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Gagliato in the World |
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Gagliato nella poesia di Vitale di Francesco Pitaro Nella copiosa produzione in versi di Domenico Vitale, Gagliato
occupa un posto di primaria importanza. Si può sicuramente affermare che questo paese costituisce il
motivo ispiratore principale della sua poesia; sia che essa venga espressa in
lingua, sia in vernacolo. Un attaccamento affettivo, quasi morboso, quello del Vitale per
Gagliato; questa «...terra aprica / ove ondeggian gli ulivi, e il dolce
accento / diffonde ai campi la zampogna: amica / dei silvestri silenzi e
godimento». In essa il poeta ripercorre a ritroso la sua vita, ritrova la
fanciullezza, si rivede giovane garzone che accudiva il padre muratore: «È
terra dove (oh come lo rammento!) / egro ebbi il passo e l'umile fatica ». O
che seguiva la madre a «Savino» nei lavori dei campi, allorquando sotto un
albero di fico, lui ragazzo, amava cullarsi in semplici fantasticherie: «
Colmo il paniere, un dì, sotto la tenda / di quel fogliame, i sogni erano
cuscino». Alti accenti lirici il poeta riserva all'Ancinale («Oh, se
potessi ritornar bambino, / e dal balcone l'anima cullare / sull'ali del tuo
murmure ed organi; / mentre, agli arcani silenzi, eterni / suonano i venti»),
ed alla chiesa parrocchiale («Dardeggiando irrompean da le finestre / i raggi
d'oro sui fedeli, e rose, / rose piovean che il Fiore a la cilestre / volta
un dì divinamente pose»). A Gagliato erano avvinti i suoi ricordi; qui erano sepolti i
suoi Lari, i suoi Penati. Qui volle morire, dove, diceva, aveva lasciato il
suo cuore. Ed è nel sonetto «II sole di Gagliato », in cui il poeta,
rivolgendosi al figlio morto prematuramente, indulge a toni elegiaci là dove
scrive «ma se in questa incantevole riviera / comune avello avremo in comune
sorte, / eterno avremo un sole senza sera». Ma è nel componimento in vernacolo gagliatese «I zzìppuli»,
unanimamente riconosciuto come la sua più alta
espressione lirica, che Gagliato diventa nientemeno che la Musa ispiratrice.
In questo poemetto, composto da quarantaquattro quartine di settenari, per lo
più piani, a rima alternata, il paese, che Questo vincolo si tramandava di padre in figlio, fintante che se
ne fosse serbata memoria. Difatti comare Liberata de «I zzippuli»
non è lei che ha instaurato il Sangianni, bensì sua madre con quella
del poeta. Nonostante ciò, essa si sente attratta da quel vincolo religioso
di rispetto. Religioso, abbiamo detto, perché improntato da quella
religiosità popolare - mista, se proprio si vuole, a superstizione -, secondo
la quale era proprio San Giovanni Battista che benediceva il rapporto di
comparaggio; ed era considerato peccato (oltre che una grave offesa
personale) rifiutare una offerta di comparaggio. Né tantomeno, si
diceva un tempo, era lecito che tra un compare ed una comare ci
si scambiassero baci, ancorché questi fossero smaliziati Riprendendo il nostro discorso iniziale, il poeta, seduto al
focolare domestico, sembra assopirsi nell'ebbrezza e nella gioia di un tempo
passati («beddizzi 'e hocularu; / majìa de 'stu mumientu »), ma
il rintocco dell'Ave Maria gli fa sovvenire che quel giorno è il primo lunedì
del mese. In questo giorno, Ed ecco che a uno a uno tutti i suoi cari e conoscenti si
stagliano nella sua mente, quasi stesse avvertendo una magica e dolce
visione. Il padre muratore, « c'u squatru e c'u martieddu », che lo
sollecita ad alzarsi, perché ormai è albeggiato, ed è ora che si vada al
lavoro. La madre, invece, già di buonora è sulla via del ritorno dal Laccu,
ove s'era recata a raccogliere frunda, le foglie del gelso, con cui
poter governare i suoi bachi da seta. La nonna, pure lei, è di ritorno con
legna e farina perché possa approntare il pane che va a vendere nella Marina
di Soverato. Dopodiché è tutta Cagliato, con i suoi personaggi più popolari,
che sfila sulla passerella rievocativa del poeta. Con dei tocchi magistrali
ed incisivi, il Vitale offre icasticamente al lettore una visione a tutto
tondo dei gagliatesi di un tempo, sicché anche a noi par di vedere passare
davanti ai nostri occhi, U pipitaru, «... don Jennaru / chi prega a
li conieddi! ». Ppietru 'u lientu, gracile e segaligno, ci viene
adombrato, con una similitudine che richiama Pascal, come « nu spacu chi
camina / hjuhjjatn da lu vientu ». Poi tutti gli altri: Turi
Amatu, 'a Patocchia, Guori 'u randa, 'u Cardiddu, 'u Nicchiu, 'u Vetari,
'u Lampieri. Del Brigadieri, infine, sembra quasi ascoltare le
note melodiose del suo organo, provenienti dall'alto del coro della chiesa. « Tornarmi a chidda usanza / de trivuli e da'amuri
», ha la forza di gridare ancora, riscuotendosi d'un tratto, il poeta; si è
avveduto infatti, che il suo è solo un nostalgico vagheggiamento di qualcosa
che ormai non c'è più: « Mo' tuttu ccà cangiau, I e 'u suonnu 'o nn'u
spartimu: / 'u tiempu ni scioddau, / e pposa 'o nda cocimu ».
Eppure per lui sembra non sia cambiato nulla, o perlomeno si illude
volutamente che sia così: i muri del convento, la natura, la «naca de'
Pirrieddu», persino gli odorosi aliti di vento. È giunto il momento della partenza. Il poeta avverte un
sentimento struggente di commiato, nonché il rimpianto per il pane fragrante
e caldo di quando era fanciullo. Al cospetto del panorama del suo paese, il
poeta ristà, perché vuole saziarsene ancora una volta: « All'ultima votata
I 'e tia mi gurdu ancora; I ma sientu 'a mienzu 'a strata, / cà
mi si mbunna 'u cora ». E partendo, egli porta con sé la nostalgia della
sua terra. © Francesco Pitaro in «Gagliato, radiografia di un paese di
Calabria», Editrice L’altra Calabria, 1989 |
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