Una breve introduzione alla lettura

della complessa produzione poetica di Turoldo

L'URGENZA DELLA PAROLA:

LA POESIA DI PADRE DAVID

Pagina a cura di Davide Toffoli

 

LA PAROLA POETICA: diario di un CERCATORE

 

Anche se prosatore robusto, drammaturgo di talento e traduttore geniale, padre Turoldo è soprattutto poeta. In fondo, a ben vedere, tutte le sue prose sono profondamente impregnate di poesia.

Si tratta di una operazione a tutto campo: la sua stessa vita è illuminata dalla poesia, cioè da una visione superiore che riesce a trascendere e a trasfigurare la realtà, conferendole significato e dimensione del tutto particolari. Come raramente accade, in Turoldo vita e poesia si fondono, si alimentano l’una dell’altra in un dialogo che è, nello stesso tempo, preghiera, meditazione e interrogazione. Parlare della poesia di padre David con i semplici strumenti della critica letteraria, analizzarne i testi come un mero discorso poetico scindendoli dalla testimonianza della sua vita, non potrebbe essere un’operazione consona; la sua legittimazione alla parola è indissolubilmente legata al suo ruolo sacerdotale, al soffio profetico che anima in lungo e in largo l’esercizio del suo scrivere: ha tutto il sapore dell’eloquenza predicatoria, della parola recitata nell’assemblea.

Nasce dal lamento e dal grido la poesia turoldiana, attingendo a piene mani dalla Bibbia, dal linguaggio dei Salmi, dalle pagine di Giobbe, di Isaia; è parola di un profeta che tenta di dar voce alla Parola, al “Verbo celato / nella carne oscura”, alla “troppa luce” di Dio e alla sua “musica di indicibile / silenzio”. Il suo misticismo non è fredda verticalità, ma “centuplicato senso del creato”, non è saggezza e sdegnosa rinuncia, bensì follia e passione umanissima: nostalgia di creature vietate, passioni negate in nome di una passione più ampia, un orgasmo del divino capace di fiorire in estasi proprio quando sembra ormai vicino alla ribellione e alla bestemmia. Nella poesia ed in tutte le altre opere di padre David, Dio è sempre posto ed affrontato come continua domanda, come quotidiana ricerca interminabile e necessaria di cui mai si potrà venire a capo: “E noi lo cerchiamo / e vorremmo che passasse / sulle strade / come uno di noi, e dietro / gli andrebbe perfino / la pietra in questo / bisogno d’amore / sensibile, in questa / tangibile fame…”. E ci sono momenti in cui questa ricerca costante sembra subire frenetiche accelerazioni e trasformarsi in una scomposta caccia impaziente, nella quale l’uomo in ricerca finisce con lo scoprirsi “cacciato” a sua volta, preda di un Dio che lo costringe ad un perpetuo interrogarsi su un senso che sembra davvero non esserci. Si tratta di una Teomachia aperta, destinata a rimanere per sempre tale, ben lungi da ogni definitiva geometria di certezze. La poesia di Turoldo nasce appunto dall’accettazione della sfida o, meglio, dalla scelta di lasciarsi trascinare dall’impetuosa corrente che, durante l’infaticabile ricerca, lo ha travolto; la sua parola scaturisce dal suo naufragio nel mare di Dio, ed è il dramma del finito che, spaesato e stordito, si ritrova al cospetto dell’infinito. E’ vicina alla parola sacra e prima, di per sé, dell’ermetismo (notevoli sono gli influssi ungarettiani) e si coniuga con la sacertà dell’espressione religiosa e, proprio per questo, diventa più impegnata su una linea psicologico esistenziale e nell’impatto con la realtà.

Proprio Ungaretti, nel 1952, ebbe a scrivere: “La poesia di Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza. (…) E’ poesia che scaturisce da amore per il prossimo”. E’ ricerca costante di una non facile fusione tra ispirazione religiosa e ispirazione estetica che, dove riesce, consegna delle pagine memorabili in cui la parola riesce a farsi “veramente Verbo e il verbo si fa carne e sangue dello stesso sentire divino”, nel lungimirante tentativo di far coincidere Bellezza e Verità. Una toccante testimonianza di una vocazione speciale, insomma, un religiosissimo e umanissimo diario di un infaticabile cercatore sulle tracce di Dio.

 

MIA NATURA

(da: Io non ho mani, 1948)

 

Mia natura è di essere

presente: amare

la realtà che sento: toccare,

divenire queste morenti cose

salvarle nel mio gesto

di pietà. Mia tristissima

gioia di questi possedimenti

sempre dispersi: di queste

inesistenze: amore di case

che debbo lasciare; di questa

mia perita città.

OLTRE LA FORESTA

(da: Canti Ultimi, 1995)

 

Fratello ateo, nobilmente pensoso

alla ricerca di un Dio che io non so darti,

attraversiamo insieme il deserto.

 

Di deserto in deserto andiamo

oltre la foresta delle fedi

liberi e nudi verso

                                              il nudo Essere

                                                               e là

dove la Parola muore

abbia fine il nostro cammino.

 

 

 

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