TESTIMONIANZE di SOPRAVVISSUTI

Pietro Pascoli: I Deportati - pagine di vita vissuta (1960)

presentazione di Ferruccio Parri

Capitolo 3 - Via Spalato

L’ATMOSFERA DEL CARCERE

 

14 dicembre 1944. Un automezzo ci trasporta di bel mattino alle carceri di Via Spalato in Udine. I cancelli di quel massiccio edificio, protetto da alte muraglie, con le finestre a bocca di lupo, mi erano già noti. Si erano aperti per me più volte durante gli anni del fascismo, essendo io reo di avere difeso con fede pura e con tutto l'ardore della mia giovinezza i diritti del lavoro e la redenzione degli oppressi. Ora lì dentro, però, l'atmosfera era un'altra. Da un momento all'altro potevano spedirci all'altro mondo, come capitò ai 26 Martiri di Premariacco e di S. Giovanni al Natisone, prelevati a sorte e impiccati sulle pubbliche piazze di quei paesi; potevamo venire condotti sotto, una muraglia, senza subire alcun processo, come caddero, all'alba dell'11 febbraio 1945, 23 patrioti, freddati sotto le mura del cimitero di Udine; o finiti a colpi di pistola ai piedi delle mura del carcere, senza benda agli occhi, come finirono 29 compagni di lotta il 9 aprile dello stesso anno e, tra questi, Guerra e Tribuno, valorosi comandanti delle formazioni garibaldine in Friuli. Vi erano poi le sevizie e le torture per farci parlare, il lavoro coatto, il pericolo di finire sotto le macerie a cagione dei bombardamenti aerei; e vi erano i pidocchi, la fame e la deportazione in Germania. Un'altra atmosfera dunque, atmosfera di tragedia e di eroismi. Ottocento prigionieri di classe gremivano costantemente le celle di Via Spalato, oltre al consueto numero dei detenuti comuni. Vi erano uomini politici e sacerdoti, militari e civili, funzionari e agenti di polizia, professori e studenti, uomini d'arte e di cultura, professionisti, industriali, commercianti, contadini ed operai, donne e giovinetti. Tutto un mondo nuovo, un mondo di eccezione, legato da un comune ideale. Quel palazzaccio si era trasformato in un porto di mare. Ogni giorno vi erano nuovi arrivi; e ogni giorno, ogni ora, nuove partenze: arrivi dalla montagna, dalla pianura, dalle città; e partenze per il lavoro coatto, per la Germania o per l'altro mondo. Non così per i delinquenti, per i detenuti comuni. Questi godevano di un trattamento normale e qualcuno era persino comandato a sorvegliare i "politici". Del resto è sempre stato così, in ogni tempo ed in ogni luogo. Gli spiriti migliori che si lanciarono nella mischia per un ideale di vita, che osarono sfidare gli ordini costituiti, le credenze e le convenzioni del tempo, pagarono sempre a caro prezzo quei loro slanci generosi. Non c'è tolleranza o perdono nel duello politico o nelle guerre di razza o di religione: l'uomo muta gli aspetti esteriori del dramma, cui è chiamato a partecipare quale attore e spettatore ad un tempo, ma non muta la sua essenza: non muta cioè la sua condotta reale, positiva, che scaturisce, in fondo, dalla sua intima e complessa natura.

 

LA CELLA COMUNE N° 3

 

Il dottor Votig ed io fummo condotti in cella di segregazione: un autentico buco in cui non penetrava un raggio di sole, tavolaccio di legno, senza coperte, a temperature bassissime. Animato da una fede e familiarizzato coi rigori del carcere, io sopportavo senza darmi grande pena quella situazione di disagio; ma non era per tutti così lì dentro. Claut, ad esempio, tipo semplice, primitivo, cresciuto con la libertà di un capriolo tra i dirupi delle Prealpi Carniche - vinto dallo sconforto e dall'orrore del chiuso, batteva la testa contro i muri della cella con l'ostinazione di un caprone. "Voglio morire!" gridava. "Voglio morire!". "Smettila, merlo!" finirai per morire sul serio se continui a menarti quei colpi: il muro è più sodo del tuo cranio". "Voglio morire!...". Milena fu condotta alla Sezione femminile. Da quel giorno non la vidi più. Al mio rientro in Patria seppi che era riuscita a cavarsela. Da Via Spalato fu avviata al lavoro coatto in quel di Tarvisio e da lì riuscì a fuggire dal cantiere di lavoro per raggiungere nuovamente le sue Formazioni. Il quarto giorno fummo trasferiti in cella comune: alla cella n. 3. Venti uomini sono accovacciati sul pavimento in calcestruzzo su due dita di paglia tritata, dotati di due coperte di cotone, bujolo in angolo, e pidocchi, pidocchi e pidocchi. Nell'aria un fetore rivoltante che toglieva il respiro. Sulle nude pareti mani ignote avevano disegnato la serafica figura del Cristo accanto a donne ignude, preghiere accanto a motti osceni, nomi e date di compagni partiti per la deportazione o per l'altro mondo. Un litro di zuppa e 400 grammi di pane adulterato costituivano il rancio della giornata; per chi aveva la famiglia lontana c'era fame: fame nera. Il Comitato di Liberazione faceva pervenire in carcere, a mezzo di guardie fedeli al Movimento di Resistenza, cibi e bevande, ma non tutti avevano il privilegio o la fortuna di poterne beneficiare. Ogni mattina mezz'ora d'aria. Due volte al giorno la "conta" e la caratteristica "battitura" delle inferriate. Le notti erano lunghe, interminabili. Tristi pensieri e cupi presagi afferravano la mente e lo spirito dei prigionieri politici. Fuori, sul cammino di ronda, la sentinella armata batteva il tacco con ritmo monotono, esasperante. Di tanto in tanto un colpo di fucile rompeva l'alto silenzio della notte.

 

BUON UMORE IN VIA SPALATO

 

Nel cellulare le cose andavano meglio. Quattro uomini per cella, brandina con materasso, tavolino, sgabello, bujolo emetico a muro. Qualcuno aveva persino le lenzuola e la biblioteca personale. Mondaccio cane: è sempre così... C'è chi nasce con due camicie e c'è chi mena una vita graffia e piena di malore dalla nascita alla morte. Ma nel palazzaccio non regnavano soltanto lo sconforto, l'incubo, il terrore, la fame, le torture, come si potrà pensare; c'era anche del buon umore: canti, giochi a schiaffetto, freddure, risate, e non mancavano le macchiette. Caramba, ad esempio, era una di queste. Toscano di origine e carnico di adozione, per avere incontrato in quel di Paularo certi obblighi... con una ragazza ben piazzata, Caramba, artista mancato, ci deliziava con le sue canzoni d'operetta, accompagnando parole e musica con pose e gesti teatrali. Persino Claut, che nella cella di segregazione si picchiava la testa contro il muro, riusciva qui a riaversi per qualche attimo. Molti sono ancora i compagni che ricordo di quella cella. Pisa, un ragazzone sui vent'anni, roseo in volto e ben nutrito, mi chiamava "babbo" e mi parlava sempre della sua mamma con commozione e con accenti quasi infantili. Era un ex militare fuggito dalle file dei tedeschi, acciuffato ed incarcerato in attesa di giudizio. Un altro militare, ospite della mia cella, era Dante Tripicchio, di Cetraro (Cosenza), studente in medicina, aspirante ufficiale pilota. Tripicchio era il tipo evoluto, intelligente e riflessivo, di animo aperto e generoso. Fuggito con un aereo da una base francese, tentò di raggiungere le truppe Alleate nel Mezzogiorno: raggiunta la linea gotica, egli fu abbattuto ed incarcerato, pure lui in attesa di giudizio. Dante Tripicchio fu deportato nel campo di Mauthausen ed ebbe la fortuna di far ritorno in Patria; ma, giunto nel suo paese natio, vi trovò il focolare spento: la sua casa era stata distrutta da un bombardamento aereo e genitori e fratelli vi avevano trovato la morte tra le rovine. Altro compagno di cella era Masini, di Forgaria (Udine), cieco di un occhio, già infermiere negli ospedaletti partigiani di montagna. Deportato col mio convoglio, il Masini rivide il bel cielo d'Italia al passo del Brennero, ma appena giunto a Bolzano venne ricoverato in un ospedale, dove pochi giorni dopo morì. Ai primi di gennaio entrò in cella Sandro Zaccomer, di Tarcento, commissario di Battaglione. Un giovane esile, dall'aspetto di un fanciullo e dall'espressione triste e pensosa. Appena entrato si buttò sul giaciglio senza pronunciare motto in preda ad un grande sconforto. Su di lui pesavano gravissimi sospetti. "Non me la caverò, Pascoli" mi disse. "Mi fucileranno". "Matto che non sei altro! Mica tutti dovremo morire qui. Attenzione piuttosto a non confidarti con tutti. Ogni tanto entra qualcuno in cella, fa il tonto; poi, dopo qualche giorno scompare, indifferente a tutti ed a tutto. Sono spie, quelle, che tedeschi e fascisti ci buttano tra i piedi. Attento!". Sandro Zaccomer fu sottoposto a tortura a Palazzo Cantore per farlo "cantare". Stritolati i fianchi tra le morse di ferro, impiccato tre volte con la testa all'ingiù e fustigato a sangue, Sandro, di fibra debole ma forte di fede, non parlò. Fu deportato a Mauthausen, ma rivide a guerra finita, i suoi ridenti colli tarcentini, cosparsi di vigneti e di ciliegi in fiore. Angelo Travaglia, di Piove di Sacco (Padova), partigiano combattente del Battaglione Patria, Divisione Osoppo, era l'animo più puro della cella n. 3. È lui, un ragazzo ventenne, che fa il "rastrellamento" quotidiano nella mia biancheria personale; è lui che mi porterà il bagaglio fino alla stazione ferroviaria il giorno della nostra partenza per la Germania; ed è ancora Angelo Travaglia ­ Angelo di nome e di fatto - che mi cederà la sua cuccia nella 3a Stube, blocco 28, a Dachau, allorché verrò colto dal tifo petecchiale, abbandonato sul nudo pavimento della baracca, mentre la febbre sopra i 40 divorava il mio corpo, già ridotto ad uno scheletro dal martirio subito nei Lager. Angelo ebbe la meritata fortuna di riabbracciare i suoi cari e di riprendere il suo posto nel mondo. Un altro compagno della cella comune n. 3, che lasciò un segno indimenticabile nel fondo del mio cuore, era "Sicilia" (il cui vero nome era Carlino). Un ragazzo simpaticissimo e di cuore, figlio della terra del fuoco. Piccolo di statura, capelli crespi, nerissimi, che ricordavano un prodotto d'incrocio tra la stirpe mediterranea e quella negra, occhi di falco, il volto abbronzato come la lava del suo Etna, giacca e calzoni a brandelli, Sicilia era l'anima della cella. Scendendo dalla montagna una sera d'autunno, con un suo compagno, in quel di Maniago, egli entrò in un'osteria gremita di uomini armati. "Siamo dei vostri!" gridò egli baldanzoso e sicuro di sé. Quegli uomini rimasero stupefatti e si misero a ridere. "Come, non mi credete? E caccia foru li documente" rivolgendosi al suo compagno "li documente du Battaliuni". Si prese una scarica di legnate sul groppone ed il mattino seguente fu tradotto alle carceri di Udine. Quel gruppo di armati, che egli aveva scambiato nella penombra della sera per partigiani, erano militi della X Mas: bande nere. "Sicilia" aveva l'abitudine di chiudere i suoi racconti, recitati in schietto idioma siciliano, con una freddura, accompagnata da una tipica espressione tra l'intelligente ed il malizioso e con un'aria sorniona che ci faceva aprire i fianchi dalle risate. Ma "Sicilia" era grande, più che nei racconti e nelle freddure, nelle sue canzoni. Era grande, soprattutto, quando cantava la canzone popolare della sua terra:

 

Bedda matri

in galera sugnu

ed ora non manciù chiù

succu di minna.

(coro)

E ciurri e ciurri

ciuriddu tuttu l'annu

ramuri che ma dato

ti lu tomu.

 

Questa canzone popolare, di schietto folclore siciliano, è la storia di un figliolo che langue in carcere e che, dopo aver imprecato contro il mondo per le condizioni sue, invoca la madre, piangendo la mancanza di lei e delle sue carezze. Al pensiero della madre il figliolo sopporta le pene del carcere e si redime, restituendo così alla madre sua l'amore che da lei aveva ricevuto. "Sicilia", prodotto tipico della sua terra, tutto cuore, emotività ed impulso, al canto di questa canzone si trasfigurava in volto, e alla fine si abbandonava, accasciato, sulla paglia tritata. Una sera, colpito da lebbre, fu ricoverato all'infermeria del carcere; indi fu deportato a Mauthausen. Non seppi più nulla di lui.

 

IL BOMBARDAMENTO DEL 28 DICEMBRE

 

Le giornate si susseguivano. Il Natale passò sereno. Fu celebrata una Messa nella cappella del carcere ed in tale circostanza le porte delle celle si aprirono. Ognuno ebbe modo così di incontrare amici, compagni, conoscenti; di scambiare con essi idee, saluti, auguri. Molti i pacchi di conforto che giunsero dalle famiglie e dal Comitato di Liberazione. I più favoriti dalla sorte divisero il cibo, le bevande, i dolci, coi loro compagni di cella. Mons. Rojatti, allora cappellano del carcere, fece il giro delle celle con un canestro colmo di pane e con un pacco di indumenti, che distribuì ai più bisognosi. Nella cella n. 3 tutti ebbero due sigarette: piccolo dono di mia moglie ai miei compagni di Via Spalato. 28 Dicembre 1944. Le sirene della Città danno l'allarme. È un allarme lacerante, prolungato. Si sentiva nel gemito rauco di quelle sirene l'agonia di un mondo in rovina; lo strazio di una umanità sofferente, incapace di trovare nella pace, nella comprensione, nella tolleranza, nella solidarietà, la via della propria salvezza e la comune gioia del vivere. Il cielo di Udine è tutto un rombo di motori. S'ode lo scoppio infernale di una prima bomba pesante, poi un altro ed un altro ancora… Il fragore si fa più assordante, più vicino. Alcune schegge metalliche battono contro i muri del carcere, cadono nei cortili interni. Il quartiere sud - est della Città è ridotto ad un cumulo di macerie e di fumanti rovine. "Che sarà della nostra casa, dei nostri familiari?". Gli aerei sfrecciano sopra di noi con un ronzio terrificante. Il recluso non ha scampo: deve attendersi la morte tra i cumuli delle rovine... Ad un tratto qualcuno di noi dà un ordine secco, che viene prontamente eseguito: "Tutti agli angoli della cella!". Gli uomini della cella n. 3 si dividono in quattro gruppi, che raggiungono in un baleno i quattro angoli della stanza chiusa a catenaccio dall'esterno. Dopo qualche attimo di sgomento, gli uomini sfogano le loro reazioni, in maniera differente, a seconda della educazione, delle convinzioni e della personalità di ciascuno. Qualcuno s'inginocchia e prega; altri bestemmiano contro Dio e contro gli uomini; altri ancora maledicono tedeschi e fascisti; qualcuno si chiude in un mutismo assoluto. Dopo 15 minuti si ode il cessato allarme e la quiete ritorna negli animi. L'indomani mattina Don Rojatti ci fa la consueta visita. "Be', com'è andata ieri, ragazzi?". "Bene, bene, ma portateci via di qui, Reverendo. Portateci in un campo di internamento: a Premariacco, a Palmanova, dove volete, ma portateci via: qui un giorno o l'altro faremo tutti la morte dei topi".

 

L'OMBRA DI CESARE BECCARIA

 

La vita del carcere scorreva tra le partenze e gli arrivi, tra lo sgomento ed il buon umore. Ogni tanto qualcuno si accasciava sul giaciglio, ammutolito, con le coperte tirate sul volto, chiuso in se stesso in preda a tristi presagi, poi si alzava, riprendeva a giocare a schiaffetto, ed un altro prendeva il suo posto sulla paglia tritata. Dalle celle vicine giungevano gli echi dei canti patriottici e partigiani. Erano canti improvvisati che sfidavano i rigori di Hitler e conferivano una nota di fede e di spiritualità al grigiore del carcere. Ma quando il compagno Trentin, accreditato presso l'ufficio scrivani del carcere, affiliato al Comitato di Liberazione, ficcava gli occhiali nello sportello per chiamare qualcuno - registri alla mano - erano momenti di angoscia e di trepidazione per tutti. Sarà chiamato per l'interrogatorio o sarà condotto nella camera di tortura? Sarà avviato al lavoro obbligatorio o verrà deportato in Germania? Sarà condotto al processo burletta o verrà impiccato su una pubblica piazza? Sarà posto in libertà o verrà freddato con due colpi di pistola alla nuca? Queste le domande che ciascuno di noi si faceva in cuor suo ad ogni chiamata nel silenzio glaciale della cella. Una sera, una triste sera, entrò in cella Graffitti Nino di Meduno: un ragazzo alto, slanciato, con lo splendore della giovinezza sul volto. "Siamo stati condannati a morte in sedici" ci disse quel giovane. "Domattina all'alba ci fucileranno". Furono le sue uniche parole. Si gettò in un angolo a ridosso della parete, col viso rivolto al muro, e non si mosse da quella posizione fino al mattino. Che cosa passava nell'animo di quel fanciullo? Nessuno pronunciò un motto in quella tragica notte. L'indomani all'alba fu chiamato... Puntualmente. L'ombra di Cesare Beccarla si proiettava nell'angolo della cella ed una voce pareva gridasse da lontano: "Se riuscirò a dimostrare essere la pena di morte né utile né necessaria avrò vinto la causa dell'umanità".

 

L'INTERROGATORIO 

 

Nel primo interrogatorio subito in Via Spalato io confermai senza titubanza la versione sostenuta al momento dell'arresto. Ebbi l'impressione di essere creduto. Secondo interrogatorio. «Voi siete comunista?». «Sì, ma non sono tesserato e non svolgo alcuna attività politica da venti anni». «Nel 1936 eravate il dirigente della Camera del Lavoro di Gorizia». «Lo ero fino alla primavera del 1923; prima ad ogni modo che Adolfo Hitler assumesse i poteri in Germania». Le mie dichiarazioni lasciarono perplesso il maresciallo inquirente. «Va bene» mi disse. «Ed ora cosa intendete di fare?». «Intendo fare ritorno a casa mia e riprendere il mio posto di lavoro». Ero convinto, in seguito a quell'interrogatorio, di venire posto in libertà. Sapevo, inoltre, che molte persone influenti di Udine si occupavano per ottenere la mia scarcerazione, tra queste, l'Arcivescovo Mons. Nogara, deceduto nel Decennale della Liberazione. Parenti ed amici mi attendevano di giorno in giorno, di ora in ora, a casa. La notte dal 10 all'11 gennaio 1945 dormivo saporitamente e sognavo le mie due bambine. Un sogno nitidissimo in ogni sua rappresentazione, con una incredibile aderenza alla realtà del momento. Prodigi dell'Inconscio. Mi trovavo disteso su un letto bianchissimo in una stanza disadorna e pulita. Ad un tratto l'uscio di quella stanza si apre ed entrano le mie due bambine vestite di bianco tenendosi per mano. Le mie due creature sostano per un attimo in mezzo alla stanza, mi fissano a lungo negli occhi e muovono in avanti tendendomi le loro braccia. In quello stesso momento uno stridore di catenacci mi ruppe il sonno. La porta della cella si spalanca ed una voce maschia chiama ad alte note quattro nomi: «Masini, Votic, Travaglia, Pascoli: alzatevi! Siete in partenza per la Germania». Stava per scoccare la mezzanotte. La visione delle mie due figliole scomparve. La via del martirio e della morte era segnata.

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