La storia è racconto attraverso i libri

Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito.

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Bruno Cecchini
MEMORIE  DI  UN CELOVIEK BERSAGLIERE

La prigionia in Russia di un Ufficiale del 3° Reggimento 1942-1946

Ed. Il Mascellaro Castel Maggiore Bo - Kuritza 2008

Un testimone della resistenza dei prigionieri italiani in Russia. Dalla prefazione del Prof. Alessandro Ferioli

La frequentazione della memorialistica e l’ascolto dei racconti di coloro che combatterono la campagna di guerra contro l’Unione Sovietica danno presto l’abitudine, in base alla frequenza con cui ricorrono gli episodi più significativi della loro esperienza, di ripartire i reduci in due gruppi distinti: coloro che dopo la grande offensiva sovietica del dicembre 1942 hanno compiuto la ritirata riuscendo a ritornare fortunosamente in Italia e coloro che, catturati dai russi, hanno sofferto la prigionia nei campi staliniani per diversi anni. I primi hanno vissuto il dramma del ripiegamento, tra morti e congelamenti, ma sempre con la lusinga del ritorno a casa a ogni passo in più che riuscivano a compiere verso ovest (emblematicamente rappresentata dalla domanda che l’alpino Giuanin del Sergente nella neve rivolge insistentemente al suo superiore: “Sergentmagiù, ghe rivarém a baita?”); i secondi hanno sofferto (talvolta in aggiunta a tutto ciò) anche i supplizi dei lager, ritornando in patria stremati nel fisico e devastati nell’animo, induriti nel cuore e quasi stranieri nella propria terra, pressoché ignari di alcuni anni di storia italiana che si erano svolti senza di loro, spesso contrastati a ogni minimo tentativo di raccontare e descrivere le vicende che li avevano visti protagonisti. Tra questi ultimi si trovava Bruno Cecchini, nato a Sambuca Pistoiese (PT) nel 1921, sottotenente nel 3° Reggimento Bersaglieri, rimpatriato soltanto nel luglio 1946 dopo oltre tre anni e mezzo di prigionia e autore del memoriale dattiloscritto che oggi, a vent’anni dalla sua stesura non proprio definitiva, pubblichiamo. Rientrato in patria, Cecchini entrò nell’amministrazione scolastica, svolgendo l’attività di maestro elementare e in seguito di direttore didattico nei Circoli delle scuole elementari di Bologna, dove concluse la sua onorata carriera con il conferimento da parte del Ministero della Pubblica Istruzione della Medaglia d’Oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte. Cecchini, che nel corso della sua carriera di educatore si era anche laureato in Pedagogia presso l’Università degli studi di Bologna, è venuto a mancare nel 1999, dopo essere stato per alcuni anni presidente della sezione bolognese della A.N.B. Assieme a Lui sempre presente il sottotenente Carlo Romoli, il quale dopo il rimpatrio non ha mai smesso di disegnare e dipingere vedute artistiche e immagini del campo di Suzdal.

Bruno Cecchini… Non ricordo quanto tempo è trascorso da quella rovinosa caduta; ricordo soltanto che ad un tratto la guancia poggiata sulla neve gelata mi risveglia da quell’improvviso torpore. La testa mi ronza come un alveare arrabbiato; sulla schiena mi sembra si siano abbattuti nodosi bastoni, la mano mi duole e la sento calda come se l’avessi immersa in una bacinella di acqua tiepida. Odo nelle vicinanze un vociare confuso e sommesso, ma il linguaggio non è quello del mio paese. S’odono qua e là brevi raffiche e colpi isolati in vari punti da isbe che bruciano. L’attacco dei bersaglieri è certamente fallito. Mi alzo indolenzito e guardingo, raccolgo il mio mitra e discendo, a saltelli e zigzagando tra l’abitato. Sulla mia destra, da una piccola valletta defilata alla vista e circondata da alcune catapecchie e qualche betulla, s’alza improvvisa una voce ingrandita da un altoparlante a tutto volume che con un tono metallico e gelido, irritante ripete in un italiano stracciato la solita frase prescritta: “Soldati italiani, fratelli arrendetevi; i russi vi tratteranno benissimo e vi rimanderanno molto presto in Italia; fratelli arrendetevi”. Correndo e arrancando raggiungo presto la base dove i resti del Terzo stanno riunendosi. Il tappeto bianco alle spalle è cosparso di morti, morenti, feriti che invocano aiuto e conforto. Nessuno può far niente per loro, nessuno. Molti bersaglieri sono seduti, altri sdraiati, diversi in piedi. Nel gruppo centrale intravedo la figura del colonnello e sento la sua voce ben nota che parla ai vicini e ai lontani:

info@mascellaro.info  ISBN: 978-88-903147-1-1

Dalle note dell'Editore:

La battaglia più sanguinosa del ripiegamento, ampiamente descritta da Cecchini, si combattè nel tentativo di conquistare il villaggio di Meskov: furono i bersaglieri del 3° Reggimento a muovere all’assalto sotto il fuoco dei mortai e dei cannoni nemici attraverso una spianata ricoperta di neve. I russi lasciano le posizioni e si ritirano in una piccola chiesa sconsacrata su un’altura vicina, che da quel momento diviene il fulcro della battaglia. La chiesa viene presa e perduta più volte, fintanto che in rinforzo dei sovietici sopraggiungono i carri armati. Nell’azione il 70% degli effettivi del reggimento è perduto. Le postazioni vengono mantenute sino all’alba del giorno successivo, quando i superstiti senza munizioni ripiegano verso Kalmikov, a dieci chilometri da Meskov, dove si rendono conto di essere rimasti del tutto isolati.

 Sono le prime ore del mattino del 21 dicembre 1942 e quel che resta del 3° Reggimento viene completamente accerchiato dal nemico che incombe dalle alture circostanti: attaccato dai mortai, dai carri armati e dalla fanteria russa, è sommerso e distrutto in pochi e brevi scontri. I pochi superstiti vengono catturati e incolonnati; poche ore più tardi inizia la marcia di trasferimento verso i lager di Stalin. Il Campo 160 di Suzdal’, dove fu internato Cecchini, a 300 (200) chilometri a nordest di Mosca, era destinato agli ufficiali di tutte le nazionalità (compresi i cappellani militari come la medaglia d’oro don Enelio Franzoni). Il libro descrive la vita dei prigionieri nel campo, segnata da fame, freddo e malattie non curate. La sua particolarità sta però nella minuzia con cui l’autore ricorda la fitta azione dei propagandisti politici sovietici e italiani per convincere i prigionieri ad aderire al comunismo. A tale scopo tennero interrogatori con richieste di sottoscrizioni di appelli al popolo italiano, conferenze e attività culturali con discussioni pubbliche. Cecchini fu tra gli irriducibili oppositori del sistema del lavaggio del cervello, scegliendo di mantenere fede al giuramento militare prestato e addirittura rinforzandolo con un ulteriore patto di fedeltà alla patria all’interno di un ristretto gruppo di prigionieri; perciò fu tra coloro contro cui le autorità sovietiche si accanirono in modo particolare, al punto da inserirlo in un elenco di cinquanta ufficiali che durante il viaggio di rimpatrio, nell’estate 1946, furono ulteriormente trattenuti in una località romena affinchè non ritornassero in Italia assieme agli altri colleghi. La propaganda nei campi sovietici non si limitò a combattere il regime fascista ma si scagliò ferocemente contro l’intero sistema occidentale, ovvero contro la borghesia, la democrazia, il capitalismo e la religione, al fine di persuadere i prigionieri che solo il comunismo, una volta esportato dall’URSS nel resto d’Europa, avrebbe garantito a tutti la libertà, l’uguaglianza e il benessere materiale e spirituale. Le autorità sovietiche, spalleggiate dai militanti italiani, intendevano preparare una largo gruppo di prigionieri che dopo il rimpatrio si dimostrassero aperti alla politica dell’URSS e alle sue richieste di fare attività spionistica. Di conseguenza risulta (questa è l’opinione di Ferioli) che i militari italiani che resistettero alle pressioni dei propagandisti si resero interpreti di una vera e propria resistenza senz’armi, ispirata dalla fedeltà al giuramento militare e dal patriottismo. L’apporto del memoriale di Cecchini, che di quella resistenza fu uno degli animatori, contribuisce oggi a una migliore conoscenza di quei fatti storici troppo spesso affogati nel silenzio o lasciati alle strumentalizzazioni politiche di parte.

“Bersaglieri del Terzo, non abbiamo più munizioni per combattere, siamo stremati dalla stanchezza, intorpiditi dal gelo, senza un riparo e niente per fermare i T-34 che all’alba scenderanno dalle balke vicine per finirci. Ascoltate, fanti piumati: fermarsi in questo bianco deserto vuol dire morire di freddo; aspettare in queste condizioni l’alba significa morire ugualmente per mano dei russi. Voi tutti, soldati e ufficiali, anche nella sconfitta siete stati degni del Terzo. Ritiriamoci a Konovalov, le isbe del paese ci offriranno almeno per qualche ora tepore e riposo, allevieranno in parte la tremenda stanchezza che tutti ci opprime e fors’anche ci daranno un poco di pace. Bersaglieri... ”.

E s’avvia seguito dai resti del reggimento e dai sopravvissuti ai due assalti alla piazzaforte di Meskov. Dall’alto della balka un ultimo sguardo alla bianca distesa che lasciamo alle spalle; un fraterno pensiero ai tanti fratelli rimasti e via di nuovo arrancando tra la neve e il gelo di quella pista ghiacciata, sferzata, spazzata dal gelido vento del nord che ghignando ci segue. Le tiepide isbe di Kalmikov-Konovalov ci offrono un umano riparo, un’ora di sonno.
Prigioniero dell’Armata Rossa
21 dicembre del 1942: Con le prime luci dell’alba dalle balke attorno al paese sciamano verso di noi le fanterie russe, accompagnate dai pesanti T-34 che fanno tremare attorno la terra ancora addormentata ma pur sempre viva. Nessuna reazione da parte nostra è umanamente possibile; sappiamo bene cosa ci aspetta e siamo rassegnati al peggio. Non nascono bersaglieri che in qualsiasi tragico frangente possano pensare di sottrarsi alla morte, al dolore, al destino più crudele uccidendosi o stupidamente facendosi uccidere. Dalle isbe escono a gruppi gli scampati ancora intontiti dal sonno e sfiniti; muti, con le mani alzate si mettono in fila sul ciglio della strada spinti dal vociare arrogante e dalle botte sulla schiena coi calci dei fucili. Ogni colpo è seguito da un: “Davai bistrà, ioptuoi mater; italianski caput”.
Chi può muovere anche solo qualche passo, sorretto da un amico, esce dall’isba e s’incolonna con gli altri perché tutti ben sanno che restare vuol dire morire; meglio: essere ammazzati. Nel paese ogni tanto risuonano lugubri una raffica di parabellum o spari isolati; sono colpi che mettono fine al calvario dei segnati dal destino o dalla ineluttabile sorte. Copro alla meglio, allungando la manica della giacca, la mano sinistra che è tutta ricoperta da grumi di sangue coagulato; Capisco che qualcosa è rimasto conficcato nella carne ma non oso guardare. Perquisizione per tutti; gli orologi sono i primi a sparire poi il resto: portafogli, fotografie, matite, penne, tutto ciò che è possibile arraffare. I cappotti foderati con le bianche pellicce d’agnello vanno a ruba…..… “Davai bistrà”, e con una gran botta della canna del mitra sul fianco sinistro mi fanno incolonnare con gli altri. Poco distanti dal nostro gruppetto due bersaglieri giacciono a terra semisdraiati nella neve. Uno ha una larga chiazza di sangue sulla coscia destra, l’altro si sorregge con la mano sinistra e con l’altra, protesa in avanti, sembra invocare un aiuto per rimettersi in piedi. Nessuno di noi lo può soccorrere. Solo due raffiche di mitra vengono in aiuto ai poveri sventurati che, senza un gemito, restano stesi sul bianco lastrone ghiacciato. E da Kalmikov-Konovalov iniziarono le lunghe marce del Davai bistrà  (avanti presto) attraverso l’immensa distesa gelata e sferzata dal freddo marosc che viene dal nord. I prigionieri, già sfiniti dai ripetuti assalti alla piazzaforte di Meskov, arrancavano sul terreno innevato intruppati in lunghe, tortuose colonne che si snodavano sul bianco candore tra violente tempeste di nevischio e freddo intenso. La temperatura di giorno sfiorava i -20, -30°; di notte si toccavano temperature più basse ancora. La fame dilaniava lo stomaco; il riposo era limitato alle sole ore in cui la luce svaniva per lasciare posto alla notte; il riparo era meraviglioso quando nell’interminabile andare le guardie ci ammassavano in qualche stalla o capannone-magazzino. Il giaciglio di solito era la nuda terra o un lastrone ghiacciato; la sete si leniva con un pugno di neve che pareva farina tipo doppio zero; il cibo, saltuariamente, ogni due o tre giorni, consisteva in un tocchetto di pane nero come la pece e, qualche rara volta, in un pezzetto di pesce secco talmente duro che per addentarlo dovevamo tenerlo in bocca a lungo per evitare il rischio di rompere i denti. Alcune manciate di cavoli in salamoia sostituivano spesso i cibi prelibati innanzi ricordati. Quando la marcia si svolgeva distante da piccoli paesi o da agglomerati di isbe saltava tutto: cibo, riposo al coperto, sonno. Quante volte per tetto c’era solo un cielo di stelle, o un denso mare di nubi, o addirittura un violento turbinio di cristalli di neve. Inutile chiedere ai mongoli carcerieri quanti chilometri mancavano alla meta o il luogo di destinazione finale. Settimane e settimane durò quel supplizio atroce; ogni tanto, sempre più spesso, qualcuno stremato cadeva per non rialzarsi; di tanto in tanto una raffica di mitra o un colpo di fucile poneva fine ad una vita da bestie. Quanti italiani sono morti in questo modo; quanti sono stati ammazzati da qualche tovarisc (compagno)soldato, tronfio o gonfio di vodka, per essersi seduto a riprendere fiato. Unico segno lasciato in quel triste viandare, le macchie scure su quel bianco candore dei morti o degli ammazzati. Nient’altro. Natale, l’ultimo e il primo giorno dell’anno, l’Epifania vennero inconsciamente cancellate dalla mente e dal cuore. L’esistenza si risolveva in una meccanica azione degli arti inferiori: camminare, andare avanti perché fermarsi significava morire. I bisogni corporali, radi, erano riservati alla notte e dove capitava. Il freddo sempre più intenso, la fatica sempre più grande, la fame sempre più atroce; penoso poi l’avanzare sotto la tormenta di neve che spesso si abbatteva sulla colonna in cammino. Molti prigionieri cominciarono ad avvertire insensibilità agli arti, mani e piedi, anche al naso, accompagnata dopo poco da lancinanti dolori, da gonfiori violacei. Congelamento. Chi aveva la sfortuna di avvertire tali sintomi era finito. Dopo qualche giorno di tormento cadeva sotto un colpo di fucile che, per lo meno, in questo caso, aveva il pregio di porre fine ad una straziante agonia.
La vista di un treno addetto al trasporto del bestiame, in un incerto mattino sul finire del mese di gennaio e in quel bianco deserto desolato e ghiacciato in cui cielo e terra si confondevano nel vicino, nebbioso orizzonte, rincuorò e riaccese le sopite speranze dei condannati a morte. Il celoviek (uomo) bersagliere e tutti gli altri salirono sui vagoni; per ogni carro 40, 50 prigionieri e più stipati e ammassati sui pianali di ferro ricoperti da uno spesso strato di brina. Completato il carico, le porte si richiusero sprangate da un solido catenaccio esterno. Alla luce subentrò il buio e la lunga tradotta, lentamente, lentamente iniziò la sua marcia attraverso la steppa infinita, verso l’ignoto tra un turbinio di nevischio e sotto le folate sferzanti del maledetto vento del nord. Che fame, gente! Che sete! Ogni tanto il celoviek bersagliere, a turno coi condomini del carro, per placare l’arsura che incendiava la gola leccava avidamente uno dei bulloni di ferro che tenevano unite le assi al telaio del vagone e sul quale il vapore, il fiato di quei sessanta disgraziati animali si condensava formando una bianca, densa e fiorita coltre di brina. I bisogni corporali, scarsi e proporzionati al mangiare!!, non costituivano un problema in quell’angusto spazio per il fatto che ogni residuo, più o meno sgradevole, si trasformava all’istante in un’informe frittella di ghiaccio. I gemiti dei morenti, continui e fievoli, si confondevano con le grida di dolore dei congelati; i rantoli strazianti di un corpo che esalava l’ultimo respiro, i gorgoglii schiumosi, appena percettibili, di un agonizzante rompevano il silenzio di tomba e senza voci che gravava all’interno buio del gelido vagone. Il puzzo nel vagone era un orrido tanfo di carne in putrefazione che emanava dagli arti in cancrena, misto ad un acre odore di sudicio e di sporco, di lezzo e di urina. Per molti la morte era un vero sollievo; per altri, colpiti dalla cosiddetta agonia bianca, un dolce, indolore passaggio a miglior vita sognando perché, assopendosi, il freddo li trasportava dal sonno alla morte. A scadenze imprevedibili il treno si fermava in aperta campagna; le porte dei vagoni venivano aperte e un tovarisc, con voce da cane, gridava:
Scolki caput, sivodnia? Davai bistrà” (Quanti morti, oggi? Fare presto).
I cadaveri, rigidi come tronchi di legno, venivano raccolti dai prigionieri di ogni vagone e gettati sulla scarpata della ferrovia. Che tonfo strano facevano quei corpi nel cadere sul terreno e sulla ghiaia ghiacciati. Sembrava di sbattere a terra una lastra di vetro che al contatto di un sasso si spezzava in frantumi. E che forme dantesche avevano assunto quelle rigide salme scheletrite: alcune distese o rannicchiate, altre accovacciate o con la testa fra le mani, chi con gli occhi sbarrati o la bocca aperta; tutte comunque restavano, anche dopo la caduta sulla massicciata, così come la morte le aveva ghermite. Dopo settimane e settimane, centinaia e centinaia di chilometri, un giorno il treno si fermò. Stazione di Vladimir; si scende, forse siamo arrivati alla meta. Macché, pura illusione! I celoviek, cioè i prigionieri sopravvissuti, una volta scesi dalla tradotta, al fatidico ordine davai bistrà, e dopo la “conta” e la prevista perquisizione, all’aperto ovviamente, ripresero a piedi la marcia verso un altro luogo sperduto nella steppa ghiacciata, molto distante, incontro all’ignoto, a qualche sito che ci avrebbe ospitati in attesa della fine del nostro misero calvario terreno. Sferzati dalla gelida tormenta, intorpiditi dal freddo, stremati dalla fatica e dalla fame, con la sete però appagata da ripetute manciate di neve colte al volo dal manto che ricopriva la terra, gli uomini ripresero ad arrancare con la forza della disperazione sulla piatta distesa gelata con temperature che destavano sgomento al solo sentirle pronunciare: meno venti, meno trenta e così via. E avanti, sempre avanti finché uno non cadeva in ginocchio o per terra e allora quel martirio cessava al suono lugubre di un colpo di fucile o di una raffica di parabellum, avanti ancora chilometro dopo chilometro, ore dopo ore incontro al basso orizzonte perché nessuno conosceva né il luogo d’arrivo né quando sarebbe finito quel penoso viandare. “Dove andiamo, tovarisc? Quanti chilometri dobbiamo ancora percorrere, nacialnik?” “Nisnaio, davai bistrà”.
La vista, in un pomeriggio inoltrato, di un grosso paese che si stagliava in lontananza tra il nevischio e la densa nebbia ci rincuorò un poco e ci infuse nuova lena per proseguire. Una grande cerchia di mura con svettanti torrioni a cipolla e uno spesso, alto portone d’ingresso - tipo castello medioevale - ci accolsero. Nella fortezza antica diversi caseggiati in muratura segnati dagli anni ci offrirono finalmente un riparo. Erano scomparsi l’immenso cielo che sovrastava sulla steppa infinita e il vasto orizzonte che si confondeva in lontananza con la stessa terra; sopra di noi restava un piccolo fazzoletto di cielo, dintorno le alte mura e i possenti torrioni: un luogo tetro ma finalmente eravamo arrivati alla meta e sotto un tetto per ripararci. Eravamo nel lager di Suzdal’, al Campo n. 160; la nostra dimora che ci avrebbe ospitati per tutta la lunga prigionia in Russia. Finite d’incanto le tragiche, lunghe, interminabili marce del davai; svanito il ricordo amaro del treno del pianto e della morte, si riaffacciava in noi la speranza di un domani migliore, non certo immaginabile peggiore dell’oggi......

   

cattedrale a Suzdal

Egidio Franzini, ufficiale degli alpini, nel suo libro "In Russia":"I russi mettono nelle nostre file un confidente che parla italiano. La divisa italiana si confonde benissimo con la massa. Camminiamo verso Rossosc che raggiungiamo. Per la strada lunghe colonne di carri armati pesanti con soldati ebbri dalla vittoria. I cingoli ci sfiorano paurosamente. Qualcuno dei nostri viene maciullato così per ischerzo. Incomincia il calvario; spesso senza motivo alcuno i russi ci sparano addosso. Molti cadono. Gli innocenti soldati, a decine, si abbattono sulla neve. Spesso incontriamo dei gruppi di russi avvinazzati. Ci vengono vicino, ci sputano addosso, ci picchiano, sparano. Non vedono che siamo dei prigionieri innocui? E la famosa fratellanza verso il proletariato mondiale? No, noi non siamo delle persone; noi siamo delle cose, dei bersagli da tiro a segno. Ma neanche i nostri aguzzini sono delle persone. Essi sono delle belve. Mentre si marcia ci fanno sostare, di tanto in tanto a distendere sulla neve. Dei poliziotti corrono in mezzo a noi con le pistole in pugno, preceduti da cani vigorosi e feroci. La strada si cosparge di cadaveri, nudi, mutilati. Alla fine di ogni tappa dormiamo all’aperto o in stalle, gli uni accanto agli altri, per riscaldarci col nostro stesso calore, col nostro fiato stesso. E così marciamo per giorni. Impossibile descrivere queste marce. Si va senza ricevere alcun alimento, con - 35°, angariati e tormentati da russi che tutto possono sul nostro corpo. Nessuno li controlla. Nessuno ci protegge. Chi potrà credere che abbiamo marciato per sette, dieci giorni mangiando solo qualche boccone di pane offertoci dalla popolazione?alcuni si fermano accoltellati dai congelamenti, si lasciano andare, bestemmiano e infine si addormentano. Siamo al settimo giorno di marcia. Sono completamente privo di forze, i baffi, la barba, i capelli sono diventati un solo blocco di ghiaccio che mi attanaglia il volto. Mordo la neve a larghi bocconi per stancare le mandibole e far tacere i crampi al ventre. Non capisco più nulla, vaneggio, deliro… Dicono che chi non parte viene freddato dalla scorta. Giungiamo a Vorobioka, vengo ricoverato nell’ospedale che non è nient’altro che una baracca di legno. Non c’è organizzazione né disciplina. Per far presto ti pestano, ti torturano. Ad ogni bagno perdiamo 3/4 uomini; restano morti sui tavoli del bagno. Il cuore cede e trac, senza rumore, il giovane che ti parlava sino a qualche momento prima è già freddo a terra.

 

Giuliano Penco

Io resto qui.
Addio.
Stanotte mi copriro' di neve.
E voi che ritornate a casa
pensate qualche volta
a questo cielo di Cerkovo.
Io resto qui
con altri amici
in questa terra.
E voi che ritornate a casa
sappiate
che anche qui,
dove riposo,
in questo campo
vicino al bosco di betulle,
verra' primavera.

... Al lager 160 arrivò un certo triestino, Roncato, che dapprima si presentò come francese, in divisa russa. Il suo compito fu quello di iniziare l'opera di indottrinamento politico tra gli ufficiali che eseguì con zelo, ma senza troppo seguito: le cause principali; fame .. fame.. freddo. Uomo alquanto rozzo, il Roncato, quando le epidemie non ebbero più vittime, riuscì a costituire un primo nucleo antifascista, con un gruppo di sparuti ufficiali. Cominciò a tenere delle riunioni con gruppi di prigionieri, intrattenendoli più che altro sui suoi presunti avventurosi ricordi personali. Fu sostituito da un bolognese, nome di battaglia Rizzoli, nome vero Gottardi. Tutti questi facevano capo a Paolo Robotti, cognato di Togliatti, che appariva nel campo nelle occasioni più importanti e che dirigeva a Mosca il giornale l'Alba ....
INDICE DEL LIBRO
• La mia storia
• L’inverno 1942 nell’impero dei Soviet: accerchiati dall’Armata Rossa
• 17 dicembre: i russi all’attacco delle nostre retrovie
• 20 dicembre: l’assalto alle linee nemiche a Meskov e la ritirata su Konovalov-Kalmikov
• Prigioniero dell’Armata Rossa
• Campo 160, Suzdal’: fame atroce e propaganda asfissiante
• Di che nobile carta le carte proletarie: 2 articoli per L’Alba
• I celoviek boscaioli e gli uomini-cavalli
• Il primo colloquio interrelazionario con la nomenklatura e l’appello per Trieste alla Iugoslavia
• La vita al Campo 160: che fisico, il fisico degli scampati, e che fame la fame!
• Operazione Cornacchie
• L’associazione segreta e il giuramento dei disperati
• Rimpatriano i soldati italiani scampati al massacro; restano i 570 ufficiali
• Suzdal’ addio • A Odessa
• Sighet Maramaros e l’ultima vigliaccata dei comunisti russi e nostrani
• “Signori ufficiali…”
• 19 luglio 1946: fine di un incubo

La discutibile lettera di Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco dopo la battaglia degli Alpini a Nikolajewska  - Mosca 3/3/1943 F http://www.larchivio.org/xoom/togliatti-letteraalpini.htm  e qui sotto la lettera in risposa a familiari che cercavano un disperso

Egregio Signore, xxxx
… Per quello che a me risulta (dallo spoglio della stampa sovietica) il governo sovietico ha pubblicato la lista numerica dei sopravvissuti alla fine della guerra e le date esatte di consegna di tutti i sopravvissuti (con la eccezione credo di una ventina) …… è assurdo anche solo pensare alla più lontana possibilità di esistenza di «dispersi sopravvissuti» perché l'equipaggiamento di quei poveri ufficiali e soldati italiani non consentiva la sopravvivenza in quelle condizioni ……i responsabili diretti del massacro di quei giovani (Messe e gli altri, non esclusi i vescovi e i dirigenti di Azione Cattolica che benedissero la spedizione criminale contro la Russia) si servono del male da essi commesso per seminare odio e discordie tra i popoli e nel nostro popolo….Nelle condizioni in cui erano (i russi), hanno fatto quanto dovevano (o potevano). Purtroppo noi italiani ci troveremmo molto imbarazzati se quelle autorità ci chiedessero conto dei prigionieri russi fatti dalle truppe italiane. Lo sa che non ne è tornato in Russia nemmeno uno? Messe e gli altri generali italiani li consegnavano ai tedeschi che li passavano ai forni crematori. Cordialmente  Palmiro Togliatti

 

P.S. Le montagne dell’Appennino erano piene di partigiani russi evasi dai campi di concentramento l’8 settembre. Nel modenese se ne era formato addirittura un battaglione, commissario politico compreso, aggregati all'inizio ai Cervi  e ci fu chi ritornò a casa e chi no.  Ma erano solamente 1/20 di quelli (5.000 ca) che si conoscono e che fecero la guerra partigiana per cui pure morirono.

http://www.bibliotecapersicetana.it/node/468  il testo completo

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