Musica rock by Francesco Furfaro

Gli articoli dei nostri visitatori

 

 

URIAH HEEP "DEMONS & WIZARDS"

CASTLE COMMNICATIONS MUSIC LTD MAGGIO 1972
FORMAZIONE:
David Byron: Voce
Mick Box: Chitarre elettriche/acustiche
Ken Hensley: Tastiere,chitarre el./ac.,moog,percussioni
Gary Thain: Basso elettrico
Larry Kerslake: percussioni
Nota:Puoi ascoltare 30 sec. di ogni brano al seguente indirizzo: http://www.cdnow.com/cgi-bin/mserver/SID=1128305622/pagename=/RP/CDN/FIND/album.html/artistid=URIAH+HEEP/itemid=308629

RECENSIONE:
"Demons & Wizards" è un'album piuttosto vario nel contenuto delle 9 tracce che compongono il disco.
Si parte con "The Wizard",un brano che ricorda molto lo stie dei primi Led Zeppelin:Riff acustico iniziale che accompagna le prime strofe melodiche cantate da Byron,che cresce insieme all'acuto del cantante giungendo ad'un'accordo isterico accompagnato dal basso di Mark Clarke (sostituto di Thain) che ricalca lo stile degli Heep,che univano al loro rock dirompente,impressionanti session di cori femminili.Si riprende poi con "Traveller in time";brano di hard rock spaziale che parte con un riff di chitarra durissimo che lascia spazio al canto inizialmente tranquillo del vocalist che continua la sua performance trasformandosi in urlatore isterico sostenuto dai riff di Box e dall'assolo finale del bassista Thain.
E'la volta poi di "Easy livin"(La loro hit mondiale per eccellenza) veloce e durissima nella quale il basso e la chitarra elettrica imitano alla perfezione il ritmo di un mitra,mentre nella fantastica "Poet's justice",compare il riff del moog di Hensley,(strumento che verrà usato frequentemente da Ken negli album successivi)."Circle of hands" e "Rainbow demon" sono due ballate dove si alternano rif di tastiere e di chitarre,mentre l'imponente "All my life" fa da preludio a "Paradise/The spell";una sorta di "Stairway to heaven" dal suond decisamente pinkfloydiano dove la fantastica melodia creata da Hensley,si fonde con dei riff jazzati accompagnati dall'hammond...una stupenda suite di 12 minuti (divisa in 2 parti) che fà da fiore all'occhiello al mio disco della vita.
Simone Parisi Monza (MI)

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"A NIGHT AT THE OPERA VS SGT. PEPPER"

- OVVERO: DUE "STORICITA'" A CONFRONTO -

"A NIGHT AT THE OPERA"
comportera' ai Queen, e per sempre,
il titolo di "miglior al-
bum in assoluto" di tutta
la loro vasta discogra-
fia.
Si puo' discutere fino
all'infinito su quale delle due epoche, che cosi' nettamente hanno diviso la carriera del gruppo sia
la prediletta da fans
e non-fans della celebre
band capitanata da Freddie Mercury.
Meglio gli anni '70, im-
bevuti di machismo ed
hard-rock, uniti alla
genialita' da trasfor-
mista-glam di Mercury,
oppure i laccatissimi,
edonistici e frivoli
anni '80, dove, una vol-
ta di piu', e' Mercury
ad erigersi come prima-
donna indiscussa di tutta
la scena rock britannica?...
Io propendo per la prima,
senza dubbio la piu' af-
fascinante, indiscusso
richiamo alle doti e-
spressive di Brian May,
Freddie Mercury, John
Deacon e Roger Taylor.
Chi e' un vero intenditore
di musica e sa apprezzare
molto profondamente la
melodia ed e' in grado
di cogliere lo "status
ispirativo d'eccezione"
della rockstar di turno,
non puo' che spezzare
una lancia in favore dei
primi QUEEN.
Anzi, osero' di piu':
per me, sia come gruppo creativo, che come istituzione musicale, i
QUEEN sono sempre esisti-
ti, nel mio immaginario
musical-collettivo, "solo" dal
'73 (anno del loro esor-
dio) al 1980, "THE GAME"
incluso. Tutto il resto
non mi interessa e mai mi
interessera'.
Ed apice, vero epicentro
di quel caotico, meravi-
gliosamente glamour pe-
riodo e' rappresentato
infallibilmente, super-
bamente da "A NIGHT AT
THE OPERA", per certo
la loro opera piu' am-
biziosa, arrogante, esi-
bizionista ed eclettica
della loro carriera.
Non una nota fuori posto,
non una melodia "telefo-
nata" o da riempitivo,
non una micro-sbavatura.
Tutto (e tutti) sono al-
l'insegna del perfezio-
nismo piu'..."perfezioni-
stico". Un degno "SGT.
PEPPER DA ANNI '70", come
alcuni critici ribadirono
all'uscita dell'LP.
A questo punto e' neces-
sario un confronto criti-
co.
Innanzitutto non e' vero
che SGT. PEPPER (di cui
io sono un estimatore da
immemorabile tempo, non-
che' mio disco in assolu-
to preferito, e non solo
per quel che concerne i
Beatles...) e' inferiore
a "A NIGHT AT THE OPERA".
Almeno, se cosi' fosse,
di sicuro "SGT. PEPPER"
non potra' mai perdere
sul terreno del "conte-
sto". Quando usci', Gio-
vedi' 1° Giugno 1967, il
"Sergente Pepe" cambio'
radicalmente tutta l'in-
dustria discografica,
e da quel momento ci si
rese conto di essere en-
trati in una nuova era,
cosi' come i musicisti
loro contemporanei avrebbero adottato la
formula del "concept-al-bum". Tutto cambio': ve-
stiti, abbigliamenti,
grafica, moda, linguag-
gio; il colore sostitui-
sce il bianco e nero ed
i Beatles decretano, come
annuncia la stessa,
straordinaria, inimitabi-
le copertina, la fine
simbolica dei vecchi ba-
ronetti in favore di
quelli nuovi. E per i
quattro scarafaggi sareb-
be poi iniziato il perio-
do piu' creativo, affa-
scinante e complesso di
tutta la loro inarrivabi-
le, unica carriera.
Per quel che concerne
Per "A NIGHT AT THE OPE-
RA", vi fu comunque una
"certa" Bohemian Rhapso-
dy a decretare l'immor-
talita' artistica di
Mercury e dei Queen: fu
Mercury stesso ad inven-
tare, coniare per la pri-
ma volta in ambito rock,
il cosiddetto "video pro-
mozionale".
A dir il vero, qualcuno,
anni prima, anticipo'
seppur molto piu' blanda-
mente, questa avveniri-
stico stratagemma pubbli-
citario: furono infatti
i Beatles stessi a gira-
re due video promoziona-
li, sulle celebri melodie
di "PENNY LANE" e "STRAW-
BERRY FIELDS FOREVER",
che avrebbero fatto da
apripista all'imminente
"svolta psichedelica"
dei quattro baronetti.
Insomma...ancora BEATLES
VS QUEEN, in una gara
appassionante dove come
comune denominatore vi
e' una straordinaria
creativita', nonche'
massicce dosi di geniali-
ta'.
SGT. PEPPER e A NIGHT
AT THE OPERA, due dischi,
di due epoche diverse,
ma di eguale fascino
e grande influenza sulle
future mode a venire.
Si puo' tranquillamente
avanzare questa coraggio-
sa "proporzione":
SGT. PEPPER : A NIGHT AT
THE OPERA = A DAY IN THE
LIFE : BOHEMIAN RHAPSODY.
Il principio di genialita'
non e' tanto distante
fra questi due capolavori as-
soluti delle due bands, non
trovate?...
In fondo, di "picchi
creativi" si parla...

ALAN "J-K-68" TASSELLI

 

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"...l'ultima cosa che ricordo e' che stavo correndo verso l'uscita
dovevo trovare la via del ritorno da cui ero provenuto.....
"Rilassati, disse il portiere notturno, noi siamo programmati per
ricevere, tu puoi assicurarti ogni volta che vuoi....
ma non potrai mai andare via...."

Cosi' recita la condanna finale di "HOTEL CALIFORNIA", uno dei
brani rock del XX° SECOLO, una delle immortali canzoni del grande
"Circo Rock", che ha visto negli Eagles formidabili alfieri di
indimenticabili e suggestive melodie, nonche' ulteriori illustri
rappresentanti della famigerata triade "sex, drugs and rock'n'roll".
Ma molti si saranno anche chiesti quale fosse davvero il signifi-
cato di quella canzone dal testo cosi' smaccatamente colmo di ras-
segnazione, di perdita del proprio io, di inconvertibile destino,
un destino che non puo' piu' essere cambiato, a parere delle "A-
quile". Il fatidico "punto di non-ritorno" che tante rockstars han-
no toccato, per poi essere costrette ad ammettere il loro infame
peccato.

Correva l'autunno del 1976, e gli Eagles sbancarono letteralmente
i botteghini con il bellissimo singolo "HOTEL CALIFORNIA", da molti
ritenuto il vero capolavoro delle "Aquile" ma anche da molti (tutti!)
ritenuto una perfetta metafora della maledizione che colpisce chi
e' baciato da troppo successo, troppi soldi, troppo sesso ma anche
troppa decadenza e poi, in alcuni casi, morte.
"HOTEL CALIFORNIA" e' un po' tutto questo e forse anche di piu'.
All'interno del testo si possono scorgere immagini sataniche, metafo-
ra del musicista drogato ed impotente di fronte al suo destino di
follia e di autodistruzione, un vero e proprio monumento al nichili-
smo tipico degli egomaniaci che da sempre popolano il bizzarro, con-
vulso, sporco e spietato mondo della musica rock.
Ogni frase di "HOTEL CALIFORNIA" e' una perfetta fotografia del mondo
mitomane della rockstar, che una volta raggiunto il proprio obiettivo
viene miseramente risucchiato dalla stessa egomania che prima sembra-
va averlo reso immune da ogni male, quasi immortale.

L'Hotel del titolo altro non e' che una gigantesca panoramica sulla
veloce ascesa ed altrettanto rapida caduta del musicista, e vi si
potrebbe interpretare benissimo anche la mitologia faustiana, secon-
do la quale l'artista venderebbe l'anima al Diavolo in cambio di
fama, soldi, donne, e gloria eterna.

Entro la fine di quel 1976 Frey, Henley and Company erano consumate
stars del multi-laterale e sempre imprevedibile palcoscenico-rock,
completamente strafatti di cocaina, con ognuno di loro praticamente
sempre sull'orlo di una crisi di nervi, nervi mantenuti miracolosa-
mente saldi durante il compimento della loro piu' celebrata opera.
L'album che da' il titolo all'omonima title-track altro non riflette
che l'appeal, il messaggio della canzone-guida, onde sviluppare lungo
tutto l'arco del disco i temi legati alle tipiche fasi nella carriera
di un musicista; in poche succinte parole, gli Eagles concepirono
un concept album, per la verita' involontario, ma cresciuto auto-
nomamente (e ricco di coscienza e spietata amara realta'nonche' di
indiscusso di fascino e di un mai del tutto celato, compiaciuto
enigma).

Ora vi portero' all'analisi dettagliata delle frasi piu' salienti
della celeberrima canzone, capolavoro assoluto ed insuperato in cui
il testo recita una parte tanto importante quanto quella della melo-
dia.
Adesso andremo a vedere perche'.

La cosiddetta "shimmering light" (luce scintillante) potrebbe rap-
presentare l'abbaglio, da tradursi nella magnetica attrattiva che
il mondo della musica puo' attrarre un musicista ancora in erba
ma terribilmente ambizioso. Poi tutto d'un tratto il nostro prota-
gonista avverte "la campana della missione", da interpretarsi molto
presumibilmente come un campanello d'avvertimento, quasi ad indicare
i pro ma (soprattutto) i contro in cui si puo' imbattere chi ha scel-
to di percorrere questa lunga e faticosa corsa verso il successo.
"...e fra me e me pensai: questo puo' essere il Paradiso... oppure
l'Inferno" - che in pratica riassume i concetti non appena espressi.
E' tanto bello che potrebbe significare Paradiso, cosi' come potreb-
be rivelarsi tanto brutto che potrebbe voler dire vivere nell'Inferno.
Le "voci giu' nel corridoio" possono essere viste come voci inganne-
voli, quello stesso inganno che si cela dietro l'apparenza di un
posto "cosi' bello".... "una faccia cosi' bella".... ovvero: un mondo
(quello del music-business) apparentemente cosi' bello, con tante
belle facce, ma che poi.....; "un sacco di stanze all'Hotel California
....": e' una chiara metafora sul lusso, sconsiderato ed
inimmagina-bile che
una rockstar puo' raggiungere una volta realizzate le sue
ambizioni....o meglio: un vero e proprio "specchio per le allodole"...
Ma andiamo avanti; ora ci stiamo per imbattere nella parte piu' affa-
scinante e "maledetta" del testo, che "profuma" spesso di enigmatico.
"La sua mente era distorta.... lei ha una tale passione per le Merce-
des...." - quando il musicista diventa una star, innegabilmente esso
puo' coincidere con un periodo di folle autodistruzione da parte
dell'artista stesso, e tanta profusione di ego si puo' manifestare,
come ben si sa, nella smodata passione per le automobili, soprattutto
per quelle di rango superiore e portate alla grande velocita'.
"Lei ha un sacco, davvero un sacco di graziosi ragazzi.... che lei
chiama "amici"...... "Come danzano giu' nel cortile.... dolce sudore
estivo.... danza da ricordare, danza da dimenticare......"
OOOOOOH.... qui tocchiamo corde molto molto sottili......: a mio pa-
rere il termine "graziosi ragazzi" e' una metafora del sesso, spesso
quello sconsiderato e sfrenato, senza soluzione di continuita', vero
e proprio "stemma" e caratteristica predefinita della classica rock-
star; d'altronde quando si ha successo, si viene immancabilmente cir-
condati da un mucchio di gente, di ogni tipo, e probabilmente c'e'
qualche riferimento alla "summer of love del '67", condita si' da
giorni indimenticabili ma anche da "danze" non proprio memorabili...
"Cosi' chiamai il "Capitano" e gli chiesi se aveva ancora quello
"spirito".... - spirito qui ha accezione di vino ma e' intelligente-
mente usato come termine ambivalente, e cioe' significante "spirito,
spirito di un'epoca andata..." - infatti la frase seguente recitera':
"Non abbiamo piu' quello "spirito" qui dal 1969...." oooooooh......
frase a dir poco magnetica e tra le piu' riuscite e simboliche di
"HOTEL CALIFORNIA": in breve, come gia' accennato soprastantemente,
le nostre rockstars vivono un periodo di totale smarrimento, di to-
tale disillusione, politicamente parlando l'America e' in crisi pro-
fonda e gli Eagles genialmente "fotografano" questo cruciale momento
come una "perdita di spirito", quello spirito, ormai non piu' pro-
ponibile, di un'epoca (quella dei caotici, convulsi ma libertari
e rivoluzionari anni '60) che oramai e' gia' morta da tempo, e pre-
cisamente, secondo gli Eagles, da quel 1969.
"E quelle voci ancora che richiamano nel cuore della notte, sveglian-
domi...... "Benvenuto all'Hotel California...... un posto cosi' bello,
delle facce cosi' belle...." - siamo daccapo, quelle frasi da veri
e propri millantatori in una realta' completamente distorta e claustro-
fobica, richiamano l'attenzione del protagonista; "...se la godono
all'Hotel California.....": anche questa e' una metafora sugli (immen-
si) piaceri che il diventare ricco e famoso comporta, quindi esprime
un immenso piacere e divertimento, fino ai limiti del consentito,
della star in questione, avido in tutto e per tutto a "succhiare" ogni
singolo beneficio da questa esistenza dorata.
La strofa si conclude con "...porta i tuoi alibi...." - segno infausto
per la rockstar/protagonista che, una volta commesso il peccato, non
puo' che costruirsi degli alibi.... per scontare le sue colpe.
Ora arriva la parte forse piu' interessante.
"Specchi sul soffitto, champagne rosa sul ghiaccio - e lei disse:
"Noi siamo tutti prigionieri qui, per nostra stessa scelta......
E nella stanza padronale si sono tutti riuniti per la Festa.......
Loro l'hanno accoltellato con i loro acuminati coltelli, ma non sono
riusciti ad uccidere LA BESTIA!..."
"...l'ultima cosa che ricordo e' che stavo correndo verso l'uscita...
dovevo trovare la via del ritorno dalla quale ero provenuto....
"Rilassati, disse il portiere notturno, noi siamo programmati per
ricevere, tu puoi assicurarti ogni volta che vuoi....
MA N0N POTRAI MAI ANDARE VIA...."
"Specchi sul soffitto, champagne rosa sul ghiaccio": sono forme
di lusso sfrenato che solo le milionarie rockstar si concedono,
un po' per capriccio, un po' per puro istinto edonistico, io le
interpreto anche come un male insito nella vita da rockstar.....
"Noi siamo tutti prigionieri qui, per nostra stessa scelta": il
musicista arrivato al successo ed ormai consacratosi automaticamente
si proclamera', suo malgrado, "prigioniero di se stesso", prigionie-
ro di un mondo che lui non e' piu' capace di controllare, il destino
appare gia' segnato, ed ormai non sembra esserci piu' via di scampo.
(davvero affascinante questo periodo, gli Eagles evidentemente, pur
strafatti e stracotti, avevano le idee chiare in proposito...)
La Festa ed il successivo delitto sono altre spietate, decadenti
metafore sulla smodata e scriteriata condotta di musicisti ormai
autentici viziati e non piu' padroni delle proprie vite: sia "Festa"
che "Bestia" qui hanno allusioni demoniache, ma in realta' "coprono",
per cosi dire, una ben piu' amara, atroce verita': la DROGA (qualifi-
cata come BESTIA) ha preso il sopravvento, e, pur avendo tentato
di reprimere l'abuso che se ne fa con "coltelli acuminati" (onde a
significare disperati tentativi per non cadere schiavi della massicce
dosi di cocaina di abusano i potenti del rock) essa ha via libera,
e pare risultare assolutamente imbattibile.
Infine: quando ci accorgiamo di essere prossimi alla autodistruzione
e quindi al pericolo morte, cerchiamo disperatamente, affannosamente
di ritrovare la via del ritorno, ovvero la via della redenzione, e
la fuga da questo mondo di ovatta e di false illusioni.
Ma oramai e' troppo tardi: il "portiere notturno" simboleggia il
famigerato "punto di non-ritorno": in pratica alla rockstars sara'
concesso tutto quanto e' possibile essere concesso, loro potranno
rimanere rinchiusi nel loro mondo claustrofobico fatto di lusso,
sesso incondizionato, droga e riti satanici, ma per loro e' giunta
l'ora, ed una volta arrivati non si puo' piu' tornare indietro.
Una volta entrati nell'Hotel California, non sara' piu' possibile
uscirne.
MAI PIU'.

ALAN "J-K-68" TASSELLI

 

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"THE RISE AND FALL OF ZIGGY STARDUST AND THE SPIDERS FROM MARS"

- IL VERO, INDISCUSSO EPICENTRO DELL'EPOPEA-GLAM -

Il 1972 passerà forse alla storia come il punto forse più
alto raggiunto dal filone-glam, sia in termini commerciali che
artistici.
The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders
from Mars è essenzialmente specchio di questo coloratissimo,
androgino
movimento.
Qui, nelle vesti di "Ziggy", Bowie interpreta a
suo modo il tema dell'alieno, sotto forma di rock-star.
quasi una sorta di concepì-album sulla veloce ascesa ed
altrettanto rapida caduta di una giovane rock-star dalla
sessualità ambigua ed indefinita.
E' il trionfo del glam-rock, in tutte le sue sfaccettatu-
re: chitarre sature, testi decadenti, voci androgine ma anche
composizioni di elevata sensibilita' artistica, ora sfocianti
nell'ambiguita' piu' dichiarata, ora devianti verso un imponen-
te ma mai eccessivamente pomposo lirismo.
In pratica, le prime due canzoni, "Five years" e "Soul Love",
servono da introduzione al primo grande brano dell'album, la
bellissima e tagliente "Moonage Daydream", sottolineata dalla
voce sovracuta di Bowie e dallo sferzante chitarrismo del ma-
gnifico Mick Ronson. Segue la celeberrima "Starman", uscito
come singolo e poi divenuto cavallo di battaglia del futuro
Duca Bianco senz'ombra di dubbio uno dei brani più istan-
taneamente riconoscibili del disco.
Poi e' la volta di "It ain't easy", unica cover di "Ziggy", sorta di
country-spaziale con ritornello abbracciante influenze quasi-gospel.
Il brano successivo e' la stupenda "Lady Stardust", che rap-
presenta il vertice lirico di tutto l'LP. In questo frangente le
saturazioni chitarristiche e gli acuti di Bowie lasciano spazio
ad una sognante ballata dal testo svenevolmente decadente,
benissimo interpretata dal Duca Bianco e struggente nei toni
e nella melodia.
Riassumendo, "The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The
Spiders from Mars", e' uno di quei rari album nel quale la canzone
successiva sembra essere l'ideale seguito di quella precedente.
E' forse una delle prime sensazioni ed avvertimenti che l'ascol-
tatore di turno percepisce dal contesto di un capolavoro simile.
Gli altri highlights del disco sono naturalmente le ultra-famose
ed iper-celebrate "Ziggy Stardust" e la "sorella" (impossibile sepa-
rare l'una dall'altra, un po' come per "We will rock you/We are the
champions" dei Queen) "Suffragette City".
Hang onto yourself punk ante-litteram di gran classe mentre
"Rock'n'roll suicide", segna idealmente, musicalmente e liricamente
la morte di Ziggy (cosa poi che Bowie rendera' pubblica nel concerto
d'addio del suo alter ego, con come conseguenza, anche lo scioglimen-
to degli Spiders from Mars, chiudendo virtualmente un'epopea, l' epo-
pea del glam, di cui Ziggy Stardust è stato l'epicentro ed il
momento di maggior trionfo artistico).

ALAN "J-K-68" TASSELLI

 

 

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Un lungo, fastidioso, ficcante sibilo
alla fine. Il rantolio, quasi soffocato,
di un cantante "non-cantante".
Elettroencefalogramma piatto.
Il disco e' finito, ed il Profeta del
Nulla abbandona la sala di registra-
zione per dissociarsi, una volta di
piu', da un Mondo, da un contesto
che non lo puo' capire. Per ritornare,
il minuto successivo, dalla sua, cer-
tamente unica, sua amica: una malsana,
incontrollata e sfuggente pazzia, di
cui lui ne e' l'infallibile esecutore,
il "killer" sempre pronto, all'erta
in un angolo troppo buio e troppo de-
serto, troppo sinistro per essere bat-
tuto da normali terrestri.

Cosi' io ho interpretato il finale
di "FUN HOUSE", che il sottoscritto
non esita a definire una delle produ-
zioni piu' scioccanti avvenute nella
Storia del Rock.
Ed e' proprio lui, IL PROFETA DEL
NULLA, PROFETA DI UNA REALTA' DISTORTA
dall'uso massiccio di droghe, allucino-
geni (e chissa' quant'altro ancora) che faranno di IGGY "L'IGUANA" POP,
il primo vero legittimo precursore
di un rock nichilista ed inneggiante
all'autodistruzione, simbolo di un'anar-
chia musicale ed ideologica assurdamen-
te in anticipo sui tempi, e per questo
terribilmente anacronistica ed incom-
prensibile, all'epoca.
Siamo nel 1970, e gli STOOGES si sono
formati da poco piu' di un anno. Hanno
alle loro spalle il loro disco d'esor-
dio "THE STOOGES", che gia' focalizza
egregiamente il folle status di anar-
chia e di stralunata schizophrenia di
IGGY e Company. Brani "scomodi" come
NO FUN o I WANNA BE YOUR DOG rivelano
le inarrivabili doti di nichilista
auto-distruttivo dell'iguana POP, il
quale, per sua stessa ammissione, si
ispira molto eloquentemente ad un
altro grande "Principe della Trasgres-
sivita'" di quel periodo, il mito per
antonomasia del Rock Maledetto, JIM
MORRISON, il quale, durante un concerto
affascina talmente POP da farlo impazzi-
re di gioia, al punto da fargli prende-
re una decisione che gli cambiera' la
vita per sempre: IGGY vuole emulare il
suo eroe dionisiaco, ed anch'egli si
cimentera' nella figura di performer
oltraggioso.
Il disco pero' non ottiene alcun gradi-
mento da parte di un pubblico forse
troppo intento a combattere con slogan
pacifisti la guerra nel Vietnam, un pub-
blico ingenuamente ignaro di cio' che accade nei bassifondi cittadini, un
degrado urbano che
le canzoni dell'epoca certo non ritrag-
gono, a favore di temi piu' accomodanti
e meno azzardati.
In poche succinte parole gli STOOGES
ed in particolar POP diverranno le
icone post-summer-of-love di un movi-
mento celebrante il degrado morale
e psichico della razza umana, auto-eri-
gendosi come "borderliners" di una Societa' votata al consumismo ed all'e-
stremo culto del benessere.
Giunge il 1970 e tutti questi temi
sono egregiamente esposti in FUN HOUSE,
opera seconda del gruppo, il quale
osera' ancor di piu' nell'alzare il tiro
di una pazzia musicale che proprio nei
solchi del sopra-citato LP tocchera'
vertici impensabili per l'epoca.
Le prime tre tracce non sono altro che
un antipasto, un timido assaggio del
delitto "sonoro-psichico" che si mate-
rializzera' nella seconda parte dell'album.
"DIRT", in un certo senso, anticipa
le atmosfere ai confini della realta'
del LATO B ed a mio modesto parere
tale brano rappresenterebbe il vertice
artistico dell'LP, un blues distorto
ed assolutamente colmo di magnetismo,
con la voce di Iggy finalmente degna
protagonista, abilmente coadiuvata dal
disordinato ma efficacissimo chitarri-
smo di RON ASHETON, forse uno dei chi-
tarristi piu' sottovalutati della storia
del Rock (si tratta dopo tutto, del PRI-
MO VERO CHITARRISTA PRECURSORE DEL PUNK
MODERNO, mica poco, eh!).
"DIRT" termina con un senso di vuoto
e di attesa che sfociera' bestialmente
nella gia' citata seconda parte di
FUN HOUSE.
Un attacco sinistro e minaccioso di
chitarra scandisce l'inizio di 1970,
primo vero assalto alle coronarie di
un ascoltatore che fra pochi minuti
verra' indelebilmente "stuprato" dal-
incredibile, inaudita miscela di
rabbia, persecuzione, rantolii e istin-
to animale che pervade tutta l'opera
e che conferisce ad essa un senso di
smarrimento totale, sorta di stordi-
mento dei propri sensi, forse in spa-
smodica attesa di un "omicidio sonoro"
che restera' negli annali come una delle
piu' audaci proposte musicali mai udite.
Stiamo scorrendo, gia' ammaliati, in-
chiodati alla poltrona, il caotico,
peccaminosissimo finale stile-"primal
-scream" di 1970, nel quale IGGY,
finalmente, acquista in maniera defini-
tiva il titolo, ultra-legittimo, di
"performer ai confini della realta'".
Siamo in prossimita' di un'Apocalisse
musicale, e le grida scorticatissime
e abrasive di POP danno la sensazione
di trovarci all'interno di un incubo
dal quale sembra impossibile svegliarsi.
E' il trionfo della voce (quasi) hard-
core di IGGY, genialmente accompagnata
da un disconnesso, stralunatissimo
sax, in quest'occasione suonato da
un formidabile STEVEN McKAY, il quale
conferisce un senso di vuoto infinito
unita ad una disperazione senza fine.
"I FEEL ALRIGHT" ripete ostentando sem-
pre piu' le sue scartavetrate corde
vocali POP, quasi a segnare un destino
gia' segnato ed al quale non ci si puo'
sottrarre minimamente. A suo modo,
decadente.
Esaurito il "calderone-erotico-sado-
maso" di una tremenda 1970, segue
il brano successivo, la TITLE-TRACK,
l'ideale proseguimento di 1970, quasi come se si trattasse di un corpo, di un'entita' a se stante e persa nella
sua aurea di eterna infelicita' e
rabbia metropolitana.
In questo frangente il sax di McKAY
e' magistrale ed "ingrassa" egregia-
mente l'atmosfera ai confini della
realta', una realta' oramai non piu'
reale ma bensi' una "non-realta'".
E' un festival di macabre, ultra-
distorte e selvaggie sonorita', un
melting-pot "grandguignolesco" che
spazza via ogni luogo comune e pone
come baricentro il grido, malato
e drogato, solitario dell'Iguana.
Chitarra, sax, voce ed una secca,
secchissima batteria sembrano seguire
percorsi autonomi sebbene in realta'
tutto venga miracolosamente tenuto
in bilico da una strettissima fibra
che rimarra' intatta fino alla fine
del disco.
E' un party inneggiante al lato oscuro
di una Societa' di un paese eccessiva-
mente benpensante, del quale gli STOO-
GES sono gli infallibili, spietati
alfieri.
Poi viene il finale. Chiunque sia
affetto da problemi alle coronarie
o non riesca a concepire un marasma
di follia ed autodistruzione simile,
per favore, si faccia da parte e lasci
sgorgare l'infinita ed indescrivibile
rabbia di questi quattro giovanotti
di Detroit.
"L.A. BLUES" non e' affatto un blues
ma un inverosimile ed indigeribile accozzaglia di "primal-screams",
chitarre ultra-sature, anarchica bat-
teria e sax in bilico tra inconcepibili
strilli e stonature volute e momenti
di brevissima lucidita', "toppate"
da un IGGY POP elevato all'ennesima
potenza (immaginate voi cosa voglia
dire, dopo esservi assorbiti le ultime
due tracce...), incurante dell'assurda
anti-commercialita' di un solco simile:
una celebrazione al rumore piu' primi-
tivo iconoclasta, anarchico, spostato
e nichilista che si possa immaginare
(se sapete immaginare!...).
La fine, ora: quel sibilo, insolente
ed infausto, e la voce di IGGY POP
esausta e rantolante, ad annunciare
l'epilogo di una vicenda che non ha
eguali nella quarantennale storia del
Rock.
Molti "punk-heroes" o presunti tali
dovrebbero pensare una decina di volte
prima di affermare di aver inventato
qualcosa, e, casomai avreste dei forti
dubbi, andate a ritroso, MOLTO a ritroso, correte verso il 1970 e cerca-
te di rendervi conto che cosa quest'uo-
mo, Iggy l'Iguana, sia riuscito a co-
struire in un'era fin troppo proibita
e perbenista, assai pericolosa per chi
volesse spingersi oltre il consentito.
Quando si dice "un artista anticonfor-
mista".......
Non uscirete "vivi" da questo disco....

BYE

ALAN "J-K-68" TASSELLI

 

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"VERY 'EAVY... VERY 'UMBLE..."

(URIAH HEEP, JUNE 1970)


Dopo i MOBY GRAPE, m'imbatto volentieri in uno dei
gruppi piu' sottovalutati, snobbati e stroncati
dalla critica rock: mi riferisco agli inglesi
URIAH HEEP.
L'album di cui dibattero' con enorme piacere sara'
l'ormai leggendario "VERY 'EAVY...VERY 'UMBLE...",
loro prima opera, e dai veri esperti considerato
uno dei "dischi-manifesto" del primo hard-rock
inglese (dominato allora dalla invincibile triade
LED ZEPPELIN - DEEP PURPLE - BLACK SABBATH, tutt'ora
l'indiscussa ed inconvertibile spina dorsale dell'
hard inglese per antonomasia).
Uno dei motivi predominanti che caratterizzano
il disco d'esordio degli URIAH HEEP non verte prin-
cipalmente sulla qualita' musicale del disco, bensi'
sulla famosissima (quanto infame) affermazione
della carneade Melissa Mills, allora (era il 1970)
critica (?) musicale per il quotato ROLLING STONE:
"SE QUESTO GRUPPO SFONDERA', IO MI SUICIDERO'"
- una frase che desto' scalpore nell'ambiente mu-
sicale e che fece subito comprendere al gruppo
quanto dura e irta di traversie sarebbe stata
la scalata verso il successo. I critici si sono
sempre (sadicamente) "divertiti" nell'affondare
a piu' riprese (e spesso senza alcun motivo che
giustificasse tale acide critiche) i complessi
dei primi anni '70, complessi che proponevano
azzardate quanto bizzarre miscele di hard-rock
dalla venature blues, ma talmente esasperate
da far apparire la loro proposta musicale spesso
e volentieri "dissacratoria" ed ai limiti della
sopportazione "uditoria". Va anche doverosamente
sottolineato che questi gruppi erano sostenuti
da un potenziale compositivo e strumentali larga-
mente superiore alla media, sebbene il loro desti-
no si sarebbe equamente diviso tra grande successo
di pubblico e roventi, destabilizzanti e corrosive
critiche da parte di giornalisti musicali e critici
che forse (sostengo io) di competenza ne avevano
ben poca, per non dire quasi nulla.
Fra i gruppi piu' martoriati e vilipendiati vi
sono appunto gli URIAH HEEP, "accompagnati" da
BLACK SABBATH e GRAND FUNK RAILROAD, gli altri
"maestri ambasciatori" della prima ondata hard
mondiale. Costoro, nel proseguio degli anni forme-
ranno la "grande triade degli incompresi", finendo
regolarmente sui taccuini degli addetti ai lavori
piu' per denotarne le lacune e le carenze composi-
tive di un momento magari assai poco ispirato,
piuttosto che evidenziarne (come sarebbe stato
piu' onesto fare) i meriti e le competenze artisti-
che od ammettere il successo commerciale fino a
quel momento ottenuto.
Nulla di tutto cio': i critici o presunti tali
si sarebbero presi gioco pedissequamente di questo
trio dalla grandi possibilita' mai del tutto
riconsciute, e sia gli HEEP e SABBATH che i GRAND
FUNK sarebbero stati "risarciti" dei soprusi subiti
solamente un ventennio dopo, un lasso di tempo
che avrebbe loro permesso di essere piu' compiuta-
mente e seriamente valutati per cio' che avevano,
sul campo, espresso molti anni addietro.
Ed ho scelto proprio il primo disco degli URIAH
HEEP in quanto sostengo si tratti di un'opera
di indiscusso valore e di innegabile fascino, una,
seppur a tratti un po' dispersiva, sapiente miscela
di hard "marcato" di venature gotiche ed elaborate
tessiture ed incroci vocali che avrebbero decretato
il loro personalissimo "trade mark".
Hard-rock, questo si', ma contraddistinto da un
gusto per la melodia nettamente fuori del comune,
erigendosi a portavoce di una forma inedita di
rock duro inglese solitamente "sepolto" da tonnel-
late di watt o poco piu'. In aggiunta a tutto que-
sto VERY 'EAVY VERY 'UMBLE possedeva un magnetismo
ed un fascino che successivamente ho raramente
riscontrato nelle opere successive del complesso
proveniente da Birmingham. L'esordio degli HEEP
e' una stramba amalgama di spigoloso rock inframez-
zato da affascinanti impartiture vocali, sulle
quali svetta l'appassionante, trascinante ugola
di DAVID BYRON, a mio modesto parere uno dei vocalist
piu' sottovalutati di tutto il panorama rock: costui
possedeva una voce assai duttile ed espressiva, in
grado di passare da tonalita' sofferte e drammatiche
ad altre di piu' ampio respiro, adattandosi egregia-
mente alla versatilita' che impera in questo disco.
Gia' dal primo solco, il classico Heep per eccellenza
GYPSY, vengono tracciate, imperiosamente e chiarifi-
catoriamente, le coordinate del gruppo: sound monumentale, introdotto e diretto dal riff incalzante e monolitico di MICK BOX, chitarrista non dotatissimo
tecnicamente ma capace di conferire pathos e colore
alle composizioni del gruppo, nonche' strumentista istintivo e viscerale nel suo approccio alla sei corde ed elemento indispensabile quanto BYRON, all'interno della band. Completa il "trio-madre" il tastierista
KEN HENSLEY, uno dei maggiori "keyboard-players"
del panorama "hard/progressive", purtroppo anche lui
vittima dell'ottusa ignoranza che regnava allora
fra gli addetti alla stampa musicale.
"GYPSY" apre superbamente VERY 'EAVY VERY 'UMBLE
ed in pratica sintetizza in soli sei minuti la straor-
dinaria gamma strumentale del complesso; riff, basso
e tastiere procedono all'unisono, creando un martellante muro di suono che ha il pregio di creare
una magnetica attesa, interrotta egregiamente dalla
voce di DAVID BYRON, che in questo frangente rivela
il suo carisma di vocalist aggressivo e dalla vocalita'
"alto-vibrato" possente ed estremamente acuta.
"GYPSY" prevede anche un arresto, e trattasi di un
intermezzo di stampo "dark-gotico" con vaghe allusioni
alla psichedelia, dominato dalle tastiere di HENSLEY
e confinanti con i sinistri fraseggi di BOX che pone
fine alla parte centrale del brano onde reintrodurre
la possente vocalita' di BYRON.
La traccia si conclude in pieno stile KING CRIMSON-
prima maniera, con tutti gli strumenti strizzati
al massimo quasi in un concitatissimo, coinvolgente
finale; a dire l'ultima parola...anzi! l'ultimo
acuto sara' BYRON che completa cosi' un vero e proprio
"orgasmo in musica".
Segue "WALKING IN YOUR SHADOW", introdotta da una
batteria sincopata che prelude al riff granitico
e tellurico di un ispirato MICK BOX; in questo fran-
gente e' BYRON a fare la parte del leone, calibrando
la sua interpretazione alla perfezione e fungendo da
ottimo elemento compensatore ai cambi di direzione
all'interno della traccia; sara' infatti il suo
muscolare vibrato ad offuscare gli altri strumenti,
facendo comprendere subito chi sara' il dominatore
del disco.
Dopo "WALKING IN YOUR SHADOW" assisteremo al primo
autentico "break" del disco, la bellissima, sfuggente
e decadente "COME AWAY MELINDA", che rivela,una volta
di piu', quanto versatile sia la gamma vocale di
DAVID BYRON. Tale e' la levigatezza, la dolcezza
ed il pathos con cui il lead-singer interpreta questo
drammatico spaccato di Seconda Guerra Mondiale, che
rievoca il ricordo che una bambina ha di sua madre,
deceduta proprio durante quella Guerra.
BYRON tocchera' vertici espressivi raramente raggiunti
da altri vocalists del suo periodo, e s'imporra' come
talento dalla vocalita' originale e subito riconosci-
bile.
"LUCY BLUES", la quarta traccia, chiude la prima
facciata senza infamia e senza lode, rappresentando
l'unico vero punto debole di questo folgorante esordio.
Il brano in questione forse risente di certo accade-
mismo, trascinato lungo tutto il suo percorso, privan-
dolo cosi' di mordente ed efficacia; "LUCY BLUES"
e' un lento molle, quasi cantato con poca convinzione
e necessario, con ogni probabilita', di maggiore spi-
golosita' e accortezza, in particolare per quel che
concerne l'arrangiamento, francamente scollacciato
e senza una precisa identita'.
Poco male, ora arriva il LATO B, e, gia' a partire
dalla travolgente, eccitante "DREAMMARE" ci viene
fatto notare di come il gruppo sia ritornato, e
nella maniera piu' convincente possibile, sul traccia-
to giusto: riff-"killer", spietato quanto basta per
lasciare campo libero ad un ispiratissimo BYRON,
in vesti assolutamente imperiose, a riconferma
di tutta la possenza e versatilita' di cui il cantante
inglese e' capace; dopo le prime due strofe, si assi-
ste ad un elettrico, spasmodico "break", ad opera
della chitarra, sapientemente satura, di MICK BOX,
che, pur producendo solo un paio di note o poco piu',
stabilisce la sua fama di chitarrista poco tecnico
ma efficacissimo ed assai essenziale.
Ad "avvolgere" questo continuo crescendo magmatico
di energia, muscolarita' e pathos musicale, sono
le straordinarie e complesse partiture vocali,
a cui praticamente partecipano tutti i membri del
complesso, in modo da solidificare la gia' di per
se' incredibile potenza vocale di BYRON, mai cosi'
a suo agio con gli URIAH HEEP.
"REAL TURNED ON", la seconda traccia del LATO B,
e' un "hard" sanguigno e piuttosto potente, sul
quale svetta, una volta di piu', un BYRON, in questa
occasione mostrante una voce piu' acida ed aggressi-
va del solito. Discreto riff di MICK BOX, e buon
assolo nella parte centrale del brano, ma nulla piu'.
Segue "I'LL KEEP ON TRYING", oserei dire piuttosto
tipico da parte dei primi URIAH HEEP, con un inter-
cedere gotico, contraddistinto, coadiuvato dal
loro classico gusto per l'epico, qui ai suoi massimi
splendori. Ma la parte migliore, ed autentico "high-
light" del disco, avviene nella sezione centrale,
dove la band, sorprendentemente, si profonde in
un "break-alla-BEACH-BOYS", regalando all'ascoltatore
di turno un momento di dolcissima ebbrezza, quasi
come fossimo "trasportati" verso un limpidissimo
cielo e rimanessimo, in un'atmosfera tra surreale
e fantasy, in dolcissima, onirica sospensione....
davvero un intermezzo di grande effetto, che pone
in evidenza le straordinarie capacita' vocali in
senno alla band di Birmingham. Sul finire di questo
stupefacente break, irrompe, si sovrappone la chitarra
iper-satura e tagliente di BOX, impregnata di WAH-WAH
fino al collasso nervoso..... Al termine di questo
concitato marasma musical-schizophrenico s'insinua,
nuovamente, la voce arrogante di BYRON, contrappunta-
ta dagli usuali "epic-choirs" del gruppo e da un
basso e tastiera martellanti ed all'unisono,che
chiudono con vigore e spietatezza I'LL KEEP ON
TRYING.
E, dulcis-in-fundo, avremo il VERO capolavoro di
"VERY 'EAVY... VERY 'UMBLE..." - "WAKE UP, SET YOUR
SIGHTS", una composizione di chiara estrazione jazz,
nonche' ennesimo pretesto delle velleita' artistiche
da parte degli HEEP; un sommo esempio di versatilita'
e, aggiungerei, anche di "inusualita'", considerando
il rilevante (e per nulla da sottovalutare) fatto
che, per essere un 1970, scegliere una soluzione
simile, pareva essere piuttosto audace per i tempi.
E lo fu, senza ombra di dubbio, sebbene la critica
perseverava nelle loro noiose, patetiche torture
ai danni del gruppo(e non solo, purtroppo).
La voce di BYRON, inutile dirlo, e' straordinaria
e conferisce al brano una duttilita' ed una comples-
sita' vocale degna di nota, con il vocalist stesso
che tende a doppiare la propria voce creando effetti
molto affascinanti e di notevole "appeal".
In "WAKE UP" c'e' tutta la classe degli URIAH HEEP.
Hard-rock ma non troppo, talvolta "smussato" da
atmosfere che vagano tra il surreale e l'onirico,
tra il gotico e l'epico-massiccio, un'esplosiva
miscela di generi "toppata" dalle prodezze vocali
del cantante e sorretta da armonie elaboratissime
e conferenti quel tocco di unicita' agli URIAH HEEP.
"WAKE UP" segue diversi tracciati, le accentazioni
ritmiche sono multiformi, si tratta di un brano
"instabile" che sembra seguire di pari passo il testo,
evocativo ma al tempo stesso ammonitorio, un testo
basato sui rischi che ci possono essere "rovesciati"
in vita e dai quali ci dobbiamo continuamente guardare,
onde non venire annientati e poi "seppelliti" da
peccati che potremmo commettere.
Alla fine di tanta concitata frenesia musicale,
giunge, in tutta la sua epica possenza, la voce-
vibrato di DAVID BYRON, che ci lascia il suo testa-
mento di uomo in preda alla disperazione ed invocante
Dio, affinche' il Creatore blocchi questo eccidio,
prima che egli lasci questo mondo e muoia estremamente
addolorato.
I secondi finali sono quanto di piu' bello ed imma-
ginifico un disco di rock possa donare, una chitarra
pizzicata soffusamente, di stampo prettamente onirico,
talmente suggestiva da farci cadere in un sonno pro-
fondo, MOLTO profondo, ma talmente estatico e flut-
tuante da non doverci porre alcun problema; i sospiri
e il "feel" vocale di BYRON faranno il resto, accom-
pagnando, con immensa soavita' e leggerezza, le note
oniriche profuse dalla chitarra di un MICK BOX assolu-
tamente inarrivabile.
Ed il sogno si concluse.

Alla fine di questo solco, una cosa mi e' molto chiara:
gli URIAH HEEP avranno prodotto dischi persino migliori
di questo, ma per certo nessuna delle successive pro-
duzioni vantera' il pathos, il feel, l'appeal ed
il magnetismo musicale di quest'opera fin troppo
discussa ma dall'immenso valore storico.
Questa e' la mia vivace, come sempre, opinione,
ed essa appare essere inconvertibile.
Come inconvertibile fu l'epico magnetismo ed il gotico
fascino di questo caposaldo del primo hard-rock britan-
nico.
DA NON PERDERE!!!

ALAN "J-K-68" TASSELLI

www.furfaro.it