Ripescando alcune vecchie riflessioni di un "cronista di guerra"

I BAMBINI SONO STANCHI DI PIANGERE

 

PER RICORDARE: Correva l'anno 1991 ...

 

"HO DIPINTO LA PACE"

di Igor Man

 

L’America ha vinto la guerra (quella del Golfo Persico scoppiata nel gennaio 1991 contro l’Iraq invasore del Quwait; NDR). Rimane, adesso, da vincere la pace. Non sarà facile. “La pace è dietro l’angolo, non possiamo scacciarla via con la violenza”, mi ha scritto un lettore. In teoria, visto che Saddam ha alzato le mani, dalla tregua dovrebbe venire la pace. In teoria: poiché la logica della guerra è una logica di violenza che procede come un torrente in piena, implacabile, per una tremenda forza d’inerzia non facile da fermare. (…)  Ma oggi è diverso, dicono. Non so se oggi sia diverso, non so se gli Americani vorranno rinunciare allo scalpo di Saddam Hussein. So però che dal grembo insanguinato della guerra è sempre nata la pace. Ho fatto tutte le guerre mediorientali; ho vissuto la lunga guerra civile che ha trasformato il Libano, paese bello e gentile più di ogni altro di quell’area, da produttore di benessere a produttore di cadaveri; ho testimoniato dell’orrore del Vietnam e delle infinite guerre di guerriglia che hanno sferruzzato il mondo negli ultimi trent’anni e posso dire che ovunque e comunque ho visto invocare la pace. Soprattutto da chi combatteva.

Convinto che nessuna guerra sia “giusta” anche se qualcuna è inevitabile, anch’io più volte mi sono posto l’interrogativo che con tanta civile lucidità ha formulato il giurista e filosofo Norberto Bobbio: - Ma avranno le previsioni sulla pace la stessa credibilità delle previsioni sulla guerra? Dobbiamo fidarci?  Porsi un simile interrogativo significa assicurarsi molti tormenti ancora, ma forse chi genuinamente pretende la pace e subito, non vuole (o non sa?) soffrire. Vuole la pace e basta. Verosimilmente perché la cultura della guerra è morta con il Vietnam. Una volta la società accettava la guerra “perché la guerra risolve”. Ci insegnavano che la guerra era un male ma un “male necessario”. Oggi è diverso, mi dice un alto prelato romano, oggi tutti hanno capito che la guerra non risolve nulla, dà solamente l’illusione medesima dell’intervento chirurgico su di un organismo mitragliato dalle metastasi di un tumore maligno. “La pace, invece, fermando la corsa della morte salva la vita, dona la speranza della giustizia”. 

Forse è veramente così. Non lo so, sono soltanto un cronista che ha scarpinato per il mondo inciampando di continuo nella guerra, anche se tutte le volte che ho attraversato una guerra ho incontrato una immensa domanda di pace. E mi ha colpito il fatto che siano stati soprattutto i bambini, gli adolescenti a sognarla, a cantarla, a pretenderla.  Qualche hanno fa, a Nablus, visitai la famiglia di un ragazzo palestinese ucciso da un proiettile di plastica israeliano. L’Intifada non c’era ancora ma si moriva lo stesso. La madre di quel povero morticino mi lesse alcune pagine del diario di suo figlio. Un ragazzo di dodici anni.

Trascrissi alcuni pensieri che erano, in verità, una poesia.

 

Sorridi padre, 

dammi la mano, 

laviamo il sangue

scorso invano

nelle acque chiare del Giordano.

Sono stanco di piangere, padre, 

voglio giocare, 

voglio ridere nel gaio mattino, 

così come sono:

un semplice bambino.

 

Pubblicai la poesia e fra le tante lettere che provocò mi giunse anche quella dell’amico Nathan Ben Horin, in quel tempo consigliere stampa dell’ambasciata di Israele a Roma.  Poche righe affettuose e la fotocopia di una poesia scritta da una bambina israeliana di tredici anni.   E’ la stessa poesia che ho letto il 19 gennaio alla  tv.   E’ la stessa poesia che centinaia di persone,  per lettera e per  telefono, mi hanno chiesto di vedere stampata. Eccola.

 

Avevo una scatola di colori brillanti, decisi e vivi; 

avevo una scatola di colori, alcuni caldi, altri molto freddi.

Non avevo il rosso per il sangue dei feriti,

non avevo il nero per il pianto degli orfani,

non avevo il bianco per le mani e il volto dei morti,

non avevo il giallo per le sabbie ardenti,

ma avevo l’arancio per la gioia della vita,

ed il verde per i germogli e i nidi,

ed il celeste dei chiari cieli splendenti,

e il rosa per i sogni e il riposo.

Mi sono seduta e ho dipinto la pace

 

Da “DIARIO ARABO”, Bompiani

 

 

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