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"Il ’900. I giovani e la memoria"

Viaggio di studio in Polonia

e visita ai Lager nazisti di

Auschwitz I, Birkenau, Monowitz, Gliwice

 

 

25/30 marzo 1999

 

Scuole Medie Statali Superiori del Comune di Moncalieri:

Liceo Scientifico Statale "E.Majorana"

Istituto Tecnico Commerciale Statale "Antonio Marro"

Istituto Tecnico Industriale Statale "G.B. Pininfarina"

Polonia:una storia problematica?

Il ghetto di Varsavia

Cenni sulla storia del Lager di Auschwitz

Le deportazioni dall'Italia ad Auschwitz

Le "marce della morte"

A SESSANT’ANNI DALLE LEGGI RAZZIALI

scheda a cura di Marcella Pepe

Nel 1938 il governo fascista emanò le leggi razziali, proseguendo l’allineamento con la politica dell’alleato nazista (le leggi di Norimberga sono del 1935), iniziato dopo la stipulazione dell’Asse Roma-Berlino (1936). L’idea di questo viaggio nel luogo-simbolo dell’Olocausto, Auschwitz, è nata proprio dalla ricorrenza del sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia e dalla convinzione che sia oggi molto importante riflettere sul contesto storico in cui nacquero e sugli eventi ai quali diedero origine, raccogliendo l’invito della Circolare n. 411 del Ministero della Pubblica Istruzione.

L’antisemitismo tradizionale e l’antisemitismo "moderno"

Occorre premettere che l’antisemitismo, ovvero la pregiudiziale ostilità nei confronti degli ebrei, è molto più antico del nazismo e del fascismo e attraversa tutta la storia dell’Europa cristiana. Per i cristiani, infatti, gli ebrei erano il "popolo deicida", colpevole dell’uccisione di Cristo. Né le persecuzioni antiebraiche sono una prerogativa del XX secolo, ma una "costante" della storia europea a partire dal Medioevo. Fondata su assurde accuse, quali ad esempio quella di avvelenare i pozzi per diffondere le malattie epidemiche, la caccia all’ebreo ha sempre coinvolto grandi masse che si accanivano contro minoranze facilmente riconoscibili e di dimensioni troppo piccole per potersi difendere, facendone un capro espiatorio. Tuttavia, mentre l’antigiudaismo tradizionale si basava su motivazioni prevalentemente teologiche, quello "moderno" si distingue per due elementi nuovi..

Uno è quello biologico. Esiste una "razza" semita, e tale rimane a meno che non si diluisca attraverso le generazioni (quattro, secondo le leggi di Norimberga). E, nella gerarchia nazista delle razze, nel nuovo ordine nazionalsocialista che prefigurava un’umanità ridotta in schiavitù al servizio della razza ariana dominatrice, gli ebrei erano al fondo, insieme agli zingari, agli slavi, ai neri.

Il secondo elemento, al quale si presta generalmente scarsa attenzione, è quello politico. Nella ideologia di Hitler, che si ispirava ad Alfred Rosenberg, il teorico razzista del Terzo Reich, autore del libro Il mito del XX secolo (1930), l’antisemitismo si coniugava con la lotta contro il marxismo, bollato come "bolscevismo giudaico", e si giustificava come necessità di abbattere la "cospirazione giudaica mondiale" sostenuta dai cosiddetti Protocolli dei Saggi di Sion, un clamoroso "falso" probabilmente redatto dalla polizia zarista.

Nemmeno la legislazione antisemita è in assoluto una novità del XX secolo. Tuttavia, mai prima aveva raggiunto una tale sistematicità di elaborazione (fondandosi su presupposti che pretendevano di essere scientifici) e un tale grado di ferocia nell’applicazione (ne furono vittime, secondo stime attendibili, sei milioni di ebrei), da indurre gli storici ad usare la parola Shoah, che in ebraico significa disastro, catastrofe.

La legislazione antiebraica

in Germania

Il 7 aprile del 1933 il Terzo Reich emanò le prime leggi razziali, con le quali gli ebrei tedeschi vennero esclusi da molte professioni e associazioni. Fu definito in esse come "non ariano" chi avesse anche solo un nonno appartenente ad una Comunità ebraica. Tale formulazione, poiché valutava l’aspetto religioso, rischiava però di escludere dai "non ariani" i discendenti di ebrei secolarizzati e non soddisfaceva tutto l’establishment nazista.

Fecero chiarezza le leggi di Norimberga del 1935, che aprirono la strada allo sterminio, distinguendo gli ebrei in due categorie: l’ebreo "puro"(privato di ogni diritto) e il Mischling, il mezzo sangue, l’ibrido, che a sua volta fu distinto in "ibrido di primo grado"(al 50%, di incerto destino) e in "ibrido di secondo grado"(al 25%, destinato all’assimilazione con il popolo tedesco).

Ne 1938 fu avviato il censimento degli ebrei e di tutti i loro beni e, nella notte tra il 9 e il 10 novembre (detta "notte dei cristalli"), si scatenò il più gigantesco pogrom che la storia ricordi, con la distruzione di 200 sinagoghe, 7500 negozi e l’arresto di 26.000 ebrei.

Con l’inizio della guerra e con l’invasione della Polonia (1939), le dimensioni del "problema ebraico" diventarono enormi. Si calcola infatti che nella parte della Polonia sottomessa al Terzo Reich (il Warthegau, annesso direttamente, e il Governatorato generale) risiedessero almeno 1.800.000 ebrei. Troppi! Le norme emanate per escludere gli ebrei tedeschi dal consorzio civile si rivelarono di conseguenza largamente insufficienti. I nazisti provvidero allora alla creazione dei ghetti (al primo, costruito a Lodz, seguirono quelli di Varsavia, Cracovia, Lublino, Czestochowa, Kielce, Lwow), dove gli ebrei furono costretti a "traslocare" abbandonando le loro case e i loro beni.

In seguito, dopo l’invasione dell’Unione Sovietica (1941), vennero organizzati dei "gruppi di intervento" (Einsatzgruppen) incaricati dei primi feroci massacri dei quali, secondo calcoli approssimativi, furono vittime circa 800.000 persone.

Contemporaneamente venivano aggiunti al già imponente sistema concentrazionario nazista nuovi Lager adibiti allo sterminio: Auschwitz fu inaugurato il 14 giugno 1940 e nel 1941 furono aperti altri cinque campi nella zona tedesca della Polonia.

Infine, il 20 gennaio 1942, nella conferenza di Wannsee, presso Berlino, fu decisa la "soluzione finale" del problema ebraico (Endlösung) e tutti gli ebrei vennero trasferiti nei campi dell’Est europeo per subire il "trattamento finale", oppure lo sterminio attraverso il lavoro. Nuove disposizioni giunsero a tutti i comandanti dei KL (Konzentrationslager) il 30 aprile 1942 con la Circolare Pohl.

In Italia

Precedute dal Manifesto degli scienziati razzisti (14 luglio 1938), sottoscritto da 180 scienziati e redatto (secondo i diari di Bottai e Ciano) quasi completamente dallo stesso Mussolini, e da una campagna di stampa che doveva preparare il paese alla loro ricezione, uscirono a più riprese, a partire dal 5 settembre 1938, le leggi razziali, alle quali fecero immediatamente seguito le ordinanze applicative.

5 settembre 1938: Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista

7 settembre 1938: Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri

15 novembre 1938: Integrazione delle norme per la difesa della razza nella scuola italiana

17 novembre 1938: Provvedimenti per la difesa della razza italiana

29 giugno 1939: Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica

Il 6 ottobre 1938 era stata approvata dal Gran Consiglio del Fascismo la Dichiarazione sulla razza.

La lettura del Manifesto degli scienziati razzisti sbalordisce per l’impudenza, la palese arbitrarietà e l’infondatezza storica di certe affermazioni che vengono presentate come "scientifiche".

Alcuni esempi:

"Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso è quindi basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza."

"La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana … Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione… Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana."

"E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo."

"Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto."

Le leggi razziali italiane si preoccuparono in primo luogo di definire l’ebreo, con una casistica ancora più minuziosa di quella delle leggi di Norimberga. Vennero considerati di razza ebraica coloro che avessero:

entrambi i genitori di razza e di religione ebraica

un solo genitore di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera

un solo genitore di razza o di religione ebraica e l’altro di nazionalità italiana

madre di razza ebraica, in caso di padre ignoto

Non venne invece considerato di razza ebraica chi fosse nato da genitori entrambi di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, ma non appartenente alla religione ebraica.

Per il fascismo, dunque, le persone erano di razza ebraica o di razza ariana. La categoria giuridica dei "misti", tanto importante in Germania, in Italia non fu considerata.

Inoltre, le leggi razziali, nel loro insieme, stabilivano che era proibito ai cittadini italiani di razza ebraica:

contrarre matrimonio con persone appartenenti ad altra razza

prestare servizio militare in pace e in guerra

esercitare l’ufficio di tutore o curatore di minori o di incapaci non appartenenti alla razza ebraica

essere proprietari o gestori di aziende con più di cento dipendenti e proprietari di terreni con un estimo superiore a 5.000 lire o di fabbricati con un imponibile superiore a 20.000 lire

avere alle proprie dipendenze, in qualità di domestici, cittadini di razza ariana

iscriversi alle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, frequentate da alunni italiani

insegnare nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle università (con immediata sospensione dall’insegnamento o dalla libera docenza)

esercitare le professioni di notaio e giornalista ( per gli altri professionisti era obbligatoria la denuncia di appartenenza alla razza ebraica e l’iscrizione in "elenchi aggiunti" da istituirsi in appendice agli albi professionali)

Era fatto divieto di avere alle proprie dipendenze persone di razza ebraica:

alle Amministrazioni civili e militari dello Stato

al Partito Nazionale Fascista

alle Province, ai Comuni e a tutti gli Enti pubblici

alle Amministrazioni delle aziende municipalizzate e delle aziende collegate agli Enti pubblici

alle Amministrazioni di imprese private di assicurazione

C’erano tuttavia delle categorie di ebrei alle quali non erano applicabili le disposizioni contro la razza:

i componenti delle famiglie dei caduti nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola e dei caduti per la causa fascista

i mutilati, gli invalidi, i volontari e i decorati al valore nelle guerre sopracitate

gli iscritti al Partito Nazionale Fascista dal 1919 fino al secondo semestre del 1924

i legionari fiumani

Le leggi razziali disponevano, infine, l’allontanamento dall’Italia di tutti gli ebrei stranieri; quelli ancora presenti sul suolo della penisola nel maggio del 1940 furono internati nel campo di concentramento calabrese di Ferramonti di Tarsia.

"Discriminare e non perseguitare" era il motto iniziale di Mussolini.

Tuttavia, già nel febbraio del 1940 era stata comunicata ufficialmente all’Unione delle comunità israelitiche italiane l’intenzione del regime di espellere entro dieci anni tutti gli ebrei (non solo gli ebrei stranieri) dall’Italia, anche se lo scoppio della guerra rese poi impossibile qualsiasi uscita.

Secondo lo storico Renzo De Felice ( Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi 1993) la politica del fascismo nei confronti degli ebrei subì una svolta radicale a partire dal 1943, dopo l’8 settembre e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, che implicò la totale sudditanza del regime mussoliniano rispetto all’alleato nazista. In effetti da quel momento la Milizia fascista fu attivissima nel ricercare gli ebrei per consegnarli alle SS che li caricavano su vagoni blindati e li deportavano in Germania (il campo di smistamento era a Fossoli, presso Modena). E certamente dal 1943 la discriminazione si trasformò in aperta persecuzione.

Ma il recente interessantissimo studio di Michele Sarfatti Gli ebrei negli anni del fascismo (II Tomo degli Annali della Storia d’Italia di Einaudi, Gli ebrei in Italia, a cura di Corrado Vivanti) imposta il problema diversamente. Secondo Sarfatti, occorre retrodatare l’avvio in Italia di una vera e propria politica antisemita e correggere l’idea di un antisemitismo italiano blando e in fondo solo propagandistico, almeno fino alla Repubblica di Salò. Sarfatti afferma che fin dal 1936 "la questione antiebraica assunse per il regime la qualità di questione politica interna non più rinviabile e Mussolini decise di risolverla dotando il regime e il paese di una "moderna" politica antiebraica".

Comunque "l’antisemitismo fascista preparò il terreno allo sterminio deciso dalla Germania nazista", come sottolinea Liliana Picciotto Fargion nel suo Libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia. 1943-1945, Mursia 1991.

In totale gli ebrei deportati dall’Italia nel periodo 1943-1945 furono più di 8.000 (si veda la scheda più avanti: "Le deportazioni dall’Italia ad Auschwitz"). Ad essi si devono aggiungere i 75 ebrei che furono trucidati alle Fosse Ardeatine a Roma il 24 marzo del 1944. L’operazione più importante ai danni degli ebrei italiani, se non altro per il numero di vittime, fu quella compiuta all’alba del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma: ce ne dà una stupenda, vivissima descrizione Giacomo Debenedetti in 16 ottobre 1943, Sellerio editore 1993.

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Polonia: una storia problematica?

di Giulio Manzella

Una introduzione alla storia polacca non è necessaria, per chi vada in una visita di studio finalizzata come la nostra: piuttosto, è molto importante avere delle buone cartine geografiche ed una efficace guida per turisti. Ho tuttavia trovato che le guide, e alcuni testi specialistici, non si pongono il problema basilare costituito dalla domanda "che cos’è?". In un processo di ridefinizione delle identità, di collocazione in nuovi ambiti (la Polonia, già filosovietica nonché patria del papa, è entrata nella NATO, in questi giorni), può avere un senso essere "filosofici" e porre la questione del rapporto fra parole e cose; proviamo quindi a interrogare la parola, rivolgiamoci all’etimologia: potremo trovare che in "Polonia" è già rinchiuso per così dire il destino di uno stato. Attenzione, però: il nostro è solo un gioco per provare a far pensare alle cose che vedremo, ascolteremo, leggeremo sul posto.

La scienza etimologica più corretta propone la derivazione del nome del paese da polè, ossia campo; ma è presente anche un’altra interpretazione, che fa derivare "Polonia" dai Polani, suoi primitivi abitanti. Si trattava di una tribù slava il cui capo, Mieszko I, si convertì al cattolicesimo poco prima del Mille e, sottomettendo le popolazioni circostanti, fondò la prima dinastia di regnanti polacchi, i Piasti: da quel momento sarebbe stata posta, in maniera fondamentalmente definitiva, l’identità nazionale, fondata sull’elemento etnico (teso a differenziare la Polonia rispetto alle circostanti popolazioni germaniche) e sul cristianesimo romano (mirante a distinguere i polacchi dagli altri slavi, ancora pagani o filobizantini). Ascoltando la voce dei Polani nella parola Polonia ci sembra di sentire il maresciallo Pilsudski, socialista prima e nazionalista poi, orgoglioso rifondatore dello stato dopo il primo conflitto mondiale; o pensiamo alla conferenza di Potsdam che, nel luglio 1945, decise i nuovi confini e il contestuale spostamento di milioni di persone, perché si avesse l’omogeneità etnica; ricordiamo Giovanni Sobieski (1674-96), che alla guida dell’esercito polacco liberò Vienna dall’ultimo assedio dei turchi. E pur se il Sobieski gode della nostra simpatia, dal momento che lo consideriamo un incrocio di Garibaldi con i cavalieri medievali, ed ha una punta del don Chisciotte, sentiamo anche in lui un odore di crociata che, attraverso il medioevo, a tratti ancora si propaga. Ma continuiamo il nostro gioco, assai poco storiografico, ponendoci in ascolto di quell’altro suono, polè.

Ne rimaniamo affascinati: ci sembra di sentire la voce stessa della Terra Madre, l’entità femminile che nei tempi preistorici era venerata in quel di Danzica. Prendo questa immagine da ll rombo di Gunter Grass, strano e simbolico romanzo che è opera del più grande scrittore tedesco vivente, nato nella città baltica nel 1927; e ricordo Schopenhauer, anche lui tedesco ma originario di quei luoghi; ricordo Chopin, il pianista polacco che morì a Parigi nel 1849, e Copernico (1473-1543), l’astronomo che operò in una Polonia al massimo del suo fulgore. La capitale era allora, e così sarebbe stato fino al 1595, Cracovia, e il regno polacco era il più vasto d’Europa: si estendeva sulle odierne repubbliche baltiche (di origine lituana era la famiglia regnante degli Jagelloni), sulla Russia Bianca e gran parte dell’Ucraina. Polonia come polè, granaio di un’Europa avvolta nelle contese franco-spagnole e nella quale Riforma e Controriforma spargevano il seme dell’intolleranza; per qualche decennio parve che il territorio compreso tra l’impero germanico e lo stato russo fosse una specie di isola felice, nella quale anche i perseguitatissimi eretici italiani Bernardino Ochino e Fausto Socini potevano trovare rifugio.

La Polonia non ha confini geografici, lungo l’asse est-ovest: non è altro che un campo, un pezzo della grande pianura che va dall’Olanda agli Urali: da questa situazione deriva l’etimologia del nome che ci sembra più bella, perché segnala il fatto che un territorio senza confini riuscì a fare della sua indeterminatezza una forza, applicando la tolleranza e quasi divenendo la sede di quella Utopia che il pensiero dell’epoca non a caso cercava di tracciare. L’altra etimologia, abbiamo già detto, prefigura i nazionalismi sospinti, il dogmatismo e la furia militare che spesso interessarono il paese; ma lo storico serio sa per esempio che, in quella stessa Polonia che abbiamo scelto di idealizzare, e proprio in quegli anni, rinasceva e stava per duramente consolidarsi la servitù dellla gleba, che sarebbe stata abolita solo nel 1863. Infatti le informazioni che abbiamo dato sono tutte vere, ma il montaggio che ne abbiamo fatto mira a suscitare degli interrogativi più che a dare delle risposte o, come preferiamo dire, indurre un atteggiamento attivo, e non passivo, nei partecipanti a questo viaggio di studio.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Fondamentali le considerazioni storiografiche di A. GRAZIOSI, Imperi e nazionalismi nell’Europa orientale, in AA.VV., Storia contemporanea (manuali di storia Donzelli), Roma 1997. Per la storia polacca, A. GIEYSZTOR (a cura di), Storia della Polonia, Milano 1983 (ed. or. 1979), si veda inoltre la voce Polonia in: Enciclopedia Treccani (utile perché, pubblicata nel 1935, dà un’immagine della Polonia quattro anni prima della II guerra mondiale); in Enciclopedia Europea Garzanti,, Milano 1979; in Dizionario di storia, B. Mondadori, Milano 1995.

 

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IL GHETTO DI VARSAVIA

a cura di Luisa Galasco

Prima dell’ultima guerra c’erano in Polonia tre milioni e mezzo di ebrei: un popolo con le sue tradizioni, una cultura specifica, una lingua, lo yiddish, parlata da milioni di donne, uomini e bambini. I nazisti, in parallelo con i piani militari per scatenare la seconda guerra mondiale, prepararono i piani per lo sterminio di questa, come di altre popolazioni ebraiche dei paesi europei.

1 settembre 1939: invasione della Polonia. Fu il primo atto della guerra.

1 – 21 settembre: SS e Wehrmacht attuarono numerosi pogrom di massa contro gli ebrei.

21 settembre: Reinhardt Heydrich, comandante in capo della Polizia di sicurezza tedesca (RSHA), indirizzò ai comandi di tutti i gruppi operativi istruzioni per:

concentrare le masse ebraiche nei grandi centri

creare dei ghetti

introdurre il lavoro coatto fra gli ebrei

nominare gli "Judenräte", ovvero dei "consigli" formati dai rappresentanti della comunità ebraica di ciascuna città, che col tempo sarebbero diventati spesso docili strumenti dei nazisti.

27 settembre 1939: Varsavia, dopo aver resistito strenuamente, si arrese alle truppe tedesche.

La Polonia fu divisa in tre parti: una annessa al Reich, una all’URSS e una terza sotto il protettorato tedesco, affidata ad Hans Frank (Governatorato generale, capitale Cracovia).

Nei mesi successivi furono attuate progressivamente misure restrittive: obbligo di portare la stella di Davide, limitazioni alle libertà personali, registrazione delle proprietà, coprifuoco.

Intanto si preparava la creazione del ghetto, a Varsavia come in altre città.

Due erano gli scopi dei nazisti: 1) in preparazione della guerra con la Russia, sgombrare le immediate retrovie del fronte da elementi nemici quali erano gli ebrei, per eliminare ogni possibilità di sabotaggio. 2) concentrare gli ebrei in poche località per averli più facilmente a disposizione per i loro fini di lavoro coatto e di sterminio.

2 ottobre 1940: il governatore nazista della zona di Varsavia, Otto Fischer, pubblicò l’ordinanza che istituiva il ghetto, in un certo perimetro di strade da cui si erano fatti allontanare tutti gli abitanti cristiani per concentrarvi a forza 450.000 ebrei. Poco tempo dopo l’amministrazione pubblica del ghetto, lo Judenrat, fu obbligata a costruire con i propri mezzi il celebre muro.

Gli abitanti ebrei di Varsavia costituivano un terzo della popolazione cittadina. Il ghetto occupava non più di un ventesimo della superficie della città. Nella prima metà del 1942 per ogni vano si contavano in media 13 persone. Il perimetro del ghetto era però mobile, cioè si restringeva sempre di più, finché fu ridotto al famoso Kessel , poche strade divise in settori separati uno dall’altro.

Agli ebrei rimasero solo gli "shops" cioè i baracconi nei quali eseguivano il lavoro coatto, privati di qualsiasi forma di vita familiare e domestica.

Questa massa congestionata di gente soffriva la fame e moriva.

La mortalità era del 23,5 per 1000 abitanti nel 1940, del 90 nel 1941 e del 140 nel 1942. Basta paragonare questi dati con il tasso di mortalità del 9,6 ogni 1000 persone negli anni che precedettero la guerra, per immaginare le orribili condizioni di vita.

A questa gente ridotta in uno stato di miseria inaudito si volle togliere ogni residuo di dignità, di orgoglio collettivo. Sul portone di ingresso del ghetto era scritto: "Attenzione, pericolo! Zona infetta". Le strade furono ribattezzate con nomi grotteschi, come "Via dei selvaggi" o "Via delle galline".

Con insulti, umiliazioni, prepotenze, violenze, i nazisti cercavano di indebolire l’istinto di vita e spegnere ogni speranza di difesa e di ribellione.

Per disorientare e per distruggere ogni legame di solidarietà fra la popolazione del ghetto, stimolarono inoltre il collaborazionismo, che trovò la sua massima espressione nello Judenrat. Tale consiglio operava tramite un corpo di polizia, l’"Ordnungsdienst", un vero rifugio di ogni specie di canaglia che, pur di salvare la propria pelle, eseguiva ogni ordine dell’occupante, compreso quello della deportazione verso i campi di sterminio.

Con questi metodi – fame, miseria, isolamento, corruzione collaborazionista – i nazisti raggiunsero in gran parte lo scopo che si erano prefissi: indebolire l’istinto di vita della popolazione, soffocare la spinta alla ribellione e alla lotta.

LA DEPORTAZIONE

20 gennaio 1942. Conferenza di Gross-Wansee. Heydrich ammise l’esistenza di un piano di sterminio.

22 luglio. Nel ghetto di Varsavia lo Judenrat espose il primo annuncio della deportazione a Est di ebrei di ogni sesso ed età. In realtà i convogli sarebbero stati inviati al campo di sterminio di Treblinka.

Nei primi giorni, i contingenti ordinati dalle SS allo Judenrat vennero più o meno facilmente raggiunti. Ma dopo, l’operazione, organizzata da uno speciale Kommando SS trasferito appositamente da Lublino, che doveva catturare ogni giorno un minimo di 15.000 persone, divenne una vera caccia all’uomo; un quadro apocalittico conservato dai diari degli storici del ghetto, periti poi tragicamente come tutti gli altri.

Quando nel settembre la deportazione fu interrotta, erano rimaste nel ghetto 60.000 persone.

Allora sorse lo spirito di resistenza.

Lo scopo del nemico, lo sterminio completo degli ebrei, era ormai evidente per tutti. Questo segnò la sconfitta dell’idea collaborazionista coltivata dai consigli ebraici e soprattutto cementò in un’unità ideale le organizzazioni sioniste giovanili che crearono un’unica forza di resistenza, l’Organizzazione Ebraica di Combattimento (ZOB).

LA RIVOLTA

Alla fine del 1942 il Comando generale delle SS decise lo sterminio definitivo degli ebrei del Governatorato generale. Il piano prevedeva la rapida liquidazione di tutti i ghetti. Il ghetto di Varsavia, che con i suoi 60.000 superstiti continuava ad essere il più grande centro ebraico dell’Europa, figurava al primo posto in questo piano.

All’inizio di gennaio 1943 apparvero i suoi primi appassionati manifesti sul muro del ghetto.

Ebrei! L’invasore è passato al secondo atto del vostro sterminio. Non rassegnatevi ad andare alla morte. Difendetevi! Afferrate una scure, una sbarra di ferro, un coltello. Asserragliatevi nelle vostre case! Fatevi prendere così, piuttosto! Nella lotta c’è sempre possibilità di salvezza. Combattete!

Firmato:

L’organizzazione Ebraica di Combattimento

Svegliati popolo e lotta!

Preparatevi ad agire, siate pronti!

Raccogliete il coraggio per compiere atti audaci. Non pronunciate più le vergognose parole: siamo tutti condannati a morte. Non è vero! Anche a noi appartiene la vita! Anche noi abbiamo diritto a viverla.

Svegliati popolo, e lotta per la tua vita! Che ogni madre diventi una leonessa in difesa dei suoi piccoli! Che nessun padre veda con rassegnazione la morte dei suoi figli! Che il nemico paghi col proprio sangue la vita di ogni ebreo! Che ogni casa diventi una fortezza! Nessun ebreo deve più morire a Treblinka! Preparatevi ad agire! Siate pronti!

Il ghetto di Varsavia viveva in uno stato di gioiosa tensione, nell’eccitamento di chi ha preso la sua definitiva e irrevocabile decisione: resistenza ad oltranza al nemico, anche a costo di morte sicura e di sterminio completo.

Nel gennaio 1943 i tedeschi cercarono di riprendere le deportazioni verso Treblinka, ma i resistenti li costrinsero a desistere.

Fu, quella, la "piccola rivolta" che spaventò i tedeschi. Nei mesi di febbraio e marzo si ripeterono alcuni tentativi di deportazione che fallirono totalmente. Alla fine il capo della Gestapo e delle SS, Himmler, ordinò la distruzione del ghetto.

Il compito della distruzione venne affidato al generale delle SS Jürgen Stroop; a sua disposizione battaglioni di fanteria e cavalleria, provate unità delle SS, unità del genio e dell’artiglieria, reparti di polizia ucraina, ecc.

Gli ebrei di Varsavia erano pronti per l’ultima battaglia, che cominciò alle sei del mattino del 19 aprile 1943.

Mordechai Anielewicz, il comandante della rivolta, era uno studente appena ventiquattrenne. La sua autorità tra i combattenti era indiscutibile. Le sue doti organizzative eccezionali. Dirigeva la rivolta con la coscienza profonda di chi difende le ultime posizioni di un popolo.

Così Stroop, che dapprima aveva ritenuto di liquidare la rivolta con un’azione di normale polizia di due o tre giorni, mandò a Himmler il suo ultimo bollettino solo il 16 maggio 1943, cioè ventisette giorni dopo lo scoppio dei moti. In quei giorni il generale nazista fece saltare la grande sinagoga, intendendo con ciò sanzionare la definitiva distruzione della più genuina comunità ebraica d’Europa. Questo il bollettino: "Il quartiere ebraico della città di Varsavia non esiste più. La grande azione ha avuto termine alle ore 20.15 con l’esplosione della sinagoga".

Sullo sfondo oscuro del grande oceano di sofferenze umane, di sacrifici, di morte, appare quanto mai luminosa la rivolta del ghetto di Varsavia. Più che un tentativo di liberazione, essa fu un atto di fede nella giustizia, nella libertà, nell’umanità.

Le notizie su questi avvenimenti sono giunte a noi prevalentemente dal cosiddetto "Archivio di Ringelblum", dal nome del giovane storico ebreo di Varsavia Emanuele Ringelblum che, temendo e prevedendo la scomparsa dell’ebraismo per mano tedesca, organizzò un gruppo di giovani intellettuali (Oneg Shabbat) che per oltre tre anni raccolsero tutto il materiale documentario possibile.

Quando la fine fu imminente (inizi 1943) chiusero tutto il materiale raccolto in bidoni con chiusura ermetica e li seppellirono sotto le macerie facendo giungere all’esterno un’indicazione precisa del luogo dell’occultamento – via Nowolipki 68.

Nel marzo 1944 Emanuele Ringelblum fu arrestato dalla Gestapo, torturato e ucciso.

I suoi archivi furono ritrovati in parte nel settembre 1946 e in parte nel dicembre 1950.

 

 

Nota bibliografica

a cura di Lucio Monaco

Diari, documenti e testimonianze sul ghetto di Varsavia 1939-1943 e sull’insurrezione

Adam Czerniaków, Diario (1939-1942), il dramma del ghetto di Varsavia, Roma, Città Nuova Editrice, 1989. Gli appunti personali ( settembre 1939 - luglio 1942) del presidente dello Judenrat, suicidatosi il 23 luglio 1942, dopo aver avuto dalla Gestapo l’ordine di allestire un convoglio di bambini destinato a Treblinka.

Abraham Lewin, Una coppa di lacrime. Diario dal ghetto di Varsavia, Milano, Il Saggiatore, 1993. Il diario di Lewin - insegnante e scrittore, membro della direzione dell’archivio di Ringelblum - fu ritrovato con gli altri materiali raccolti e nascosti dal gruppo di "Oneg Shabbes"; la parte salvata copre il periodo marzo 1942 - 16 gennaio 1943. Dopo questa data l’autore fu deportato a Treblinka.

Mary Berg, Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944), Torino, Einaudi, 1991. Nata nel 1924, Mary Berg riuscì a portare con sé il suo diario quando fu liberata con la sua famiglia in un’operazione di scambio di prigionieri (gennaio 1943).

Emmanuel Ringelblum, Sepolti a Varsavia. Appunti dal ghetto, Milano, Mondadori, 1962. Gli appunti di Ringelblum coprono gli anni dal gennaio 1940 al dicembre 1942.

Le memorie dell’unico superstite del comando dell’insurrezione del ghetto, Marek Edelman, sono state raccolte in due libri-intervista:

Marek Edelman - Hanna Krall, Il ghetto di Varsavia. Memoria e storia dell’insurrezione, Roma, Città Nuova Editrice, 1985

Rudi Assuntino - Wlodek Goldkorn, Il guardiano. Marek Edelman racconta, Palermo, Sellerio, 1999

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Cenni sulla storia del Lager di Auschwitz

a cura di Lucio Monaco

La storia di Auschwitz si può articolare in tre fasi, durante le quali gli aspetti che caratterizzano l’istituzione concentrazionaria nazista (repressione, sterminio, sfruttamento economico) si trovano a incrociarsi e sovrapporsi.

1940-1941: costruzione e ampliamento del Lager principale ("complesso duraturo che avrebbe dovuto servire per molti anni ancora come luogo di detenzione e di annientamento degli avversari del Reich"), delle installazioni agricole e degli stabilimenti industriali ad esso collegati.

Ottobre 1941-autunno 1944: potenziamento delle strutture produttive e industriali; installazione delle strutture di sterminio (impiego dell’acido cianidrico; camere a gas; "soluzione finale" a Birkenau).

Inverno 1944-gennaio 1945: smantellamento e abbandono del Lager.

Auschwitz, "il più grande centro di sterminio che il mondo abbia mai visto" , concentra e riassume in tutta la sua complessità la vicenda - centrale nel nostro secolo - del totalitarismo nazifascista e della sua politica di sterminio.

Eccezionale si presenta anzitutto per l’estensione: la "zona di interesse" del campo ricopriva un’area di 40km2. Venne prevista, fin dai primi progetti (1940), una compresenza di impianti produttivi di ogni tipo (dall’agricoltura alla chimica), che sfruttavano la manodopera schiavile fornita dal Lager. La quarantina di sottocampi sorta così tra il 1941 e il 1944 serviva direttamente all’economia delle SS (aziende agricole) ma soprattutto agli apparati produttivi di grandi consorzi tedeschi, di cui i più noti sono la IG-Farbenindustrie, gli Hermann Göring Werke, la Siemens-Suckert. Si trattava di attività legate all’industria bellica e ad alcune ricerche sperimentali: miniere di carbone, industria chimica, armamenti, edilizia.

Ma a partire dall’estate 1941 il territorio di Auschwitz fu individuato anche come località in cui collocare le strutture distruttive necessarie all’attuazione della "soluzione finale". Il progetto del sottocampo "per prigionieri di guerra" di Auschwitz II-Birkenau, risalente all’inizio del 1941, fu trasformato in quello di un campo di sterminio immediato. L’area interessata era quella di Brzezinka (in tedesco Birkenau), a circa 3 km. dal campo principale. I deportati (prevalentemente russi e polacchi) lavorarono alla costruzione del campo tra il marzo del 1941 e il febbraio del 1942, mentre contemporaneamente sorgeva un altro Lager (detto poi Auschwitz III) presso lo stabilimento industriale di Buna, nelle vicinanze di Monowitz, a circa sette chilometri dal campo principale.

"All’ingegneria della guerra e dello sterminio contribuirono non solo gli imprenditori e i capitalisti tedeschi, ma anche imprese di vari paesi Italia compresa. Nel marzo 1942 a Roma i dirigenti della IG Farben firmarono un accordo con un consorzio di imprese edili italiane, il "Gruppo italiano", per la costruzione degli edifici della nuova fabbrica [cioè Buna]; le imprese fornivano anche la manodopera. Lo storico Brunello Mantelli ha ricostruito la vicenda e ha ritrovato anche una copia del contratto, pubblicato nel 1942 a cura della "Federazione nazionale fascista costruttori edili, Raggruppamenti Germania", col nome delle aziende che vinsero l’appalto" (G.Nebbia, in T.Bastian, Auschwitz e la menzogna di Auschwitz, Torino 1995, p. 124; cfr. B.Mantelli, "Il cantiere di Babele" in "Storia e Dossier" a. V n. 44, ott. 1990)

Per le uccisioni di massa i dirigenti del Lager - in primo luogo il comandante, Rudolf Höss - sperimentarono una tecnica di gassazione diversa da quelle usate nell’"operazione eutanasia" (T4) e negli altri centri di sterminio immediato. Al monossido di carbonio Höss sostituì l’acido cianidrico (nome commerciale: Zyklon B, un potente antiparassitario). Gli esperimenti furono condotti nel campo principale (Auschwitz I) a partire dall’agosto 1941. In settembre, nei sotterranei del Blocco 11, fu eseguita la prima gassazione di massa: 600 prigionieri di guerra sovietici e 250 malati. Venne poi attrezzato un locale presso il crematorio: vi furono uccisi centinaia di prigionieri di guerra sovietici e, a partire dall’autunno 1941, gli ebrei che arrivavano con i primi trasporti destinati allo sterminio. I trasporti arrivavano in treno; le vittime venivano avviate verso il crematorio e portate nelle finte docce adiacenti. Il basso rendimento del crematorio, costruito nel 1940 per scopi più "ordinari", fece trasferire queste operazioni nel nuovo campo di Birkenau.

Con Birkenau si venne a creare una sistematica e specifica industria di morte, organizzata in fasi e suddivisioni del lavoro di tipo industriale: la disposizione dei settori, delle baracche e degli edifici, la dislocazione dei raccordi ferroviari, le attività e i ritmi delle squadre di lavoro interne al campo furono resi funzionali al progetto di sterminare principalmente gli ebrei e gli altri gruppi giudicati "inferiori" (gli zingari). Nelle camere a gas venivano inviati, all’arrivo, i gruppi destinati alla soppressione immediata o gli inabili al lavoro (selezionati in base a criteri variabili, a seconda del momento); ad essi si aggiungevano i prigionieri deperiti, malati e giudicati inutili nel corso delle periodiche "selezioni". Nell’estate 1942 vennero messe in funzione le prime due camere a gas (Bunker I e II), collocate in edifici rurali riadattati. I morti venivano sepolti, e più tardi incinerati, in fosse adiacenti.

L’intensificazione di questa attività distruttiva di massa portò, verso la fine del 1942, a un ulteriore e più vasto progetto, comprendente, al termine dei lavori, quattro edifici, denominati "crematorio II, III, IV, V". I primi due comprendevano camere a gas sotterranee (Badeanstalten: bagni-docce), depositi per i corpi (capacità di 2000 cadaveri), montacarichi, forni crematori. I crematori IV e V avevano le camere a gas in superficie e presentavano dimensioni più ridotte.

Fu perfezionata anche l’organizzazione dei convogli in arrivo. All’inizio, i treni scaricavano i deportati nei pressi del campo principale; dall’estate del 1942 i convogli si fermarono allo scalo merci di Oœwiêcim, circa a metà strada tra Auschwitz I e Auschwitz II: la selezione degli inabili avveniva sulla banchina d’arrivo. Dal maggio del 1944 i convogli furono fatti arrivare direttamente a Birkenau: la selezione avveniva sulla banchina, o "rampa", posta tra il settore maschile e quello femminile del campo. Il sistema dello sterminio mediante il gas, già allusivamente preannunciato da Hitler nel Mein Kampf, aveva così raggiunto il suo livello organizzativo e tecnologico più elevato. Tra l’estate del 1942 e l’estate del 1944 furono mandati a morte centinaia di migliaia di ebrei d’Europa e gli zingari del "campo per famiglie di zingari" di Birkenau (settore BIIe), che aveva imprigionato, tra il febbraio e il luglio 1944, più di 20.000 uomini, donne e bambini.

Alla fine del 1943 l’area di Auschwitz presentava il seguente assetto:

a) il campo principale (campo maschile), con settori per le esecuzioni, l’imprigionamento (Bunker), un crematorio (la camera a gas annessa aveva avuto un’utilizzazione limitata: 1942-primavera 1943), settori amministrativi e archivi.

b)il campo di Birkenau, diviso in settori: un grande campo femminile (settori BIa e BIb), due settori maschili, un "ospedale" maschile e uno femminile, in cui fra l’altro si svolsero efferate sperimentazioni pseudo-mediche e farmacologiche (Clauberg, Mengele) su uomini, donne e bambini, con la complicità di istituti di ricerca e di aziende farmaceutiche; infine il "campo per le famiglie zingare", quello per le famiglie ebraiche provenienti da Terezin, e l’area dei crematori per lo sterminio immediato.

Comandante del campo, fino al novembre 1943, fu l’SS Rudolf Höss, poi sostituito nel momento in cui Auschwitz venne definitivamente suddiviso in tre settori: il campo principale (Stammlager), KL Auschwitz I; il KL Auschwitz II (Birkenau); il KL Auschwitz III, a Monowitz, e i circa quaranta sottocampi, più o meno lontani dall’area principale.

Verso l’autunno-inverno 1944 le operazioni di sterminio immediato vennero gradatamente sospese e si avviò un progressivo smantellamento del campo, anche in considerazione della vicinanza dell’esercito sovietico (attestato a 200 km. di distanza). Furono predisposti piani di evacuazione del campo, con trasferimenti di prigionieri ad altri KL. Si trasferì anche la maggior parte del contenuto dei magazzini (proveniente dalla spoliazione delle vittime all’arrivo); vennero distrutti in parte gli archivi e si smantellarono i crematori, trasferendone le parti utili in Germania e distruggendo le strutture fisse. "Il crematorio V e le relative camere a gas funzionarono al massimo del loro rendimento fino alla seconda metà di gennaio del 1945".

L’ultimo tragico capitolo della storia di Auschwitz riguarda il piano di abbandono del campo, messo a punto alla fine del 1944 e attuato a metà gennaio 1945. Dai campi e dai sottocampi, fra il 17 e il 21 gennaio, circa 60.000 prigionieri vennero avviati in lunghe colonne appiedate verso alcuni centri ferroviari, camminando per decine e in qualche caso centinaia di chilometri. I superstiti furono caricati su vagoni ferroviari scoperti e trasportati per giorni verso altri KZ: Sachsenhausen, Bergen Belsen, Buchenwald, Dora, Flossenbürg, Dachau, Mauthausen… Questi trasporti, denominati "marce della morte", causarono migliaia di morti e furono accompagnati da esecuzioni individuali e di massa.

Nel frattempo, ad Auschwitz, le SS distrussero i crematori e incendiarono magazzini, archivi, in alcuni casi anche le baracche con i prigionieri incapaci di marciare. Nei tre campi (Auschwitz I, Birkenau, Monowitz) erano comunque rimasti circa 7.000 prigionieri, liberati dai soldati sovietici il 27 gennaio.

Il calcolo dei prigionieri passati per Auschwitz è reso complesso, oltre che dalla scomparsa della documentazione, distrutta in gran parte con l’abbandono del Lager, dal duplice carattere (sterminio immediato e sterminio mediante il lavoro) del campo. Il numero dei prigionieri ufficialmente registrati assomma a circa 400.000 persone, di cui poco più della metà ebrei, e per il resto Polacchi (140.000), zingari (21.000), prigionieri di guerra sovietici (12.000) e appartenenti a varie nazionalità. Soggetto a valutazioni anche molto distanti tra loro il numero dei non registrati (tutti ovviamente uccisi). Secondo F. Piper, "dei circa 1.300.000 deportati ne sopravvissero 223.000, i restanti 1.100.000 perirono nel campo", e se tale cifra è da considerare approssimata per difetto, "allo stato attuale delle ricerche… non vi sono elementi per affermare che una tale cifra sia stata superiore a 1.500.000 individui"

La bibliografia su Auschwitz è vastissima. Oltre all’ormai classico volume di Hermann Langbein, Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, Milano, Mursia, 1984, tra i testi più recenti si possono vedere:

Per riflessioni di tipo storiografico, che affrontano anche il problema del cosiddetto revisionismo: Giovanni Gozzini, La strada per Auschwitz. Documenti e interpretazioni sullo sterminio nazista, Milano, B. Mondadori, 1996; Till Bastian, Auschwitz e la menzogna su Auschwitz. Sterminio di massa e falsificazione della storia, Torino, Bollati Boringhieri, 1996.

Sul funzionamento della "catena" dello sterminio ad Auschwitz e sul rapporto tra tecnologia e genocidio: J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, Milano, Feltrinelli, 1993

Per un inquadramento generale dello sterminio del popolo ebraico: Shoah. Gli ebrei e la catastrofe, Milano, Electa/Gallimard, 1995; oltre naturalmente all’opera fondamentale di Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1995 (2 voll.)

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Le deportazioni dall’Italia ad Auschwitz

a cura di Lucio Monaco

Gli italiani deportati ad Auschwitz appartenevano, per la quasi totalità, alle comunità ebraiche dell’Italia del centro-Nord (quindi dopo il settembre 1943, del territorio della Repubblica di Salò e dell’Adriatisches Küstenland). Ad essi vanno aggiunti gli ebrei del

Dodecaneso (sotto amministrazione italiana fino all’8 settembre) e un certo numero di ebrei stranieri che avevano trovato rifugio in Italia. Più ristretto invece il numero degli italiani finiti ad Auschwitz in qualità di "politici" (su di essi si possiedono ancora pochi dati).

Deportati appartenenti alle comunità

ebraiche italiane ed ebrei stranieri residenti

o rifugiati in Italia

Secondo le ultime ricerche, i convogli partiti dall’Italia (territorio della Repubblica di Salo) per Auschwitz furono 11, per un totale di 4500 deportati, di cui risultarono superstiti, alla liberazione, 258 persone. A questi occorre aggiungere gli ebrei stranieri rifugiatisi, nel settembre 1943, a Borgo S. Dalmazzo (CN), poi concentrati in una caserma e di lì deportati al campo di transito francese di Drancy e quindi ad Auschwitz: 328 persone, 10 superstiti. Dal Litorale Adriatico (Adriatisches Küstenland, cioè Trieste e l’Istria, cedute da Mussolini alle SS) furono fatti partire per Auschwitz almeno 20 convogli, con 1117 persone (81 superstiti).Dal Dodecaneso infine furono deportate 1820 persone, con un unico convoglio (179 superstiti).

Il quadro complessivo che ne risulta è di un totale di circa 7500 deportati con 518 superstiti, pari a poco più del 7%.

A questa cifra, vanno naturalmente aggiunti - per completare il quadro della deportazione ebraica dall’Italia, che costituisce un aspetto della Shoah - i circa 1000 ebrei deportati dall’Italia verso Lager diversi da Auschwitz (Ravensbrück, Flossenbürg, Buchenwald, Bergen Belsen). L. Picciotto Fargion ha identificato un totale di 8.869 vittime dell’oppressione antiebraica: 8.566 persone furono deportate, 503 uccise in Italia In questo calcolo, tuttavia, "da 900 a 1.100 persone almeno non sono state conteggiate per l’impossibilità di procedere alla loro identificazione" (Il libro della memoria, p. 26).

La disaggregazione di questi dati statistici rivela aspetti impressionanti. Più di 100 risultano i bambini di età inferiore a un anno circa 500 quelli di età compresa tra due e dieci anni. Oltre 500 furono gli ultrasettantenni deportati (Il libro della memoria, pp. 26-33).

Diversamente dagli altri paesi dell’Europa occidentale occupati dai nazisti, in Italia non

vi fil alcuna fase preparatoria nell’organizzazione dei rastrellamenti, dal momento che le leggi razziali del 1938 avevano creato le condizioni necessarie all’attuazione dei piani nazisti: soprattutto la schedatura degli ebrei, costantemente aggiornata dal regime fino al 25 luglio, e la presenza di un organismo che presiedeva, dipendendo dal Ministero dell’lnterno, all’attuazione delle norme antiebraiche: La Direzione generale per la demografia e la razza "Anche se fra i due regimi, fascista e nazista, non vi fu coordinamento né intenzione di continuità...occorre sottolineare con forza che l’antisemitismo fascista preparo il terreno allo sterminio deciso dalla Germania nazista" (Il libro cit., p. 810).

La prima grande deportazione di ebrei italiani si verifica quindi a breve distanza dalla nascita della Repubblica di Salo: il 16 ottobre 1943 vengono arrestati a Roma 1023 ebrei, che giungeranno ad Auschwitz il 22 ottobre. Di essi, 839 saranno immediatamente eliminati nelle camere a gas.

Fino a dicembre, le retate e gli arresti furono organizzati e gestiti dai nazisti, mentre a partire dal 1944 la situazione divenne più complessa, e si intrecciarono, nella dinamica degli arresti e delle deportazioni, decisioni e competenze sia italiane che tedesche. Fu creato un campo di transito a Fossoli di Carpi, presso Modena, dove i prigionieri ebrei attendevano il formarsi dei convogli per Auschwitz. Con l’evoluzione del conflitto, questo campo fu smantellato (luglio-agosto 1944) e ne venne organizzato uno più a nord, il "campo di transito" di Bolzano Anche di qui partirono convogli di ebrei per Auschwitz e talora per altri Lager (Ravensbrück, Flossenbürg).

Altri trasporti per Auschwitz partirono dal Litorale Adriatico (sotto diretta amministrazione nazista).Gli ebrei arrestati venivano concentrati nel campo della Risiera di San Sabba (un vecchio essiccatoio di riso situato alla periferia di Trieste), che fungeva anche da magazzino di raccolta dei beni razziati e da luogo di imprigionamento e assassinio di partigiani e antifascisti (nella Risiera fu allestito un forno crematorio, segno di una elevata mortalità). Dalla Risiera si formavano poi i convogli per Auschwitz, sovente misti ("politici" ed ebrei).

Deportati "politici" italiani ad Auschwitz

Un esiguo numero di "politici" italiani, ancora poco conosciuto, risulta immatricolato ad Auschwitz, come si e potuto rilevare da quanto detto in precedenza. "Si registrano - scrive L. Picciotto Fargion (op. cit., p. 867) - da Trieste molti casi di politici deportati verso Auschwitz anziché verso i lager tedeschi loro destinati". Ma Auschwitz poteva essere raggiunto anche in modo meno diretto. Segnalo qui, a titolo di esempio della complessità dei percorsi seguiti, due casi:

1. Un gruppo di operaie milanesi fil arrestato in occasione degli scioperi del marzo 1944.Imprigionate prima a San Vittore, poi in una caserma di Bergamo, il 24 marzo partono per la Germania su un convoglio misto: in un vagone le donne ("una settantina" secondo la testimonianza di Loredana Bulgarelli, in M. Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz, Milano, Mursia, 1994, pp. 53-72), negli altri gli uomini. Arrivate a Mauthausen le donne vengono chiuse nella prigione del campo; non ricevono matricola, e quindi il loro passaggio non viene registrato. Il 25 aprile 1944 vengono deportate ad Auschwitz, dove ricevono un numero di matricola compreso tra le serie 79.000 e 81.000. Alcune di loro risultano poi trasferite nel Lager di Flossenbürg, e lì nuovamente immatricolate.

2. Da Mauthausen, a fine novembre 1944 numero per ora rimasto imprecisato di deportati (tra cui 23 italiani giunti nel Lager austriaco il 20 marzo 1944) viene spostato ad Auschwitz. Un mese e mezzo dopo, i superstiti italiani ritorneranno a Mauthausen o saranno evacuati su altri Lager (Buchenwald) (solo uno, 11 saluzzese Armando Zoccola, verrà liberato dai russi ad Auschwitz). E’ un gruppo professionalmente compatto: meccanici con varia specializzazione saldatori, elettricisti, anche se non tutti furono poi impiegati in modo coerente, vennero mandati ad Auschwitz III per ultimare i lavori di Buna.

 

Uno strumento fondamentale di ricerca e costituito dallo studio di Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportoti dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, l99l.

Altrettanto rilevante (anche se di impianto piu discorsivo) è il volume di Susan Zuccotti, L’Olocausto in ltalia Milano, Mondadori, 1988

Per il tragico capitolo dei bambini deportati si veda "I bambini deportati dall’ltalia e dal Dodecaneso", in Lidia Beccaria Rolfi - Bruno Maida, Un futuro spezzato. I nazisti contro i bambini, Firenze, Giuntina, l997, pp. 155 sgg.

Sulla storia e la dinamica dei trasporti dall’Italia verso i Lager nazisti si veda Italo Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’ltalia ai lager nazisti. I "trasporti" dei deportati 1943-1945, Milano, F.Angeli, 1994

La vicenda degli ebrei rifugiatisi nel settembre 1943 a Borgo S. Dalmazzo è stata ricostruita da A. Cavaglion Nella notte straniera. Gli ebrei di St-Martin-Vésubie, Cuneo, L’arciere, 1991.

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Le "marce della morte"

a cura di Lucio Monaco

Con questo termine ormai entrato nell’uso anche storiografico (Death Marches, Todesmärsche) si indicano i trasferimenti massicci di prigionieri (a piedi e su ferrovia) da un Lager - campo principale o sottocampo - a un altro. Ciò avvenne nella fase finale della storia di molti KZ: di fronte all’avanzata degli angloamericani o dei russi, i Lager venivano fatti sgomberare completamente ("nessun prigioniero deve cadere vivo nelle mani dei nemici", era l’ordine): allo stesso tempo venivano attuate, in genere, la distruzione o l’asportazione degli archivi e di parte delle installazioni. Non dovevano rimanere testimonianze né testimoni: i malati venivano uccisi, gli altri si incamminavano a piedi o con altri mezzi verso i Lager di destinazione. Incolonnati talvolta per chilometri, caricati su carri bestiame, erano scortati dalle SS, da guardie armate e dai Kapo, che sopprimevano chiunque non riuscisse a tenere l’andatura richiesta. L’eliminazione dei più deboli poteva avvenire anche durante le soste e coinvolgere decine o centinaia di vittime. In generale, nelle "marce della morte" la mortalità di prigionieri raggiunse punte elevate, stimate intorno alla metà dei prigionieri. Cfr. D. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Milano, Mondadori, 1996, parte V.

Lo sgombero definitivo di Auschwitz e dei suoi sottocampi verso altri Lager avvenne tra il 17 e il 21 gennaio 1945. L’inverno, la mancanza di cibo e di abbigliamento, la prostrazione fisica e le violenze falcidiarono i deportati. Da alcuni sottocampi i prigionieri (circa 2.000) partirono con trasporti ferroviari. Da altri vennero avviati interamente a piedi: è il caso dei 3.200 prigionieri di Jaworzno che camminarono per 250 km. fino al Lager di Gross Rosen. Il grosso dei prigionieri (circa 50.000 persone nei vari campi, compresi Auschwitz I, II e III) fu instradato a piedi verso i due nodi ferroviari di Wodzis³aw Œl¹ski e Gliwice. Di qui vennero smistati verso Buchenwald, Bergen Belsen o Mauthausen, con trasporti ferroviari effettuati in condizioni spaventose (carri bestiame aperti sotto la neve e al gelo) che causarono molte altre vittime.

Sullo sgombero di Auschwitz si veda A. Strzelecki, Evacuazione, liquidazione e liberazione del campo in Auschwitz. Il campo nazista della morte cit., pp. 243 sgg.

Le testimonianze dei superstiti italiani si possono leggere nelle rispettive opere di memorialistica.

Per una panoramica sulla situazione nei vari KZ e il racconto di tre superstiti si veda il volume Gli ultimi giorni dei Lager, a c. di E. Vincenti, Milano, F. Angeli, 1992.

Per il racconto dell’evacuazione di Buna verso Gliwice e Buchenwald si veda il testo di Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette Lager, Alessandria 1998, pp. 93-107.

 

 

L’iniziativa che coinvolge 75 studenti e 6 insegnanti dei tre Istituti scolastici, è stata resa possibile grazie alla disponibilità di:

Associazione Nazionale ex Deportati (ANED)

Assessorato alla Cultura del Comune di Moncalieri

Ministero della Pubblica Istruzione

Provincia di Torino

Istituto Bancario S. Paolo di Torino

Associazione "Riccardo Aristone" (Torino)

Si ringraziano in modo particolare i testimoni accompagnatori, Natalia Tedeschi e Pio Bigo, superstiti di Auschwitz e Mauthausen

 

 

A questo fascicolo hanno collaborato gli insegnanti:

Luisa Galasco - ITC "Marro"

Giulio Manzella - LS "Majorana"

Marcella Pepe - ITIS "Pininfarina"

Progetto e coordinamento: Lucio Monaco - LS "Majorana"

(Didascalie)

Sopra: da T. Bastian, Auschwitz cit., pp. 32-33

Sotto: fotografia aerea alleata del Lager di Auschwitz III, adiacente allo stabilimento di Buna

Sopra: da Martin Gilbert, The Holocaust. The Jewish Tragedy, Glasgow 1990, p. 354

Sotto: da T. Bastian, Auschwitz cit., p. 30

L’area del ghetto di Varsavia e i perimetri delle sue progressive riduzioni

Da A. Czerniaków, Diari cit. , p. 29

(2a di cop.)

I campi di sterminio installati dai nazisti nella Polonia occupata e destinati alla "soluzione finale del problema ebraico" (le date si riferiscono ai periodi di funzionamento per tale scopo):

Belzec: marzo 1942-primavera 1943. Camere a gas (ossido di carbonio). Circa 600.000 vittime

Sobibor: maggio 1942-autunno 1943. Camera a gas (ossido di carbonio). Circa 350.000 vittime

Treblinka: luglio 1942-ottobre 1943. Camere a gas (ossido di carbonio). Circa 900.000 vittime

Majdanek (Lublin): estate 1942-luglio 1944. Camere a gas (monossido di carbonio e Zyklon-B), fucilazioni di massa. Circa 1.000.000 di vittime

Chelmno: dicembre 1941-marzo 1943. "Camion a gas" itineranti (Gaswagen). Circa 150.000 vittime.

Auschwitz: vedi scheda più avanti.

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