusione dell'io con la realtà circostante e il senso del comico appare incerto. Il comico infantile  appare realmente al momento in cui si consolidano le costanze percettive, l'oggetto incomincia a muoversi univocamente nell'esperienza del soggetto con un proprio significato, il bambino di 4-6 anni è curioso, è interessato a tutto quello che lo circonda in un processo di assimilazione che arricchisce le sue strutture mentali pervenute ormai al livello intuitivo. Il bambino costruisce imperfettamente le sue serie, centrando il pensiero su un rapporto specifico, intercorrente tra gli elementi, ma non su tutti i rapporti esistenti. Egli scorge la serie di elementi soltanto in un senso ed è, in questo senso, che potrà cogliere il comico. Potrà, per esempio, cogliere la comicità che genera una caduta di un uomo mentre sta passeggiando su un marciapiede. I bambini di questa  età sono interessati ai colori, al movimento, ai personaggi familiari e coglieranno di più il comico di movimento, di invettiva, il comico derivante dalle sproporzioni, dai gesti, dalle parole, dalle imitazioni. Se passiamo ad esaminare il periodo operatorio (11-12 anni), vediamo che permane il comico di movimento, il comico verbale e di caricatura, ma emerge anche il comico fondato sul contrasto tra una personalità e l'ambiente (comico di situazione), fra due personalità (imitazione umoristica), fra elementi e schemi concettuali.
A proposito del tema del comico nel fanciullo, Valeri e Genovesi hanno realizzato un questionario e lo hanno proposto alle classi di terza e di quinta della scuola R. Pezzani di Parma. Il loro intento era quello di verificare se, nell'arco di tre anni, che intercorrono tra il momento iniziale e terminale del secondo ciclo, vi fosse, oltre a una constatata evoluzione psicofisica, una evoluzione del senso del comico. Hanno svolto la loro ricerca, avvalendosi di un questionario composto da quattro domande:

1) Descrivi un fatto comico della tua vita.
2) Che cosa ti ha fatto ridere nel racconto che hai ascoltato?
3) Un uomo sedeva in un bar… Prosegui.
4) Disegna un episodio comico.
 

Di queste quattro la seconda tende a rilevare quantitativamente e qualitativamente la fruizione del comico da parte del ragazzo; la terza domanda riguarda la produzione del comico, la prima e la quarta riguardano le funzioni. Sono stati presi in considerazione quattro tipi di comico:

1) comico di caricatura
2) comico di linguaggio
3) comico di movimento
4) comico di situazione.

Per comico caricaturale si intende un'accentuazione o esasperazione di caratteristiche fisiche irregolari presenti nell'individuo. Il linguaggio comprende una gamma piuttosto varia che va dall'uso iperbolico, alla deformazione, alla onomatopea, alla sostituzione, al gioco di parole. Il comico di movimento è riscontrabile sotto forma di deambulazione o gestualità. Esempi tipici sono per il primo caso uno strano modo di correre, di cadere, per il secondo lo sketch delle torte in faccia. Si manifesta come intervento di qualcosa di strano nel movimento, che contrasta con il nostro schema mentale. Tale comico è dato da movimenti che si susseguono in modo strano e improvviso, molto velocemente e con conseguenze inaspettate. Il comico di situazione è quel tipo di comico che si viene a creare quando, in una determinata situazione se ne inserisce un'altra, cioè quando situazioni che non hanno attinenza vengono a coesistere. A volte alcune situazioni che per l'adulto non generano comicità, la generano, invece, nel bambino. Questo dipende dal diverso livello esperenziale che il  bambino ha rispetto all'adulto. Il bambino, infatti, non essendo abituato a vedere alcune situazioni in connessione vi rivela una disarmonia ed una stranezza per lui fonte di riso. Il fanciullo non vive nel mondo logico dell'adulto, anzi il suo è un mondo magico e la sua comicità nasce dai contrasti fra oggetti concreti e concetti pratici.

(tratto dalla tesi della dottoressa Myriam Parissi:
Le categorie del comico: metafora della realtà. Lettura del comico ne "Le aventura di Pinocchio")

dottoressa
Myriam Parissi

 
 
 
 


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