La storia è racconto attraverso i libri

I testi che accompagnano la presentazione sono in genere quelli diffusi dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati

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DA BERSAGLIERE AD ARDITO

Nascita, vita e vicende del XXIII reparto d'assalto

 

Ludovico Lommi

edizioni Itinera Progetti Bassano del Grappa

 

 

Dalla prefazione di Paolo Volpato
Nell’iconografia della prima guerra mondiale, la figura dell’ardito, il soldato impiegato nei reparti d’assalto del Regio Esercito italiano, rappresenta qualcosa di più di un semplice combattente. Senza entrare in considerazioni più ampie che, fatalmente, portano questa figura a sconfinare dall’ambito prettamente militare a quello più complesso della politica, è indubbio che i reparti d’assalto italiani si guadagnarono la loro fama già durante le battaglie del 1917 e del 1918. …. fin da subito, gli arditi furono qualcosa di più e assunsero dei caratteri specifici, la cui peculiarità non ebbe riscontri nei reparti simili organizzati in altri eserciti europei. L’idealizzazione di un soldato che amava la guerra, che cercava la morte in battaglia, che usava armi primitive, che combatteva fuori le norme e anche contro le norme, serviva ai comandi italiani per far tornare, attraverso lo spirito di emulazione, la volontà di resistere, combattere e vincere ad un esercito che aveva subito il disastro della rotta seguente allo sfondamento a Caporetto. Gli arditi, soldati che comunque facevano una scelta dettata più dal cuore che dagli ordini, autoalimentarono il loro mito, attraverso gli scritti certamente, ma soprattutto con il loro atteggiamento nelle retrovie e con il loro comportamento nei combattimenti, tanto che ben presto la fama travalicò i confini e si diffuse prima nell’esercito avversario e, in seguito, anche tra gli eserciti alleati. Nacque il mito dell’ardito, soldato senza paura e con qualche macchia, che fece della morte una religione, della guerra il suo credo, della battaglia la sua vita. In questa opera di ricostruzione e di affermazione del mito, si insinua felicemente il volume di Lommi, ufficiale del XXIII Reparto d’Assalto, protagonista delle grandi battaglie da giugno a ottobre del 1918. .. Il 16 giugno 1918 il Cap. Lommi viene gravemente ferito ed è costretto a lasciare il campo, meritando la seconda medaglia d’argento, a pochi giorni da quella ricevuta per l’attacco di Capo Sile, la cui motivazione oltretutto illustra l’azione:

“Sempre in testa alla sua compagnia si slanciava contro il nemico che tanto odiava; ferito una prima volta, continuava a combattere, sempre trascinando gli uomini col suo fulgido esempio, finché la mitragliatrice nemica, lo colpiva una seconda volta gravemente — Canale Fossetta, 16 giugno 1918”.

Il Lommi combatteva assieme al fratello, a sua volta ferito nel fatto d’arme di Capo Sile. Peraltro, anche le perdite austriache sono rilevanti e nei giorni successivi inevitabile parte il contrattacco italiano. Il 19 giugno (1918) il XXIII Reparto d’Assalto concorre nell’azione volta a riprendere il terreno fino al Piave Vecchio. La lotta è ancora asprissima tra canali e fossati, gli arditi si battono casolare per casolare, con i pugnali forano le mura per far uscire le canne dei fucili, ufficiali mutilati incitano alla lotta, a ondate escono nei ripetuti assalti, assieme ai fanti della Sassari, fino a che gli austriaci sono costretti a ritirarsi difendendo con valore le artiglierie portate oltre il fiume. Non mancano del resto episodi di cruda violenza che, spesso, travalicano anche la pur necessaria volontà di annientamento che anima i soldati in combattimento.

Ricorda nelle sue memorie l’On.le Luigi Gasparotto: “A Meolo sono a riposo gli arditi del maggiore Allegretti, entusiasta delle sue fiamme. “Gli austriaci, dice il maggiore, venivano avanti colle mani alzate per proteggere le squadre che sparavano a tradimento “. il cappellano, che si è battuto anche lui, dice: “La nostra prima ondata sembrava un volo di rondini “. Fra i primi a morire fu il tenente Meneghini, al grido: “Viva l’Italia”. il tenente Leonarduzzi, milanese, che, scappato dal deposito, era corso dall‘Allegretti a pregarlo di lasciarlo battersi con gli arditi, ferito cinque volte, è rimasto per quattro ore nel terreno conteso fra noi e loro. Dato oramai per morto, nella notte si trascinò nella nostra linea. il nemico si è battuto alla beduina, sgusciando a piccoli gruppi fra siepi, da case, da fossati. Era invisibile”. Ma anche per gli arditi vi era l’ordine di non fare prigionieri: il Cap. Antonio Zane, del XXIII Reparto d’Assalto, cattura con un lanciafiamme un gruppo di austriaci nascosti in una cantina di una casa, ma due altri arditi, avendo trovato impiccati dietro la casa quattro Granatieri italiani e due Arditi, uccidono i prigionieri con le bombe e i pugnali.

Lommi nacque a Fiorenzuola d’Arda (Piacenza) nel 1892  2° di 4 figli. Terminati gli studi magistrali insegnò per alcuni anni. Nel gennaio 1914, a Roma, frequentò il corso per allievi ufficiali dei Bersaglieri. Uscito con il grado di Sergente fu assegnato al 12° Bersaglieri di Milano. Successivamente chiese ed ottenne di essere trasferito al 6° di Bologna. All’entrata in guerra partì per il fronte con il grado di Sottotenente. Al termine del conflitto intraprese gli studi di medicina presso l’università di Bologna dove si laureò. Dopo aver esercitato la professione in diverse località, nel 1932 fu nominato medico condotto a Fiorenzuola dove si stabilì definitivamente. Lommi, oltre al presente volume, pubblicato per la prima volta nel 1919, è autore di un’altra opera: ‘il tramonto è ancora lontano” diario della sua vita pubblicato nel 1954.

 

immagine tratta dal libro

 

immagine tratta dal libro

Il mito dell' ardito ritorna in queste pagine permettendoci però (per buona parte del libro)  di osservare dietro le quinte la complessa macchina militare fatta di trincee, riposi, trasferimenti, cameratismo e affetti. Il libro, come dice Volpato, trasuda di retorica, enfasi, misticismo e passione, trasmigrata poi nel reducismo e nelle ben note vicende per quella vittoria mutilata che aveva "cambiato tutto per non cambiare niente".  Senza entrare nel complesso mondo degli arditi (costituiti alla Vigilia di Caporetto, ma inefficaci se confrontati con quelli del nemico, di Rommel per intenderci), mi preme confutare alcune facili visioni che la propaganda tendeva a dare di questi uomini attraverso una pubblicistica mirata e resa popolare dalla stampa (vedi sotto anche intervento di F.T. Marinetti) e che, a merito di Lommi, non viene confermata dal racconto. Buoni alloggi, soprassoldo, donne, divertimenti, eccessi, tutte cose che non traspaiono neanche minimamente dal racconto e dalle immagini di cui è corredato il libro. Al massimo gli si concede un buon bagno, un pasto caldo regolare, una branda senza pidocchi, una bicchierata e la morte in faccia ad ogni assalto. Ma questo per il fante di trincea era pane di tutti i giorni (!! pur non essendo ardito) come nessuna delle cose precedenti (vino escluso).  Il maestro Lommi, figlio della sua cultura e classe sociale, sempre alla vigilia di Caporetto, va in licenza e cerca in Emilia, la sua terra, un patriottismo assente da anni, avversato da un socialismo che non condivide nulla delle intenzioni del conflitto.  Lommi, riporta "vidi troppo divertimento, troppo lusso, troppo disamore per i combattenti, per la morale, per tutto" Nulla di più falso se lo si vede solo con gli occhi divenuti estranei, in zone dove anche la miseria in tempo di guerra la faceva da padrona e dove ogni regola, anche "morale"  saltava  per puro spirito di conservazione.  Come si facevano fortune improvvise con le commesse militari, altrettante se ne facevano con la borsa nera. A..W.

 Qualcun'altro aggiungeva rincarando la dose.

Il gen. Segato dirà "la responsabilità della rotta di Caporetto non si limita a capi militari ed a uomini di governo: essa coinvolge tutti coloro che col disfattismo attivo o passivo esercitarono influenza deprimente sullo spirito del soldato: essa coinvolge coloro che, riusciti ad imboscarsi, dell'imboscamento si valsero per trarre dalla guerra il maggior profitto possibile, poco curando se con ciò venivano a danneggiare coloro che nella trincea soffrivano e morivano; essa coinvolge coloro che non avevano rossore d'offrire al soldato che per licenza o per servizio, rientrava temporaneamente dal fronte, un nauseante spettacolo di vita fatta di godimento e di spreco, guardando i reduci dal fronte con un sorriso di compassione, quando non era sorriso di scherno".

 Della esperienza di Lommi riporto a fianco il brano della prima ferita (Luglio '15) quando era ancora al L btg del 15° per il valore della testimonianza diretta senza nulla togliere agli scontri che vedranno il XXIII reparto sacrificarsi da protagonista sul Piave per l'orgoglio nazionale.  A.W.

 

Dal libro - La Ferita - 28 luglio '15 - Il trincerone (Sagrado) -

... Non volli mandare avanti il plotone; andai io stesso prima a esplorare il terreno. Tutto solo mi avventurai in quell’inferno, sostando qua e là, saltando ora in una buca, ora dietro un sasso. Dalle feritoie della trincea nemica fui certamente scorto, e mi si tirò addosso con furia: delle pallottole mi fischiarono rabbiose alle orecchie, una mi lacerò il piumetto, un’altra mi attraversò la manica sinistra, senza per fortuna ferirmi. Con la coscienza netta del pericolo, strisciai cautamente dietro un masso, sostandovi qualche minuto. Proseguendo incontrai l’eroico Sten. Cenci, di Rimini, carissimo amico, ferito a una mano e a una gamba che, con in pugno la sua pistola, guardava attentamente intorno a sé, strisciava, saltava da un riparo all’altro, retrocedendo per recarsi al posto di medicazione. Mi gridò: …. “Dove vai, disgraziato? Non lo vedi lì il Trincerone? Torna indietro, se non vuoi farti ammazzare come un cane! Quanti poveri bersaglieri sono già morti! E quanti feriti sono qui intorno e giù in trincea!” . Furono le ultime parole che sentii dalle sue labbra, povero Cenci. Intanto potei vedere la nostra prima linea e osservare il terreno; poi di sasso in sasso, di buca in buca, con l’occhio attento e la pistola impugnata feci ritorno. Diedi rapidamente istruzioni ed ordini, poi con un: “Avanti, bersaglieri!” avanzai. Precedendo il plotone, mi voltavo a incoraggiare e a fare raccomandazioni. Ricorderò sempre i due bersaglieri che più dappresso mi seguivano: il bravo caporalmaggiore Ghermandi e il bersagliere Banzola, quest’ultimo prese subito una fucilata in bocca e fu portato via.
Giunto a pochi passi dai nostri, tutto raggiante, mi alzai gridando: “Signor maggiore, siamo qui! “ Ma voltandomi per accennare ai mio plotone, che mi seguiva di corsa, mi sentii colpire come da una violentissima, tremenda bastonata al cuore. Feci due o tre ruzzoloni e gridai: “Ah,  vigliacchi! mi hanno ammazzato! Vendicatemi, fratelli! E avanti, per la Patria! Viva l’Italia!” Credo seguisse un momento di costernazione tragica. “Sì, sì!” urlarono quei bravi bersaglieri. “Andate a prenderlo!” Gridò il maggiore. Subito mi sentii afferrare da molte mani e trascinare di corsa sotto il riparo; intanto che alcuni bersaglieri mi liberavano dalle giberne e mi stracciavano giubba, camicia e maglia, già orribilmente insanguinate, per mettermi allo scoperto la ferita, il tenente Bompiani mi chiedeva affettuosamente “Dove sei ferito, povero amico, dove sei ferito?” Il respiro mi mancava, il sangue usciva a fiotti, non potevo parlare. Cacciai con un rantolo due parole: “Al cuore....” che tale era la mia impressione. E con l’immagine di mia madre dolorante, mi apparve impetuosamente l’immagine della mia fanciulla dal più profondo dell’animo, e su di esse lo spirito trafitto si posò rassegnato al sacrificio.
Il maggiore mi disse forte: “Bravo! Lei ha fatto più del suo dovere ed io sono lieto di proporla per la medaglia al valore. Coraggio!”  Nessuno più parlò ed io compresi, anche troppo bene compresi e, aspettando la morte, pensai alla mia ricompensa che in un giorno non lontano avrebbe reso meno straziante alla mia famiglia il sacrificio. Accennai con un gesto a una scatola di fialette di tintura di iodio che tenevo in una tasca; me la diedero, ebbi la forza di levarne due, di spezzarne le punte di vetro e di cacciarmi i due tubetti, uno dopo l’altro, nella ferita e schizzarvi il liquido con l’apposita peretta di gomma: il dolore fu atroce, ma la speranza di poter guarire, mi fece forte. Mi diedero da bere, fui coperto colla mia mantellina e lasciato li. Il rude giaciglio era scomodo, dolorosissimo: sentivo alla spina dorsale un dolore irresistibile e pensavo che il piombo, dopo aver attraversato il polmone sinistro, si fosse fissato in una vertebra.
Persi i sensi? Mi addormentai? Delirai? Non ricordo. Ma ricordo che il sole, quel tremendo sole d’estate che mi batteva in faccia e mi soffocava, era un ben duro supplizio. Lentamente venne la sera: gli austriaci battevano sempre la nostra posizione, tagliando qualsiasi comunicazione con le nostre linee retrostanti mentre noi avevamo fame, avevamo sete, avevamo bisogno di soccorrere i feriti. Molti feriti giacevano sul terreno già da qualche ora e le loro grida, i loro lamenti erano strazianti: “Aiutatemi, portatemi via! Un po’ d’ acqua, per carità, un po’ d’acqua!” Alcuni invocavano la madre, la sposa, i figlioletti. Il mio tenente, con le lacrime agli occhi, diceva: “Ma è una maledizione, questa!” . Ora la fucileria nemica era spaventosa.
“Zanchetta - disse il tenente a un caporale veneto che il giorno dopo doveva essere il mio salvatore - ti farò sergente sul campo: vola a prendere dell’acqua; bada di non farti scorgere!” L’attendemmo lunghe ore; finalmente, verso l’alba Io vidi affacciarsi dai ripari con una squadra di bersaglieri. Si precipitarono avanti, una raffica rabbiosa di fucileria li investì, qualcuno cadde colpito, gli altri si gettarono a terra e continuarono ad avanzare, strisciando da un riparo all’altro; alla fine si gettarono nella trincea. Un bravo bersagliere, un certo Spini Massimo, mi cadde ai piedi fulminato da una palla in fronte. Il valoroso caporale Zanchetta aveva portato quello che aveva potuto: una ghirba d’acqua, tante borracce quante ne stavano intorno al cinturone e due fiaschi di vino. Fu consumato tutto in un attimo.
Poco dopo, la nostra artiglieria cominciò un fuoco infernale sulle trincee nemiche alla nostra destra: preparava l’assalto a un battaglione di fanteria. Erano scoppi e schianti tremendi. Rinacque in me una speranza... non ero ancora morto... essere soccorso in tempo, ad azione finita... Ora il pensiero di sopravvivere mi trasfigurava: respiravo convulsamente, il cuore mi batteva forte... ascoltavo. Si sentì un immenso grido: “Savoia! Savoia!” Svenni ancora una volta e non sentii più nulla. Quando riaprii gli occhi tutto era silenzio; deliravo per la febbre, ogni tanto aprivo gli occhi e vedevo ora a destra ora a sinistra quel povero Spini, lungo disteso, immobile. Come era possibile?
Verso sera, ero circondato da morti e feriti; pioveva. Mi sentivo il sangue raggrumato in gola. Mi prese lo spasimo di bere, di bere, di bere! Mi pareva di impazzire. Un piccolo filo d’acqua scendeva da un sasso sull’orlo superiore del riparo e mi cadeva sul petto: avessi potuto muovermi e accoglierlo fra le mie labbra assetate! Provai: fu una maledizione, perdetti altro sangue dalla ferita riapertasi, allora presi il mio cappello inzuppato d’acqua e per parecchie volte mi cacciai in bocca le penne per toglierne le poche stille. Dopo di che sentii le forze abbandonarmi e per quanto con la volontà cercassi di sopraffare quel mancamento, ne fui vinto. Mi pare che ripresi presto i sensi e ricordo che mi trovai tutto coperto dalla testa ai piedi con una mantellina. Era stato il mio maggiore, mi raccontarono un giorno. Vedendo che non davo più segni di vita, egli aveva detto : “Ha finito di soffrire, povero ragazzo. Copritegli la faccia e il petto!”
La notte calò presto, torbida e minacciosa. Erano ormai più di 36 ore che ero stato ferito, e già cominciava a mancarmi quella resistenza al dolore fisico di cui avevo dato fino allora prova. Con un supremo appello alle mie forze, misi la pistola in posizione di sparo e me la puntai alla tempia, in una disperata rinunzia ai miei affetti, alla mia vita... “Disgraziato che fai!” mi gridò il maggiore e mi strappò l’arma convulsamente. Poi mi disse tante buone parole ed io non rispondevo perché non potevo parlare, ma nella mia mente mormoravo un’implorazione: “Mi lasci terminare questo martirio, divento pazzo e tanto non guarirei più ugualmente! La scongiuro, signor Maggiore mi ammazzi lei, una buona volta, che non resisto più...”
A un tratto le vedette diedero l’allarme: “Gli Austriaci vengono avanti!” . Il tenente Bompiani si alzò con impeto e disse: “Su bersaglieri! Chi si sente di impugnare un fucile, per i nostri feriti, per la vita di tutti, si alzi!” . Si alzarono tutti. “Sparate con calma! Puntate con calma!” Cominciò una scarica rabbiosa da parte dei nostri: in piedi, le penne al vento, sprezzanti del pericolo, Zanchetta e Galli, i migliori caporali della compagnia, sparavano senza interruzione, incitando i compagni a gran voce. “Il nemico si ritira! si ritira!” si gridò da tutte le parti. Senza perdere tempo allora il tenente disse: “Ragazzi, restare qui ancora è un sacrificio inutile, cercate di raggiungere coi feriti la seconda linea.”
Vidi molte ombre dileguarsi, provai ad alzarmi: ricaddi dolorosamente. Fu allora che mi rassegnai a morire. Pensai a mia madre, a mio padre, ai miei fratelli, alla mia fanciulla lontana e ignara del mio martirio e piansi, poi. parendomi il piangere viltà, mi calmai. Due ombre si avvicinarono: erano Zanchetta e il bersagliere Garagnani. “Coraggio, signor tenente la portiamo via noi.”
Provarono a sorreggermi ma non potevo abbracciarmi al loro collo per l’atroce dolore che mi dava la ferita ad ogni piccolo movimento; provarono a mettermi nella mia mantellina e portarmi via così: era ancora peggio. Mi scoraggiai: “Ragazzi - dissi loro - è inutile che perdiate del tempo prezioso, cercate di ritirarvi presto tanto io sento che non arriverei...”  Rimasero muti e addolorati. Ma subito, un lampo nella mente, una fede nuova nel cuore, una forza strana nelle dissanguate membra mi pervase; l’istinto della conservazione disperatamente mi si attaccò all’ anima, vinse il dolore e mi guidò alla salvezza: “Prendetemi come prima, succeda quel che succeda!”
I due bravi giovani mi sollevarono sorreggendomi colle loro forti braccia; mi attaccai ai loro colli vigorosi e via! Un po’ curvi, essi volarono, miracolosamente incolumi, sotto il fuoco nemico che era ricominciato, fino al riparo e quando vi giunsero, meravigliati anch’essi del loro ardimento e della loro fortuna, piansero di gioia. Anche io piangevo li abbracciavo e li baciavo; se avessi posseduto un tesoro, lo avrei regalato loro senza rimpianto. Ero dunque salvo. Salvo! Non ho mai dato, come in quel momento, un significato più profondo alla parola vita. Portarono una barella insanguinata: mi adagiarono con cura, misero a mo’ di guanciale una mantellina e mi portarono al posto di medicazione. Trovai i due ufficiali medici del battaglione e molti bersaglieri feriti, tutti erano dolorosamente stupiti, tutti mi strinsero la mano, molti mi baciarono. Fui portato subito, attraverso il bosco di Sagrato, alla 19 Sezione di sanità; qui, steso sulla barella, passai le ultime ore della notte era tardissimo sempre assistito da quella perla di caporale. Un’autolettiga mi accolse con altri feriti gravi e mi portò a Cassegliano. Le strade orribili davano alla vettura degli scossoni violenti; era, per noi poveri disgraziati, un supplizio orribile.
Finalmente giungemmo all’ospedale. Fui spogliato degli ultimi indumenti inzuppati d’acqua e di sangue e adagiato. per l’esame della ferita, sulla tavola anatomica. Stentatamente, feci capire che desideravo essere sottoposto all’esame radioscopico, avendo la persuasione che il proiettile si fosse conficcato nella spina dorsale. Mi si promise tutto ma intanto che il tenente medico mi ripuliva la schiena dal sangue e dal fango, forse con dell’ alcool, a un certo punto ebbi l’impressione di una trafittura dolorosissima il dottore riscontrò un secondo foro: il foro d’uscita del proiettile! La pallottola era entrata a sinistra, mezzo centimetro dietro il cuore, fra la quarta e la quinta costola, ed era uscita dalla regione dorsale destra fra l’ottava e la nona costola, dopo avere attraversato il polmone sinistro. Il medico impallidì e non seppe dissimulare il suo turbamento. Gli feci capire che desideravo sapere se il mio stato era molto grave; mi rispose: “Vedo che hai molto coraggio e perciò ti dico tutta la verità. Non ti nascondo che la tua ferita è grave. Non c’è che tentare una cura, e tu stesso devi provvedervi le tue medicine sono queste: immobilità assoluta, digiuno, calma e fiducia di guarire.”
Fui medicato, fasciato e messo a letto. Il buon caporale riordinò le mie povere cose, piegò la mia giubba insanguinata e lacera (che successivamente portai a mia madre) mi fece i suoi auguri affettuosi e partì. “lo - mi scrisse un giorno - la salutai persuaso che fosse l’ultima volta che la vedevo, il dottore mi aveva detto che non aveva più di 24 ore di vita.”  All’ospedale attesi con pazienza e coraggio. I dottori venivano spesso a visitare i feriti; le loro cure e le loro buone parole davano un grande conforto all’anima. Il medico che mi aveva medicato per primo mi stringeva affettuosamente la mano, sorridendo, e mi diceva: “Bravo, bravo, vedo che stai meglio, che vai sempre migliorando. Fra qualche giorno ti manderò a casa.” Allora mi si inondava di gioia e di speranza il cuore. Non mi dilungherò a descrivere le scene di dolore che si svolsero sotto i miei occhi durante i pochi giorni in cui rimasi in quell’ospedale. Una mattina il bersagliere Vinti - il mio attendente - si presentò tutto commosso; al primo vedermi delle lacrime gli solcarono le guance. Non potevo parlare, gli feci solo cenno che ero in collera con lui; perché non era stato con me quel giorno?
Mi raccontò piangendo le sue vicissitudini: mi aveva perso di vista e aveva finito con il perdere l’orientamento, aveva così combattuto con un’altra compagnia; si era trovato in un inferno, non sapeva come si trovasse ancora al mondo. Aveva girato in tutti i paesi vicini per cercarmi negli ospedali da campo, ora m’aveva ritrovato ed era contento. “Signor tenente, si diceva che lei era morto!”  Mi... disarmò, gli chiesi di darmi qualche notizia.
Brutte notizie: il nostro tenente aveva ricevuto di nuovo l’ordine di avanzare ad ogni costo e, dopo aver invano esposte le gravi difficoltà nell’attaccare il Trincerone, era andato a morire con pochi votati alla morte: Chiodini, Garagnani... Garagnani uno dei miei salvatori! Il cuore mi sanguinò. Piansi, per te e per la tua povera mamma, piansi tutta quella sera e durante tutta quella notte insonne. Sentì l’angoscia della mia ferita che mi inchiodava al letto, che mi impediva di correre, correre su, volare sulla roccia insanguinata in cerca del tuo cadavere per strappano al barbaro, per morire anch’io su di esso. Vinti pianamente continuava il racconto, confondendo le parole nei singhiozzi .....

Arditi cremisi da http://www.ardito2000.it/ardito2000_000003.htm  Figlio di un caporal maggiore dei bersaglieri, Lodovico si era presentato volontario al 23° reparto arditi e qui era stato raggiunto dal fratello Luigi. Insieme i due Lommi caddero feriti a Capo Sile, dove Luigi ottenne una medaglia d'argento.

  Da un discorso di Marinetti a 300 Ufficiali della 2°Divisione d’Assalto alla vigilia di Vittorio Veneto

….. Direi a tutti i soldati arditi: Siate orgogliosi di sentirvi italiani, nati proprio in questo periodo della storia d’Italia e destinati dunque a risolvere col sangue d’un colpo solo tutti gli enormi problemi del nostro avvenire italiano. Privilegio unico: salvare l’Italia, ingigantirla. A voi ufficiali, io dico: Qual è l’italiano che, rileggendo gli infami bollettini tedeschi pubblicati dopo Caporetto, non senta il dovere di correggerli fulmineamente, con pugnalate, sulla pelle dei generali tedeschi? Voi siete diventati arditi per un amore sfrenato della libertà. Voi siete diventati arditi per amore di novità, spirito novatore, spirito rivoluzionario, spirito futurista. Siete diventati arditi per amore della violenza, della guerra e del bel gesto. Schiaffi in tempo di pace ai vigliacchi, alle carogne, ai traditori. Pugnalate e bombe a mano in guerra ai tedeschi. Siete diventati arditi per desiderio di mafia e di spavalderia giovanile. Il colletto aperto preludia ad uno scamiciamento audace per meglio fare ai pugni o per gettarsi in acqua al salvataggio d’un uomo che annega. Collo libero dell’uomo forte e creatore. Collo svicolato dalle cravatte idiote. Collo atletico che fa scoppiare il colletto della società. Bella mafia trionfante degli arditi d’Italia che amano le belle donne e le conquistano come trincee con un gesto eroico. Non preoccupatevi delle smorfie e dei sussieghi degl’imboscati e degli avariati che nel caffé si ritraggono ironicamente al vostro passaggio. Questi vili che hanno per unico sangue il brodo dei loro calzoni riconoscono intimamente la vostra potenza e il vostro valore. Ma vi temono, non hanno la forza di odiarvi, tentano di svalutarvi. Non vi riusciranno. Siete voi i primi, della nuova Italia. Io amo la vostra disinvoltura insolente. Si hanno tutti i diritti quando si sgozza un austriaco. Rifiutate quasi sempre l’aiuto dell’artiglieria. Presto, senza sparare un colpo di cannone, utilizzando sempre la sorpresa, voi partite, sfondate, entrate, sorpassate. Pochi prigionieri, molti pugnalati e il resto giù dalla cima conquistata a calci. Voi non siete soltanto i migliori soldati d’Italia. Non siete i nuovi garibaldini. Non siete truppe d’assalto alla tedesca. Queste sono ferreamente condannate al sacrificio. Voi siete la nuova generazione d’Italia, temeraria e geniale, che prepara il grandissimo futuro d’Italia. In questa vasta conflagrazione che costringe i popoli e uomini a dare il massimo rendimento di tutte le loro forze e a superare miracolosamente queste forze stesse, vi sono fatalmente delle stanchezze, vi sono fatalmente dei combattimenti stanchi. Voi siete gl’instancabili, i miracoli viventi di muscoli e coraggio, i divini futuristi della nuova Italia. F. T. Marinetti

http://www.incursoriesercito.com/precursori.htm

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