di Dionigio Annovi

 (Stralci dal diario di un Bersagliere del 9°. Il diario, raccolto da  Walter Amici, si compone di 42 pagine, quelle pubblicate sono 15) 

Le foto, le medaglie sono state concesse dai nipoti Claudio e Sergio Annovi, che ne hanno curato anche la nuova edizione

Sono un Bersagliere e vorrei fare un diario sulla mia vita in guerra: 1915-1918. Mi chiamo ANNOVI DI0NIGIO, nato a Formigine il 23 luglio 1894. Fui chiamato alla visita di leva il 14 aprile 1914 e estratto col n. 59, mi fecero idoneo e fui destinato o per meglio dire assegnato al 9° Reggimento Bersaglieri, XXX Battaglione, 1a Compagnia ciclisti.  Era il 3 maggio 1914. Vi era una circolare in cui si diceva che chi apparteneva alla 3a categoria stava sotto le armi solo 3 mesi ed io, essendo orfano di padre, appartenevo a questa categoria, così feci domanda al Ministero e, dopo circa 5 mesi, fu accolta; di conseguenza alla fine di agosto mi mandarono a casa.
1914,  precisamente il 15 dicembre mi richiamarono e fui assegnato al 3° Reggimento Bersaglieri a Livorno. Dopo un periodo di 3 mesi di istruzioni, alla fine di marzo del 1915 si incominciavano a sentire delle voci di guerra. Una mattina, ricordo benissimo, era di domenica, alla fine di marzo sentimmo suonare l’adunata e ci riunimmo in cortile. Dopo l’adunata ci divisero per compagnia in riga; poi chiamarono fuori tutti quelli della lettera A e B. Fra i sorteggiati vi ero anch’io che, assieme agli altri,fra cui Barozzi Giovanni e Bigliardi (ndr: gente delle sue parti), fui mandato con tutto l’equipaggiamento a Bologna, dove sostammo per 2 mesi. Durante questi 2 mesi facemmo un corso speciale di addestramento sulle armi mitraglie Fiat e sulle bombe a mano. Finito questo corso partimmo per Cividale, dove ci spiegarono che si doveva fare un periodo di 13 o 20 giorni di grosse manovre. Tutta la III Armata venne spostata sui confini e, dopo aver terminato 1e grandi manovre, ci riportarono a Cividale. Era il 2 maggio. Ci trovavamo nella caserma degli alpini per formare una divisione.
 

     
QUI INCOMINCIA IL RACCONTO DELLA GUERRA 15 - 18  

   
Dopo 3 giorni partimmo per i confini; si incominciava ad ispezionare in un modo insolito e sospetto, infatti 22 giorni dopo scoppiò quella guerra che per 44 mesi seminò disperazione e morte. Precisamente il 25 maggio all’alba incominciammo a sentire il rombo del cannone e gli spari delle armi leggere; da qui incomincia la marcia. Per qualche giorno si avanzava senza resistenza su e giù per quelle montagne; delle volte erano pinete e delle altre volte rocce; dirigendoci verso Caporetto. La guerra era incominciata da un mese e si faceva sempre più minacciosa. Ricordo benissimo; eravamo in direzione della strada che da Cividale porta a Caporetto, era in Giugno, precisamente il 27, quando sentimmo per la prima volta le mitraglie nemiche. Venne quindi l’ordine di trincerarci, facendo dei muretti di sassi e, dove il terreno permetteva;, anche scavando delle buche con la pala che ognuno di noi possedeva. Così incominciò la vita della trincea, Ogni giorno la musica si faceva sentire sempre più viva ed intensa, e, a dire il vero,. faceva una certa impressione; avevamo poi finito per abituarci, ma non del tutto perché ogni giorno che passava la sparatoria era sempre più accanita, con feriti e morti che aumentavano sempre. Gli incontri delle pattuglie si susseguivano sempre più spesso; anche attacchi di avanguardia, molte volte impedivano il proseguimento dell’avanzata e questo succedeva giorno per giorno, sempre con ritmo più intenso, quando finalmente arrivammo nei pressi dell’Isonzo, sulla strada,che porta a Caporetto.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   

IL TRENO ARMATO

Dietro di noi le nostre artiglierie ci proteggevano. C’incanalavamo nella strada che porta a Caporetto; questa strada si trova di fianco all’Isonzo, si attraversa assieme passando Ternova (d'Isonzo Trnovo ob Soci), mentre col mio reparto si percorreva là strada. Nella notte dal 26 al 27 giugno fu scoperto un accampamento di Tedeschi di circa 200 uomini avvistato dalle nostre pattuglie. Allora tre delle nostre compagnie parteciparono nottetempo alla pericolosa impresa di catturarli, stringendoli da tutti i lati; all’una della notte, col massimo silenzio, i tedeschi furono sorpresi. Alcuni si trovavano sotto la tenda ed altri anche disarmati e non fu un colpo facile ed il piano riuscì in parte. Per noi ci furono soltanto 3 morti e 7 feriti e la loro perdita fu di otto morti, sette feriti e centonovanta prigionieri. Poi nel nostro reparto sorteggiarono 10 soldati, un sergente,un caporal maggiore per scortare i prigionieri. Fra questi c’ero anch’io e così eravamo in 12 armati fino ai denti, contro 170 prigionieri austriaci, che dovevamo accompagnare a Cividale. Era la prima volta che facevamo un certo numero di prigionieri e che potevo vedere i tedeschi da vicino. Incominciammo la marcia mettendoli in ordine su due file: 10 di noi armati di tutto punto uno in testa ed uno in coda, a destra e a sinistra, così disposti dovevamo portarli fino a Cividale dove si trovava il campo di concentramento. Dopo aver percorso poco più di metà strada i prigionieri si sedettero senza voler più riprendere la marcia; eravamo proprio in un punto che direi il più isolato e siccome il fondo stradale era sassoso approfittarono per tirarci i sassi. Allora noi, decisi, vedendo che non si fermavano, ci radunammo tutti da una parte e, quando fummo lontano dal loro tiro di sassi con un nutrito fuoco di fucili e bombe li rendemmo inoffensivi con diversi feriti, anche gravi; vista la reazione i superstiti si alzarono e ripresero la marcia. Anche otto di noi furono feriti più o meno leggermente; furono medicati alcuni a un braccio altri alla testa, tanto che potemmo camminare, meno i feriti tedeschi che furono sorvegliati, curati e poi mandati a prendere con un’ambulanza assieme ai nostri feriti che non potevano proseguire. Dopo mezz’ora di cammino passarono 2 motociclisti del comando della nostra Divisione: erano i portaordini. Riferimmo loro l’accaduto e chiedemmo un’ambulanza per caricare i feriti che non potevano più camminare. Allora i due portaordini proseguirono la strada per portare l’ordine al Comando della nostra Brigata in linea e, al ritorno, lo riferirono al Comando della Divisione che si trovava a Cividale. Immediatamente ci venne incontro un camion 18 BL con dieci soldati in rinforzo e i nostri feriti assieme ai tedeschi furono caricati e portati a Cividale, così potemmo arrivare al campo di concentramento senza più correre pericoli dì un’altra ribellione. Arrivati stanchissimi dal lungo viaggio ci trattennero una notte nella caserma degli alpini. Alla mattina partimmo nuovamente per raggiungere il nostro reparto in linea che ora si trovava nei pressi di Ternova.  

Forte dell’esperienza di un anno di guerra in Russia. L’Imperialregioesercito o (KuK) austro ungarico schierava 10 treni corazzati dalla composizione similare alla nostra ma con calibri adatti a un combattimento di terra (artiglieria di marina a tiro rapido L.30 da 7 cm, L.33 da 4,7 cm e mitragliatrici Schwarzlose cal. 8 mm). Completava la sezione un vagone staffetta con materiale da massicciata per le riparazioni di circostanza. Con la nostra entrata in guerra due di questi treni vennero dirottati sul fronte Trentino (ferrovie delle valli) e Isontino (Transalpina e Meridionale). I cannoni di terra e fortezza avevano appena cessato di battere la prima ondata d’attacco quando il 9 giugno 1915 durante le nostre operazioni di forzamento dell’Isonzo a Plava (ponte del genio) intervenne il treno corazzato n. 2. del tenente Bernhard Scheichelbauer. Il forzamento di Plava attuato con un ponte girevole galleggiante (rilasciato da sponda non una passerella) necessitava di una squadra sulla riva opposta per l’ancoraggio e questa venne trovata negli uomini del 38º fanteria Ravenna. Per contrastare questa impresa il comando austro-ungarico decise di ricorrere al treno corazzato a disposizione che lasciò nottetempo la stazione di Prvacina (a sud di Gorizia) risalendo l’Isonzo. L’interruzione della linea, predisposta dagli italiani, venne riparata e alle prime luci del 10 lanciato su genieri e fanti in riva al fiume. L’azione fulminea richiedeva un immediato dietro front prima di essere intercettato dai cannoni italiani. Ripararsi in una delle numerose gallerie era una soluzione non definitiva. Ci riprovarono, ma l’interruzione dei binari questa volta era una voragine e un cannone vigilava.

   

Il Col. Gustavo Reisoli: nel libro “La conquista di Plava” “…. all’alba, improvvisamente con un sinistro rumore di ferraglia, irrompe a Prilesje un treno blindato, con subito scrosciare di mitragliatrici e tuonare di cannone, portando un vero scompiglio fra gli zappatori intenti ad allestire il materiale da ponte. Formato da una locomotiva al centro e da due vagoni corazzati in testa e in coda, esso era destinato a fare improvvise apparizioni sulla ferrovia dell’Isonzo, a monte e a valle di Gorizia, per impedire, sopra tutto, i nostri passaggi del fiume. L’intervento della nostra artiglieria e l’interruzione della linea, immediatamente praticata, gli impedirono di ritentare la prova. Dopo questi avvenimenti, il giorno passò in un reciproco vigilarsi.”

IL TRENO ARMATO  
   
La strada che conduceva a questi paesi fiancheggiava sempre il fiume Isonzo finché arrivati a cento metri dal detto paese vi erano appostate le nostre artiglierie pesanti da 305 ai piedi del monte Nero, che sparavano ad un treno blindato austriaco proveniente da Tolmino. Di tanto in tanto il treno (austriaco) usciva fuori da una galleria e sparava in direzione del Monte Nero nelle trincee dei nostri prendendoli di filata. Appena giunto a pochi passi da quei cannoni partirono due colpi, uno a poco spazio di tempo dall’altro così all’improvviso: era la prima volta in cui si provava una grande paura; non si sapeva se i colpi partivano o arrivavano, ma, quando venimmo a conoscenza di come stavano le cose, la paura diminuì finché ci abituammo a sentirli arrivare. Questo treno blindato usciva da una galleria proveniente da Tolmino e molte volte rispondeva alle nostre artiglierie cercando di individuarle e tirando qua e là anche nel paese vicino noi. Questo monte Nero dava molto fastidio a noi perché da quell’altura si dominava tutto il nostro movimento nella retrovia della vallata di Plesso (Plezzo), Ternova, Serpenissa e Zaga. Erano questi i paesini che circondavano la vallata. Riuscimmo, con molti sacrifici di vite umane, ad arrivare fino a 800 m. dalla famosa cima, nascosti dietro le rocce perché se ci avessero scoperti ci avrebbero ridotti come le ulive sotto il frantoio, inquantoché loro erano avvantaggiati dal fatto che erano sopra di noi, quindi avevano la possibilità di buttarci in testa i macigni che avevano a portata di mano. Era quindi per noi una posizione molto scomoda. Diverse volte abbiamo tentato l’impresa, avendo sempre la peggio senza concludere niente. Il Comando non si rassegnava, voleva a tutti i costi conquistare quella cima perché il nemico controllava troppo bene i nostri movimenti e se ne serviva come osservatorio. Molte volte sparavano alle truppe in marcia verso baracche dove vi erano soldati, viveri e munizioni. Il Comando decise allora di tentare per la settima o l’ottava volta la pericolosa impresa.  
   

Diario di Luigi Gasparotto - 1 novembre 1918

Questa volta vi era un piano tutto diverso; bisognava assalire il nemico dalla parte in cui vi erano degli strapiombi, molto difficili da scalare (infatti anche il nemico era del nostro parere, come si venne poi a sapere). Divisi in due gruppi, uno ebbe l’ordine di prendere la strada più lunga e l’altro di andare dove vi erano gli strapiombi; la strada era meno lunga quindi avevano la possibilità di arrivare prima. Una volta giunti sul luogo non dovevano muoversi fino a quando l’altro gruppo non avesse segnato la sua presenza, buttando un razzo. A cento metri dal nemico ci fermammo per toglierci le fasce dalle gambe e metterle intorno alle scarpe per non fare rumore; preparammo due bombe per ognuno in mano ed essendoci le vedette in quanto quella era la parte più sorvegliata, andò avanti una pattuglia di tre uomini per cercare di prendere le vedette stesse. Allorquando fossero riusciti alla non facile operazione, avrebbero gettato in aria un razzo in segno d’arrivo. Contemporaneamente piombammo addosso al nemico che aveva tutta l’attenzione verso gli altri immaginando di poter essere preso alle spalle. Infliggemmo così al nemico gravi perdite.. dopo una dura lotta, dovettero arrendersi. ...

" …Arrivammo così sul far della sera (18/8/1917) ..

 

... “Quando si arriva alle porte di Motta (di Livenza), alla chiesa delle Grazie, dalla semplice e bella facciata del Sansovino, crepita la mitragliatrice. E’ caduto un momento fa un amico, il tenente Barbesti. Stamane si è presentato al comando del 5° reggimento bersaglieri a offrire i suoi servigi un giovane triestino, il comandante del porto militare di Motta. Troppo tardi.”  “Sulla Livenza è stata gettata una testa di ponte. E’ opera generosa dei bersaglieri dell’8° reggimento, i quali all’ordine di passare alla riserva, si buttarono in acqua e passarono invece al di là. Santa disobbedienza! Durante la notte, il Genio getta i ponti; il nemico spara sul paese ravvivando l’incendio delle case bruciate e uccidendo parecchi borghesi; i bersaglieri estendono la testa di ponte sui due rami della Livenza; arrivano prigionieri, contro i quali le donne di Motta, inferocite, scagliano sassate ed insulti. Arde ancora la casa del poeta Giacomini”.

.. pioveva anche nelle baracche.  Gli ufficiali raccomandarono a tutti di fare il proprio dovere. Tanti scrissero a casa, temendo che fosse l'ultima volta, come infatti lo fu per molti. Venne l'ordine di metterci in marcia, era buio e pioveva a dirotto. Distribuirono munizioni, maschere antigas, pacchetti di medicazione (garza, ovatta e iodio) e gallette. Erano arrivati anche ufficiali e un aspirante appena uscito dall'Accademia di Modena per il nostro plotone. Sostituiva il Sottotenente Montanari di Ferrara che ci trattava come fratelli. Il nuovo arrivato era pessimo, esordì con un cicchetto al Maresciallo perché non ci aveva presentati sull'attenti. Sul Carso, da lungo tempo, non si parlava più di attenti coi veterani. Si camminava ai lati della strada, la coperta in testa perché pioveva a dirotto. La strada era piena di buche (voragini) provvidenziali per ripararci dai riflettori austriaci e dai colpi d'artiglieria (Si diceva che un nuovo colpo non cade mai nella stessa posizione). Nulla di più sbagliato. Marciando arrivammo alle case di San Martino (San Michele). Avevamo già fatto 15 chilometri sotto i tiri austriaci; cominciavamo a sentire la stanchezza e il nuovo arrivato prese anche a calci qualcuno che era rimasto indietro. Al passaparola ci fermammo tutti. Caricammo un colpo in canna e si udì anche qualche sparo (chi voleva capire, capiva). Arrivarono gli altri ufficiali e trasferirono il novellino. La discussione era chiusa. Si continuò oltre le case diroccate: per il fronte mancavano ancora 3 km. Era l'una dopo mezzanotte. Ora marciavamo in fila indiana, a dieci metri di distanza l'uno dall'altro, a zig-zag. Man mano che ci si avvicinava, sentivi le pallottole che fischiavano.  

Bollettino di Guerra n. 1260 del 31 ottobre 1918 ore 12

 “…La X armata ha portato il suo fronte
alla Livenza. La III armata si spinge avanti,
travolgendo e catturando il nemico che di
fronte ad essa si accanisce nella resistenza. Truppe czeco-slovacche partecipano all’azione
”...
http://digilander.libero.it/fiammecremisi/carneade/marchand2.htm
 

2. “…La III armata si porta sulla linea della
X e sta per raggiungere la Livenza. Nostre
punte sono entrate in Motta di Livenza e in Torre di Mosto. Si annunzia da ogni parte la  cattura di prigionieri, di cannoni e di bottino”.

Ci riparammo a cento metri dalla trincea in una caverna e qui molti si addormentarono. Alle tre un fischio d'allarme ci fece indossare le maschere. Spioveva, saremmo comunque usciti per l'attacco con le maschere.  Le artiglierie italiane, che controbattevano, ora tacevano. Gli ufficiali ci fecero caricare le armi con l'ultima raccomandazione e si uscì. Colpi da 280 (bombarde) e Shrapnel ci piovevano addosso. Gli ufficiali diedero l'ordine di togliere la maschera.  Il mio compagno se ne stava sdraiato e nonostante l'insistenza non la levava. Era morto. Non so (non riesco) a descrivere ciò che successe nelle successive 48 ore. La lotta fu dura e si andava avanti di trincea in trincea. Rimasi sepolto (dalla terra spostata) da un colpo d'artiglieria. Mi tirarono fuori. Rimasi sepolto altre tre volte in cinque minuti, ma ora il braccio sanguinava ed anche il collo. Mi medicarono velocemente, ma restai in reparto come porta ordine al comando. Si ritornò avanti e di nuovo sotto il fuoco.  

Il mio capitano vedendomi allora in quello stato mi mandò indietro con un dispaccio per il comando divisione. La zona era scoperta e ci vedevano. I tiri si spostavano e i colpi continuavano ad arrivare. Con me si erano aggregati altri due bersaglieri che furono subito feriti. Riprendemmo la strada per raggiungere un posto di soccorso e proseguire oltre. Cinquanta metri oltre il posto di medicazione, una scheggia piccola mi colpì di nuovo al collo. Svenni e rimasi sanguinante in quella situazione diverso tempo. Mi raccolsero e rimasi in diversi ospedali fino alla ritirata di Caporetto"

La battaglia di Paradiso: 4 novembre 1918  Pag.32 e segg … poco oltre Roncadelle sul Piave

… Venne così la sera del 30 (ottobre): durante la notte ritornammo all’assalto, facendo altre migliaia di prigionieri, prendendo sempre la zona di prima. Questa volta però ci guardammo bene dal perdere il collegamento (con chi stava a fianco) e gli Ufficiali si raccomandarono di andare piano, perchè noi credevamo che, andando forte, si finisse prima la guerra, tanto eravamo stanchi. L’avanzata proseguiva magnificamente finché arrivammo alla fattoria dove una scena orribile si presenta ai nostri occhi: i nostri compagni Bersaglieri che erano feriti gravemente e i quattro o cinque rimasti prigionieri (nell’azione precedente) erano stati impiccati alle piante con la testa all’ingiù, completamente privi di occhi e orecchie. Su di loro giurammo di vendicarli. Da quel momento tutti quelli che capitavano nelle nostre mani venivano uccisi. Continuando la strada nei pressi di Oderzo trovammo una tenace resistenza. Arrivati alle due del pomeriggio trovammo i tedeschi appostati nelle piazzole dove erano collocate le loro mitraglie. La mia sezione composta da quattro mitragliatrici si era installata alla meglio dentro le buche fatte dai nostri cannoni, lontano pochi passi dal nostro comando. Per proteggerlo facemmo un fuoco rapidissimo di mitraglie, coprendo 1’assalto dei fucilieri. La battaglia per snidarli dalle loro posizioni fu molto dura: si prolungò fino a sera inoltrata. Prima che la battaglia volgesse al termine rimanemmo senza munizioni per la mitraglia, allora il mio tenente mi mandò al comando: mi vennero i brividi al pensiero di dover saltare fuori e passare quel tratto di 50 metri dove c’era una sparatoria d’inferno, comunque dovevo andare e partii con la rapidità di un fulmine. Arrivai ansante al comando che era situato in una palazzina a pochi metri dalla strada. Appena arrivato vidi due Carabinieri che erano addetti alla protezione del comando, girare dietro lo stabile dove vi era una finestra.

 

Scrisse  D’Annunzio sui caduti di Paradiso
“Questi fanti d’Italia, questi cavalieri d’Italia sapevano che stava per scoccare l’ora dell’armistizio. Lo sapevano. Avevano l’ardore in bocca, il vigore nel petto, il cuore palpitante. Erano giovani. Vivevano. Il diritto alla vita stava per essere ricollocato sul dovere del sacrificio. Essi potevano preservare il loro sangue, essi potevano ritenere nel loro pugno la loro sorte. L’ora stava per scoccare. Essi erano inebriati dall’ansia di spingere la vittoria quanto più lontana fosse data al loro soffio, sul suolo riconquistato, prima che quell’ora scoccasse e segnasse il termine raggiunto. Potevano vivere ed incoronarsi.  Vollero incornarsi e morire. Al trivio di Paradiso era l’ultima resistenza, quivi era l’ultima gloria dei combattenti, quivi era lo sguardo della Patria, quello sguardo che l’eroe sente sul suo cuore segreto, e il cuore gli balza. Il nemico era protetto da fitte siepi di mitragliatrici e spazzavano la strada. In un attimo fu deliberato l’assalto, fu deliberata la carica. La gente a piedi e quella a cavallo mossero in un solo impeto: lo squadrone dell’avanguardia nella strada; ai lati gli altri due. Il fante cercava di superare il cavaliere, il cavaliere portava in rotta la potenza del fante; mai tanta fraternità d’armi fu più gloriosa. Cedette all’urto fulmineo l’ultimo ostacolo che ci separava dalle terre profanate. L’ora scoccò. Il vinto alzò bandiera bianca. I nostri morti coprivano la polvere, coprivano l’erbe. I nostri feriti sanguinavano mordendo i pugni nel rammarico della corsa interrotta.  
segue sotto

Nella stanza vi era il comando e sotto la finestra, fuori, vi era una panca dove i due carabinieri sedettero e la loro testa superava il davanzale. Allorché chiesi loro se presso il comando vi fossero delle munizioni, con grande stupore vidi sul davanzale della finestra due bombe a mano, a pochissima distanza da loro, che stavano per scoppiare. Allora, silenziosamente, svelto come un razzo, senza pensare che potevano scoppiarmi in mano, le presi e una dopo l’altra le buttai lontano. I due Carabinieri, vedendo quel gesto, non si resero conto dell’accaduto e chiesero cosa stesse succedendo: io risposi spiegando loro l’accaduto e, mentre mi borbottarono qualcosa, capii a stento che volevano ringraziarmi del pericolo scampato. Andarono quindi a riferirlo al comando (pag. 33). Nei frattempo mi misi a perlustrare la zona nei dintorni della palazzina. Ad un tratto scoprii una buca a una distanza di dieci metri dalla fatale finestra e vidi spuntare degli elmetti. Infatti erano due tedeschi. Allora li affrontai con una bomba in mano e nell’altra la rivoltella con sette colpi. Faccio loro segno di buttare le armi e uscire dalla buca e di arrendersi. Li avrei portati al Comando. Ad un tratto vedo sbucare dal nostro Comando il Capitano Barbieri, aiutante in campo del Generale Ceccherini e gli consegnai i due prigionieri dicendogli che quelli erano autori dell’atto criminale. Io dovevo portare a termine il mio compito, non potevo ritardare un secondo. Presi le munizioni e andai al mio reparto, cioè alla 590a compagnia Mitraglieri Fiat (ndr: inserita nella 23a div. comandata dal Gen. Gustavo Fara (ex bersagliere)). La battaglia infuriava e ancora non accennava a cessare, finché verso sera riuscimmo a prendere quei fortini nei quali erano installate postazioni di mitraglie e cannoncini. Mettemmo così in fuga il nemico che andò in seguito in direzione del Tagliamento. Anche noi prendemmo quella via. Oderzo, Il primo paese non era lontano; infatti dopo circa tre quarti d’ora ci trovammo sotto l’argine del fiume (Livenza), stanchi morti e con molta fame.Appena arrivati si seppe che a Oderzo nella palazzina del Comando erano venuti i nostri a portare dei viveri; chiedemmo allora se si poteva andare a prenderli.  

Ci dettero un’ora di tempo. Arrivati in quel cimitero in cui s’era trasformato il campo di battaglia non si aveva neanche tanta voglia di mangiare, pensando ai nostri compagni d’armi caduti. Però, siccome era già da tre giorni che non si toccava cibo, la fame si faceva sentire. Allora appena dentro la palazzina mangiammo a sazietà. Il resto del cibo lo portammo al reparto. Appena arrivati accontentammo tutti, l’appetito non mancava. Credetemi, nonostante il cibo incominciasse ad andare in putrefazione per noi era molto buono. Era già la mezzanotte quando dettero l’ordine di tenerci pronti per passare il Livenza, sempre in silenzio ci preparavamo per andare nuovamente all’ assalto. Al di là del fiume si sentiva un crepitio di armi. Poco dopo partimmo e portandoci sotto l’argine; riuscimmo con poca difficoltà a postare le vedette che poterono avvistare un grande ammassamento di truppe. Il comando decise di attaccare subito, prima che i nemici avessero il tempo di formare una linea di difesa. Il fragore delle voci scatenatosi così all’improvviso e tutta quella nube umana che saliva e scendeva l’argine del fiume,dove solo poco prima non si sentiva alcun rumore sorprese e impressionò i nemici che incominciarono a buttare le armi. Qualche reparto che sparava fu tra i primi a piombarci addosso. Furono fatti prigionieri più di 40.000 uomini assieme con una grande quantità d’armi e munizioni. Le perdite da parte nostra furono lievissime. Ci incamminammo così in direzione di Motta di Livenza. Il nemico nelle postazioni già preparate da prima ci costrinse a lottare per poterli scacciare  

Per l'azione riportata a pag 33 del diario, riferita al giorno 1-11-1918, Annovi Dionigio a sua testimonianza orale venne proposto per l'assegnazione di una medaglia per lo "sventato attentato diretto a colpire con bombe già innescate il comando di divisione" (presente nella palazzina il Generale Ceccherini) La proposta si perse nelle concitate giornate dell'incalzare delle vicende militari legate alla travolgente avanzata nei giorni finali del conflitto dell'intera Xa armata e per la precarietà degli staff in gran parte non effettivi che vennero congedati a breve.

Mentre si camminava, in ordine di combattimento, il mio reparto si trovò in direzione della strada; cinquanta metri prima di arrivare al fiume vi erano delle canne. Mentre si esplorava nel fitto di queste canne saltò fuori un tedesco con l’arma puntata proprio contro di me che ero il più vicino. Io, premendo le mie dita sul grilletto della mia rivoltella calibro 84, con una mossa repentina, gli sparai colpendolo nel braccio dove aveva la rivoltella. Continuammo a camminare per passare il fiume. Il ponte era saltato e non vi era rimasta che una putrella di ferro larga 30 cm. circa che era un residuo di rottami. Il fiume non era molto largo, ma aveva una profondità di circa cinque metri per arrivare all’acqua e di quattro per arrivare al fondo. Intanto ci siamo trincerati per paura di essere contrattaccati. Aspettammo che arrivassero tutti i Bersaglieri che per un motivo o per un altro erano in ritardo, il comando dette l’ordine di attaccare il nemico a destra e a sinistra. Per distrarlo da questa tensione l’unico mezzo per passare dall’altra parte era precisamente quella putrella di ferro larga poco più di un piede.  Incominciò, così un fragore d’inferno con questo indiavolato contrattacco.
Attendemmo un po’ e poi passammo a tre alla volta, uno dietro l’altro; quella posizione con la quale avevamo distratto l’attenzione nemica aveva dato buon esito, infatti riuscimmo a passare senza avere grandi perdite.
 

(ndr: il fiume Livenza compie giri tortuosi tanto che essere di qua dal fiume in certi momenti equivaleva essere geograficamente alle spalle del nemico).

     
Giuseppe Rotolo, 4 novembre -Gli ultimi caduti- "La mattina del 4 novembre la X Armata attaccò. Prima di attraversare il Tagliamento venimmo a sapere che alle 15 sarebbe scoccata l'ora dell'armistizio. Provammo una grande gioia mista a sgomento. L'idea della fine della guerra a breve distanza di ore ci parve perfino assurda. La verità era (ma noi non potevamo saperlo) che i nostri comandanti avevano ricevuto l'ordine perentorio di accelerare la marcia perchè l'armistizio ci cogliesse quanto piu' vicino possibile al vecchio confine. "Domani la 23esima Divisione preceduta dai cavalleggeri Aquila, punti su Gradisca per la direttrice Madrisio - Rivignano - Castion di Strada - Versa - Gradisca." E allora avanti verso il vecchio confine!. Bersaglieri e cavalleggeri si rimettono in marcia. Ad Ariis, oltre il piccolo ma profondo fiume Stella, gli austriaci ci attendevano al varco. Cavalleggeri, ciclisti e nostri arditi reggimentali, al comando del sottotenente Alberto Riva di Villasanta dell’8° reggimento bersaglieri misero in fuga il nemico; il piccolo ponte venne riparato e il reggimento pote' riprendere la marcia verso Torsa, all'avanguardia era Riva con i suoi arditi. Dal campanile di Torsa, gli austriaci tenevano sotto controllo la strada di accesso al paese e quando gli arditi dell'8° si lanciarono all'attacco per neutralizzare la resistenza nemica una pallottola colpì alla fronte il coraggioso comandante. Alberto Riva cadde mezz'ora prima dell'armistizio, aveva 18 anni. A Torsa il Comando decise di accelerare l'inseguimento degli austriaci che frattanto si erano asserragliati a Paradiso, con l'impiego anche della cavalleria. Erano le 14,45. L' 8° Bersaglieri riprese la marcia verso Paradiso, in testa era il 12° battaglione. Paradiso, un mucchio di case contadine nella campagna bassa di erbe e di sterpi, sorge tra Muzzana del Turgnano e Castion di Strada, cinquecento metri più a nord v'e' un trivio (il trivio di Paradiso, appunto). Quando sulla strada per Paradiso fummo raggiunti dalla cavalleria al galoppo ci buttammo nei fossati laterali gridando: "Viva la cavalleria!". Sembravamo ragazzi che giocavano alla guerra e avevamo dimenticato che la morte era li' a due passi... Mentre i bersaglieri aggiravano il paese catturando i tenaci cecchini asserragliati nelle case, i cavalleggeri, superato il rettifilo che taglia il paese, raggiunsero il trivio dove li attendeva, armi alla mano, un battaglione di mitraglieri magiari: la pazza eroica galoppata scagliò contro la resistenza nemica l'ultimo sacrificio dell'esercito vittorioso.  

Il primo monumento eretto in Italia alla fine della Grande Guerra, dedicato ai bersaglieri e ai cavalieri che si immolarono in quel glorioso e tragico fatto di sangue e che rende loro omaggio sui quattro lati della costruzione a piramide. Vi sono impressi su un lato i nomi di: Ten. Balsamo di Loreto Achille, Ten. Piersanti Augusto, soldati Marchesini Giulio, Quintavalli Giovanni, Schiavon Girolamo e Sulla Carlo dei Cavalleggeri dell’Aquila; sull’altro lato, caporal maggiore Pezzarossa Giuseppe dei Lancieri di Mantova, Sottotenente Riva Alberto Villa Santa e soldato Architu Giovanni, dell’8° Bersaglieri.
Sugli ultimi due lati la dedica fatta apporre dalla Sezione provinciale di Udine del sodalizio nazionale “Ragazzi del ‘99”: “Gli Eroi di Paradiso - ultimi gloriosi Caduti - della Patria - nella vittoriosa guerra - 1915/1918 - veterani di cento battaglie - adolescenti di frementi speranze - i più santi e i più belli - scagliarono l’anima - oltre la morte - Ore 15/4 novembre 1918. Sull’ultimo lato la dedica del XXVIII Corpo d’Armata’: “Qui - nell’ultimo bagliore della lotta - i Bersaglieri della 23a Divisione - i Lancieri di Mantova - ed i Cavalleggeri di Aquila - caricando il nemico - con la radiosa visione della vittoria - donarono alla Patria - la loro fiorente giovinezza - Ore 15 del 4 novembre MCMXVIII.

     
Qualche pallottola però si sentiva lo stesso, ma eravamo in guerra. Mentre si effettuava il passaggio vi erano tra noi dei soldati della classe del ‘99 da poco sotto le armi e non sapevano cosa significasse attraversare il fiume in guerra e non sapendo cosa fare piangevano; allora dettero ordine a tutti i vecchi che avevano più esperienza, di prenderli in spalla e trasportarli: così facemmo. Finita l’operazione del passaggio del fiume, ci trincerammo scavandoci delle buche sotto l’argine per cui tra noi e il nemico vi erano 15 m di distanza. All’interno del fiume c’eravamo noi e all’esterno c’erano i tedeschi, quindi dovevamo stare in guardia anche perchè dietro le nostre spalle vi era l’acqua. Non avevamo ancora finito di trincerarci quando il nemico ci attaccò appoggiato dall’artiglieria, per quattro ore di continuo. La lotta era accanita. La strada situata sull’argine che divideva la nostra linea dalla loro era tutta solcata di traverso dalle pallottole. ....... (ndr: si passa il fiume e si prosegue. Siamo a notte inoltrata del 2 novembre verso Portogruaro verso il Tagliamento abbandonato un anno prima).

B.U.del Quartier Generale – 1 novembre 1918 - “…Le divisioni di cavalleria, annientate le resistenze nemiche sulla Livenza e ristabiliti i passaggi, marciano al Tagliamento”. DIAZ.

"Tutta la notte le armi nemiche sono state in azione senza un istante di sosta. I nostri che hanno già concentrato qui un gran numero di truppe, ben tre volte hanno tentato invano il varco del fiume: quando verso l'aurora due enormi rombi chiudono l'ultimo saluto che il nemico da a Motta: sono due depositi di munizioni fatti scoppiare a Pordenone: i nostri potevano ora passare la Livenza "
L’Invasione Austro-Ungarica a Motta di Livenza di P.L.Ciganotto - 2 novembre 1918

 

 
Alle 3 antimeridiane (del 3) cessò il fuoco degli Austriaci ed entrò a Portogruaro, da S. Agnese e da Palù, l'esercito liberatore.
 
L'ULTIMO MINUTO DI GUERRA
Alle cinque del mattino del 4 novembre demmo l’assalto alla trincea nemica. Avemmo 17 soldati morti, due Ufficiali e 15 soldati feriti contro più di 150 tra morti e feriti nemici. Sentimmo molto la mancanza dei compagni morti ed il Tenente, pensando che ormai era finita, ci disse di continuare la marcia, attraversando i campi in direzione di un paesetto chiamato “Paradiso” (oltre lo Stella). Il nemico fuggiva senza opporre grande resistenza; vi erano piccole scaramucce di pattuglie qua e là finché trovammo la strada che portava a questo paesino. I tedeschi si erano postati sulle case, sui campanili con le mitraglie e fucili; noi venivamo avanti in tutte le direzioni della campagna che circondava il paese per distrarre l’attenzione dalla strada: quando ormai non ci restavano che cinquecento metri per arrivare al paese ci appostammo dietro una siepe in fondo ad un fossato che, fortunatamente, trovammo. Il nemico ci aveva avvistati e allora noi un po’ dalla campagna e un po’ dal centro incominciammo una sparatoria infernale: sputava fuoco da tutte le finestre e dalie torri mentre la nostra cavalleria passava alla carica: due ore di combattimento poi riuscimmo ad accerchiare il paese.  Andammo ad ispezionare tutte le case dove vi erano ancora le mitraglie in mano ai tedeschi: disarmati e fatti prigionieri man mano che venivano consegnati per portarli via al Comando, ci ricordavamo di quello che avevano fatto ai nostri compagni e del giuramento di vendicarli. Così anche quel paese fu liberato dall’oppressore tedesco. La gente del posto ci raccontò poi delle barbarie fatte dai tedeschi: avevano portato via i viveri, bestiame, biancheria, avevano violentato le giovani donne e i genitori che si opponevano venivano uccisi. Liberato il paese continuammo la marcia e ci fermammo a 500 metri dal paese stesso dove vi era un canale. Continuando la marcia ci spostammo dietro l’argine. Erano le 3 del pomeriggio del 4 novembre. Mentre eravamo in quel posto ci trasmisero la notizia che stava per passare ‘una commissione del comando supremo dei nostri Generali con quello Austrotedesco con la fanfara in testa. Infatti dopo un quarto d’ora vedemmo ‘uno spettacolo che ci mise addosso una tale contentezza che molti piangevano dalla gioia. Il comando austroungarico e tedesco con bandieroni bianchi e la fanfara che suonava a tutto fiato veniva ad incontrare, il nostro, anch’esso con bandiere bianche, in segno di pace. Era la fine della dolorosa guerra, l’armistizio che fu poi firmato, la pace. Non riesco a descrivervi la grande gioia di coloro che per 44 mesi furono soggetti a tutte le privazioni, al freddo, alle piogge, alla neve, al fango della trincea, alla fame e alla sete e, sopra ogni altra cosa, alla morte che, in questo momento tanto gioioso, coloro che si erano salvati, dimenticarono. a sx le ultime 6 arcate del Ponte di Madrisio sul Tagliamento riattate dagli austriaci dopo Caporetto  

Nell'ordine dall'alto in basso da sinistra a destra: a sinistra in alto Guerra 15/18 per "l'Unità d'Italia coniata nel bronzo nemico" sotto "Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra 50° anniversario". Al centro sopra "Ordine di Vittorio Veneto" al centro "50° anniversario" sotto "Croce al merito di Guerra"  a destra in alto "Grande Guerra per la Civiltà" sotto "Roma '70" con coccarda Ass. Mutilati e Invalidi

La costante della fame percorre tutti i reparti nell'avanzata su una terra espropriata d'ogni raccolto. Il nemico in fuga ha portato via tutto e quello che non riesce lo brucia. La sua stessa razione alimentare è da mesi sotto la soglia vitale. Diverse testimonianze raccontano che il soldato italiano mai come in quei giorni patì la fame

Per onorare i nostri compagni che fino a poco tempo prima erano in vita e che avevamo a pochi passi, da noi, stemmo 10 minuti sull’attenti per ordine del comando supremo, in segno di raccoglimento. ‘ Poi venne distribuita la posta, essendo stati isolati da tutto da quindici giorni; dettero quindi l’ordine di scaricare le armi; siamo alle sei di sera. In questa stagione autunnale a quell’ora incomincia a far buio e Si gettavano per aria delle racchette, noi le chiamavamo razzi, per segnalazione, sembravano fuochi d’artificio con tanti colori.
Finito questo allegro spettacolo lasciarono le vedette e qualche pattuglia a sorvegliare che non vi fosse qualche tèdesco sbandato, per maggior sicurezza, e il resto dei soldati furono mandati in paese a prendere accantonamento dove si poteva, alla meglio. Appena arrivati in paese radunammo in una chiesetta tutti i nostri morti che erano in totale 25, i feriti furono medicati e portati negli ospe4ali più vicini. Finita questa operazione cercammo di sistemarci in qualche posto, così andammo a finire in un solaio. Ma la fame era tanta che non si riusciva a dormire, allora pensammo di provvedere. Siccome nei combattimento erano morti una trentina tra cavalli e muli, andammo a tagliare una parte di coscia per farla arrostire sul fuoco e poi mangiarla. Vennero dei borghesi che avevano fame al pari di noi e allora insegnammo loro il modo per procurarsi il cibo. Dopo aver mangiato ci sdraiammo e ci addormentammo sul pavimento e fino al mattino non si parlò più. Il giorno seguente, era il 5 novembre, il primo di noi che si alzò incominciò a gridare dalla gioia “Ragazzi non c’è più la guerra, d’ora in poi non abbiamo più bisogno di stare sotto terra, nel fango come le talpe per sottrarci alla vista del nemico”. A poco a poco ci alzammo tutti e finalmente vennero le salmerie cioè i muli che portavano il rancio. Poi due Reggimenti di Bersaglieri partirono per Vienna ed altri per Trieste: in questi ultimi mi trovavo anch’io. Durante il viaggio incontravamo dei prigionieri; delle colonne che non finivano mai di nostri prigionieri con i quali ci scambiavamo pane,scatolette e sigarette Eravamo come in una famiglia. Per effettuare nel modo più preciso e sollecito il rimpatrio dei nostri prigionieri che erano internati in Austria, essendo della classe più giovane, ci mandarono nelle stazioni austriache: andavano a prenderli nei campi di concentramento e li accompagnavamo alla stazione. Nell’eseguire questa operazione succedevano scene commoventi di amici che avevano passato degli anni nei medesimi reparti; chi trovava parenti e molte volte scene di fratelli che si abbracciavano piangendo di gioia. Dopo due mesi quando il rimpatrio stava quasi per finire venne l’ordine di mandare in Italia tutti i richiamati delle Classi dal 1875 fino al 1880, per essere congedati e noi rimanemmo ancora per un mese. Il 17 gennaio 1919 ci mandarono in Istria, in Dalmazia, per fare servizio di frontiera.

 

... segue Nota: La mattina del 4 novembre 1918, giorno in cui doveva entrare in vigore l’armistizio firmato 24 ore prima a Villa Giusti a Padova, alcuni reggimenti di Bersaglieri e i Cavalleggeri dell’Aquila passarono il fiume Tagliamento sul ponte, ancora in piedi seppur diroccato, di Madrisio di Varmo. Giunsero fino ad Ariis di Rivignano, dove però trovarono abbattuto il ponte sul fiume Stella. Dovettero riattarlo, nonostante il fuoco delle mitraglie ungheresi proveniente dalla riva sinistra del fiume. Terminata l’opera di guado, transitarono sull’altra sponda del fiume, inseguendo il nemico fino nella borgata di Paradiso di Pocenia. Come si legge anche dagli scritti di Gabriele D’Annunzio, mancavano solo 5/10 minuti alle ore 15 del giorno 4 (ora fissata il giorno prima per il cessate il fuoco), quando i Bersaglieri e i Cavalleggeri di Aquila raggiunsero i magiari al trivio di Paradiso, luogo dell’ultimissima resistenza, ma gli ungheresi, nascosti, scaricarono contro i militari italiani una fitta gragnuola di mitraglie, dando vita a un’autentica battaglia scatenata dall’aggressiva reazione italiana. Nella colluttazione, morirono nove soldati italiani: tre delle nove salme furono tumulate presso il cimitero di Paradiso. Le stesse fonti documentano di quattordici vittime tra gli Austriaci, tutti inumati nel cimitero e nella stradine limitrofe. Pochi mesi dopo, fu eretto un monumento ai soldati italiani, nelle vicinanze del terreno bagnato dal loro sangue: presente alla cerimonia anche il duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia. Fu quello il primo monumento eretto in onore dei soldati italiani morti nella guerra 1915-18. http://www.labassa.org/it/pgm10.html 

     

 

QUI - NELL'ULTIMO BAGLIORE DELLA LOTTA - I BERSAGLIERI DELLA 23a DIVISIONE - ED I CAVALLEGGERI DI AQUILA  - CARICANDO IL NEMICO - CON LA RADIOSA VISIONE DELLA VITTORIA - DONARONO ALLA PATRIA LA LORO FIORENTE GIOVINEZZA-

ORE 15 DEL 4  NOVEMBRE  MCMXVIII 

I COMPAGNI D'ARME DEL XXVIII CORPO D'ARMATA

 

N.D.R. La vicenda finale qui narrata è inserita nella azione della rotta finale dell'Imperial-Regio esercito austroungarico (KuK kaiserliche und königliche Heer Impero austriaco e corona d'Ungheria), nelle giornate d'ottobre-novembre 1918 dal Piave al Tagliamento, di reparti che facevano parte della X armata e della 23a divisione italiana del Generale Gustavo Fara già comandante dell'11° Bersaglieri in Libia (oro a Sciara Sciat) e decorato lui stesso dell'Oro per la campagna e dell'argento per la difesa di Monfalcone nel 1917.  Il Colonnello Brigadiere Sante Ceccherini (sottoposto di Fara), già argento ai Giochi olimpici di Londra del 1908 nella spada a squadre, viene insignito dell'argento in Libia e nella grande guerra per i combattimenti sul S. Michele nel 1915 e sul Pecinka  col 12° reggimento Bersaglieri. Non avendo però fra i titoli della carriera la scuola di guerra può raggiungere solo il grado di Colonnello Brigadiere e gli viene affidata la III brigata bersaglieri ciclisti nei giorni della ritirata di Caporetto. La sua è una lotta di retroguardia in copertura alla III armata del Duca d'Aosta che deve attraversare il Tagliamento al Ponte di Madrisio e che dopo questo lo farà poi saltare.  
 

23a divisione - il tempio di Paradiso

 

 
 
     

Questa vita dura poco più di due mesi e poi le classi dal 1880 al 1894 furono mandate in Italia. Noi Bersaglieri ci mandarono a Firenze, dove fummo accolti con molto entusiasmo dal popolo fiorentino il quale venne alla stazione a riceverci. C’erano, tra gli altri, le autorità del Comune e rappresentanze militari con la loro fanfara. Mentre passavamo per le strade, ci buttavano fiori da tutte le finestre. Noi eravamo ancora con quei vestiti logori che portavano il segno delle battaglie e della trincea con gli elmetti in testa tutti più o meno con delle ammaccature causate da quelle furibonde lotte di quelle battaglie che furono numerosissime.
Da qui dopo un mese ci mandarono ognuno al proprio deposito e ai propri Reggimenti per poi congedarci. Potete immaginare la gioia. Io fui mandato a Verona; da qui in un paesetto della provincia verso le montagne chiamato Gressana, dove vi era stata da poco una inondazione e nelle zone più basse vi era ancora l’acqua e i terreni si erano da poco asciugati; vi era molta melma e sabbia che l’acqua stessa aveva lasciato, rovinando molti orti. Questo fu nei primi giorni di settembre del 1919. . Appena arrivato, mi misero in fureria e, alla domenica, molte volte, me ne andavo a casa in permesso. Ci vollero altri giorni, che sembrarono vent'anni e finalmente arrivò il giorno tanto desiderato.
Il congedo ...

 

... Non ero del tutto contento perchè pensavo agli amici, compagni di squadra, di compagnia con i quali per tanti mesi avevo lottato per la stessa ragione e per gli stessi ideali di Patria, che erano morti dopo sofferenze di ogni sorta, disagi, privazioni in trincea nel fango, sotto la pioggia, la neve e il piombo. Erano morti negli ultimi minuti di guerra con in cuore ancora la speranza di vederla finire e poter ritornare a casa per riabbracciare  i propri cari. Invece, poveri commilitoni, il destino crudele aveva fatto sì che i loro sogni svanissero con la morte. In conseguenza di ciò non potemmo essere completamente felici, come si dovrebbe al pensiero di tornare a casa finalmente in congedo, liberi, senza doversi più guardare intorno per difendersi dal pericolo, che per 44 interminabili mesi ci aveva seguito. Nemico finalmente sconfitto e meritata risposta all’onta di Caporetto. Dionigio Annovi

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