Società:

Il bene comune e il gioco al massacro

Inerzia e coraggio


«La fortuna di un popolo non sta principalmente nei beni di cui dispone, ma nella coesione delle sue parti, nella loro capacità di dividersi il lavoro e condividerne equamente i frutti; litigando, magari, ma nella consapevolezza che non c’è un futuro per nessuno se non insieme agli altri».


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Ichino Pietro


La fortuna di un popolo non sta principalmente nei beni di cui dispone, ma nella coesione tra le sue parti, nella loro capacità di dividersi il lavoro e condividerne equamente i frutti; litigando, magari, ma sempre nella consapevolezza che non c' è un futuro per nessuno se non insieme agli altri. Allo stesso modo, la ricchezza di una grande metropoli sta tutta nella capacità di ogni sua parte di coordinarsi con le altre, nella percezione diffusa della prontezza reciproca come fonte di sicurezza e benessere per tutti: un grande gioco in cui tutti hanno da guadagnare. Fa parte di quella ricchezza anche un sistema di relazioni sindacali capace di realizzare il buon contemperamento degli interessi collettivi in gioco, sulla base di una visione condivisa dei vincoli generali, ma anche di un disegno di giustizia sociale da costruire progressivamente, perché tutti davvero partecipino dei guadagni. Oggi questo meccanismo si è inceppato nel settore cruciale dei trasporti municipali: nel volgere di pochi giorni una vertenza sindacale si è trasformata in guerra totale, col rischio del contagio in altri settori. E sono bastati questi pochi giorni per farci percepire il costo e il rischio altissimi di un azzeramento del sistema delle relazioni sindacali: un gioco al massacro, tanto più folle quanto maggiori sono le altre difficoltà che il nostro sistema economico, sociale e politico sta attraversando. Individuare e distribuire le colpe è fin troppo facile: ne hanno le imprese e chi le finanzia, che hanno fatto lo scaricabarile fra di loro durante due anni di trattative; il governo, che predica velleitariamente il federalismo da un lato, la fine della politica dei redditi dall' altro, ma non ha alcuna idea su che cosa ne consegua nel sistema delle relazioni sindacali; i sindacati autonomi e i comitati di base, che non hanno esitato a usare lo sciopero nelle forme più disastrose per le città, addirittura teorizzando che questo fosse l' unico modo efficace per far valere gli interessi dei lavoratori. Ma una responsabilità tutta particolare è quella che portano le confederazioni sindacali maggiori, capaci di praticare la moderazione nel ricorso allo sciopero, ma non di sostituirlo con altre forme di lotta altrettanto efficaci (che pure non mancano); capaci di accodarsi alle rivendicazioni di chi strilla di più, ma non di proporre un disegno complessivo di allineamento degli standard del trasporto pubblico italiano a quelli dei Paesi più civili. Cgil, Cisl e Uil hanno pagato carissimo questo errore, finendo col perdere il ruolo di rappresentanti dei lavoratori per assumere quello di incerti mediatori in un dialogo tra sordi. Ora è il momento di uscire dall' inerzia. Di fronte ai rischi gravissimi della situazione, Epifani, Pezzotta e Angeletti non possono restare defilati. Vengano a Milano, e spendano tutto quel che resta (per fortuna non è poco) del prestigio e della credibilità delle loro confederazioni per rifondare il sistema delle relazioni sindacali nel settore dei trasporti, sulla base di un progetto coraggioso e di respiro europeo. Se c' è un solo vantaggio nell' essere un Paese arretrato, esso consiste nella possibilità di copiare il meglio delle esperienze dei Paesi più avanzati. Questo potrebbe essere il nuovo patto dal quale ripartire: accordiamoci sul modello migliore, tra i molti ottimi che l' Europa ci offre, sia per lo standard di servizio agli utenti, sia per lo standard di trattamento dei lavoratori; e impegniamoci tutti a lavorare per realizzarlo, stabilendo le tappe di incremento progressivo di entrambi gli standard. Se si può fare ad Amburgo o a Vienna, si può fare anche da noi.
 
 

Socie: «Inerzia e coraggio», di Pietro Ichino, Corriere della Sera, mercoledì 14 gennaio 2004


 
Rassegnina   Il bene comune e il gioco al massacro
  • Pietro Ichino
    Inerzia e coraggio
    Corriere della Sera, 14 gennaio 2004
    «La fortuna di un popolo non sta principalmente nei beni di cui dispone, ma nella coesione delle sue parti, nella loro capacità di dividersi il lavoro e condividerne equamente i frutti; litigando, magari, ma nella consapevolezza che non c’è un futuro per nessuno se non insieme agli altri».

 

Commento:

 

I tranvieri scioperano per ottenere l’aumento dell’aumento; i cobas del latte bloccano le strade; le mamme occupano le scuole portandosi dietro i figli, i giudici della Consulta bocciano il lodo Maccanico e Schifani coltivando nel paese l’inevitabile cronica incertezza prodotta da un premier sotto inchiesta perpetua. Con sempre maggiore facilità si scende in piazza e si bloccano i servizi essenziali per ottenere il riconoscimento di diritti acquisiti che non bastano mai.


Tutti si aggrappano come cozze al primo scoglio lasciando gli altri alla deriva. Poi ci sono alcuni che stanno a casa puntando il dito sul disordine altrui pronti a trasformarsi in Cobas domani per i propri interessi. La vera questione è che, volenti o nolenti, tutti siamo legati, tutti siamo dipendenti gli uni dagli altri, tutti abbiamo esigenze, tutti abbiamo bisogni. Tutti possiamo sbagliare nel perseguirli, vale la pena allora di ripetere con Ichino: «La fortuna di un popolo non sta principalmente nei beni di cui dispone, ma nella coesione delle sue parti, nella loro capacità di dividersi il lavoro e condividerne equamente i frutti; litigando, magari, ma nella consapevolezza che non c’è un futuro per nessuno se non insieme agli altri».


Aggiungiamo noi che la fortuna di un popolo è la coscienza chiara non dei propri beni, ma di quello che è il bene per sé e per tutti, perché non ci può essere un bene vero per sé che non sia per tutti e un bene vero per tutti che non sia anche per ciascuno. In parole povere, ciò significa che per realizzare ciò che è bene per sé, bisogna in qualche modo realizzare e rispettare anche il bene dell’altro, magari attraverso sacrificio e gratuità: come una madre che, dopo una dura giornata di lavoro, rinuncia al proprio sacrosanto diritto al riposo per cullare il bambino che piange. L’attaccamento e l’affetto che caratterizzano la vita familiare debbono costituire esempio anche per la società civile. L’alternativa a questo è il gioco al massacro che sta sotto gli occhi di tutti e che sembra destinato a continuare.
 

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