La storia è racconto attraverso i libri Il primo testo che accompagna la presentazione è in genere quello diffuso dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati. Se non diversamente indicati sono del sito. 50 |
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Bruno Cecchini
La prigionia in Russia di un Ufficiale del 3° Reggimento 1942-1946 Ed. Il Mascellaro Castel Maggiore Bo - Kuritza 2008 |
Un testimone della resistenza
dei prigionieri italiani in Russia.
Dalla prefazione del Prof. Alessandro Ferioli La frequentazione della memorialistica e l’ascolto dei racconti di coloro che combatterono la campagna di guerra contro l’Unione Sovietica danno presto l’abitudine, in base alla frequenza con cui ricorrono gli episodi più significativi della loro esperienza, di ripartire i reduci in due gruppi distinti: coloro che dopo la grande offensiva sovietica del dicembre 1942 hanno compiuto la ritirata riuscendo a ritornare fortunosamente in Italia e coloro che, catturati dai russi, hanno sofferto la prigionia nei campi staliniani per diversi anni. I primi hanno vissuto il dramma del ripiegamento, tra morti e congelamenti, ma sempre con la lusinga del ritorno a casa a ogni passo in più che riuscivano a compiere verso ovest (emblematicamente rappresentata dalla domanda che l’alpino Giuanin del Sergente nella neve rivolge insistentemente al suo superiore: “Sergentmagiù, ghe rivarém a baita?”); i secondi hanno sofferto (talvolta in aggiunta a tutto ciò) anche i supplizi dei lager, ritornando in patria stremati nel fisico e devastati nell’animo, induriti nel cuore e quasi stranieri nella propria terra, pressoché ignari di alcuni anni di storia italiana che si erano svolti senza di loro, spesso contrastati a ogni minimo tentativo di raccontare e descrivere le vicende che li avevano visti protagonisti. Tra questi ultimi si trovava Bruno Cecchini, nato a Sambuca Pistoiese (PT) nel 1921, sottotenente nel 3° Reggimento Bersaglieri, rimpatriato soltanto nel luglio 1946 dopo oltre tre anni e mezzo di prigionia e autore del memoriale dattiloscritto che oggi, a vent’anni dalla sua stesura non proprio definitiva, pubblichiamo. Rientrato in patria, Cecchini entrò nell’amministrazione scolastica, svolgendo l’attività di maestro elementare e in seguito di direttore didattico nei Circoli delle scuole elementari di Bologna, dove concluse la sua onorata carriera con il conferimento da parte del Ministero della Pubblica Istruzione della Medaglia d’Oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte. Cecchini, che nel corso della sua carriera di educatore si era anche laureato in Pedagogia presso l’Università degli studi di Bologna, è venuto a mancare nel 1999, dopo essere stato per alcuni anni presidente della sezione bolognese della A.N.B. Assieme a Lui sempre presente il sottotenente Carlo Romoli, il quale dopo il rimpatrio non ha mai smesso di disegnare e dipingere vedute artistiche e immagini del campo di Suzdal. Bruno Cecchini… Non ricordo quanto tempo è trascorso da quella rovinosa caduta; ricordo soltanto che ad un tratto la guancia poggiata sulla neve gelata mi risveglia da quell’improvviso torpore. La testa mi ronza come un alveare arrabbiato; sulla schiena mi sembra si siano abbattuti nodosi bastoni, la mano mi duole e la sento calda come se l’avessi immersa in una bacinella di acqua tiepida. Odo nelle vicinanze un vociare confuso e sommesso, ma il linguaggio non è quello del mio paese. S’odono qua e là brevi raffiche e colpi isolati in vari punti da isbe che bruciano. L’attacco dei bersaglieri è certamente fallito. Mi alzo indolenzito e guardingo, raccolgo il mio mitra e discendo, a saltelli e zigzagando tra l’abitato. Sulla mia destra, da una piccola valletta defilata alla vista e circondata da alcune catapecchie e qualche betulla, s’alza improvvisa una voce ingrandita da un altoparlante a tutto volume che con un tono metallico e gelido, irritante ripete in un italiano stracciato la solita frase prescritta: “Soldati italiani, fratelli arrendetevi; i russi vi tratteranno benissimo e vi rimanderanno molto presto in Italia; fratelli arrendetevi”. Correndo e arrancando raggiungo presto la base dove i resti del Terzo stanno riunendosi. Il tappeto bianco alle spalle è cosparso di morti, morenti, feriti che invocano aiuto e conforto. Nessuno può far niente per loro, nessuno. Molti bersaglieri sono seduti, altri sdraiati, diversi in piedi. Nel gruppo centrale intravedo la figura del colonnello e sento la sua voce ben nota che parla ai vicini e ai lontani: |
info@mascellaro.info ISBN: 978-88-903147-1-1
Dalle note dell'Editore: La battaglia più sanguinosa del ripiegamento, ampiamente descritta da Cecchini, si combattè nel tentativo di conquistare il villaggio di Meskov: furono i bersaglieri del 3° Reggimento a muovere all’assalto sotto il fuoco dei mortai e dei cannoni nemici attraverso una spianata ricoperta di neve. I russi lasciano le posizioni e si ritirano in una piccola chiesa sconsacrata su un’altura vicina, che da quel momento diviene il fulcro della battaglia. La chiesa viene presa e perduta più volte, fintanto che in rinforzo dei sovietici sopraggiungono i carri armati. Nell’azione il 70% degli effettivi del reggimento è perduto. Le postazioni vengono mantenute sino all’alba del giorno successivo, quando i superstiti senza munizioni ripiegano verso Kalmikov, a dieci chilometri da Meskov, dove si rendono conto di essere rimasti del tutto isolati. Sono le prime ore del mattino del 21 dicembre 1942 e quel che resta del 3° Reggimento viene completamente accerchiato dal nemico che incombe dalle alture circostanti: attaccato dai mortai, dai carri armati e dalla fanteria russa, è sommerso e distrutto in pochi e brevi scontri. I pochi superstiti vengono catturati e incolonnati; poche ore più tardi inizia la marcia di trasferimento verso i lager di Stalin. Il Campo 160 di Suzdal’, dove fu internato Cecchini, a 300 (200) chilometri a nordest di Mosca, era destinato agli ufficiali di tutte le nazionalità (compresi i cappellani militari come la medaglia d’oro don Enelio Franzoni). Il libro descrive la vita dei prigionieri nel campo, segnata da fame, freddo e malattie non curate. La sua particolarità sta però nella minuzia con cui l’autore ricorda la fitta azione dei propagandisti politici sovietici e italiani per convincere i prigionieri ad aderire al comunismo. A tale scopo tennero interrogatori con richieste di sottoscrizioni di appelli al popolo italiano, conferenze e attività culturali con discussioni pubbliche. Cecchini fu tra gli irriducibili oppositori del sistema del lavaggio del cervello, scegliendo di mantenere fede al giuramento militare prestato e addirittura rinforzandolo con un ulteriore patto di fedeltà alla patria all’interno di un ristretto gruppo di prigionieri; perciò fu tra coloro contro cui le autorità sovietiche si accanirono in modo particolare, al punto da inserirlo in un elenco di cinquanta ufficiali che durante il viaggio di rimpatrio, nell’estate 1946, furono ulteriormente trattenuti in una località romena affinchè non ritornassero in Italia assieme agli altri colleghi. La propaganda nei campi sovietici non si limitò a combattere il regime fascista ma si scagliò ferocemente contro l’intero sistema occidentale, ovvero contro la borghesia, la democrazia, il capitalismo e la religione, al fine di persuadere i prigionieri che solo il comunismo, una volta esportato dall’URSS nel resto d’Europa, avrebbe garantito a tutti la libertà, l’uguaglianza e il benessere materiale e spirituale. Le autorità sovietiche, spalleggiate dai militanti italiani, intendevano preparare una largo gruppo di prigionieri che dopo il rimpatrio si dimostrassero aperti alla politica dell’URSS e alle sue richieste di fare attività spionistica. Di conseguenza risulta (questa è l’opinione di Ferioli) che i militari italiani che resistettero alle pressioni dei propagandisti si resero interpreti di una vera e propria resistenza senz’armi, ispirata dalla fedeltà al giuramento militare e dal patriottismo. L’apporto del memoriale di Cecchini, che di quella resistenza fu uno degli animatori, contribuisce oggi a una migliore conoscenza di quei fatti storici troppo spesso affogati nel silenzio o lasciati alle strumentalizzazioni politiche di parte. |
“Bersaglieri del Terzo, non abbiamo più munizioni per combattere, siamo
stremati dalla stanchezza, intorpiditi dal gelo, senza un riparo e niente
per fermare i T-34 che all’alba scenderanno dalle balke vicine per
finirci. Ascoltate, fanti piumati: fermarsi in questo bianco deserto vuol
dire morire di freddo; aspettare in queste condizioni l’alba significa
morire ugualmente per mano dei russi. Voi tutti, soldati e ufficiali,
anche nella sconfitta siete stati degni del Terzo. Ritiriamoci a Konovalov,
le isbe del paese ci offriranno almeno per qualche ora tepore e riposo,
allevieranno in parte la tremenda stanchezza che tutti ci opprime e fors’anche
ci daranno un poco di pace. Bersaglieri... ”.
E s’avvia seguito dai resti
del reggimento e dai sopravvissuti ai due assalti alla piazzaforte di Meskov. Dall’alto della balka un ultimo sguardo alla bianca distesa che
lasciamo alle spalle; un fraterno pensiero ai tanti fratelli rimasti e via
di nuovo arrancando tra la neve e il gelo di quella pista ghiacciata,
sferzata, spazzata dal gelido vento del nord che ghignando ci segue. Le
tiepide isbe di Kalmikov-Konovalov ci offrono un umano riparo, un’ora di
sonno. |
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Egidio Franzini, ufficiale degli alpini, nel suo libro "In Russia":"I russi mettono nelle nostre file un confidente che parla italiano. La divisa italiana si confonde benissimo con la massa. Camminiamo verso Rossosc che raggiungiamo. Per la strada lunghe colonne di carri armati pesanti con soldati ebbri dalla vittoria. I cingoli ci sfiorano paurosamente. Qualcuno dei nostri viene maciullato così per ischerzo. Incomincia il calvario; spesso senza motivo alcuno i russi ci sparano addosso. Molti cadono. Gli innocenti soldati, a decine, si abbattono sulla neve. Spesso incontriamo dei gruppi di russi avvinazzati. Ci vengono vicino, ci sputano addosso, ci picchiano, sparano. Non vedono che siamo dei prigionieri innocui? E la famosa fratellanza verso il proletariato mondiale? No, noi non siamo delle persone; noi siamo delle cose, dei bersagli da tiro a segno. Ma neanche i nostri aguzzini sono delle persone. Essi sono delle belve. Mentre si marcia ci fanno sostare, di tanto in tanto a distendere sulla neve. Dei poliziotti corrono in mezzo a noi con le pistole in pugno, preceduti da cani vigorosi e feroci. La strada si cosparge di cadaveri, nudi, mutilati. Alla fine di ogni tappa dormiamo all’aperto o in stalle, gli uni accanto agli altri, per riscaldarci col nostro stesso calore, col nostro fiato stesso. E così marciamo per giorni. Impossibile descrivere queste marce. Si va senza ricevere alcun alimento, con - 35°, angariati e tormentati da russi che tutto possono sul nostro corpo. Nessuno li controlla. Nessuno ci protegge. Chi potrà credere che abbiamo marciato per sette, dieci giorni mangiando solo qualche boccone di pane offertoci dalla popolazione?alcuni si fermano accoltellati dai congelamenti, si lasciano andare, bestemmiano e infine si addormentano. Siamo al settimo giorno di marcia. Sono completamente privo di forze, i baffi, la barba, i capelli sono diventati un solo blocco di ghiaccio che mi attanaglia il volto. Mordo la neve a larghi bocconi per stancare le mandibole e far tacere i crampi al ventre. Non capisco più nulla, vaneggio, deliro… Dicono che chi non parte viene freddato dalla scorta. Giungiamo a Vorobioka, vengo ricoverato nell’ospedale che non è nient’altro che una baracca di legno. Non c’è organizzazione né disciplina. Per far presto ti pestano, ti torturano. Ad ogni bagno perdiamo 3/4 uomini; restano morti sui tavoli del bagno. Il cuore cede e trac, senza rumore, il giovane che ti parlava sino a qualche momento prima è già freddo a terra. |
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Giuliano Penco
Io resto qui. |
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... Al lager 160 arrivò un certo triestino, Roncato, che dapprima si presentò come francese, in divisa russa. Il suo compito fu quello di iniziare l'opera di indottrinamento politico tra gli ufficiali che eseguì con zelo, ma senza troppo seguito: le cause principali; fame .. fame.. freddo. Uomo alquanto rozzo, il Roncato, quando le epidemie non ebbero più vittime, riuscì a costituire un primo nucleo antifascista, con un gruppo di sparuti ufficiali. Cominciò a tenere delle riunioni con gruppi di prigionieri, intrattenendoli più che altro sui suoi presunti avventurosi ricordi personali. Fu sostituito da un bolognese, nome di battaglia Rizzoli, nome vero Gottardi. Tutti questi facevano capo a Paolo Robotti, cognato di Togliatti, che appariva nel campo nelle occasioni più importanti e che dirigeva a Mosca il giornale l'Alba .... | |
INDICE DEL LIBRO • La mia storia • L’inverno 1942 nell’impero dei Soviet: accerchiati dall’Armata Rossa • 17 dicembre: i russi all’attacco delle nostre retrovie • 20 dicembre: l’assalto alle linee nemiche a Meskov e la ritirata su Konovalov-Kalmikov • Prigioniero dell’Armata Rossa • Campo 160, Suzdal’: fame atroce e propaganda asfissiante • Di che nobile carta le carte proletarie: 2 articoli per L’Alba • I celoviek boscaioli e gli uomini-cavalli • Il primo colloquio interrelazionario con la nomenklatura e l’appello per Trieste alla Iugoslavia • La vita al Campo 160: che fisico, il fisico degli scampati, e che fame la fame! • Operazione Cornacchie • L’associazione segreta e il giuramento dei disperati • Rimpatriano i soldati italiani scampati al massacro; restano i 570 ufficiali • Suzdal’ addio • A Odessa • Sighet Maramaros e l’ultima vigliaccata dei comunisti russi e nostrani • “Signori ufficiali…” • 19 luglio 1946: fine di un incubo |
La discutibile lettera di Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco dopo la battaglia degli Alpini a Nikolajewska - Mosca 3/3/1943 F http://www.larchivio.org/xoom/togliatti-letteraalpini.htm e qui sotto la lettera in risposa a familiari che cercavano un disperso |
Egregio Signore,
xxxx … Per quello che a me risulta (dallo spoglio della stampa sovietica) il governo sovietico ha pubblicato la lista numerica dei sopravvissuti alla fine della guerra e le date esatte di consegna di tutti i sopravvissuti (con la eccezione credo di una ventina) …… è assurdo anche solo pensare alla più lontana possibilità di esistenza di «dispersi sopravvissuti» perché l'equipaggiamento di quei poveri ufficiali e soldati italiani non consentiva la sopravvivenza in quelle condizioni ……i responsabili diretti del massacro di quei giovani (Messe e gli altri, non esclusi i vescovi e i dirigenti di Azione Cattolica che benedissero la spedizione criminale contro la Russia) si servono del male da essi commesso per seminare odio e discordie tra i popoli e nel nostro popolo….Nelle condizioni in cui erano (i russi), hanno fatto quanto dovevano (o potevano). Purtroppo noi italiani ci troveremmo molto imbarazzati se quelle autorità ci chiedessero conto dei prigionieri russi fatti dalle truppe italiane. Lo sa che non ne è tornato in Russia nemmeno uno? Messe e gli altri generali italiani li consegnavano ai tedeschi che li passavano ai forni crematori. Cordialmente Palmiro Togliatti P.S. Le montagne dell’Appennino erano piene di partigiani russi evasi dai campi di concentramento l’8 settembre. Nel modenese se ne era formato addirittura un battaglione, commissario politico compreso, aggregati all'inizio ai Cervi e ci fu chi ritornò a casa e chi no. Ma erano solamente 1/20 di quelli (5.000 ca) che si conoscono e che fecero la guerra partigiana per cui pure morirono. |
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http://www.bibliotecapersicetana.it/node/468 il testo completo |