Corriere della sera

 Pio XII - Chiesa - Shoah 

2 gennaio 2005

Cristiani per amore o per forza. I due volti secolari della Chiesa

Dai battesimi “non volontari” al rispetto delle famiglie e dei diritti naturali. Persecuzioni - I costretti a convertirsi, se tornavano alla loro fede, erano “apostati” - Religioni – La questione dei rapporti fra cattolici ed ebrei alla luce dell’orientamento riconciliare, ostile alla libertà di coscienza

Anna Foa

Prosegue il dibattito sul documento riguardante la sorte dei bambini ebrei accolti da istituzioni cattoliche durante la guerra. Si tratta di vicende molto dolorose, che si protrassero per diversi anni prima che il mondo prendesse coscienza della terribile natura della Shoah. Con l' intervento della storica Anna Foa ripercorriamo oggi la secolare discussione avvenuta all' interno della Chiesa riguardo alla pratica delle «conversioni forzate» La polemica suscitata dalla pubblicazione delle istruzioni del 1946 del Sant' Uffizio sul problema della restituzione dei bambini ebrei nascosti e battezzati durante la persecuzione nazista lascia aperte molte questioni che riguardano non soltanto il rapporto tra cattolici ed ebrei nel Novecento ma in genere l' atteggiamento della Chiesa di Roma e le formulazioni del diritto canonico di fronte al problema del battesimo forzato. Il battesimo dei minori contro o in assenza della volontà dei genitori (invitis parentibus) è un caso particolare, anche se estremamente delicato, del problema più generale, affrontato dalla Chiesa fin dall' età tardoantica, della liceità o meno dell' uso della forza nella somministrazione del sacramento battesimale. E le formulazioni del diritto canonico, a loro volta, non sono norme pietrificate, bensì il frutto di un lungo dibattito, di complesse vicende e di molti approfondimenti, distinzioni, trasformazioni. Nel corso dei secoli, la Chiesa romana ha saputo spesso modificare e mettere alla prova della storia le norme che regolavano in questi casi l' imposizione del battesimo, come tante altre sue norme. In alcuni casi, rendendole più duttili, in altri irrigidendole, in altri ancora tentando mutamenti e aggiustamenti che si sono infranti di fronte alle ragioni della politica, dei rapporti con gli Stati, dello spirito dei tempi. Che la somministrazione del battesimo, in quanto sacramento fondato sulla libera accettazione e sulla fede, non dovesse avvenire sotto costrizione, è principio fondante della religione cristiana. Nel caso degli ebrei, esso fu ribadito con forza in alcune lettere di papa Gregorio Magno (590-604), poi confluite nel diritto canonico, in risposta ai molti dubbi che agitavano le autorità ecclesiastiche di fronte al problema dell' «infedeltà» ebraica e alle vicende d' imposizione del battesimo con la forza che qua e là, particolarmente nel mondo bizantino ma non solo, si verificavano. Pochi decenni dopo queste norme gregoriane, i re visigoti, da poco convertiti dall' arianesimo al cattolicesimo, imponevano con la forza la conversione dei numerosi ebrei che vivevano in Spagna. La Chiesa spagnola, con il Concilio di Toledo del 694, sanciva lo stato di fatto con norme giuridiche che, pur vietando in principio la conversione forzata, avallavano, a battesimo avvenuto, la validità di tale conversione. Queste norme sarebbero confluite nel diritto canonico al momento della sua compilazione (secoli XI-XII), in un momento in cui esse, riaffermando il valore ex opere operato (cioè per il solo fatto di essere stato amministrato) del battesimo, contrastavano l' eresia patarina che lo negava. Dopo la conversione imposta dai visigoti, non si verificano nell' Occidente cristiano episodi di uso della forza, almeno non di tale portata da restare nella memoria storica e da costituire un problema per la Chiesa. Il problema rinasce con le crociate e gli attacchi alle comunità ebraiche renane da parte di bande marginali di crociati. In quella circostanza, molte furono le conversioni imposte con la forza. A violenza passata, la Chiesa tedesca accettò senza problemi il ritorno dei convertiti all' ebraismo, nonostante il battesimo. Nello stesso tempo, i giuristi affinarono le norme del diritto canonico approfondendo il concetto di forza (vis). Il battesimo non era valido in caso di «forza assoluta», si finì per stabilire, ma lo era in caso di «forza relativa». Che cosa si doveva intendere per forza relativa? All' inizio del Trecento, le formulazioni del diritto canonico erano ormai precise: la forza era assoluta quando per il battesimo qualcuno veniva legato mani e piedi e immerso nell' acqua mentre continua a protestare a voce alta il suo rifiuto. In tutti gli altri casi, anche sotto la minaccia di una spada, il battesimo, pur se riprovevole, era da considerarsi valido in quanto frutto di «forza relativa» (c' era pur sempre la possibilità di scegliere la spada). Lo imparò a sue spese, Baruch, un rabbino della Provenza convertito nel 1320 a forza da bande di «pastorelli» e poi tornato tranquillamente all' ebraismo addirittura con l' avallo del locale inquisitore. Ma l' arrivo di un altro inquisitore, Jacques Fournier, poi divenuto papa Benedetto XII (1334-1342), lo obbligò, in base alle nuove norme canoniche, a restare nel seno della Chiesa se voleva evitare il rogo come apostata, non prima di lunghe discussioni teologiche che il suo processo ci restituisce in tutta la loro complessità. Le norme del diritto canonico sull' uso della forza sarebbero rimaste da allora stabili, anche se nel Cinquecento esse furono oggetto di molte critiche all' interno della Chiesa. L' occasione fu una vicenda che ancora una volta, e in misura maggiore che durante le crociate, mise la questione della forza all' ordine del giorno nel dibattito teologico e politico: la conversione più o meno forzata degli ebrei spagnoli e quella, forzata anche secondo le restrittive norme canoniche, degli ebrei portoghesi. A Roma, si discusse molto e molto a lungo. Sembra che papa Clemente VII avrebbe voluto consentire ai conversos portoghesi il ritorno all' ebraismo e addirittura accoglierli come ebrei a Roma. Alla fine prevalse però la politica e il rapporto con l' imperatore Carlo V e con i sovrani portoghesi. Il diritto canonico non conobbe mutazioni. Iniziava la questione «marrana», per cui ebrei convertiti più o meno a forza tentavano di tornare all' ebraismo o passavano da un mondo all' altro. Per la Chiesa, erano apostati, passibili di processo inquisitoriale e, in caso di ricaduta nell' eresia, di consegna al braccio secolare (cioè, della pena capitale). Venezia consentì loro, alla fine del Cinquecento, il ritorno all' ebraismo e così la Livorno medicea. Per la Chiesa, erano una ferita aperta, la ferita che dopo le crociate i vescovi avevano previsto e invano tentato di evitare. Ma dopo il Trecento ormai la Chiesa mette in gioco molta parte della sua identità sul problema di convertire gli ebrei, come non era mai stato prima. Dentro questo contesto, in cui la spinta alla conversione diventa dominante, si può collocare e comprendere il problema del battesimo dei bambini ebrei invitis parentibus. La Chiesa accettava senza alcun problema di «potestà» il battesimo di bambini «offerti» da uno dei genitori o dai nonni, mentre per molto tempo fu assai cauta sul battesimo di bambini attuato da persone prive di qualsiasi diritto sul minore (vicini, domestiche). Solo nel Settecento, a partire soprattutto dal pontificato di Benedetto XIV (1740-1758), la Chiesa varò norme molto rigide che aprivano la strada alla sottrazione di minori alla potestà naturale dei genitori. Il caso Mortara, del 1858, ne è l' esempio più famoso. Ma proprio in occasione del caso Mortara, come in altri simili, i memoriali della comunità ebraica, redatti con l' aiuto di canonisti (cattolici), citano precedenti di norme e decisioni che consentivano il permanere nella famiglia ebraica di bambini battezzati, mettendo in accordo il diritto canonico con il diritto naturale, quello che consente ai genitori, come già affermava San Tommaso proprio in riferimento a casi del genere, la potestà sui figli minori. Il quadro che emerge è quello di un diritto canonico molto rigido, lontano dalla nostra sensibilità moderna, ma anche frutto di una storia complessa di accomodamenti e trasformazioni, legate a opzioni politiche non meno che religiose. E anche un diritto che in alcuni momenti storici, come in quello seguito al trauma del battesimo di massa degli ebrei portoghesi, la Chiesa ha tentato di rimettere in discussione. Insomma, un quadro in cui la Chiesa è in grado almeno di cogliere gli eventi, di farne oggetto di riflessione, spinte per il cambiamento. Quello che il documento del 1946 del Sant' Uffizio sembra invece non mostrare, come non mostra il caso, avvenuto ancora più tardi, nel 1953, dei due bambini ebrei contesi in Francia tra la zia naturale e l' asilo cattolico che, salvandoli, li aveva anche battezzati. Ancora pochi anni e molto sarebbe cambiato nella Chiesa, senza per questo nulla togliere al valore cristiano del battesimo. Del resto, come ha ricordato il rabbino Riccardo Di Segni, in un caso simile avvenuto in Polonia il giovane Karol Wojtyla fece di tutto per non fare battezzare e per restituire alla sua famiglia un bambino ebreo sottratto alla persecuzione. Questo vuol dire che le opzioni erano diverse, le scelte possibili diverse. Che, come nel passato, alcuni erano più sordi di altri, meno propensi a ricavare dal trauma della Shoah l' insegnamento che poi ne sarebbe stato tratto, quando il rispetto verso la fede dell' altro sarebbe stato affermato da un cattolicesimo rinnovato.

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ARCHIVI - Pio XII e Roncalli - La direttiva del '46

Il dibattito sui bambini ebrei battezzati è cominciato il 28 dicembre con la pubblicazione sul «Corriere» di un articolo di Alberto Melloni che presentava un documento inedito, datato ottobre 1946, in cui Pio XII chiedeva ad Angelo Roncalli, allora nunzio apostolico a Parigi, di non restituire alle famiglie i piccoli battezzati, ma di dare loro un' educazione cristiana. Nel dibattito sono intervenuti Vittorio Messori (29 dicembre), Giovanni Miccoli (30 dicembre) ed Emma Fattorini (31 dicembre). L' autrice Anna Foa (Torino, 1944) insegna storia moderna all' Università La Sapienza di Roma. Si è occupata, tra l' altro, di storia della cultura nel Rinascimento («Ateismo e magia», ed. dell' Ateneo, 1980; «Giordano Bruno», il Mulino) e di caccia alle streghe curando la traduzione italiana della «Cautio criminalis» di Friedrich von Spee E' autrice anche di «Ebrei in Europa dalla peste nera all' emancipazione», Laterza. Recentemente ha pubblicato «Eretici, storie di streghe, ebrei e convertiti», il Mulino


3 gennaio 2005

Intervista allo storico Renato Moro - Chiesa e Shoah: ecco perché la verità arrivò tardi

Antonio Carioti

Anche se precisa che «i contorni della vicenda restano tutti da chiarire», lo storico Renato Moro, autore del saggio La Chiesa e lo sterminio degli ebrei (Il Mulino), non ha dubbi sul significato da attribuire al documento del 1946, pubblicato giorni fa dal Corriere della Sera, in cui la Santa Sede raccomandava di non riconsegnare i bambini ebrei ospitati nei conventi cattolici francesi durante la guerra. «È la conferma - osserva - che nell'immediato dopoguerra la percezione del problema ebraico da parte della Chiesa, nelle sue grandi linee teologiche e culturali, non risulta modificata dall'esperienza della Shoah. Questo vale per il Sant'Uffizio, per Pio XII e in una certa misura anche per monsignor Roncalli».

Pensa che dietro le attuali polemiche possano esserci manovre volte a ostacolare la canonizzazione di Pacelli, come ha sostenuto padre Pierre Blet in un'intervista uscita ieri sul quotidiano Avvenire?

«Assolutamente no, non vedo come. Stiamo parlando di un documento d'archivio, che verrà presto pubblicato in una raccolta. E Melloni è uno studioso serio, al di sopra di ogni sospetto. Né credo siano ragioni di ostilità verso Pio XII a motivare il grande rilievo che questi temi ottengono sulla stampa. I mass media non fanno che amplificare la particolare sensibilità che oggi si registra nell'opinione pubblica in materia di diritti umani, specie quando si parla della Shoah. Non sono solo i comportamenti della Chiesa ad essere discussi, ma anche lo scarso impegno delle potenze alleate per salvare le vittime del genocidio. Oggi abbiamo capito quale tragedia fu lo sterminio degli ebrei e guardiamo in maniera critica a coloro che allora non ebbero una percezione piena di quanto era avvenuto».

Non le pare che il comportamento del futuro Giovanni XXIII sia contrassegnato da un maggiore spirito di apertura rispetto a Pio XII?

«Prima in Turchia e poi in Francia Roncalli, nei suoi incarichi diplomatici, mostra una particolare sensibilità verso le sofferenze subite dagli ebrei. E presta loro aiuto con generosità. Ma a volte affiora in lui l'impostazione tradizionale del problema. Per esempio nel 1943, con la Shoah in atto e ormai nota, esprime disagio per la prospettiva che l' emigrazione ebraica in Palestina porti a compimento il sogno messianico della rinascita d' Israele. D'altronde diversità di vedute sul problema ebraico erano emerse qualche anno prima all' interno stesso del Vaticano».

Di che si tratta?

«Mi riferisco alla vicenda degli Amici d'Israele, una società cattolica nata per favorire la conversione degli ebrei, ma che poi s'impegnò soprattutto per migliorare i rapporti tra le due religioni e combattere l'antisemitismo. Essa propose di modificare alcune parti della liturgia tradizionale che apparivano poco rispettose verso il mondo ebraico, suscitando a Roma, nel biennio 1927-28, un forte dissidio. La Congregazione dei riti si disse favorevole a quei cambiamenti, mentre il Sant'Uffizio si oppose. Infine il papa Pio XI condannò gli Amici d'Israele, ma anche ogni forma di antisemitismo».

Insomma, le istanze poi prevalse nel Concilio venivano da lontano, ma faticavano a imporsi.

«È una ricerca da approfondire per comprendere meglio l'evoluzione della Chiesa. Solo così, dinanzi a documenti come quello uscito sul Corriere, si potrà evitare la sterile dialettica tra una reazione scandalizzata e una difesa apologetica. Per questo è auspicabile che si estenda l'apertura degli archivi vaticani realizzata di recente, in modo da consentire agli storici di ricostruire il processo decisionale che portò la Santa Sede a compiere le sue scelte di fronte alla sfida epocale della Shoah, che sottopose a una prova senza precedenti la coscienza religiosa cristiana».

Comunque lei sostiene che in un primo momento il genocidio non bastò a modificare l'approccio della Chiesa.
«Basta pensare che gli stessi conventi in cui si erano rifugiati gli ebrei accolsero poi molti fascisti e nazisti in fuga, compresi alcuni criminali di guerra: il diritto di asilo veniva riconosciuto anche a loro».

Le sembra dunque giustificata la polemica sulla possibile beatificazione di Pio XII?

«È una domanda cui non posso rispondere, perché in fatto di canonizzazioni la Chiesa applica criteri propri, ben distinti da quelli del giudizio storico».

Non crede che Papa Pacelli si sia dimostrato inadeguato di fronte alla tragedia di Auschwitz?

«Certamente a Pio XII sfuggì la specificità dello sterminio razziale, che considerò in modo riduttivo come uno dei tanti orrori perpetrati in guerra. Lo stesso vale tuttavia anche per i governi e le opinioni pubbliche della coalizione alleata. La consapevolezza di ciò che rappresentava la Shoah si fece strada per tutti in modo graduale».

Però forse il Vaticano, in base al messaggio evangelico, avrebbe dovuto mostrarsi più sensibile di quanto risulti dal documento del Sant'Uffizio.

«Il fatto è che la Chiesa dell'epoca non vede la libertà di coscienza e il dialogo interreligioso come dei valori, perché ritiene prevalente la verità oggettiva e assoluta di cui è portatrice. Non possiamo guardare alla Chiesa del 1946 come a quella di oggi, perché nel frattempo c'è stato il salto storico del Concilio Vaticano II».

Il pontificato di Roncalli fu decisivo per avviare il cambiamento?

«Sicuramente sì».


4 gennaio 2005

Goldhagen: papa Pacelli, perché non è santo

«Fu insensibile di fronte alle sofferenze degli ebrei. La Chiesa non deve canonizzarlo» Un atto d'accusa dello storico dopo la pubblicazione sul «Corriere» della direttiva vaticana che riguardava i bambini battezzati provenienti da famiglie israelite

Daniel Jonah Goldhagen

SANTA SEDE E SHOAH - Prosegue il dibattito sui bambini ebrei accolti da istituzioni cattoliche durante l' ultima guerra: in particolare, riguardo la direttiva vaticana del 1946, avallata da Pio XII, in cui si chiedeva di restituire alle famiglie i bambini ebrei battezzati. I bambini erano stati nascosti nei conventi francesi durante la guerra e, secondo il contenuto di una decisione del Sant' Uffizio, di cui il Papa era a conoscenza, non avrebbero dovuto essere restituiti ai genitori. Sull' argomento sono intervenuti tra gli altri, a partire dal 28 dicembre scorso, Alberto Melloni, Amos Luzzatto, Vittorio Messori, Giovanni Miccoli, Emma Fattorini e Renato Moro. Il documento pubblicato sul «Corriere» (e consultabile sul sito www.corriere.it) ha avviato un dibattito internazionale, del quale l' articolo dello storico Daniel Jonah Goldhagen è l' ultimo esempio.

Immaginiamo che una persona salvi un bambino da una macchina in fiamme in una zona rurale, esponendosi a un certo rischio. I genitori sono morti. Lo definiremmo un eroe. Ma poi decide di tenere il bambino e di educarlo secondo il suo credo. Non informa le autorità. Quando i parenti del bambino, che lo cercano disperati, vengono a bussare alla sua porta, nega di sapere dove si trovi. La buona azione iniziale si trasforma in un crimine e questa persona in un rapitore. Ora è stato pubblicato sul Corriere della Sera un documento proveniente dagli archivi della Chiesa cattolica francese che mostra che papa Pio XII si comportò in maniera simile quando parenti e genitori ebrei, cercando affannosamente i loro figli, vennero a bussare alla sua porta. Nel 1946 il Vaticano inviò un documento al nunzio apostolico in Francia, Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, noto per la sua compassione verso gli ebrei e per la dedizione mostrata nel cercare di riunire i bambini ebrei, nascosti in istituti cattolici durante l' Olocausto, ai loro genitori, parenti o alle istituzioni ebraiche. Il documento ordinava a Roncalli di trattenere quei bambini: «I bambini che sono stati battezzati non possono essere affidati a istituzioni che non assicurerebbero loro un' educazione cristiana». La ferma intenzione del Papa di non riconsegnare i figli ai loro genitori è inequivocabile: «Se i bambini sono stati affidati (alla Chiesa) dai genitori ed essi li rivogliono, possono essere loro restituiti, purché non siano stati battezzati. Si fa presente che questa decisione della Congregazione del Sant' Uffizio è stata approvata dal Santo Padre». Poiché la decisione di non restituire i bambini ebrei battezzati venne annunciata come una linea di condotta pontificia di carattere generale, ci sono buone ragioni per credere che fosse divulgata e applicata in tutt' Europa. I documenti su questo argomento restano celati negli archivi del Vaticano (come la copia dell' ordine a Roncalli) e di altre chiese nazionali. Durante l' Olocausto migliaia di bambini ebrei trovarono rifugio in monasteri, conventi e scuole cattoliche, anche se per opera di Roncalli, non per ordine di quel papa antisemita. Furono messi in salvo da preti e suore eroici, che a volte battezzarono i bambini di cui si dovevano occupare. È noto che gli ebrei sopravvissuti o i loro parenti ed eredi ebbero spesso (anche se non sempre) difficoltà a riprendersi i figli. Si sospettava che la Chiesa si proponesse di rapire quei bambini ebrei in nome di Gesù. Una sopravvissuta ad Auschwitz, perseguitata perché ebrea, secondo Pio XII non doveva riavere il proprio figlio proprio perché ebrea. Ora abbiamo la prova evidente: questo documento. Esso dimostra che era intenzione del Papa e della Chiesa portar via sistematicamente i bambini ebrei. E mostra quanto Pio XII fosse insensibile alle sofferenze degli ebrei. Venne così reiterata la persecuzione che avevano subito, privando i sopravvissuti all' inferno nazista, offesi fisicamente e spiritualmente, dei loro figli. Il documento non sorprenderà chi conosce l' antisemitismo della Chiesa in quel periodo o lo sciagurato precedente di papa Pio IX, il rapimento nel 1858 di Edgardo Mortara, un bambino ebreo di sei anni, che produsse un moto di ripulsa e di protesta nei confronti della Chiesa in tutt' Europa. Ma questo documento rimuove il beneficio di cui Pio XII ha finora goduto: la possibilità, che per sessant' anni lui e la sua Chiesa hanno cercato di conservare, di negare plausibilmente molti crimini compiuti contro gli ebrei durante l' Olocausto da Pio XII, vescovi e sacerdoti. Papa Pio XII si è reso colpevole di un crimine non restituendo i bambini ai genitori, parenti o custodi legali o spirituali. E con lui tutti i vescovi, preti e suore che si sono prestati a portar via i bambini ebrei. Nessuno è al di sopra della legge. Un leader religioso o un capo di governo che facesse una cosa simile oggi sarebbe messo in prigione (l' inquisitore, un sacerdote che rapì Edgardo per ordine di Pio IX, fu arrestato e imprigionato dalle autorità italiane) In nome della religione, oggi e nel passato, si sono commessi molti delitti. Gli abiti religiosi non dovrebbero impedire che una persona venga chiamata con il suo nome. I recenti scandali su abusi sessuali commessi da preti ce l' hanno insegnato. Ci hanno anche insegnato che vi è necessità di trasparenza per questa Chiesa, tra le più reticenti, che ha abitualmente celato crimini e misfatti dei suoi esponenti. Se la Chiesa è l' istituzione morale che proclama di essere deve provvedere a rimediare ai suoi crimini. Il Vaticano dovrebbe istituire una commissione di alto profilo, indipendente, composta da esperti internazionali indipendenti di storia, di questioni ecclesiastiche e giuridiche, guidata da una persona di grande statura internazionale, per stabilire quanti bambini ebrei siano stati rapiti dalla Chiesa in Europa. La commissione dovrebbe poter accedere a tutte le istituzioni ecclesiastiche, poter esaminare liberamente documenti e parlare con il personale ecclesiastico. Papa Giovanni Paolo II, che ha lavorato molto sotto vari aspetti per migliorare l' atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei, dovrebbe ordinare pubblicamente a tutte le Chiese cattoliche europee di cooperare con i membri della commissione e compiere per proprio conto ricerche su ciò che è accaduto nelle loro parrocchie. Probabilmente la maggior parte dei documenti è facile da reperire. La Chiesa è un' istituzione che registra e conserva fedelmente soprattutto una cosa: il battesimo. Una volta identificate, le vittime ebree - o i loro parenti - dovrebbero essere ritrovate e ricevere una comunicazione ufficiale. La commissione dovrebbe anche pubblicare dei rapporti storici dettagliati sulla sua ricerca. Se la Svizzera l' ha fatto, istituendo la Commissione Bergier per indagare sul furto dei beni degli ebrei durante la guerra (sono stati pubblicati ventisei volumi sull' argomento), e se l' Australia l' ha fatto per i bambini che il suo governo ha portato via agli aborigeni in quello stesso periodo, lo può fare anche la Chiesa cattolica per il furto dei bambini ebrei. Il Vaticano dovrebbe por fine una volta per tutte a pretesti e reticenze che durano da decenni e aprire a studiosi e giornalisti gli archivi suoi e delle sue chiese nazionali relativi al periodo dell' Olocausto. Dovrebbe smettere di pretendere che l' unico suo errore sia stato non aver fatto di più per salvare gli ebrei e che il suo unico atto di pubblica contrizione possa consistere nel presentare deboli scuse. Sicuramente il documento che è venuto fuori non è la sola prova presente nei vasti archivi segreti della Chiesa. E non dovrebbe, a questo punto, la Chiesa impedire ai suoi seguaci di attaccare gli ebrei e altri che a buon diritto le chiedono di essere aperta e sincera sui suoi crimini passati e recenti? Infine, la Chiesa dovrebbe cessare di perseguire la canonizzazione Pio XII. Pio XII fu alla testa di una Chiesa che diffuse un feroce antisemitismo proprio quando gli ebrei venivano sterminati. Che usò i suoi documenti per aiutare il regime nazista a stabilire chi era ebreo in modo da poterlo perseguitare. Che legittimò e partecipò alla deportazione ad Auschwitz degli ebrei slovacchi. E che continuò per più di un decennio dopo l' Olocausto a proclamare ufficialmente che tutti gli ebrei di tutti i tempi saranno sempre colpevoli per la morte di Cristo. Pio XII, ordinando ai suoi subordinati di portar via i bambini ai loro genitori, è divenuto uno dei più grandi rapitori, o presunti rapitori, dei tempi moderni, senza contare che è stato una persona priva di qualsiasi empatia umana nei confronti dei poveri genitori ebrei in cerca dei loro figli, dopo anni di sofferenza. Il titolo del famoso libro di memorie di Primo Levi, che è anche una riflessione sulla natura umana, è Se questo è un uomo. Come possiamo non chiederci: «Se questo è un santo» e anche che genere di Chiesa è questa? (Traduzione di Maria Sepa)

*© Daniel Jonah Goldhagen 2005 of Harward University's Center for European Studies è l'autore di «Una questione morale. La Chiesa cattolica e l' Olocausto», pubblicato in Italia nel 2003 da Mondadori.

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CONTROCANTO - Ma Pio XII non è mai stato antisemita

Lucetta Scaraffia

Se questo è un uomo, si domanda Goldhagen a proposito di Pio XII. Se questo è uno storico, ci si può piuttosto domandare di fronte alla sua invettiva. Goldhagen mette da parte infatti ricostruzioni storiche e documenti per manipolare i fatti. Per esempio, è un falso grossolano - e segno di ignoranza della struttura e del funzionamento della Chiesa cattolica - sostenere che gli istituti religiosi abbiano salvato gli ebrei contro la volontà del papa. Goldhagen attribuisce poi alla Chiesa di Pio XII un «feroce antisemitismo», senza dire su quali prove sia basata un' affermazione di tale gravità. Come è noto, non esistono prove di alcun tipo che il tradizionale antigiudaismo cristiano sia sfociato in un consenso e in un appoggio all' antisemitismo dei nazisti. Ma è invece proprio sulla base di questo pregiudizio che egli pretende di ricostruire e giudicare le vicende storiche di questo periodo e i loro protagonisti, rivelando in questo modo solo il suo anticattolicesimo. Nel suo furore, Goldhagen va anche contro il senso comune: se davvero la Chiesa avesse sottratto tanti bambini ebrei alle loro famiglie, come mai in tutti questi anni nessuno ha protestato? Sarebbero forse i figli meno importanti del denaro depositato presso le banche svizzere e per riottenere il quale sono state avviate tante cause e istruttorie internazionali? Goldhagen riprende la polemica diffamatoria orchestrata contro Pio XII a partire dagli anni Sessanta per cui sul Pontefice pesa la diffusa tendenza a giudicare senza tenere conto del contesto storico in cui operava. Questo non era certo antisemita - la Chiesa poi antisemita non lo è mai stata, semmai antigiudaica, cosa molto diversa che Goldhagen sembra ignorare - ma non aveva nei confronti degli ebrei la nostra stessa sensibilità. Ci siamo infatti resi conto solo lentamente, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, della mostruosità e dell' entità del crimine perpetrato dai nazisti contro gli ebrei. Subito dopo il conflitto gli ebrei non erano considerati vittime speciali - come avviene oggi - ma vittime tra le altre degli orrori della guerra. Pio XII ha agito di conseguenza, forse frenato anche dal temperamento personale e dalla sua formazione che lo portavano a preferire le tradizionali vie diplomatiche. Insomma, la spaventosa tragedia della Shoah e il modo - tardivo, ma talvolta esasperato - con cui ne abbiamo preso coscienza ci rendono difficile esprimere giudizi equilibrati e scevri da passioni. Tanto più sarebbe opportuno non cadere nella tentazione dello scoop anticipando brani di documenti che avrebbero bisogno di essere approfonditamente studiati.


5 gennaio 2005

PADRE GUMPEL «La lettera discussa? Fu proprio lui a scriverla»

Luigi Accattoli

Chi ci dice che il documento sui bambini ebrei pubblicato dal Corriere della Sera il 28 dicembre sia stato - in quella forma - «trasmesso dal Sant' Uffizio al nunzio apostolico Angelo Roncalli»? Pone questa domanda il relatore della causa di beatificazione di Pio XII, il gesuita Peter Gumpel, affermando d' aver saputo da Parigi, nella mattinata di ieri, che l'originale francese di quel testo, conservato negli «Archivi della Chiesa di Francia», è redatto su un foglio con l'intestazione della Nunziatura di Parigi, di cui Angelo Roncalli era titolare. In attesa di poter vedere e studiare quel documento, il relatore della causa formula questa ipotesi sull' origine del testo: che si tratti di una «comunicazione abbreviata» ai vescovi francesi delle indicazioni venute da Roma; una comunicazione redatta dalla stessa Nunziatura e da mettere dunque sotto la responsabilità, quanto alla forma, dello stesso nunzio Roncalli. Il documento anticipato dal Corriere della Sera farà parte dell' apparato documentario del volume Anni di Francia. Agende del nunzio Roncalli 1949-1953, che uscirà alla fine del 2005 a cura dell' Istituto per le Scienze religiose di Bologna. Padre Gumpel afferma con sicurezza che quel testo «non è uscito in quella forma da un ufficio della Santa Sede» e nega che esso autorizzi a ipotizzare - come è stato fatto - un contrasto tra Pio XII e il nunzio Roncalli in merito alla questione dei bambini ebrei, «affidati a istituzioni e famiglie cattoliche» per proteggerli dalla persecuzione nazista e - finita la guerra - «reclamati» da istituzioni ebraiche. Forse le cose - dice Gumpel - sono andate così: i vescovi francesi chiedevano indicazioni su come comportarsi di fronte a quelle richieste di «restituzione» dei bambini; il Sant' Uffizio ha trasmesso - in una forma che non conosciamo - le sue indicazioni; il nunzio Roncalli ha provveduto a sintetizzarle, in lingua francese e a trasmetterle ai vescovi. Tale ipotesi spiegherebbe anche il fatto che l' originale del testo - pubblicato dal Corriere della Sera in traduzione italiana - sia in lingua francese. Perché tante domande sulla forma di quel documento? Esso non è già abbastanza chiaro nel suo contenuto? Non è evidente in esso un' impostazione tradizionale, ispirata all' idea della conversione degli ebrei al cattolicesimo e una conseguente resistenza alla «restituzione» dei bambini, con il rifiuto di restituire quelli che nel frattempo erano stati battezzati? Per il relatore della causa tutto questo è vero e fa parte appunto dell' atteggiamento tradizionale, che «era perfettamente condiviso dal nunzio Roncalli». Gumpel ritiene inverosimile ipotizzare che il nunzio potesse «disattendere» - come è stato affermato - le direttive venute da Roma. E non solo perché era «tenuto» ad applicarle, ma perché le «condivideva». In materia di «conversione degli ebrei» probabilmente - secondo il relatore della causa pacelliana - «il nunzio Roncalli era più tradizionalista di Pio XII». Secondo Gumpel la causa di beatificazione di papa Pacelli sta andando avanti «in maniera soddisfacente». La «positio» - cioè la proposta del riconoscimento delle «virtù eroiche» - è stata depositata l' estate scorsa, dopo quasi un ventennio di lavoro e attualmente è allo studio da parte dei «consultori storici». Dovrà poi essere esaminata dai «consultori teologi» e infine passerà - con la valutazione degli uni e degli altri - all'esame dei cardinali e dei vescovi che compongono la «congregazione» per le cause dei santi. Impossibile fare previsioni sui tempi, ma - assicura Gumpel - papa Giovanni Paolo II è favorevole a una conclusione in tempi «ragionevolmente rapidi». Una «revisione» del giudizio «stroncatorio» su Pio XII sarebbe in atto, tra gli storici, in vari Paesi, dalla Francia alla Germania, agli Usa e con «buona risonanza» anche in ambienti ebraici. Le «uscite polemiche» di chi è contrario alla beatificazione di papa Pacelli non impensieriscono il relatore, che le definisce «battaglie di retroguardia». 

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Il futuro Giovanni XXIII all'epoca era nunzio a Istanbul e Parigi - Il vero volto di Roncalli al tempo della Shoah

Dario Fertilio

E adesso vacilla il mito di Giovanni XXIII. La polemica sui battesimi forzati dei bambini ebrei, dopo aver coinvolto la figura già discussa di Pio XII, lambisce persino il Papa buono. Prima ancora che un beato, tanti fedeli vedono in lui una figura rassicurante, l'incarnazione della chiesa dal volto umano, l'immagine popolare del nonno che benedice i nipotini. E naturalmente ricordano l'autore del magistrale discorso dal balcone, quello della «magnifica luna» e della «carezza del Papa» da portare a casa e dedicare ai bambini. Come si concilia questa figura con l'altra, antecedente di vent'anni, ai tempi della nunziatura a Istanbul durante la guerra, così ossequiosa e addirittura allineata alla propaganda fascista? Come spiegare che l'uomo del Concilio e dell'apertura a sinistra, dell'amicizia con Kennedy e del dialogo con i marxisti, potesse ammirare la Germania hitleriana ancora negli anni in cui si preparavano i campi di sterminio per gli ebrei? Possibile che lo stesso personaggio, incarnazione già nei tratti fisici campagnoli della tolleranza religiosa e dell'indulgenza cattolica, avesse sintetizzato di suo pugno, in francese, la direttiva vaticana che prevedeva di non restituire alle famiglie ebree i bambini ebrei sottratti ai nazisti, e battezzati? Questo Giuseppe Roncalli uno e due, contraddittorio almeno in apparenza, dal comportamento addirittura inspiegabile, emerge da nuove testimonianze storiche che sembrano mutarne il profilo. E dunque suggeriscono una diversa lettura della sua figura: ortodossa, allineata alle direttive vaticane, diplomatica e astuta, prigioniera dei pregiudizi antigiudaici del tempo. E soprattutto vittima del mito «buonista» che, quando era ancora in vita, gli era stato costruito attorno. Ripercorriamo la vicenda.  Lo storico Alberto Melloni pubblica sul «Corriere», nei giorni scorsi, il documento vaticano dell'ottobre 1946, avallato da Pio XII, dedicato ai «piccoli giudei» che «se battezzati, devono ricevere un'educazione cristiana». Immediatamente la stampa internazionale, non solo europea, scatena una polemica sulle effettive responsabilità di Papa Pacelli, quasi a rinfocolare antiche accuse sul suo «antisemitismo» connivente con il regime nazista. Storici come Goldhagen si spingono fino a chiederne la condanna, escludendolo da qualsiasi futuro processo di beatificazione; ieri, invece, lo studioso Matteo Luigi Napolitano, sul Giornale, ridimensiona la portata del documento, negando che si riferisca a singoli casi di bambini ebrei sottratti ai genitori, se mai alle organizzazioni sioniste che intendevano fare emigrare i piccoli (compresi quelli battezzati) in Israele. Nemmeno il tempo di rifiatare, ed ecco su Avvenire il padre gesuita Peter Gumpel, relatore della causa di beatificazione di Pio XII, esporre i suoi dubbi. Uno, in particolare: perché mai il documento al centro della polemica è scritto in francese, dal momento che si tratta di una comunicazione rivolta dal Sant'Uffizio romano al nunzio di Parigi, l'italiano Giuseppe Roncalli? Già, perché nel fervore della polemica è scivolato in secondo piano un particolare importante: colui che avrebbe dovuto seguire le indicazioni vaticane a proposito dei bambini ebrei altri non era se non il futuro Giovanni XXIII (all' epoca già intorno ai 65 anni), il famoso «Papa buono». Domanda pertinente, quella di Gumpel, che oggi trova risposta: probabilmente era stato proprio Roncalli a redigere quella sintesi in francese (esagerando forse nella semplificazione) per informare delle direttive vaticane la chiesa di Francia. E dunque? Come è possibile continuare a contrapporre Pio XII a Giovanni XXIII, dal momento che quest'ultimo ne era il subordinato, e fedele collaboratore? Ecco il punto, già sottolineato da Matteo Luigi Napolitano sul Giornale: come mai Roncalli non annotò, nelle agende cui affidava i suoi pensieri, nemmeno una riga sulla questione delle persecuzioni naziste, né tanto meno sulla sorte dei «piccoli giudei»? È vero che, da Istanbul, si era adoperato per assistere praticamente molti ebrei perseguitati. Ma perché, quando osò manifestare le sue perplessità alla Santa Sede durante la Shoah, fu soltanto a proposito della emigrazione degli ebrei in Palestina e della pericolosa utopia sionista, cioè la ricostruzione del «regno d'Israele»? Domande che sembrano già aprire un nuovo capitolo «revisionistico», questa volta su papa Giovanni. Del resto gli «elementi d'accusa» non sono di oggi: ne è testimone Pier Giorgio Zunino, che insegna storia contemporanea all'università di Torino, e che più di un anno fa ne La Repubblica e il suo passato (edito dal Mulino) portò alla luce alcuni documenti sorprendenti su Giuseppe Roncalli. Sono lettere spedite ai familiari in due periodi diversi quando era nunzio in Turchia: nel 1940, e tre anni più tardi. Nel '40 il futuro Papa dichiara la sua ammirazione non solo per Mussolini, ma anche per la Germania, che ai suoi occhi ha dato prova di ammirevole compattezza nazionale al momento della fulminea vittoria sulla Francia. La società tedesca, commenta, è fatta di uomini «pronti e forti», ben meritevoli di imporsi sulla «sfibrata democrazia francese». Di più: con un incauto parallelismo evangelico paragona i tedeschi di Hitler alle «vergini sagge» che conservano l'olio della fede, mentre i francesi aggrediti gli appaiono simili alle «vergini stolte» (ma i passi più delicati verranno significativamente soppressi nella prima edizione dell'epistolario giovanneo, curato da monsignor Loris Capovilla nel '68). Tre anni più tardi, fra il luglio e l'agosto del '43, quando dunque le notizie sugli orrori della guerra e dello sterminio ebraico si sono diffusi, Roncalli raccomanda ancora ai familiari di mantenere «fiducia immutata» nel regime fascista, con l'aggiunta della esortazione: «Voi lavorare, pregare, soffrire, obbedire, e tacere tacere tacere». C'è qualcosa di cui meravigliarsi? Certamente no, secondo Pier Giorgio Zunino, convinto che «la visione religiosa di cui era imbevuto e portatore, l'età già avanzata e l'alto grado nella gerarchia ecclesiastica, la sua stessa cultura lo portavano a sposare l' idea di una Chiesa capace di acquisire il maggior numero possibile di fedeli e di anime». Ma l'appoggio al nazismo e al fascismo? «È l'esempio di una tradizione culturale che vedeva nell'obbedienza assoluta all'autorità, qualunque fosse, un valore assoluto. Dunque, una società gerarchica, in cui tenere nettamente separati gli obblighi di chi comanda e chi deve obbedire». Per cui, afferma Zunino, il messaggio di Roncalli ai familiari durante la guerra si può sintetizzare così: non preoccupatevi delle scelte politiche italiane, c'è chi ha scelto per voi. Si profila, dunque, un Roncalli «perfettamente inserito nella cultura cattolica di maggioranza, allineato al fascismo, estimatore della Controriforma (di cui era stato uno studioso), pronto a riconoscere alla Germania il ruolo di nazione guida dell'Europa, nemico del comunismo sovietico ma anche sospettoso delle democrazie occidentali, considerate anticattoliche». E come si spiega il suo chiudere gli occhi di fronte alle persecuzioni naziste degli ebrei? «La domanda - secondo Zunino - non trova risposta sulla base dei documenti. Del resto, pochissime personalità cattoliche furono coscientemente antifasciste. Probabilmente - aggiunge - la dimensione apocalittica del nazismo per molto tempo non venne percepita». Nemmeno nel '43, quando alla nunziatura di Istanbul molte cose dovevano essere note? «Direi che in quel caso si adeguò - risponde Zunino - con un atteggiamento da alto burocrate». Resta da spiegare l'evoluzione del suo pensiero e il suo passaggio brusco da cardinale conservatore a uomo del Concilio, dell'apertura a sinistra, del dialogo. Ci fu, da parte sua, soltanto un adeguarsi, un cogliere «i segni del tempo»? Oppure, come ricorda Cesare Cavalleri, direttore di Studi cattolici, «tutti i documenti dottrinali e gli interventi di Giovanni XXIII attestano la sua stretta e rigorosa ortodossia»? Tanto è vero - ribadisce Cavalleri - che «il Concilio era stato affidato, nella fase preparatoria, al più che ortodosso cardinale Ottaviani» e nelle intenzioni del Papa tutto avrebbe dovuto concludersi «entro Natale». Poi si sa come andarono le cose: lo Spirito soffiò dove voleva, e soprattutto nacque il mito del «Papa buono», con il contorno pittoresco di piatti, scialli e statuette che riproducevano un Roncalli pacioso e gioviale mentre stringeva la mano a John Kennedy, l'uomo della nuova frontiera, o riceveva nel suo studio il direttore della sovietica Isvestija. «Mito fasullo e posteriore - secondo Cavalleri - di cui finì col restare prigioniero quando era ancora in vita. E dire che la sua abilità diplomatica, molto poco campagnola, si era già vista a Parigi, quando aveva messo in campo mondanità, diplomazia e persino alta gastronomia (aveva assunto il miglior cuoco di Parigi) per servire la causa vaticana». E il suo vero spirito, fuori dalla mitologia? «Battagliero, addirittura ascetico». E allora, a chi giovò la creazione di quel mito? «Fu contrabbandato come tale da teologi del nord, belgi olandesi e tedeschi, personaggi come Schillebeekx, Küng, Alfrink, e finì con l'intaccare l'impianto della morale tradizionale. Ebbe come conseguenza la chiusura dei seminari e la perdita delle vocazioni. E gli effetti di quella strumentalizzazione, l'immagine di un Papa dialogante e aperturista anche con i marxisti, portò a quella teologia della liberazione che ha devastato l' America Latina». Prigioniero del mito o vittima del post Concilio? «Tutt'e due le cose», per Cavalleri. Ma proprio per questo, meritevole della beatificazione. E comunque, di fronte al giudizio della storia, «non colpevole» il papa buono.


6 gennaio 2005

Rumi: c'è un nuovo pericolo L'inquisizione anticattolica - «La direttiva vaticana sui bambini ebrei battezzati rischia di scatenare un uso giudiziario della storia» - IL DIBATTITO Lo storico interviene sui rapporti tra Pio XII e Shoah - I SOSPETTI «Non mi stupirei se si arrivasse a mettere sotto accusa anche Montini» - LE ACCUSE «Goldhagen difende i valori umani, ma non li applica a papa Pacelli»

Dario Fertilio

Tira una brutta aria, un' aria di tempesta, intorno all' affaire Pacelli. Ma poi, perché identificarlo soltanto con Pio XII? Le ultime rivelazioni sulla direttiva vaticana alla chiesa francese, riguardo i bambini ebrei battezzati da non restituire alle famiglie, chiamano in causa anche l' allora nunzio a Parigi, Angelo Giuseppe Roncalli. E ancora, come escludere che le polemiche si arrestino di fronte al mito del Papa Buono? La catena dei sospetti potrebbe ragionevolmente allargarsi e coinvolgere altri: persino l' allora massimo responsabile della diplomazia vaticana, Giovanni Battista Montini. Ma in ogni caso, è questa «brutta aria» che preoccupa più di tutto lo studioso cattolico Giorgio Rumi. E per «brutta aria» intende il rischio che si metta in moto una specie di «nuova Inquisizione» anticattolica, una macchina processuale volta ad ottenere comunque, in ogni caso, una qualche forma di condanna. L' articolo dello storico Daniel Jonah Goldhagen, pubblicato l'altro ieri dal Corriere della Sera, culminava in un durissimo atto d' accusa a Pacelli, nella richiesta di istituire una commissione internazionale per giudicare tutta la vicenda, e, in sostanza, nell' invito a interrompere qualsiasi processo di beatificazione in corso, almeno fino a quando non sia stata accertata la verità. Se non che, ora, la prospettiva si presenta un po' differente. Infatti, l'affaire si è messo in moto quando lo storico Alberto Melloni ha rivelato, sempre sul Corriere, l'esistenza della direttiva vaticana, avallata da Pio XII, che riguardava i bambini ebrei da confermare nella fede cattolica. Ma se noi ora scopriamo di avere a disposizione soltanto una sintesi in francese, vergata da Angelo Giuseppe Roncalli, su che si basano le accuse rivolte a Pio XII? «Questo strano caso finisce a coda di topo - sostiene Giorgio Rumi - dal momento che si reggeva principalmente sull' atto d' accusa di Goldhagen». Perché è vero, secondo Rumi, che l' innesco dell' incendio risale alla pubblicazione del documento scoperto da Melloni; però è stato Goldhagen a trasformare la scoperta del documento in una vera e propria requisitoria, con tanto di bollo d' infamia «criminale» impresso sulla memoria di Pacelli. E dunque? La lista dei «cattivi» si allunga. «Prima Pacelli, del quale si dice che avrebbe in ogni caso avallato il famoso documento, benché non ne esistano prove. Poi Roncalli, in quanto suo esecutore materiale. Domani, non ci sarebbe da stupirsi se si arrivasse a un terzo "criminale", cioè Giovanni Battista Montini, con la motivazione che, nella sua qualità di massimo responsabile della diplomazia vaticana, non avrebbe potuto non sapere quel che stava accadendo...». Un punto fermo, tuttavia, sembra esserci. Il testo, conservato negli «Archivi della Chiesa di Francia», reca l' intestazione della Nunziatura di Parigi, e dunque doveva essere stato avallato per forza da Roncalli. Ma Giorgio Rumi non intende affatto accontentarsi di questa spiegazione. E si chiede: «Che vuol dire "Carta della Nunziatura"? È firmata? È un dattiloscritto e porta una sigla? Oppure è scritta a mano, con i caratteri della sua calligrafia inconfondibile, e dunque l'autore potrebbe essere identificato senz'ombra di dubbio?». E poi ci sono altri interrogativi che Rumi considera decisivi. Ad esempio: è sicuro che i vescovi francesi abbiano ricevuto quel documento così scottante? Nell' archivio della diocesi di Parigi non dovrebbe essere difficile ritrovarlo, visto che sono passati poco più di cinquant' anni. Ma se invece non si trovasse? Vorrebbe dire che non è mai stata spedita, e di conseguenza bisognerebbe chiedersi il perché. Rumi si spinge fino a ipotizzare che possa essersi trattato di una riflessione privata, di un dubbio messo per iscritto, di un documento che si inserisce in dossier più ampio e del quale (come risulta in effetti dai primi esami) alcune parti risulterebbero mancanti. Ancora: si potrebbe avanzare l' ipotesi, benché estrema, di una manipolazione, addirittura di un falso? Su questo Rumi preferisce procedere con cautela. «Bisognerebbe prima chiarire il concetto di falso. Potrebbe trattarsi di una manipolazione avvenuta in anni lontani, con chissà quali scopi, oppure di una faccenda concepita oggi. Io ricordo ancora - aggiunge - le lettere false, attribuite a De Gasperi, con cui si chiedeva il bombardamento alleato delle città italiane. Chi le scrisse, in realtà? Non si è mai saputo di preciso, però si arrivò comunque ad accertare, in tribunale, che De Gasperi non le aveva mai scritte. Fu così che Guareschi, dopo averle pubblicate, arrivò a pentirsene amaramente». Altri elementi, in questo affaire, confortano i dubbi di Giorgio Rumi. Per esempio il fatto che la diplomazia francese del tempo, che all' ambasciata presso la Santa Sede era rappresentata da intellettuali come Maritain e d' Ormesson, non fece mai alcun riferimento a questo episodio. E non ne accennò neppure un grande politico del tempo, il ministro degli esteri Bidault. Interrogativo dopo interrogativo, l' affaire somiglia sempre più ad un giallo, ma Rumi preferisce non lasciarsi intrappolare nel gioco delle ipotesi. «Il problema centrale - afferma - è un atteggiamento sbagliato che riguarda l' uso della memoria. Uno storico non è un boia. E invece, anziché essere umile di fronte alle testimonianze del passato, spesso finisce per metterlo al servizio di un disegno oscuro». Ma bisognerà pure consentire a qualcuno, storico o no, di giudicare i crimini del passato... Su questo punto Rumi non è d' accordo. «Il passato è da comprendere, perché se lo si va a esaminare con spirito inquisitorio, si finirà sempre con lo scoprire fatti negativi: il feudalesimo, le monarchie nazionali, la guerra delle grandi potenze, l' imperialismo: tutto un museo degli orrori». E gli aspetti positivi? «Ancora più pericolosi. È sbagliatissimo andare a cercare nella notte del passato quelle lucciole, quei bagliori e anticipazioni di un presente caro a noi. Perché allora anche la difesa dei valori umani, che suppongo cara a Goldhagen (anche se non la applica a Pacelli) finisce per tramutarsi in una faccenda giudiziaria». Ecco il vero, grande timore di Rumi: che i fatti del passato vengano sottoposti al tribunale del presente, secondo una prassi giudiziaria basata su elementi fragili, mutevoli, condizionati dalla logica della corte d' assise e non della libera ricerca. «Perché una cosa sono i valori, e quelli si possono basare su un romanzo di Primo Levi, un film dedicato a Perlasca, le statistiche sui deportati nei campi di concentramento. Un' altra la commissione d' inchiesta, spesso accompagnata da un' ansia degna di una nuova Inquisizione». Qui già si nasconde, per Rumi, il maccartismo oscurantista. Tanto più, aggiunge, «che di Inquisizione ne abbiamo già avuto una, non vedo perché affidarne un' altra a Goldhagen, qualunque siano le sue intenzioni». C' è un emendamento della Costituzione americana caro a Rumi, quello che vieta di fare pressioni indebite sulle religioni altrui: andrebbe applicato anche da noi. Perché «non importa se l' Inquisitore sia buono o cattivo, duro o moderato. Che la sentenza preveda un rogo per il condannato o la semplice imposizione di un berretto, la penitenza o uno scappellotto: quel che conta è la licenza in sé che gli storici si attribuiscono di proclamare un verdetto». E se il vero scopo fosse quello di impedire la beatificazione di Pacelli? «Entrerebbe in campo James Bond», scherza Giorgio Rumi. «Però l' affaire, in sé, non cambierebbe».


7 gennaio 2005

Gli sviluppi - Tra Roma e Parigi, le ultime indiscrezioni su quel testo che scotta

Luigi Accattoli  

Il documento sui bambini ebrei pubblicato dal Corriere della Sera il 28 dicembre sta facendo lavorare archivisti e storici, a Roma e a Parigi, ormai da dieci giorni. Le informazioni più interessanti sono venute dallo storico francese Etienne Fouilloux e da indiscrezioni degli ambienti archivistici vaticani. Fouilloux è il curatore del volume Anni di Francia. Agende del nunzio Roncalli 1949-1953, che uscirà alla fine del 2005 (editore l’ Istituto per le Scienze religiose di Bologna) e avrà nel suo apparato il testo pubblicato in traduzione italiana dal Corriere della Sera. Ha dichiarato che quel testo dattiloscritto e non firmato porta in alto l’ intestazione - anch’ essa dattiloscritta - della Nunziatura apostolica di Francia. L’ ipotesi dello studioso è che si tratti di un documento della Nunziatura, che «pare riassumere un documento del Sant’ Uffizio» e che potrebbe essere stato trasmesso dalla Nunziatura alla Segreteria dell’ episcopato francese, perché venisse comunicato ai vescovi. Il documento della Nunziatura ha la data del 23 ottobre 1946. Le indiscrezioni vaticane (raccolte soprattutto dallo storico Matteo Luigi Napolitano, autore con Andrea Tornielli del volume Il Papa che salvò gli ebrei, Piemme 2004) parlano di un documento del Sant’ Uffizio in materia di bambini ebrei ospiti di istituzioni cattoliche, che avrebbe la data del 27 marzo 1946 e che sarebbe stato trasmesso - nella stesura integrale o in sintesi - nel settembre di quell’ anno alla Nunziatura di Parigi. Si tratta di indiscrezioni, perché i materiali degli archivi vaticani di quel periodo sono ancora inaccessibili. Si può dunque immaginare che il nunzio Angelo Giuseppe Roncalli, o un suo collaboratore, abbia riassunto nel documento in questione le direttive venute da Roma attraverso quella trafila.

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Antisemitismo Non giudichiamo il passato con il metro del presente - Le conversioni forzate dei bambini ebrei durante le persecuzioni naziste e la loro restituzione alle famiglie d' origine: si discute sulla portata storica del concetto di antisemitismo, dentro e fuori la Chiesa cattolica ai tempi di Pio XII, e sulla sua applicazione oggi  IL CASO Il dibattito sulle direttive vaticane degli anni 40 e i bambini ebrei

Ernesto Galli Della Loggia

Scrive nei suoi ricordi Raul Hilberg, il massimo storico della Shoah, autore della monumentale La distruzione degli ebrei d' Europa (pubblicato in Italia da Einaudi), che quando cominciò le sue ricerche alla fine degli anni 40 , inizio dei 50 , negli Usa «la discriminazione contro gli ebrei infieriva dappertutto»; era l' epoca, aggiunge, «in cui si intimava a coloro che erano torturati dai propri ricordi, come appunto i sopravvissuti allo sterminio, di dimenticare quel passato; l' epoca in cui si procedeva sì ai vari processi di Norimberga, ma più che per capire la storia della Germania, per chiudere un capitolo, al fine di permettere a quel Paese di ripartire su nuove basi nella comunità delle nazioni occidentali». Hilberg racconta poi le mille difficoltà che incontrò verso il 1960 per la pubblicazione della prima edizione del suo libro. Una casa editrice newyorchese gli scrisse, ad esempio, rifiutando il manoscritto, che molte sue osservazioni assomigliavano più a quelle «di un pubblico ministero durante un' arringa che a quelle di uno storico»; la Princeton University Press gli fece presente dal canto suo che ormai, a proposito dell' Olocausto, esistevano sul mercato opere «già sufficientemente analitiche in grado per altro di interessare solo pochi specialisti». Conclude Hilberg che «negli Stati Uniti il fenomeno conosciuto con il nome di Olocausto trovò un terreno fertile solamente dopo i travagli della guerra del Vietnam, allorché una nuova generazione di americani si pose alla ricerca di certezze morali e l' Olocausto divenne la misura del male assoluto sulla quale misurare e giudicare tutte le altre trasgressioni nel comportamento delle nazioni». Le considerazioni di Hilberg inducono a riflettere su quel fondamentale criterio che dovrebbe presiedere al giudizio storico, ma di cui mi sembra che per l' ennesima volta quasi tutti abbiano tenuto scarsissimo conto nel dibattito avviato dal «Corriere» sul documento della Chiesa circa la sorte dei bambini ebrei affidati a istituzioni o famiglie cattoliche durante la guerra. È il criterio per cui non si può giudicare moralmente e storicamente il passato, anche il più prossimo, con il metro che adottiamo per giudicare il presente. Non solo per l' ovvia ragione che il metro di giudizio cambia moltissimo con il tempo, sicché a noi, per esempio, il fenomeno della schiavitù non può che suscitare oggi sentimenti ben diversi da quelli che suscitava in un abitante dell' antica Roma, ma anche perché il passato stesso e la sua immagine sono a loro volta una costruzione storica, qualcosa che non si costituisce immediatamente una volta per tutte ma si forma e si trasforma con il tempo. Come ci ricorda Hilberg ciò è valso anche per l' Olocausto il quale, se così può dirsi, ha cominciato a esistere solo dagli anni 60 in avanti, avendo l' effetto ovvio di modificare a partire da quegli anni anche il nostro criterio per stabilire ciò che è antisemitismo e insieme di rendere assolutamente obbligatoria la sua condanna. Proprio per ciò trasporre nel passato tale criterio e scandalizzarsi per la mancata ripulsa settanta o ottanta anni fa da parte di uomini e organizzazioni di ciò che oggi definiamo antisemitismo costituisce una grave, indebita forzatura. Ciò non significa rifiutarsi di dare un giudizio: bensì darlo a ragion veduta, tenuto conto cioè delle circostanze e dei tempi. Non c' è dubbio, per esempio, che alla sensibilità odierna il documento di cui sopra appaia orribile allorché stabilisce la politica di non restituzione immediata al loro ambiente, da parte delle famiglie e della Chiesa cattolica, di bambini di origine ebraica, sia pur battezzati, in loro custodia. Di fronte al nostro sentimento morale odierno (insisto: odierno) appare assurdo in una tale circostanza disquisire di diritto canonico, di forza sacramentale del battesimo o di tradizione della Chiesa: che cosa conta tutto ciò paragonato alla disumanità della persecuzione che è all' origine della questione? Tanto più ci rafforza in tale sentire una certa qual cattiva coscienza che ci sembra scorgere negli stessi estensori del documento quando scrivono al primo punto della disposizione: «Evitare nella misura del possibile di rispondere per iscritto alle autorità giudaiche ma farlo oralmente». Perché non bisognava rispondere per iscritto? Forse per poter sempre dire di essere stati fraintesi? Per non lasciare prove e poter magari negare domani ciò che si era affermato oggi? Da qui però a considerare rei di antisemitismo Pio XII e la sua Chiesa, come molti sono tentati di fare, ce ne corre a mio parere moltissimo: e precisamente ci corre il debito conto in cui bisogna tenere le circostanze e i tempi dei fatti. Altrimenti può diventare antisemita anche una Natalia Ginzburg che per conto di Einaudi rifiuta la pubblicazione di Se questo è un uomo di Primo Levi giudicandola opera di scarso valore e interesse; diventa antisemita anche Benedetto Croce che nell' immediato dopoguerra invitava gli ebrei ad abbandonare quella loro separatezza che a suo dire aveva attirato su di loro tanti guai; diventa antisemita, e dunque complice oggettivo di Hitler, perfino, chi aveva affrontato la guerra per sconfiggere l' Asse. Mi riferisco per esempio alla Bbc, sì la mitica Radio Londra, la quale, né più né meno come il Foreign Office che non dava alcun credito alle fonti ebraiche, di Olocausto durante la guerra non parlò mai e una circolare del cui direttore generale, Robert Foot, recitava testualmente così nel 1943: «Antisemitismo - la nostra politica. Non promuoveremo né accetteremo alcuna forma di propaganda (dibattiti, interviste, servizi) con l' obiettivo di correggere l' indubbio antisemitismo largamente diffuso nel nostro Paese. Ci limiteremo a segnalare, quando si verificano, notizie di persecuzioni. Siamo convinti che questo sia nell' interesse degli ebrei. Ogni altra politica alimenterebbe i sentimenti antiebraici» (vedi la «Stampa», 23 agosto del 1993: si noti la somiglianza di un tale punto di vista con quello prevalente in Vaticano). Il punto decisivo è che quando le case editrici americane opponevano i rifiuti che opponevano, quando Natalia Ginzburg o Benedetto Croce prendevano le posizioni che prendevano, quando la Bbc ammantava di presunta neutralità il suo silenzio, quando il medesimo silenzio era adottato dall' amministrazione Roosevelt e da tutta la stampa americana così come quando Pio XII e la Chiesa si muovevano circa la persecuzione antiebraica con il freddo distacco che sappiamo, attenendosi rigidamente solo alle proprie regole, quando tutto ciò accadeva, l' Olocausto, sebbene in corso o da poco trascorso, in realtà non esisteva ancora affatto e per esistere avrebbe dovuto aspettare ancora svariati anni. Dunque non solo non ha senso ravvisare oggi in tutti i protagonisti suddetti una qualche «complicità» nello sterminio, ma è ugualmente infondato definire con il termine per noi oggi obbrobrioso di antisemitismo atteggiamenti che invece sono stati solo di indifferenza, antipatia, repulsa storico-religiosa, diffidenza sociale. Tutte cose che anche allora avranno potuto essere, anzi sicuramente erano, riprovevoli quanto si vuole ma che comunque appartengono a un ordine che non ha nulla, ma proprio nulla, a che fare con le camere a gas. E che perciò vanno tenute storicamente distinte. Bisogna insomma capire, anche quando si parla di Pio XII e della politica della Chiesa, che l' Olocausto e la sua successiva concettualizzazione, risalente a non prima degli anni 60, hanno posto l' antisemitismo, almeno qui in Occidente, su basi interamente nuove. Ne hanno fatto cioè un dato storico totalmente diverso che in passato, rendendolo, innanzitutto sul piano emotivo, qualcosa di ripugnante e impraticabile in ogni sua sia pur minima, e anche remota e solo supposta, premessa. Partire però da queste nuove basi attuali per giudicare fatti e uomini del passato è - quando non interessata speculazione ideologica, come sono convinto sia il caso di Goldhagen, vittima di un forsennato anticattolicesimo di principio - un puro moralismo privo di ogni verità. Proprio per effetto dell' Olocausto, per altro, hanno acquistato importanza centrale nella nostra cultura due elementi in particolare che ci fanno vedere oggi le cose in modo molto diverso da un tempo e tendono a essere proiettati inconsapevolmente anche all' indietro nel nostro giudizio sul passato. Due elementi che a mio giudizio sono implicati in modo massiccio e diretto nella recente polemica sul destino dei bambini ebrei affidati alla Chiesa. Il primo è quello della identità. Il genocidio antisemita, rappresentando una sorta di ineguagliato culmine simbolico della catena che ha caratterizzato il XX secolo (armeni, zingari, omosessuali e poi ancora ceceni, tibetani, abitanti dell' ex Jugoslavia e così via) ha prodotto per reazione nella nostra cultura una forte valorizzazione positiva della dimensione rappresentata dall' identità collettiva. Come è ovvio, ciò è accaduto innanzitutto per l' identità ebraica: mentre fino alla seconda guerra mondiale l' allentamento dei legami identitari e comunitari nonché l' integrazione nelle società «cristiane» erano per lo più percepiti dallo stesso ebraismo, tranne che dagli ambienti osservanti, come un fenomeno neutro o positivo, comunque in buona parte inevitabile, dopo il 1945 viceversa quei fenomeni hanno cominciato a essere considerati come profondamente negativi. Questo atteggiamento oggi si è generalizzato ed è in buona parte divenuto comune a tutto il nostro modo di pensare, portato almeno idealmente a deprecare qualunque cosa attenti alle radici, alla cultura, agli usi, alle tradizioni di ogni tipo e all' autocoscienza di una collettività. Per noi che tra l' altro viviamo in pieno la crisi dell' idea universalistica di progresso, ciò che è particolare appare migliore e più degno di tutela di ciò che è generale e che si presenta sotto il grigio aspetto dell' omologazione. È più che spiegabile allora l' emozione immediata e scandalizzata che suscita l' idea che dei bambini possano essere sottratti al loro ambiente identitario, alle loro radici e immessi, addirittura forzatamente, in un altro. Tanto più che nella vicenda in questione l' elemento dell' identità fa corpo con la seconda dimensione di cui dicevo sopra, portata anch' essa in una luce nuova e particolarmente intensa dalle vicende dell' Olocausto. Si tratta di quella centralità della figura della vittima in genere che ha preso per l' appunto le mosse dalla Shoah e che oggi tende ad affermarsi in ogni nostra riflessione non solo sui conflitti ma in generale su tutti quei fatti storico-sociali che hanno avuto o hanno per protagonisti dei gruppi sociali deboli. Il destino delle minoranze e dei marginalizzati in genere, dei perseguitati, per esempio delle popolazioni indigene nelle aree della colonizzazione, delle donne, ovvero l' attenzione per figure come quella del prigioniero, del portatore di handicap, del morente hanno conquistato uno spazio via via crescente nella nostra sensibilità e nella nostra cultura, alimentando e confluendo in quell' indirizzo genericamente umanitario che è tra i più tipici e potenti del nostro panorama attuale. Indirizzo che, come il precedente riguardante l' identità, tende a essere più o meno consapevolmente applicato anche al passato, con l' effetto di modificarne in modo significativo la nostra visione (si pensi a come oggi ci colpisce la sorte, prima neppure considerata, delle popolazioni tedesche oggetto dei bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale) ma anche con il pericolo di applicare criteri di oggi a fatti di ieri, di decontestualizzare eventi e protagonisti, di trasformare il giudizio storico in un moralismo fuori dal tempo. Così come, mi pare, accada regolarmente ogni volta che viene riaperta la pagina complessa e drammatica del rapporto della Chiesa con i totalitarismi del secolo passato. La vicenda Il dibattito è stato avviato il 28 dicembre scorso dalla pubblicazione sul «Corriere» di una direttiva vaticana del 1946 trasmessa alla Nunziatura di Parigi: vi si chiedeva di non restituire alle famiglie i piccoli ebrei battezzati. La discussione ha coinvolto le figure di Pio XII e anche di Angelo Roncalli. Quest' ultimo, il futuro Giovanni XXIII, avrebbe autorizzato la sintesi in francese della direttiva vaticana. Presto il caso è stato rilanciato dalla stampa internazionale, non solo europea. Uno scalpore particolare ha destato l' attacco a Pacelli da parte dello storico Daniel Jonah Goldhagen, sul «Corriere» del 4 gennaio scorso: dopo averlo definito «criminale», ha chiesto che si interrompa il processo di beatificazione di Pio XII. Ieri, sempre sul «Corriere», lo storico Giorgio Rumi ha denunciato la nascita di una «Inquisizione anticattolica».


9 gennaio 2005

Leone XIII nel 1880 ordinò di aprire gli archivi vaticani per smascherare il «Kulturkampf» - Il caso Pacelli e la Chiesa, aspettando il gran gesto

Alberto Melloni

Annunciando il primo volume di Anni di Francia, Agende del nunzio Roncalli, ho citato un frammento inedito di «istruzioni elaborate dal Sant'Uffizio e approvate da Pio XII» sul destino dei bambini ebrei salvati da istituzioni cattoliche francesi, emerso come tanti altri documenti nel paziente lavoro di annotazione di quel tomo, curato da Étienne Fouilloux. Non mi sono dilungato in note filologiche, per sottolineare un solo elemento: e cioè che nella Chiesa, durante e dopo la Shoah, convivono gesti commoventi di cristiana umanità e gesti di gelida burocrazia teologica, che continueranno a intrecciarsi fino al Concilio e dopo, com'è ovvio in un processo storico lungo come quello che separa la voce Antisemitismus del 1933 sul Lexicon für Theologie und Kirche dal discorso di Giovanni Paolo II in Israele nel 2000. Su quell'inedito, come ha scritto padre Giovanni Sale, s'è sviluppato un «civile e appassionato confronto»; ma non è mancata qualche sgradevole provocazione denigratoria (non solo contro i Papi). Alcuni articoli degni del Museo degli Sforzi Inutili si sono impegnati a sostenere che quelle istruzioni erano o giuste o false, o l'uno e l'altro, o che andavano imputate al nunzio Roncalli. Ciò impone alcuni ragguagli critici, a cui aggiungerò un mio punto di vista. Il dattiloscritto datato 23 ottobre 1946, giorno successivo al rientro del nunzio a Parigi dopo le vacanze, è una delle tipiche note con le quali si trasmettevano gli ordini della Suprema Congregazione del Sant'Uffizio, della Romana e Universale Inquisizione e dell'Indice dei Libri proibiti, della quale a quel tempo era prefetto il Papa. Per dare ordini il Sant'Uffizio dava sovente mandato al superiore diretto di informare il destinatario, con procedure a tutela del segreto. Talora l'informazione veniva data tacendo al destinatario finale perfino l'origine della decisione («reticito nomine»), talaltra consegnandogli una nota verbale che comunicava la «mente» di Roma. È questa nota che la nunziatura parigina prepara nel 1946. Bisogna avere disistima per la diplomazia vaticana per pensare che le nunziature non sapessero produrre una fedele nota in francese (di cui è rimasta copia al Centre National des Archives de l'Eglise de France di Issy-le-Moulineaux) ad uso dei vescovi. Come suo dovere, Roncalli non ne ha fatto cenno in altra sede. L'atteggiamento che quel documento raccomanda è diverso da quello che Roncalli aveva assunto nei mesi precedenti. Lo dice una lettera del Fondo Kaplan del Centre de Documentation Juive Contemporaine, a cui facevo cenno: a luglio 1946 il rabbinato di Francia ringraziava il nunzio per la disponibilità a intervenire assicurata al gran rabbino Herzog, di cui era amico da anni, e domandava un passo specifico per 30 bimbi. Herzog aveva scritto a Pio XII il 12 marzo 1946 per richiedere il suo avallo nella restituzione dei piccoli ebrei superstiti alla fede dei padri. Forse già in quelle settimane il Sant'Uffizio aveva elaborato un parere, coerente con la pratica in uso ai tempi del Papa-re, ma che dopo la Shoah suona, come riconosce Vittorio Messori, «disumano». Non sappiamo quando Roncalli ne venga a conoscenza. Forse dopo essere stato interpellato in agosto da due vescovi francesi sui battesimi dei piccoli ebrei, forse dopo aver consultato Roma o aver parlato a lungo col Papa il 27 settembre o dopo aver ricevuto il 17 settembre da monsignor Tardini un dispaccio. Di quest'ultimo atto ignoro il contenuto (le istruzioni e i dispacci di Roncalli del periodo parigino sono le uniche carte di cui fu negata copia sia alla Congregazione per le cause dei Santi, sia ai redattori della Positio historica della causa di Papa Giovanni di cui ebbi il privilegio di essere uno degli autori); non so se Roncalli lo ricevette a Sotto il Monte o lo lesse a Parigi la sera del 22 ottobre 1946, perché la «autorevole fonte» che, pochi giorni dopo il primo articolo del Corriere, lo ha passato al sito VaticanFiles.net (dove un gruppo eterogeneo di studiosi pubblica documenti d'archivio), non l'ha precisato. Il documento del 1946 aggiunge la forza della fonte storica a qualcosa di noto. E cioè che dopo la Liberazione (lo documenta La Chiesa cattolica e l' Olocausto, di Michael Phayer) c'era nella Chiesa già chi s'interrogava sulla Shoah e chi reagiva con schemi che non ne coglievano la portata epocale. È infatti noto che l'affaire Finaly, i due bimbi contesi in tribunale, arriva al 1953 e vede i cattolici divisi; e Jules Isaac va a Roma a cercare sostegno contro l'antisemitismo perché spera in qualcosa, anche se nel 1955 non lo trova (come spiegano le lettere apparse su «Sens», la rivista francese dell'amicizia giudeo-cristiana). Così, chi avrà la pazienza di leggere i cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo o i dispacci dei diplomatici citati nel mio L'altra Roma constaterà che la vena del disprezzo antisemita o «antigiudaico» (come s'usa dire, quasi fosse una virtù) dura anche mentre la dichiarazione conciliare Nostra Aetate sta per tagliargli l'erba sotto i piedi, e oltre. Se questo chiarisce i dati, non spiega però gli interrogativi posti da alcune posizioni emerse in un dibattito internazionale quanto mai ampio, il cui coté italiano è stato efficacemente sintetizzato da Adriano Sofri sulla Repubblica. Perché s'è buttato di lato il gran lavoro delle Agende e si è voluto riaprire lo sterile duello fra chi trova nell' atteggiamento di Pio XII una colpa grande quanto l'intero Olocausto e chi ripete ad nauseam argomenti di cui l'intuito politico di Pacelli si sarebbe vergognato? Perché, anziché storicizzare la distanza fra la gelida burocrazia della nota del 1946 e la forza di comunione fra fedi della Chiesa di Giovanni Paolo II, s'è cercato, come ha fatto Avvenire, di trasformare il rilevamento delle differenze in una «contrapposizione» fra pontefici o si è lamentato un clamore al quale s'è dato corda cercando inutilmente un antidoto liquidatorio? Le ragioni sono molte. E molte sono causate da un fatto noto e reversibile, cioè la chiusura di gran parte degli archivi vaticani del 1922-1939 e di quasi tutti quelli del 1939-1958. Tutti sanno che aprire le carte è lungo e che alcune tappe sono fissate. Ma se la Santa Sede ritrovasse il coraggio con cui Leone XIII nel 1880 squadernò l'Archivio Segreto Vaticano per rispondere al Kulturkampf tedesco, all' anticlericalismo e al desiderio degli eruditi cattolici, se aggiornasse lo zelo di Paolo VI, che nel 1965 iniziò gli Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale che traboccavano di nomi di viventi (incluso il suo), se deponesse l'illusione di giovarsi di avvocati arruolati con odiosi privilegi d' accesso alle carte, le provocazioni si spunterebbero e verrebbero alla luce gli intrecci complessi che fanno la storia. Di questo c'è sete: non macchinazioni, micce o capricci, ma sete. È la sete della coscienza collettiva di quest'Europa, che non è solo un infuso di radici, ma anche il frutto dell'orrore con cui essa s'è specchiata nel fumo dei forni crematori, che hanno cambiato per sempre il paesaggio religioso e l' anima del continente. Un gesto «alla Leone XIII» farebbe bene a tutti. Alla Chiesa, che nel Novecento non è una comparsa, ma un grande mondo. Farebbe bene alla storia, che non dev'essere il tribunale delle requisitorie, ma non può nemmeno ridursi al confessionale dove si assolve chi pronuncia l'atto di dolore o la pagoda dove tutto ciò che è accaduto in altro «contesto» resta muto. C'è sete e bisogno di una ricerca che costruisce con lentezza conoscenze complesse e disomogenee: quasi mai fruibili come tali, ma non inutili. Altri (la stampa, la politica, l'educazione, la morale, l'agiografia) possono trasformarle in linguaggi, pruderie, retoriche, culture. La ricerca storica (sotto lo sguardo della stampa, della politica, della morale, della teologia) elabora invece visioni e revisioni sue, grazie alla disponibilità di grandi agglomerati di fonti, e con questi si confronta. Le fonti ci hanno detto da tempo che la posizione di Roncalli davanti alla Shoah non assomiglia a quella di un cospiratore, ma neppure s'esaurisce nella replica degli atteggiamenti romani (ne scrissi anni fa nel mio Fra Istanbul Atene e la guerra, così come nella Positio). La ricerca su Pio XII fatica da tempo alla ricerca del crinale che separa ciò che accade «sotto» Pio XII (I dilemmi e i silenzi di Pio XII, di Giovanni Miccoli, dedica un esemplare capitolo alla situazione in Croazia) e ciò che Pio XII «fa» accadere. E dunque ondeggia, vulnerabile all'apologia odiosa e all' odiosa provocazione. Si prenda proprio il caso degli ebrei grandi e piccini salvati nei conventi: presentarli come la briciola che riequilibra il genocidio è una bestemmia. Bravi preti, frati e suore sono una tessera in un mosaico nel quale altri cattolici sono stati perpetratori, ignavi o vittime. Una tessera che diventa interessante a Roma dove - l'ha detto Andrea Riccardi - nascondere ebrei in certe clausure femminili comportava una trasgressione dietro la quale si immaginava, possedeva o supponeva una dispensa papale. Ma per discernere i fatti e le voci serve un insieme di documenti, e non il naso dell' agiografo. Quello, a dire il vero, non è stato decisivo nemmeno nel processo di beatificazione di Pio XII, sul quale non è vietato avere opinioni né agli ebrei, né ai cattolici. Un processo non è un crimine, né un dogma, al quale dovrebbero piegarsi preventivamente gli storici, i cattolici e soprattutto gli ebrei, per non ostacolarne lo sviluppo. Quel processo è reso complesso dal segno storico-politico sotto il quale è nato. Papa Montini lo avviò nel novembre 1965 sia per bilanciare la simmetrica causa Roncalli sia per ribadire la insindacabilità dell'atteggiamento vaticano durante la Shoah. Non ci riuscì. Così il lato spirituale del pastor angelicus è rimasto quello di «uno sconosciuto»: è il titolo che «Cristianesimo nella storia» darà alla recensione di Alberigo sul recente Pio XII, diplomatico e pastore di Philippe Chenaux: un libro cauto, ma spietato nel ritrarre un Papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi politici dominano per logica interna, con tutto ciò che ne consegue. Questo ingarbugliato nodo storico-teologico Giovanni Paolo II lo ha tagliato col «mea culpa» del 2000. Riconoscendo che esistono colpe dei figli della Chiesa, Papa Wojtyla ha spiegato che un cattolicesimo disposto a riconoscere il valore «teologico» del giudizio dell'umanità sui propri errori, non è più scipito, ma più autentico. Un atto ancora gravido di futuro, che fa spazio al sapere storico e insieme richiede di riflettere proprio sulle residuali insinuazioni, sui rigurgiti di disprezzo, sulle autoindulgenze, sui complessi vittimisti che sono riemersi nel corso di questo lungo dibattito, senza esserne la parte principale.


10 gennaio 2005

Papa Pacelli, la Shoah e una discussa ipotesi di beatificazione - La storia e la condanna del male

Claudio Magris

La Storia, ha scritto Giovanni Miccoli, non è giustiziera, non è un tribunale che emetta sentenze di assoluzione o di condanna. A questo principio, affermato da molti storici e anche da Croce in polemica con la storiografia che sconfina col giudizio morale o con l’inchiesta penale, si sono richiamati, in forme diverse, pure altri studiosi nella recente discussione sollevata dalle disposizioni impartite dalla Santa Sede che invitavano a non restituire alle loro famiglie i bambini ebrei nascosti e allevati da associazioni cattoliche durante la Seconda guerra mondiale per sottrarli allo sterminio nazista. Come ha rilevato lo stesso Miccoli, autore di un volume fondamentale e fondante sulla figura e l’opera di Pio XII in merito alla questione ebraica, la discussione giornalistica - che affronta il problema delle responsabilità non solo di Papa Pacelli, ma anche di personalità di solito a lui contrapposte, come i due suoi successori - è stata ed è anche pasticciona. In molti casi sono state sottolineate con enfasi cose già note e ci si è basati su documenti, molti dettagli dei quali sono ancora incerti e da verificare. Questo dibattito storiografico ha indubbiamente assunto il tono non di un accertamento di fatti e di una ricerca di fonti, bensì di arringhe d’accusa o di difesa, mosse non tanto da opinioni diverse sulla portata di un documento, quanto piuttosto da convinzioni ideologiche e aprioristiche sulla colpa o l’innocenza dei personaggi chiamati alla sbarra. Chi ha protestato contro tali posizioni - ad esempio Giorgio Rumi o Ernesto Galli della Loggia, ma non solo essi - ha ricordato che la storia non è un tribunale né penale né morale, non è un giudizio sugli uomini, bensì - come diceva uno storico veramente grande quale Franco Venturi - il tentativo di capire come e perché essi sono vissuti. Inoltre, è stato detto, non si può giudicare col senno del poi, bensì occorre calarsi nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti che si cerca di ricostruire e comprendere, nella mentalità e nei sentimenti, valori, abitudini, convinzioni di quell’epoca. Nemmeno il giudizio morale può prescindere dal contesto storico della civiltà e del periodo in cui si sono verificati gli eventi che si valutano: la schiavitù esistente nell’antichità classica, ha scritto giustamente Galli della Loggia, non può ricevere da noi lo stesso giudizio morale che diamo e dobbiamo dare su una schiavitù praticata oggi. Quando Popper mette sullo stesso piano, quali nemici della liberale «società aperta», Platone, Marx e Freud, sorvolando sui due millenni che li separano, compie una scorrettezza concettuale. Anche l’antisemitismo, sostiene Galli della Loggia, dev’essere valutato nel suo contesto storico e, in particolare, a seconda che ci si riferisca a fatti accaduti o ad atteggiamenti assunti prima o dopo la Shoah - anzi, prima o dopo la presa radicale di coscienza, da parte del mondo, della Shoah e della sua inaudita mostruosità. Sotto un certo profilo, questo è vero: dopo la Shoah, niente è uguale a prima; anche una banale battuta antiebraica suona oggi diversa, impensabile, e quindi il diffuso pregiudizio antisemita presente prima della Shoah pure in tante brave persone, che mai avrebbero torto un capello a un ebreo, non può essere giudicato oggi come se fosse ancora condiviso. Da questo punto di vista, può darsi che Papa Pacelli abbia agito - come glielo consentivano un plurisecolare pregiudizio cattolico antisemita e gli angusti paraocchi della sua origine nobiliare papalina - senza la consapevolezza della reale portata della Shoah. Perciò non era in grado di chiedere perdono agli ebrei né di rivolgersi da cristiano a essi come a «fratelli maggiori», come ha fatto Giovanni Paolo II. La storia - e la storiografia - non devono dunque essere un giudizio morale né una sentenza giudiziaria. Già dicendo queste parole, «non devono», si proclama tuttavia un imperativo morale, si prescrive ciò che si deve o non si deve fare. Ma è veramente possibile ricostruire come e perché gli uomini hanno vissuto la loro vita e la storia senza dare, quantomeno implicitamente, un giudizio morale? Calarsi nell’epoca in cui sono avvenute infami atrocità è necessario, ma questo significa forse che quelle atrocità diventano meno infami e atroci? Pure le spaventose stragi compiute da Stalin negli anni Trenta sono successe in anni lontani da noi, diversissimi e oggi quasi inimmaginabili nelle loro passioni, nella loro mentalità, nel loro modo di essere e concepire la vita, la storia, la politica, il partito, la violenza. Anche le ecatombi staliniane vanno certo collocate nel loro contesto e non solo moralisticamente, ideologicamente o strumentalmente denunciate, per capire come e perché siano avvenute. Ma cessano per questo di essere bestiali delitti? È possibile capire la meccanica che ha portato ad Auschwitz senza dare un giudizio morale, anche morale, su quel culmine ineguagliato di orrore, bestialità e imbecille abiezione? Dire che Himmler è un porco non basta certo per capire il nazismo e la storia europea di quel periodo, ma nessuna rigorosa storiografia può eliminare il fatto che Himmler fosse un porco e che è necessario ripeterlo. Le grandi prospettive storiche generali non possono far dimenticare che tutto, ogni dettaglio individuale, sta pure, nell’eternità della sua grazia o del suo orrore, davanti a Dio. La storia non è giustiziera, ma nemmeno giustificatrice. Calarsi concretamente nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti e i misfatti, come deve fare lo storico, significa ricostruire le concrete possibilità che, in quell’epoca e in quel contesto, si aprivano agli individui, alle forze politiche, alle Chiese. Solo così si può capire quali erano i concreti spazi di libertà di scelta, in base a cui un individuo - come un partito, una Chiesa - viene inevitabilmente giudicato nel suo agire. Non tutti, in una stessa situazione e nella stessa epoca, si comportano allo stesso modo; Farinacci e don Minzoni erano contemporanei, condizionati da tutti i pregiudizi del loro tempo, ma l’uno era un delinquente che schiacciava la libertà con la violenza e l’altro un martire che sacrificava la propria vita per la libertà. Quando padre Gemelli, nel 1924, appresa la notizia del suicidio di Felice Momigliano, si augura che tutti «i giudei» muoiano insieme a lui, egli è certo radicato in un plurisecolare tessuto antisemita trasmessogli anche inconsciamente dalla tradizione, ma non per questo la sua uscita diviene meno bestiale. Negli stessi anni, tanti altri cattolici, tanti altri sacerdoti sentivano, pensavano e si comportavano diversamente. Anche diversamente da Pio XII, a maggior gloria di Dio e della Chiesa. Pure Pio XII non avrebbe potuto comportarsi come Gandhi o come padre Kolbe e sarebbe ingiusto pretenderlo: non glielo consentivano le condizioni storiche oggettive, come avrebbero detto i vecchi marxisti, il modo storicamente condizionato col quale egli intendeva la responsabilità del suo ruolo e, non ultimo, i talenti che gli erano stati dati dall’imperscrutabile volontà di Dio e che non erano quelli dati, ben più generosamente, a Gandhi o padre Kolbe. Nel dibattito si è sottovalutato un elemento fondamentale. La Chiesa ha il merito - e il peso - di affermare valori assoluti. Per essa, la verità non è storicamente condizionata e relativa, ma immutabile; non è figlia del tempo, bensì, come dice la sua dottrina, mater temporis , madre del tempo. È dunque la stessa fede cattolica a esigere, pure nei confronti del comportamento della Chiesa, un giudizio non solo storico, bensì morale, basato sull’osservanza o meno dei Dieci Comandamenti, dati secondo essa da Dio a Mosè. Inoltre la Chiesa afferma di essere depositaria, almeno nella proclamazione ex cathedra di dottrina definita, della verità. Da essa dunque non solo si può, ma si deve, se la si prende sul serio, pretendere un comportamento diverso da quello di un governo, di un partito o anche di una confraternita di storici. L’affermazione di alcuni princìpi assoluti è un grande merito della Chiesa. Forse quei princìpi non sono fondati su nulla, forse per la storia dell’universo, tra il Big Bang e il collasso finale, la Shoah non è più rilevante dello spegnersi di una stella o della caduta di un meteorite, ma noi non potremmo comunque vivere senza stabilire una differenza sostanziale fra ciò che sentiamo come relativo e ciò che sentiamo come assoluto, fra una norma di comportamento sessuale che può variare nel tempo e il quinto comandamento o gli ancor più alti e inviolabili postulati dell’etica kantiana. Il suo meritorio richiamo ai princìpi indiscutibili accresce le responsabilità della Chiesa e il nostro diritto di chiamarla a giudizio. Non è colpa di Pio XII non essere stato un santo dinanzi alla Shoah, se non gli era dato di esserlo, ma, se non lo è stato, sarebbe mera inefficace retorica proclamarlo tale


11 gennaio 2005

«La Chiesa preconciliare si è sempre sforzata di convertire i giudei» - Antisemitismo, odio antico. Non soltanto nazista

Giorgio Israel

Il dialogo ebraico-cristiano richiede pazienza. Non è pensabile che secoli di «disprezzo, di ostilità e di persecuzione contro gli ebrei in quanto ebrei» — per dirla con le parole del pregevole documento della Pontificia Commissione Biblica su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture (2001) — non lascino traccia e che i passi necessari a dissiparne le conseguenze possano essere compiuti in poco tempo. Richiede soprattutto due requisiti: che l’ombra del passato non gravi come un pregiudizio sul presente; e che le azioni presenti indichino in modo inequivocabile la volontà di superare definitivamente gli errori del passato senza disconoscerli. È legittimo chiedere a chi ha subito un torto di non farsi condizionare per sempre dal passato, purché non si avanzi l’inaccettabile pretesa che il torto non sia avvenuto. Qui equilibrio e saggezza sono doti necessarie. Nel dibattito suscitato dalla pubblicazione sul Corriere della Sera del documento sui bambini «giudei», più d’uno si è mosso con l’incedere di un elefante in una cristalleria, provocando sconquassi che si spera non abbiano conseguenze devastanti. È sconcertante che il documento sia stato accolto con un fuoco di fila di clamori, come di fronte ad una rivelazione capace di ribaltare la visione storica degli eventi e dei personaggi in gioco. In realtà, esso conferma quel che si sapeva da un pezzo. Occorre forse ricordare che, per secoli, la massima aspirazione della Chiesa cattolica è stata di estinguere la presenza ebraica, sanzionando così che il Messia era giunto, visto che il popolo «eletto» si era tutto riconosciuto in lui? Tale finalità è stata perseguita nei secoli con mezzi più o meno brutali, e quelli descritti nel documento appartengono ai secondi. Del resto, la sostanziale adesione della Santa Sede alle leggi razziali fasciste si spiega soltanto entro questa visione. Altrimenti, che senso avrebbe avuto la sua richiesta, dopo la caduta del fascismo, di mantenere parte della legislazione razziale, segnatamente quella concernente i matrimoni misti? Aveva senso, perché si sperava di dissolvere a poco a poco la presenza ebraica, imponendo a coloro che contraevano un matrimonio misto di educare i figli cristianamente. Queste sono le colpe di Pio XII, note, documentate e confermate dalla recente «scoperta». Queste e non altre. Parlare di Shoah a proposito di Pio XII significa sostituire a colpe accertate, una colpa di omissione e silenzio indiscutibile, ma temperata da ciò che indubbiamente egli e la Chiesa fecero per salvare molti ebrei. Chi scrive è qui perché suo padre fu nascosto a San Giovanni in Laterano, e non è il solo. Un conto è accusare Pio XII di aver proseguito nella sciagurata prassi di accaparrarsi in ogni modo le anime ebraiche, altro conto è equiparare Pio XII a Eichmann. L’insistenza nel riferire il comportamento della Santa Sede e del Papa alla questione della Shoah è fuorviante. Essa conduce alla tesi secondo cui le direttive contenute nel documento furono impartite perché la Santa Sede e il mondo cattolico non avevano percezione della specificità della Shoah: una tesi assurda sia sotto il profilo storico che logico. La Santa Sede aveva perfetta coscienza della diversità fra il razzismo hitleriano e quello fascista: non a caso si oppose al primo (biologistico) e accettò il secondo (spiritualistico). Perciò, anche se non avesse conosciuto la portata della Shoah, sapeva che una tragedia stava colpendo gli ebrei: altrimenti perché, da cosa e da chi avrebbe «salvato» ebrei? Ma qui pare che ci si dica che, se la Santa Sede avesse saputo che gli ebrei venivano massacrati, si sarebbe vergognata di infliggere loro ulteriori dispiaceri; mentre, poiché credeva che fossero soltanto «moderatamente» perseguitati, riteneva lecito tenersi i loro bimbi. Poiché si parla tanto del valore sacramentale del battesimo, viene da chiedersi quale sarebbe il fondamento teologico di una simile visione etica. Ecco allora che il tentativo di spiegare o giustificare il comportamento della Santa Sede nei confronti dei bambini «giudei» parlando di inconsapevolezza della Shoah finisce con l’offrire un’immagine del suo comportamento grottesca più ancora che efferata. Ma perché tanta insistenza a parlare soltanto di Shoah? Perché ormai la Shoah, vista come un evento unico e senza confronti, viene identificata con l’antisemitismo stesso. Tutte le altre forme di ostilità antiebraica sono dimenticate o derubricate a eventi minori, magari riservando loro termini diversi, come «antigiudaismo» per l’antisemitismo cristiano. Sono trucchi verbali mediocri, cui conviene opporre soltanto l’ammonimento di Marc Bloch secondo cui «se le scienze dovessero, per ciascuna delle loro conquiste, cercarsi nuovi appellativi, quanti battesimi e perdite di tempo nel regno delle accademie!». La conseguenza è che la storia del «disprezzo, dell’ostilità e della persecuzione contro gli ebrei in quanto ebrei» — l’«antisemitismo», ma se il termine non piace si faccia uso del simbolo «x» — anziché essere considerata come un fenomeno storico unitario, articolato in dinamiche e manifestazioni anche molto differenti e di varia gravità, viene scomposta in pezzi disgiunti, anzi in due pezzi: l’antisemitismo «vero», quello dei nazisti, e il resto, di importanza marginale. Questa distinzione ha ispirato gli interventi di Lucetta Scaraffia ed Ernesto Galli della Loggia. Secondo quest’ultimo, l’«Olocausto» «e la sua successiva concettualizzazione hanno posto l’antisemitismo su basi completamente nuove. Ne hanno fatto cioè un dato storico completamente diverso che in passato, rendendolo, anzitutto sul piano emotivo, qualcosa di ripugnante e impraticabile in ogni sua pur minima, e anche remota e solo supposta, premessa» (magari così fosse!). E prima? «Atteggiamenti di indifferenza, antipatia, repulsa storico-religiosa, diffidenza sociale», cose «riprovevoli» ma «storicamente distinte» perché appartenenti a un ordine che nulla ha a che fare con le camere a gas. Tralasciamo di parlare degli esempi cui Galli della Loggia ricorre per «dimostrare» come si rischi di considerare fatti di antisemitismo cose banalmente riprovevoli: dal rifiuto di Natalia Ginzburg di pubblicare Primo Levi — ma a chi diamine può venire in mente di considerare antisemitismo una probabile rivalità letteraria? — all’invito di Croce agli ebrei ad assimilarsi — che invece non era innocente. Gli chiederemo piuttosto cosa si debba pensare di chi scriveva: «Se insieme con il positivismo, il libero pensiero e il Momigliano [che si era suicidato] morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocefisso Nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione». Si penserà che era un indifferente? Un antipatizzante? Uno che provava repulsa storico-religiosa? (Per inciso, era Agostino Gemelli). E che dire delle prediche radiofoniche postbelliche — quando della Shoah si sapeva tutto — di padre Lombardi, «microfono di Dio», che citava l’«Olocausto» come prova del «terribile destino» di quel «popolo eletto diventato reietto»; e aggiungeva — guarda caso! — «salva sempre la libertà dei singoli di convertirsi a Gesù e uscire da quel corpo condannato»? Un altro maleducato? Il punto è che queste nefandezze erano l’ultima manifestazione di una storia secolare di antisemitismo, che ha sedimentato un armamentario di odio poi utilizzato metodicamente anche nel contesto dell’antisemitismo razziale e oggi nell’antisemitismo islamico e nell’antisionismo di certi ambienti postcomunisti: si pensi ai temi ricorrenti degli ebrei assetati di potere e di denaro, o che impastano le azzime con sangue di bambini cristiani sgozzati. Invece di emettere superficiali sentenze storiografiche, sarebbe istruttivo studiare la storia della persecuzione e dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna medioevale, e la conseguente distruzione di una straordinaria esperienza storica; leggere i testi classici, da Amador de los Ríos a Baer, per misurare la metodicità con cui la Santa Inquisizione perseguì la distruzione dell’ebraismo di Spagna; compulsare i terribili elenchi di migliaia di bruciati sul rogo, che potrebbero servire a creare uno Yad Vashem spagnolo, e che si estendono su un arco temporale lungo soltanto per l’assenza degli strumenti teorico-pratici adatti alla pianificazione scientifica e industriale dello sterminio, che è poi l’unica vera specificità della Shoah. Come ha scritto lo storico Luis Suárez, «non vi furono gli orrori delle camere a gas, che sembrano essere i soli capaci di sconvolgerci oggi», ma vi fu «qualcosa di più terribile», cioè la sordità morale dei cristiani che, vedendo gli ebrei per le strade, nudi, scalzi e coperti di pidocchi, dicevano: «Ecco la disgrazia in cui cadono coloro che peccano d’incredulità». Ma — si dirà — Pio XII non era Torquemada. Neppure Eichmann, l’abbiamo detto. La storia va visitata con equilibrio. Non è affatto secondario il modo in cui viene imposta la conversione: come alternativa alla morte, o con mezzi più civili. Ma il contesto progettuale è il medesimo: quello dell’estinzione dell’identità ebraica. Oggi, che questa tragica storia sembra essere dietro di noi — per gli sforzi generosi di coloro che da qualche decennio lavorano per cancellare i veleni del passato —, non dovrebbe essere più facile ammetterlo? A che giova negare e minimizzare, ridurre la storia dell’antisemitismo a una vicenda germanica, se non a gettare un macigno sulla via della comprensione reciproca? Se vogliamo far avanzare la comprensione reciproca e rivalutare le famose radici «giudaico-cristiane», non bisogna lanciare fra le ruote il bastone di una visione storica unilaterale e assolutoria; accusando altri di usare la storia per far polemiche correnti e poi consentendosi la stessa libertà con intenti opposti.  È sorprendente che Galli della Loggia usi l’argomento che non bisogna «giudicare il passato con il metro del presente», asserendo che il famoso documento appare «orribile» alla «sensibilità odierna», «di fronte al nostro sentimento morale odierno (insisto: odierno)». Meglio sarebbe stato non insistere. Difatti, mentre egli sacrosantamente (insisto: sacrosantamente) ogni giorno se la prende col relativismo etico, ora dice che il giudizio morale dipende dai tempi e dalle circostanze. Proprio qui era il caso di riporre nel cassetto i valori ed esprimersi come un relativista postmoderno? Difatti, egli non si limita a constatare una diversa sensibilità ma asserisce che non ci si deve rifiutare di dare un giudizio, bensì darlo a ragion veduta «tenuto conto delle circostanze e dei tempi». Relativismo etico, per l’appunto. Per concludere. Questo dibattito è apparso più che altro come uno scontro all’interno del mondo cattolico. Nulla da obbiettare, se non fosse che il tema degli ebrei e dell’antisemitismo è stato usato come una clava. Ci si permetta di ricordare: gli ebrei hanno già dato. Ci si scontri a volontà, ma, per una volta, non sulla pelle degli ebrei. Anche questo sarebbe un contributo alla valorizzazione delle radici «giudaico-cristiane» dell’Europa.


12 gennaio 2005    

Il manuale di storia scritto nel 1960 da Raffaello Morghen - L’Italia scoprì l’Olocausto dopo anni di silenzio

Giovanni Belardelli

Nel 1960 il manuale di storia per le superiori scritto da Raffaello Morghen sceglieva di trattare dello sterminio degli ebrei in un modo che oggi neppure il peggior «negazionista» oserebbe fare: non ne parlava e basta. Alla stessa data un altro manuale allora molto diffuso, quello di Francesco Moroni, dedicava alla questione non più di quattro o cinque righe che definire riduttive è poco, poiché vi si ricordava l’eliminazione di «centinaia di migliaia» di ebrei e di appartenenti all’élite polacca. Ecco, credo che poche cose come il contenuto dei manuali scolastici possano confermare con altrettanta immediatezza la verità di quel che ha osservato su questo giornale Ernesto Galli della Loggia, e cioè che nell’Italia e nell’Europa del dopoguerra l’Olocausto semplicemente non esisteva. Non che non si conoscessero ormai la contabilità terribile e i caratteri diabolici del genocidio perpetrato da Hitler, ma una tale opera di sterminio veniva fatta generalmente rientrare nel complesso degli orrori e delle morti, a diecine di milioni del resto, verificatisi durante il conflitto. I manuali appena citati avevano un orientamento che potremmo definire genericamente come di destra; ma anche il testo di un autore certamente di sinistra, Armando Saitta, si sbarazzava della questione in poche striminzite righe, senza fare alcun preciso riferimento alle dimensioni quantitative assunte dallo sterminio degli ebrei. E questo, si noti, nel momento in cui pure dedicava una trattazione accurata, Paese per Paese, alla Resistenza europea. Ma appunto, tra fine anni Cinquanta e inizio Sessanta, per gli autori di manuali scolastici - di destra o di sinistra che fossero - l’Olocausto, inteso come uno degli eventi centrali del secolo qual è per noi oggi, non esisteva. Anzi, ancora al principio degli anni Settanta poteva accadere che il manifesto di una sezione romana del Partito comunista commemorasse il rastrellamento degli ebrei della capitale compiuto dai tedeschi il 16 ottobre 1943, cioè l’episodio certamente più grave nel «capitolo italiano» della Shoah, limitandosi a parlare di «cittadini romani» deportati e dunque senza usare la parola ebrei. Nei giorni scorsi qualche commentatore ha manifestato sconcerto per l’invito di Galli della Loggia a non giudicare il passato con i criteri del presente: ma, senza il rispetto di questa elementare regola dell’indagine storica, l’Italia repubblicana ci apparirebbe popolata (e sarebbe evidentemente una grave distorsione) dai peggiori negazionisti, invece che da persone che seguivano - spesso troppo pigramente, certo - orientamenti largamente diffusi. Davvero significativo, poi, fu quel che a lungo i suddetti manuali di storia scrissero (o, più spesso, non scrissero) sulle leggi razziali di Mussolini, cioè su un evento che oggi (appunto: oggi) è diventato assolutamente centrale nel rapporto che l’Italia ha con il suo passato, fino al punto di rendere impossibile pensare a quel passato prescindendo da esse. A dimostrazione di come nei primi anni e decenni del dopoguerra anche le leggi razziali «non esistessero», di come non facessero parte cioè della nostra rappresentazione del passato, cito per tutti il manuale di Rosario Villari, comparso nel 1969 e destinato a un ampio e duraturo successo. Ebbene, anche Villari si limitava a richiamare «il lancio in grande scala della campagna anti-ebraica [da parte della Germania nazista] (cui si associò Mussolini emanando un decreto razzista, 14 luglio 1938)». Tutto qui: l’introduzione di leggi antisemite da parte del regime era evocata in modo puramente incidentale, per giunta con una imprecisione (il 14 luglio fu in realtà la data di pubblicazione del «Manifesto» degli scienziati razzisti) che denotava l’interesse marginale che all’epoca poteva riservare alla questione anche uno storico di sinistra e di sicure convinzioni antifasciste come appunto Villari. Ma ancor più sorprendente è che gli ebrei italiani non protestassero per il fatto che nel loro Paese circolavano libri scolastici in cui si sottovalutava, come abbiamo appena visto, la portata dello sterminio antisemita. Anzi, erano per primi gli ebrei a evitare che si parlasse «troppo» dello sterminio e che si ricordassero «troppo» quelle leggi del 1938 che li avevano espulsi dalla comunità nazionale. La spinta a dimenticare aveva varie motivazioni, ma dipendeva anzitutto dal desiderio di essere riammessi a pieno titolo nella vita dell’Italia democratica, laddove ricordare la persecuzione subita avrebbe significato sottolineare una propria diversità. Del resto, a confermare quanto la nostra conoscenza del passato sia essa stessa storicamente determinata dalle idee e dai contesti politici del momento sta il fatto che in Israele il genocidio degli ebrei assunse il carattere di evento fondatore del nuovo Stato soltanto alcuni anni dopo la sua nascita, soprattutto dopo il processo Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961. Insomma, questi e i molti altri esempi che si potrebbero addurre mostrano come non sia esatto ciò che ha scritto Mario Pirani (su Repubblica dell’altro ieri), sostenendo che no, non sarebbe vero che nei primi anni del dopoguerra l’Olocausto, inteso come una rappresentazione - interpretazione dell’evento analoga a quella odierna, non esisteva ancora. Già nel 1945, secondo Pirani, quando si liberarono gli ultimi sopravvissuti dei campi di sterminio l’«orrore percorse il mondo civile». Ma in realtà si trattava di reazioni diverse da quelle odierne, poiché quel sentimento di orrore non attribuiva al genocidio antiebraico la peculiare e duratura epocalità che noi oggi gli riconosciamo facendo così, di quei sei milioni di ebrei morti, appunto l’Olocausto. Si trattò anche per questo di un sentimento di orrore che poté presto lasciare il campo alla disattenzione o all’indifferenza. Assai diversa l’obiezione mossa invece da Claudio Magris (sul Corriere della Sera del 10 gennaio) non alla necessità in sé di «calarsi nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti», che appunto egli condivide in pieno,ma alla possibilità che una tale regola, valida in generale, possa applicarsi anche alla Chiesa. Per la Chiesa - scrive infatti - «la verità non è storicamente condizionata e relativa, ma immutabile». Proprio la sua pretesa di non essere figlia del tempo richiederebbe insomma che dai mali e dai crimini del tempo in cui opera essa si mantenesse immune, pena «il nostro diritto di chiamarla in giudizio». Ma mi permetto di dubitare circa la fondatezza della premessa di Magris riguardo a ciò che la Chiesa afferma di essere. Cinque anni fa, nel corso del Giubileo, la richiesta papale di perdono si basava proprio sulla convinzione che anche la Chiesa, che trascende la storia ma insieme vive nella storia, avesse e non potesse non avere delle colpe. Se Cristo non conobbe il peccato, si argomentava nel documento vaticano Memoria e riconciliazione del marzo 2000, è vero invece che «tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori ». E il primo atto, o la premessa, del percorso di perdono e riconciliazione lì delineato consisteva, non a caso, nel «corretto giudizio storico», elaborato secondo regole e metodi analoghi a quelli in uso presso gli storici di professione. Regole e metodi tra i quali dovrebbe anche esserci, mi pare, l’attenzione a distinguere tra i fenomeni storici, riconoscendo la specificità di ciascuno di essi. Eppure, piuttosto sorprendentemente, Giorgio Israel (sul Corriere di ieri), ha sollecitato invece a non separare l’antisemitismo nazionalsocialista dalle altre forme di ostilità e discriminazione antiebraica che coinvolsero vari settori della civiltà europea, in particolare in relazione al mondo cattolico e al suo antigiudaismo di matrice religiosa. Israel afferma che, certo, non si può considerare Pio XII alla stessa stregua di Eichmann. Ma in realtà, se accettassimo davvero- come egli ci invita a fare - di non scomporre in «pezzi disgiunti» l’antisemitismo, considerandolo dunque come un «fenomeno storico unitario», la conseguenza sarebbe proprio che Eichmann e Pio XII finirebbero col trovarsi dalla stessa parte, dalla parte dei responsabili - sia pure con ruoli diversi - dell’Olocausto. Il che appare evidentemente assurdo. A non convincere, in un discorso del genere, è la stessa premessa che postula, al di là di ogni differenza, una identità sostanziale tra tutte le forme di antigiudaismo e antisemitismo. Ma quando si sia sottolineata la persistenza nella Chiesa di Pio XII (e, per la verità, più in certe Chiese nazionali che in Vaticano) di pregiudizi antiebraici, resta il fatto che le forme di discriminazione che a volte a quei pregiudizi si accompagnavano rappresentano comunque un dato radicalmente diverso rispetto alla politica di sterminio progettata e attuata dal regime nazista.


13 gennaio 2005

Lo storico deve evitare di comportarsi da giustiziere - «Non giudicate Pio XII, era figlio del suo tempo»

Roberto Pertici

«Mayer è triestino ed ebreo: credergli sarebbe ingenuità. Egli era uno dei consiglieri intimi di Sonnino... Bergmann, ebreo arrivista, stava per i fasci... Lloyd George, strumento di finanzieri ebrei, si era accordato con Lenin». Queste annotazioni ricorrono nel diario che Gaetano Salvemini tenne fra il 1922 e il 1923, all’indomani della marcia su Roma. Lo storico dotato di «buon senso storiografico» cerca di capire: le attribuisce a un’avversione populistica verso uomini di alto censo o appartenenti a classi elevate, e sa bene che sono atteggiamenti tutt’altro che infrequenti negli ambienti democratico-socialisti fra Otto e Novecento. Ma c’è da scommettere che prima o poi un qualche storico-giustiziere, magari rilevando come anche nelle lettere e negli scritti salveminiani successivi alla Seconda guerra mondiale siano piuttosto rari i riferimenti alla persecuzione e allo stermino degli ebrei e non emerga una precisa consapevolezza del loro significato, ridimensionerà su questa base la sua figura e la sua azione di combattente per la democrazia. Nella storia degli ultimi due secoli ci imbattiamo di continuo in problemi di questo genere: come considerare la prima generazione di leader socialisti di origine ebraica (un nome per tutti, Claudio Treves), che affermò sempre che il socialismo era stato per loro anche una liberazione dalla mentalità del ghetto e dalle sue chiusure? Fino a non poco tempo fa, le si dava credito, ma oggi si tende a sottolineare piuttosto i costi di questa rinunzia identitaria. Il battesimo di Giorgio Falco, uno dei più grandi medievisti italiani del secolo scorso, avvenuto a circa un anno dall’entrata in vigore delle leggi razziali, può essere ritenuto unicamente il frutto di una «conversione coatta», come di recente si è scritto? Certo tendiamo oggi a provare un’istintiva simpatia per quegli ebrei (da Henri Bergson a Simone Weil), che, pur essendo approdati a un cristianesimo interiore, preferirono non essere battezzati, volendo - come scrisse Bergson nel suo testamento - «restare tra coloro che saranno domani perseguitati»; come sappiamo che non poche scelte analoghe furono un tentativo (peraltro illusorio) di sfuggire alla persecuzione, ma perché guardare con sospetto a ogni conversione avvenuta in quegli anni (da Edith Stein a Israel Zolli, il rabbino capo della comunità romana passato al cattolicesimo nel febbraio del 1945, assumendo significativamente il nome di Eugenio, in onore di Pio XII) e non verificare la loro portata nell’attività culturale e nella biografia di quegli uomini? Un nemico ricorrente del lavoro storiografico è l’«anacronismo storico», il ritenere cioè che valori, atteggiamenti, mentalità che sono il frutto di un determinato processo storico e la conseguenza di grandi esperienze collettive, siano invece sempre esistiti, e quindi possano diventare un criterio di giudizio della storia stessa: si esige, così, dagli uomini del passato una lucidità sugli avvenimenti dei loro tempi, una nettezza di giudizio, una risolutezza di scelte che noi spesso abbiamo acquisito proprio per le conseguenze dei loro «errori». Si pensi soltanto al giudizio corrente su figure e partiti del primo dopoguerra e l’accusa loro continuamente rivolta di non aver compresa (o di non aver voluto comprendere) la «vera natura» del fascismo emergente. In pericoli analoghi, anzi ancora più gravi dato il carattere infamante dell’accusa di antisemitismo, si incorre nelle discussioni ricorrenti sull’antisemitismo, l’Olocausto e il ruolo della Chiesa cattolica, in particolare di Pio XII: Ernesto Galli della Loggia ha ribadito come la percezione che i contemporanei ebbero dell’Olocausto fu almeno fino agli anni Sessanta assai limitata, che pregiudizi antiebraici erano presenti anche nei Paesi della coalizione antifascista (negli anni Cinquanta, un intellettuale del calibro di Isaiah Berlin - lo ricorda il suo biografo Michael Ignatieff - non fu ammesso nell’esclusivo St. James Club a causa del suo ebraismo), che la lotta contro l’antisemitismo nazista non fu uno scopo di guerra della coalizione antifascista, né un tema della sua propaganda, e che, da Primo Levi a Raul Hilberg, non furono pochi gli intellettuali ebrei o i reduci dai campi che trovarono impedimenti di vario tipo ai loro scritti sull’esperienza concentrazionaria. Perché allora queste osservazioni sembrano non bastare a contestualizzare il comportamento della Santa sede durante quei terribili anni? Dalla constatazione della limitata percezione degli avvenimenti che ebbero i vertici della Chiesa e dei ritardi della loro azione, dal rilievo che in tali limiti giocò un ruolo decisivo una secolare tradizione di antigiudaismo, si passa invece, più o meno esplicitamente, all’accusa di connivenza e di complicità, fino a emettere un verdetto di «colpevolezza storica» sull’intera vicenda dell’Olocausto. Ancora Galli della Loggia ha indicato alcuni caratteri della situazione culturale dei nostri anni che possono spiegare questa deriva: ma credo che si debba sottolineare come per non pochi degli «accusatori» più aggressivi (è esemplare l’articolo di Daniel Jonah Goldhagen comparso su queste pagine) ci sia al fondo una prevalente volontà polemica, di attacco complessivo a una tradizione storico-religiosa. Si costruisce un paradigma storiografico che fa dell’Olocausto l’elemento centrale della storia dell’umanità, rispetto al quale tutti gli altri avvenimenti prendono significato e valore; se ne delinea il retroterra secolare, in qualche modo preparatorio; si sottolinea il ruolo che vi ha svolto l’antigiudaismo cattolico, se ne vede il coagulo nella politica di Pio XII, non a caso parallela e concorde con lo sterminio hitleriano. Tutta la storia della Chiesa viene letta in questa prospettiva, che la carica di un significato prevalentemente negativo. Di altro livello è l’argomentazione di Claudio Magris, che riprende (non so quanto consapevolmente) argomentazioni di insigni scrittori cattolici dell’Ottocento, dal nostro Manzoni a Lord Acton. Dopo la predicazione di Cristo raccolta nei Vangeli, - affermavano - non è più possibile per l’uomo avere dubbi o equivocare su ciò che si deve e non si deve fare, per cui - se si comporta in maniera difforme - la responsabilità è unicamente sua, non dei tempi o delle circostanze. Così Pio XII non può trovare giustificazioni «esterne» - conclude Magris - alle sue «negligenze» e ai suoi silenzi. Confesso che ho sempre trovato piuttosto astratte posizioni di questo genere: esse hanno il merito di ribadire, di fronte ai «giustificazionismi» di varia specie, l’importanza della responsabilità umana, ma rischiano di limitare il giudizio storico a un calcolo differenziale fra il bene che si deve compiere e quello effettivamente compiuto. Tocqueville ricordava che «la Provvidenza non ha creato il genere umano interamente indipendente né del tutto schiavo. Essa traccia intorno a ogni uomo un cerchio fatale da cui egli non può uscire; ma, entro questi vasti limiti, l’uomo è potente e libero». Anche Pio XII visse nel suo «cerchio fatale» (la sua formazione, il suo retroterra culturale, la qualità del suo cattolicesimo, i suoi orientamenti politici, ma - soprattutto - la tragica situazione storica in cui guidò la Chiesa cattolica) all’interno del quale fece le sue scelte: è all’interno di questo «cerchio» che esse devono essere analizzate e giudicate. Giorgio Israel sembra, invece, ritenere sostanzialmente pretestuosa e riduttiva ogni distinzione fra «antigiudaismo» e «antisemitismo». A pochi anni dalla fine della guerra, un intellettuale di grande finezza come Antonello Gerbi, reduce dall’esilio peruviano a cui era stato costretto dalle leggi razziali, mostrava di avere idee opposte. Sul Mondo di Pannunzio, avvertiva che «la cosiddetta "questione ebraica" riceverebbe luce da una maggior precisione dei termini e dei concetti» e osservava che «antisemita è parola impropria per indicare tutte le forme di odio e persecuzione contro gli ebrei». Aggiungeva: «Io direi di riservare la parola "antisemitismo" per l’odio razziale di tipo hitleriano; e di chiamare evangelicamente "antigiudaismo" l’odio per l’avidità di denaro e per il tradimento dei maestri, benefattori e correligionari; "antisionismo" l’avversione politica al nuovo Stato di Israele; "antiebraismo" l’intolleranza degli ideali cosmopolitici e messianici dei Profeti e di certi moderni rivoluzionari; e "anti-israelitismo" l’irritazione e l’animosità contro gli atteggiamenti troppo chiusi e le angosce troppo "parrocchiali" del "popolo eletto"» (26 novembre 1949, p. 10). Anche se alcune di queste osservazioni suscitano oggi perplessità, l’esigenza di chiarezza e di distinzione concettuale che è loro sottesa mi pare degna di considerazione.


14 gennaio 2005

Fino agli anni '60 Usa sottovalutarono persecuzioni contro gli ebrei - Quando l'America scoprì il flagello dell'antisemitismo

Sergio Romano

Non era ammessa ai country clubs , dove i Wasp (l’acronimo che definisce i bianchi protestanti d’origine anglosassone) celebravano i riti della loro vita sociale. Ed era accolta con freddezza nei grandi alberghi dei migliori luoghi di villeggiatura. L’unico Stato dell’Est che li accettava calorosamente era la Florida; con il risultato che molti anziani ebrei di New York avevano preso l’abitudine di svernare a Miami e a Palm Beach, dove erano diventati materia di barzellette e aneddoti. Gli ebrei ne erano coscienti e avevano adottato «un basso profilo». La parola d’ordine della comunità in quegli anni era «discrezione». Parlare del genocidio e rievocare le persecuzioni sofferte era considerato imprudente. Occorreva evitare che il tradizionale patriottismo americano usasse le loro lagnanze per sostenere che gli ebrei erano un gruppo separato, difficilmente assimilabile. Vi è un episodio da cui emerge quale fosse allora lo stato d’animo dell’ebraismo americano. Nel 1947 apparve nei cinema un film di Elia Kazan. S’intitolava Gentleman’s Agreement (in italiano Barriera invisibile ) e raccontava la storia di un giornalista (Gregory Peck) che si finge ebreo per scrivere una inchiesta sull’antisemitismo e scopre in tal modo i molti pregiudizi diffusi nella società americana. Quando seppero che Darryl F. Zanuck (un produttore non ebreo) si accingeva a finanziare il film, alcuni impresari cinematografici ebrei lo pregarono di rinunciare. Temevano che la denuncia avrebbe reso l’ambiente ancora più ostile. Non avevano torto. La «crociata» del senatore McCarthy contro il comunismo prese di mira Hollywood, dove gli ebrei erano numerosi, e diffuse la convinzione che l’ebraismo fosse unamerican , vale a dire estraneo ai valori americani. Non erano ebrei forse i coniugi Rosenberg, accusati di avere passato ai servizi sovietici alcuni segreti atomici? Non erano ebrei molti intellettuali attratti dal comunismo fra gli anni Trenta e Quaranta? Charlie Chaplin era nato in una famiglia protestante dell’East End di Londra, ma aveva recitato la parte del piccolo ebreo berlinese nel Grande dittatore e veniva sprezzantemente descritto come «filosemita»: sino al giorno in cui, minacciato di espulsione, se ne andò dagli Stati Uniti sbattendo la porta. Era la fine del 1952. La situazione, negli anni seguenti, non cambiò molto. Ne avemmo una prova nel 1956, quando il leader egiziano Nasser nazionalizzò il Canale di Suez. La Francia e la Gran Bretagna decisero di reagire con la forza e si accordarono con Israele. Ma il generale Eisenhower, presidente degli Stati Uniti dal 1952, li costrinse a interrompere le operazioni. La guerra ebbe per effetto l’espulsione di alcune decine di migliaia di ebrei dai Paesi arabi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Ma neppure quel nuovo esodo commosse l’opinione pubblica europea e americana. Oggi molti ebrei vedrebbero in questo silenzio il persistente antisemitismo delle società cristiane. Allora preferirono tacere, soccorrere con discrezione i loro fratelli e lasciare che la tempesta passasse. Confrontata con quella del 1956, la guerra del 1967 presenta alcune interessanti differenze. Una sera, mentre ancora si combatteva, andai nel ghetto di Roma per assistere a una manifestazione filoisraeliana. Prese la parola Arturo Carlo Jemolo, grande giurista cattolico, ma figlio di una ebrea piemontese. La madre si era convertita, ma Jemolo conservò per tutta la sua vita una sorta di naturale affetto per l’ebraismo. Quella sera parlò a una trentina di persone. La sinistra romana aveva disertato l’incontro e non nascose più, da allora, la sua simpatia per la causa palestinese. La guerra dei sei giorni e la presa di Gerusalemme non piacquero del resto né alla sinistra europea né ai governi di allora. Quando parlò del conflitto nel corso di una conferenza stampa il 27 novembre di quell’anno, il generale de Gaulle disse che gli israeliani erano «un popolo sicuro di sé e dominatore»: una frase in cui era possibile leggere al tempo stesso un giudizio critico e una certa ammirazione. Vi furono dichiarazioni e proclami a sostegno di Israele nelle comunità ebraiche in Italia e altrove, ma nulla di comparabile allo sdegno con cui l’ebraismo militante ha accolto negli anni seguenti le critiche alla politica del governo israeliano. Il mondo cattolico fu filo-palestinese senza correre il rischio di apparire antisemita. E ancora più filopalestinesi furono i movimenti studenteschi del 1968. Ma non furono accusati di insensibilità alla memoria dell’Olocausto. Eppure qualcosa nel frattempo era cambiato, soprattutto in America. Alle riflessioni di Galli della Loggia sulle ragioni del mutamento aggiungo alcuni motivi prevalentemente politici e sociali. Il primo fu la svolta della politica americana in Medio Oriente dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez nel 1956. Dopo avere tagliato le ali alla spedizione anglo-francese, gli Stati Uniti si accorsero che lo smacco patito da Londra e Parigi lasciava nella regione un vuoto pericoloso e che esso sarebbe stato riempito dall’Urss. Con un rapido voltafaccia, quindi, l’America cominciò a occuparsi di affari mediorientali nello stile delle vecchie potenze coloniali europee. Quando il nazionalismo di Nasser, nel 1958, contaminò il Libano, gli americani capirono che il Medio Oriente stava per sfuggire al loro controllo. E quando il 14 luglio una fazione nazionalista massacrò la famiglia reale a Bagdad, Eisenhower dette ordine alla VI flotta di sbarcare i marines sulla costa del Libano. Cambiò progressivamente in quel periodo il rapporto dell’America con Israele. Preoccupati dal nazionalismo nasseriano e dalla crescente influenza sovietica nella regione, gli Stati Uniti videro nello Stato ebraico l’unico amico su cui potessero fare affidamento, una roccia nell’instabile paesaggio politico mediorientale. Questa svolta modificò l’atteggiamento dell’ebraismo americano. Era finita l’era del riserbo e della prudenza, cominciava la fase in cui la comunità ebraica negli Stati Uniti (la più grande nel mondo dopo quella sovietica) sarebbe stata sempre meno impacciata dalle sue antiche paure e sempre più libera di sostenere Israele, ricordare il passato, denunciare vecchi e nuovi pregiudizi. Questo passaggio dalla difesa all’attacco fu favorito dall’arrivo di una nuova generazione. I padri avevano visto gli orrori della guerra, sapevano che altri gruppi sociali e nazionali erano stati duramente colpiti, non dimenticavano i gesti di amicizia offerti nel momento del pericolo, temevano di attizzare nuove manifestazioni di ostilità. I figli invece erano sicuri di sé, consapevoli dei loro diritti, orgogliosi dei successi di Israele, cresciuti in una società democratica dove ogni gruppo nazionale era libero di celebrare le proprie feste e i propri lutti. Tre episodi fornirono a questa generazione un terreno su cui addestrarsi a dare battaglia: il caso Eichmann, il caso Hochhuth, il caso Waldheim. Nel grande cantiere del genocidio ebraico Karl Adolf Eichmann fu il direttore dei lavori, regista e organizzatore dei massacri. Sfuggito agli Alleati, riparò in Siria e successivamente in Argentina dove gli israeliani lo scoprirono e lo rapirono. Fu processato, condannato a morte e impiccato nella prigione di Ramleh a Tel Aviv il 31 maggio del 1962. Il processo ebbe due effetti. In primo luogo dimostrò che Israele aveva conti in sospeso e non avrebbe esitato a regolarli: un atteggiamento assai diverso da quello schivo e riservato di cui il mondo ebraico aveva dato prova negli anni precedenti. In secondo luogo proiettò su uno schermo gigantesco, durante i mesi del processo, la tragedia del genocidio e lo rese familiare anche a chi ne aveva sottovalutato le dimensioni. Rolf Hochhuth è uno scrittore tedesco, epigono della cultura teatrale della Repubblica di Weimar, quando il teatro era strumento di denuncia, propaganda, azione politica. Nel 1963 rappresentò a Berlino, con la regia di Erwin Piscator, un dramma intitolato Der Stellvertreter , il Vicario, in cui Pio XII è accusato di avere assecondato, con i suoi silenzi e la sua indifferenza, la politica sterminatrice di Hitler. Non fu la sua sola provocazione. Tre anni dopo rappresentò un nuovo dramma, Die Soldaten , in cui Churchill appare responsabile degli inumani bombardamenti inglesi in Germania. In altre circostanze Hochhuth sarebbe stato accusato di nazionalismo, revanscismo, forse addirittura giustificazionismo filonazista. Ma il suo libello drammatico contro Pio XII suscitò l’interesse degli ambienti ebraici e più generalmente di quelli anticattolici o anticlericali. Di questo revisionismo, incidentalmente, fece le spese anche l’Italia. Fino agli anni Sessanta era universalmente lodata per i sentimenti umani di cui le sue autorità e le sue truppe avevano dato prova, soprattutto durante la guerra. Da allora è spesso sul banco degli accusati. Il caso Waldheim risale al 1986. Kurt Waldheim era stato per due mandati, dal primo gennaio 1972, segretario generale dell’Onu ed era divenuto, nel 1986, presidente della Repubblica austriaca. Lo scandalo scoppiò poco prima delle elezioni. Alcuni giornali cominciarono a evocare una fase della sua vita su cui i curricula ufficiali erano generalmente avari. Era stato tenente della Wehrmacht in Jugoslava durante la guerra e aveva partecipato, apparentemente, ad alcune razzie di ebrei e partigiani. Il World Jewish Congress sostenne la campagna. Fu pubblicata una fotografia, scattata in Montenegro, in cui Waldheim appariva fra un generale tedesco e un generale italiano: non precisamente una prova giudiziaria, ma la dimostrazione, secondo alcuni, che il giovane tenente si muoveva fra gli alti gradi delle forze d’occupazione e «non poteva non sapere». Non basta. I suoi critici sostennero che Waldheim, quando era segretario generale dell’Onu, aveva favorito gli interessi dell’Urss nell’organizzazione, ed ebbero così il sostegno di una larga parte della pubblica opinione. Waldheim finì nella «Watch List»: una specie di lista nera dove erano elencate tutte le persone sgradite alle autorità americane. Come il processo Eichmann e quello contro la memoria di Pio XII, anche il caso Waldheim dimostrò che era ormai tramontata l’epoca in cui le comunità ebraiche preferivano evitare il pubblico ricordo delle loro sciagure e sofferenze. Credo anch’io, come Galli della Loggia, che l’importanza assunta dal genocidio dopo gli anni Sessanta sia dovuta alla riscoperta della identità ebraica e al più vasto fenomeno, diffuso ormai da qualche anno, della rinascita delle identità comunitarie. Ma credo che tutto ciò cominci ad accadere nel momento in cui l’ebraismo americano scopre di poter conciliare, senza troppi rischi, due lealtà, quella per Israele e quella per gli Stati Uniti, che potevano apparire, in altri momenti, potenzialmente contraddittorie.


16 gennaio 2005

Torna l'ossessione del complotto nella polemica sulla restituzione dei bimbi ebrei salvati dai cattolici durante la guerra - Pio XII, Shoah e cultura del sospetto

Pierluigi Battista

La cultura del sospetto, già causa di inquinamento nella sfera della lotta politica, può produrre effetti ancor più micidiali nell’ambito della discussione intellettuale e storiografica. Applicare la logica intimidatoria del «cui prodest», quando viene pubblicato un documento inedito, inscenare un ruvido processo alle intenzioni per squalificare preventivamente chi lo divulga, non è solo indizio di una coriacea sindrome cospiratoria che avvelena la civiltà (non il bon ton , ma la civiltà) di un dibattito, ma è soprattutto, se non suonasse addirittura come una sgradevole intimazione al silenzio e all’omertà, un modo per eludere l’obbligo di una risposta agli interrogativi scabrosi che l’affiorare di nuovi documenti inevitabilmente richiede. Stupisce, perciò, che la proposta di Alberto Melloni, sul Corriere della Sera ,di offrire alla pubblica discussione nuove testimonianze sulle controverse direttive vaticane in tema di restituzione dei bambini ebrei, salvati dalla Shoah per merito della Chiesa di Pio XII, abbia sollevato in alcuni interventi nella discussione nientemeno che il sospetto di un’indebita intromissione politico-giornalistica nel processo di beatificazione di Papa Pacelli. Non la doverosa polemica tra scuole culturali e storiografiche in sana competizione tra loro. Ma indicazioni di insani complotti, cospirazioni, «operazioni» inconfessabili. E perché mai e quali finalità occulte il sinedrio dei complottatori intenderebbe perseguire? E perché uno storico notoriamente scrupoloso e di meritato prestigio come Andrea Riccardi si è sentito in dovere, sulle colonne di Avvenire , di avanzare dubbi su «cosa ci sia sotto» la scelta di Melloni e del Corriere , alludendo al fatto che «le impellenze siano d’altro tipo, ma sicuramente non si inscrivono nell’ambito della storiografia»? Quali sarebbero queste «impellenze»? E perché non contrapporre argomento ad argomento, documento a documento, anziché esercitarsi in sconsolate invettive contro un non meglio identificato «giornalismo d’oggi»? Peccato. Eppure non dovrebbe essere tanto inutile risvegliare con nuove testimonianze l’attenzione pubblica (a meno che non si voglia considerare la ricostruzione storica sigillata una volta per tutte) sull’atteggiamento di Pio XII e del futuro Papa Roncalli, sulla Chiesa e i veleni dell’antisemitismo ancora diffusi nella seconda metà degli anni Quaranta. E che non sia stato inutile lo dimostrano tra l’altro le considerazioni svolte su queste colonne da Ernesto Galli della Loggia, in cui, a commento delle nuove rivelazioni sul comportamento vaticano nei confronti dei bambini ebrei, si metteva in luce come una compiuta «concettualizzazione» dell’Olocausto, una percezione consapevole della portata epocale della Shoah fossero tutt’altro che diffuse negli anni successivi alla guerra e persino dopo la scoperta della dimensione apocalittica dello sterminio del popolo ebraico. L’intervento di Galli della Loggia ha suscitato, come è ovvio, osservazioni e critiche, a cominciare da quelle, sul Corriere della Sera , espresse con civile vigore polemico da Claudio Magris e da Giorgio Israel. Ma il demone del processo alle intenzioni si è manifestato in altre reazioni, come quella di Mario Pirani, che su Repubblica ha accusato Galli della Loggia di «giustificazionismo retroattivo». Ma la parola «giustificazionismo», pericolosa e già sovraccarica di sottintesi simbolici negativi, andrebbe usata con molta cautela, se non altro perché evoca necessariamente un qualche rapporto di segreta consonanza tra il giustificatore e il giustificato: un’enormità che lo stesso Pirani non si sentirebbe di sottoscrivere nel caso di Galli della Loggia. E allora? Perché la scomunica e la tecnica della delegittimazione preventiva? Già Giovanni Belardelli e Roberto Pertici hanno arricchito sul Corriere della Sera la tesi della tardiva e sconvolgente sottovalutazione della portata dell’Olocausto nella cultura europea suggerita da Galli della Loggia. E se il primo lavoro di ricostruzione sistematica del genocidio ebraico, quello di Raul Hilberg, appare solo negli anni Sessanta, come spiegarsi che il primo studio particolareggiato sulla persecuzione antiebraica negli anni del fascismo, scritta da Renzo De Felice, abbia visto la luce nel 1962, peraltro caldeggiata, come antidoto al muro del silenzio eretto in precedenza senza che la cosa provocasse molto scalpore, dalla stessa comunità ebraica? Si è detto (Giorgio Israel) che per il rifiuto di Natalia Ginzburg, subito dopo la fine della guerra, di pubblicare Se questo è un uomo di Primo Levi non si può decentemente parlare di antisemitismo mimetizzato. Certo che no e, del resto, nemmeno Galli della Loggia si è mai sognato di sostenerlo. Tuttavia, non è per pervicacia antisemita, ma per indifferenza, insensibilità, ritrosia nell’accettare negli standard etico-culturali acquisiti (difficoltà di «concettualizzazione» appunto) la portata dello sterminio, che, come ha denunciato Alberto Cavaglion, si è dovuto attendere l’ultimo decennio del secolo per conoscere un lavoro documentalmente accettabile sulla Risiera di San Sabba. Come mai, lo ha raccontato Valentina Pisanty, il Diario di An na Frank, il testo poi trasposto in teatro che davvero ha consentito di far «passare» l’Olocausto nelle zone profonde dell’emozione pubblica mondiale, pubblicato nel 1947, in Italia è uscito soltanto nel 1954, ben sette anni dopo? Nel suo studio sugli «ebrei nell’Italia post-fascista» ( Ritrovare se stessi , Laterza) Guri Schwarz ricorda che, come Primo Levi, anche il protagonista Geo Josz di Una lapide su via Mazzini di Giorgio Bassani scoprì subito che a Ferrara nessuno voleva ascoltare ciò che gli era accaduto a Buchenwald. E, a proposito di Buchenwald, sarà il caso di registrare, come ha notato D.D. Guttenplan nel suo Processo all’Olocausto , che «nella famosa trasmissione di Edward R. Murrow da Buchenwald, nel 1945, le parole "ebreo" ed "ebraico" non sono mai pronunciate». Quella stessa Buchenwald, i cui cancelli le autorità comuniste del Dopoguerra riapriranno senza vergogna, anzi addirittura con l’entusiastica approvazione di Thomas Mann. E, del resto, è tutt’altro che «giustificazionista» chiedersi (come ha fatto Alice Kaplan) come mai Robert Brasillach venne condannato a morte non già per aver appoggiato la deportazione degli ebrei nella Francia nazificata, ma solo per alto tradimento, circostanza «concettualmente» impensabile nei decenni successivi, all’epoca dei processi a Klaus Barbie o Maurice Papon. O come mai nessuno ha mai sentito parlare in Italia di Giorgio Perlasca, il salvatore degli ebrei di Budapest, fino ad anni recentissimi. Oppure come nessuno si sia interessato, prima che se ne occupasse meritoriamente Gabriele Nissim in Italia, della tragica sorte di Dimitar Pesev, il vicepresidente del Parlamento bulgaro che si rifiutò con grande coraggio nel 1943 di dar corso alla deportazione degli ebrei e che nel Dopoguerra verrà perseguitato dal regime comunista di Sofia senza che si levasse la voce delle proteste internazionali. Ha scritto Enzo Traverso, nel suo recente Auschwitz e gli intellettuali (Il Mulino), che colpisce nelle Reflexions sur la question juive «l’incapacità» di Sartre «di pensare il genocidio come pure il suo silenzio nei confronti dei reduci dai campi nazisti». Un esempio lampante di scarsa «concettualizzazione» della Shoah. «Giustificazionismo» anche questo? Sordo alle prevedibili accuse di «giustificazionismo», uno storico temerario come l’israeliano Tom Segev ha scritto, nel suo sconvolgente libro Il settimo milione (Mondadori), come persino in Israele e, prima della nascita dello Stato, nello yishuv , la comunità ebraica della Palestina, fosse diffuso un «atteggiamento poco compassionevole» e finanche di «disprezzo» verso gli ebrei scampati al massacro, considerati «materiale umano scadente» rispetto all’«uomo nuovo» modellato sull’ideologia pionieristica del sionismo: «Un’immensa comunità di accattoni», «detriti umani», come si scrisse allora e come oggi si rilegge senza fiato. Così come si resta interdetti nell’apprendere dalle pagine di Segev che il «30 giugno 1942, Davar , il prestigioso giornale della Histadrut, riferì che in Europa era stato assassinato un milione di ebrei». Con un particolare: che quell’articolo era collocato di spalla, con l’aggiunta di un attacco alla «deplorevole tendenza di alcuni quotidiani a gonfiare tutte le voci catastrofiche sullo spargimento di sangue ebraico». Vale la pena chiedersi perché? È una domanda «giustificazionista» anche questa?


17 gennaio 2005

Il rapporto tra il proselitismo e la società multiculturale - Proselitismo, la libertà di persuadere

Tommaso Padoa Schioppa

1 Sono molte e importanti le questioni d’ordine generale toccate nel dibattito innescato dalla pubblicazione dei diari del nunzio Roncalli a Parigi: relazione tra giudizio storico e giudizio morale, autonomia della coscienza, diritti dei genitori sui figli. Ci colpisce quanto, nel volgere di pochi decenni, siano mutati non solo la sensibilità dei più ma anche gli atteggiamenti di un’istituzione millenaria come la Chiesa. Sensibilità e atteggiamenti riguardanti cose tanto fondamentali come il diritto naturale della persona. La storia non è giustiziera, ci ricordano Galli della Loggia e altri; ma come dissentire da Claudio Magris quando aggiunge «... ma nemmeno giustificatrice» e quando osserva che «le ecatombi staliniane vanno certo collocate nel loro contesto ma non cessano per questo di essere bestiali delitti»? È vero che «non possiamo giudicare il passato con il metro che adottiamo per il presente»; ma è vero anche, come scrisse Croce, che «ogni vera storia è storia contemporanea». Dal dibattito vorrei trarre alla luce il tema del proselitismo che, pur evocato in qualcuno degli interventi, è rimasto finora nell’ombra. Eppure, basta aguzzare un po’ lo sguardo per domandarsi se tutta la discussione non verta proprio sul proselitismo: che cosa esso sia veramente, quando sia lecito, quando divenga violenza e perversione. Il proselitismo merita dunque, a mio giudizio, di essere portato sul proscenio: per evitare che l’intera discussione sia fondata su un discutibile sottinteso; ma ancor più per non dare come chiuse, e chiuse male, questioni che - soprattutto in tempi di immigrazione e in clima di multiculturalismo - sono invece apertissime. Il dibattito sulla direttiva vaticana del 1946, pubblicata dal Corriere della Sera il 28 dicembre, ha a che fare con l’ebraismo e l’antisemitismo per l’origine familiare di quei bambini battezzati e perché i fatti avvenivano nel contesto della persecuzione nazista. Ma gli interrogativi che esso pone hanno un’evidente portata universale e vanno oltre una religione o una comunità particolari.

2 Proselitismo e libertà di espressione. Il discutibile sottinteso è che il proselitismo sia in sé cosa non buona. Ebbene, non si scandalizzi il lettore: vorrei qui parlare del proselitismo per farne l’elogio. E vorrei anzi esprimere preoccupazione per il farsi strada, nel nostro tempo e proprio nelle nostre società pluraliste, dell’idea che «fare proseliti» violerebbe i diritti e attenterebbe alle convinzioni (supposte inalterabili) dell’altro. Secondo un nascente luogo comune, uno spirito aperto dovrebbe astenersi dal propagandare le proprie idee e accettare quelle altrui senza porle in discussione. Il proselitismo sarebbe tipico di chi è intollerante, assolutista, poco incline al rispetto dell’altro. E le convinzioni sarebbero nobili, eroiche, solo se conservate immutabili (sennò diventano tradimento). Invece, la riflessione dovrebbe portarci a considerare questo modo di pensare come gravemente errato; un errore che sarebbe pericoloso lasciare impiantare nel nostro pensiero e nel nostro costume. È definita proselitismo la «tendenza a fare nuovi seguaci di una religione, una dottrina, un partito, un’idea, un progetto». Non solo l’espressione di una convinzione, ma lo sforzo di trasmetterla, di persuadere altri della sua qualità, di fare adepti ed eventualmente militanti. Ovviamente, questo sforzo può esplicarsi nei più diversi campi: in quello religioso, ma anche in campo scientifico, filosofico, politico. Il maestro, se è davvero tale, trasmette agli allievi un sapere o un progetto che non sono mai disgiunti da convinzione e impegno. E che altro è, se non proselitismo, la predicazione dei fondatori di religioni e dei profeti? Separare libertà di espressione da proselitismo è quanto mai arduo, forse impossibile; perciò è illusorio pensare di reprimere questo senza vulnerare quella. È difficile immaginare che l’espressione del pensiero sia avulsa dal desiderio di convincere il destinatario. Rudi Dornbusch, un grande economista recentemente scomparso, mi raccontava anni fa di come, giovane professore, giunto al Massachusetts Institute of Technology imbevuto di certe idee economiche, fosse stato invitato per mesi a colazione da Franco Modigliani quasi ogni giorno per serrate discussioni volte a convincerlo dell’erroneità di quelle idee e della superiorità di altre. Non lavaggio del cervello, ma serrata interlocuzione con lo scopo preciso di persuadere.

3 Nella sfera individuale. Osserviamo il proselitismo come atteggiamento individuale e come parte dell’ordine sociale. Che cosa si può immaginare di più naturale e più civile in un uomo che lo sforzo di convincere il prossimo di ciò in cui crede e di cui è persuaso? E per converso, dal punto di vista di questo «prossimo», che cosa si può immaginare di più incoerente con un atteggiamento davvero teso alla ricerca della verità che l’esclusione a priori del tentativo - considerato invece addirittura offensivo - che un altro potrebbe fare di persuadere della bontà del suo pensiero e delle sue posizioni? Ogni dialogo con l’altro deve, per essere davvero tale, divenire anche un dialogo con se stessi. Deve ammettere il dubbio, accettare l’ipotesi che la nostra posizione sia rivedibile, che possa almeno contenere una parte di errore. Così l’interlocutore del dialogo da avversario diviene nostro alleato, proprio in quanto contribuisce a perfezionare la nostra verità. Da una conversazione che ha cambiato le nostre idee usciamo con un sentimento di pienezza, ancora più grande che se fossimo stati noi a convincere l’altro.

4 Nella sfera sociale. Una società nella quale la propaganda per le proprie idee fosse considerata un attentato alle persone sarebbe l’esatto opposto di quella che filosofi, militanti politici, semplici cittadini hanno inteso realizzare in nome della libertà. Proselitismo non significa - si guardi il dizionario - cercare di fare seguaci con la violenza, di arruolare adepti contro la loro volontà. Significa diritto di espressione e di associazione. Inizia proprio con il riconoscimento dell’altro. San Francesco predicava agli uccelli; ma molti considerano indegni interlocutori altri esseri umani in carne e ossa. In colui che lo pratica, il proselitismo presuppone convinzione nel valore delle proprie idee e disponibilità a renderne altri partecipi; in colui che ascolta, presuppone libertà. Nella vita sociale, il proselitismo alligna in culture e gruppi umani aperti ad accogliere i nuovi e i diversi, senza distinzione di sangue o di ceto, in un regime politico e in un costume in cui gli individui possano cambiare idea, religione, parte politica. Non è senza significato che la Dichiarazione universale dei diritti umani promossa dalle Nazioni Unite nel 1948 sancisca, all’articolo 18, «la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo». Il proselitismo non è praticabile quando la società sia divisa in caste come nell’India tradizionale; o quando il gruppo sia chiuso, come nell’antica oligarchia delle famiglie patrizie che governò Venezia per secoli; o quando il gruppo si formi per cooptazione, come nei Paesi in cui governa un partito; o ancora quando l’uscita dal gruppo sia impedita o resa difficilissima da sanzioni morali, come la messa al bando, o addirittura da pene materiali, come la condanna a morte per apostasia; o infine dove il territorio, non una scelta di coscienza, determini la fede cui si è votati (cuius regio, eius religio). Basta l’elenco di questi casi negativi a illustrare come, in positivo, il proselitismo sia espressione di indipendenza individuale, di spirito critico. Non troviamo proselitismo dove allignano repressione politica, apatia, agnostica indifferenza, conformismo di gruppo, segmentazione sociale in comunità impenetrabili definite dal sangue o dal territorio. Lo troviamo dove la società è aperta e viva, dove fioriscono passioni e credenze, dove la via della salvezza è aperta a chiunque la voglia imboccare, dove la comunità umana è percepita come una, eppure capace di dividersi e competere. Rimasi sorpreso, anni fa, quando il vescovo cattolico di un Paese non liberale del Nord Africa mi disse: «Noi non miriamo a convertire alcuno e cerchiamo di dissuadere coloro che ci chiedono il battesimo. Le conseguenze potrebbero essere troppo dannose sia per il nostro rapporto con la società locale sia per la stessa esistenza del convertito».

5 Eccessi e perversioni. Come ogni altra espressione della libertà, anche il proselitismo ha i suoi eccessi e le sue perversioni. Consistono nel recare danno a un valore in nome di esso; nel realizzare, in nome di esso, il suo contrario. Non conosco più forte rappresentazione di questa perversione della leggenda «Il Grande Inquisitore» raccontata da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov. Così, sono perversioni le conversioni forzate nella storia del Cristianesimo, ricordate da Emma Fattorini; o quelle dell’Islam. Queste sono perversioni che turbano particolarmente nel Cristianesimo, in quanto religione fondata sulla libertà della coscienza piuttosto che sul vincolo del sangue. Anna Foa lo ha bene spiegato nel suo articolo: «Che la somministrazione del battesimo, in quanto sacramento fondato sulla libera accettazione e sulla fede, non dovesse avvenire sotto costrizione è principio fondante della religione cristiana». La tendenza a imporre, piuttosto che proporre, a vincere anziché a convincere è sempre presente nell’animo umano come una tentazione. È tentazione cui possono cedere singole persone nei comportamenti privati e nei rapporti individuali, oltre che gruppi, istituzioni o governi. L’abuso dell’autorità, l’inganno o la violenza psicologica costituiscono veri crimini morali, difficilissimi da documentare e da reprimere. Gli argomenti del potere mai dovrebbero sostituirsi al potere degli argomenti. Ma si cadrebbe nello stesso errore - negare un valore in nome di esso - se si condannasse il proselitismo in quanto tale in ragione del fatto che esso può degenerare.

6 Maggioranze e minoranze. Non è vero che il proselitismo connoti le maggioranze più delle minoranze. Nelle une e nelle altre ne troviamo la pratica, il rifiuto, le degenerazioni. Un’idea nuova si diffonde per l’impegno attivo - spesso tanto più attivo quanto più l’idea è rivoluzionaria - di minoranze che l’hanno abbracciata e la giudichino degna di essere diffusa. Le maggioranze sono forse inclini all’oppressione più che alla persuasione. Del resto maggioranza e minoranza sono termini relativi. Ceti o gruppi che sono minoritari (si pensi al ceto intellettuale, o a piccoli partiti di tendenza radicale, o a sette e gruppi religiosi) spesso si muovono contro la corrente culturale, politica, religiosa della società in cui si trovano e soffrono di pregiudizi e discriminazioni. Ma, non meno spesso, verso l’individuo che tende ad allontanarsene il gruppo esercita le stesse pressioni morali e le stesse discriminazioni che lamenta di ricevere dalla società circostante. L’oppressione esiste anche dentro le minoranze. Vi sono maggioranze e minoranze anche dentro i gruppi minoritari, siano un sindacato, un gruppo religioso, un ordine professionale o altro ancora. L’ostilità al proselitismo è dunque una malattia delle maggioranze come delle minoranze. Il proselitismo si esercita verso l’individuo, di cui presuppone la libertà. La sua pratica come il suo rifiuto hanno a che vedere con la singola persona e col comportamento sociale, con l’autonomia del singolo entro ognuno dei molteplici e via via più ampi gruppi cui egli appartiene nella società. In una società libera deve esserci libertà anche all’interno dei gruppi minoritari. La legge tutela questa libertà, ma il costume può notevolmente restringerla nei fatti.

7 Proselitismo e società multiculturale. Nel 2001 otto cooperatori - medici, infermieri - furono arrestati dai talebani perché trovati in possesso di Bibbie in arabo e di crocifissi. Erano accusati di «proselitismo», delitto per il quale il regime prevedeva la pena di morte. Commentando l’arresto, l’allora ministro degli Esteri afgano rispose così alla critica di violazione dei diritti umani: «Noi crediamo qui di essere al servizio dei diritti umani, ma vi è una certa differenza nella definizione di questi diritti. Noi crediamo in diritti secondo l’Islam e se qualcuno cerca di imporci la sua definizione di diritti umani, egli commette un triste errore. Perché questo non è il mondo di una sola cultura e una sola religione». Ma il proselitismo (proselito significa, in origine, forestiero, sopravvenuto) è oggi in pericolo anche nelle democrazie dell’Occidente, dove gruppi di immigrati o culture minoritarie chiedono spesso uno statuto di specie protetta. E lo fanno in nome dei due elementi la cui importanza è, secondo Galli della Loggia, cresciuta «per effetto dell’Olocausto»: «la forte valorizzazione positiva della dimensione rappresentata dall’"identità collettiva" e la "centralità della figura della vittima in genere"». Ebbene, credo che occorra percepire tutta la problematicità di questi due elementi e il pericolo insito in essi, sino a quello di una postuma vittoria del nazismo. La nozione stessa di identità collettiva va maneggiata con enorme cautela e consapevolezza dei rischi che nasconde. Dal giudicare come un valore la libertà di coesistenza delle culture (cosa sacrosanta) si passa a giudicare la diversità stessa come un fine in sé (cosa errata); e da questo giudizio si passa quindi alla condanna del proselitismo. Così la libertà uccide se stessa e il multiculturalismo uccide la cultura. Pluralismo significa che le culture hanno cittadinanza in una società di aperto confronto entro regole comuni, regole che assicurino la possibilità del confronto in forme pacifiche. Se invece i gruppi titolari di una «identità collettiva» sono ospiti in un arcipelago dove ogni cultura - ognuna col suo certificato d’origine controllata - è difesa non nel suo diritto di fare proselitismo ma in quello di non riceverlo, ed è garantita contro ogni assalto della persuasione, ciò che risulterà sarà la fine del pluralismo in nome del multiculturalismo. Lo ha spiegato con grande efficacia Giovanni Sartori in Pluralismo, multiculturalismo e estranei (Rizzoli, 2000). Che le culture possano evolvere, confrontarsi, competere, influenzarsi a vicenda, pacificamente tramontare, va accettato come parte integrante del processo storico, tanto più civile quanto più avviene in condizioni di pace. Non vi sono garanzie di immortalità, anzi il rischio di morte è prova e segno di vitalità. Lingue morte, civiltà sepolte; non per questo scompare l’apporto che hanno dato alla storia umana. Non va dimenticato che il privilegio della minoranza è l’anticamera dell’oppressione da parte della maggioranza.


19 gennaio 2005

La donna a cui era stato affidato voleva battezzarlo, ma il Papa, allora giovane prete si rifiutò - «Sono io l'orfano ebreo salvato da Wojtyla»

Alessandra Farkas

Come tanti orfani ebrei della Shoah adottati da genitori cattolici durante la guerra, anche il polacco Stanley Berger sembrava destinato a essere battezzato e a non fare mai più ritorno alla propria fede e cultura. Ma a cambiare il suo già tragico destino fu un giovane prete della natia Cracovia, che si rifiutò di battezzarlo e ordinò ai genitori adottivi di restituirlo al suo ambiente d’origine. Quel sacerdote si chiamava Karol Wojtyla. Questa è una storia che ha rischiato di non essere mai raccontata perché, come tanti sopravvissuti all’Olocausto, anche Berger aveva cercato di seppellire il suo straziante segreto nei meandri più reconditi della propria coscienza. Tutto inizia nell’autunno del 1942, quando Helen e Moses Hiller, genitori di Berger, decisero di affidare il loro unico figlio (che allora si chiamava Shachne e aveva 2 anni) a una coppia cattolica senza figli che viveva nella zona tedesca della cittadina di Dombrowa. «Si chiamavano Yachowitch ed erano amici intimi dei miei» spiega Berger, che dopo anni di silenzio ha deciso di raccontare la sua storia al Corriere della Sera , tra i libri e documenti ingialliti della Shtetl Foundation di New York. Dopo l’irruzione nazista del 28 ottobre nel ghetto di Cracovia, quando migliaia di ebrei furono deportati nel campo di sterminio di Belzec e i malati degli ospedali e 300 bimbi degli orfanotrofi furono uccisi sul posto, gli Hiller si erano decisi ad agire.  «Il 15 novembre mamma era riuscita a portarmi fuori dal ghetto e ad affidarmi ai suoi amici cristiani, insieme a due grandi buste - incalza Berger -. La prima conteneva tutti i suoi oggetti di valore, l’altra tre lettere». La prima era indirizzata ai signori Yachowitch, ai quali dava in consegna il piccolo Shachne, istruendoli di educarlo come ebreo e di restituirlo al suo popolo in caso di morte dei genitori. La seconda lettera era indirizzata allo stesso Shachne: gli spiegava che era stato un amore profondo a indurre mamma e papà a metterlo in salvo presso estranei e gli rivelava le sue origini, augurandosi che crescesse orgoglioso di essere ebreo. La terza lettera, infine, conteneva il testamento di Reizel Wurtzel, madre di Helen, indirizzato alla cognata Jenny Berger a Washington. «Nostro nipote Shachne Hiller, nato il 18 del mese di Av (il penultimo mese del calendario ebraico, ndr ), il 22 agosto del 1940, è stato affidato a brave persone - recita il documento -. Se nessuno di noi farà ritorno, ti prego di prenderlo con te ed educarlo rettamente. Queste sono le mie ultime volontà». Prima di congedarsi dagli Yachowitch, Helen consegnò loro i nomi e indirizzi di parenti - gli Aaron e i Berger - che abitavano a Montreal e a Washington. «Se non faremo ritorno, quando sarà finita questa follia - Helen istruì l’amica - spedisci loro queste lettere».  Il suo tragico presagio doveva avverarsi di lì a poco. Nel marzo del ’43 il ghetto di Cracovia fu liquidato. La città col primo insediamento di ebrei sul suolo polacco, risalente al XIII secolo, venne dichiarata Judenrein («libera da ebrei») e anche il destino dei genitori del piccolo Shachne si consumò poco dopo nei forni crematori di Auschwitz. Nello stesso periodo, anche gli Yachowitch dovettero fare i conti con la loro rischiosissima scelta. «Dal ’42 al ’45 eravamo costantemente in fuga, da una casa all’altra e da una città a un nuovo villaggio - rievoca Berger -. Molti polacchi ostili e antisemiti sospettavano, dal mio aspetto, che fossi ebreo e se ci avessero denunciati i miei genitori adottivi rischiavano la morte».
Un giorno, mentre si nascondevano in un silos, il piccolo riuscì a spiare, dalle crepe nelle pareti, due agenti della Gestapo che facevano razzia nella fattoria accanto, in cerca di ebrei. «Ero talmente paralizzato dalla paura che trattenni il respiro - rievoca -. Mia "madre" mi strinse forte al petto e riuscimmo a superare anche quell’ennesimo incubo». Sì, perché, nel frattempo, la signora Yachowitch si era affezionata tantissimo al bimbo e lo considerava come un figlio. E così pure suo marito che, nonostante fosse alcolizzato, non gli usò mai il minimo sgarbo o violenza. «Dopo la fine della guerra andavamo tutte le domeniche alla messa insieme - rievoca Berger - io non avevo la più pallida idea di essere ebreo e avevo imparato a memoria tutti gli inni cattolici». Quell’amore materno, incondizionato ed eccessivo, di una donna che nonostante mille tentativi non era mai riuscita ad avere figli, si rivelò ancora più forte dell’amicizia. La Yachowitch dimenticò ben presto le promesse fatte a Helen e decise di far battezzare il bimbo, che voleva adottare ufficialmente e trasformare in un buon cattolico. Andò da un giovane prete della sua parrocchia, ordinato da poco ma già con una reputazione di uomo saggio e giusto, e gli rivelò il terribile segreto sulla vera identità del piccolo e sul tragico destino dei suoi genitori. «Mamma, come la chiamavo allora, espresse il desiderio di farmi battezzare - spiega Berger - affinché potessi diventare un cattolico vero e devoto come lei». Il giovane parroco ascoltò con attenzione la donna e quando ebbe finito il suo racconto le domandò: «Qual era il desiderio dei genitori, quando affidarono il loro unico figlio a te e a tuo marito?». Quando la Yachowitch rivelò il contenuto del testamento, il giovane prete si rifiutò di eseguire la cerimonia. «Questo avveniva nel ’46 - spiega la professoressa Yaffa Eliach, storica e scrittrice, nonché fondatrice della Shtetl Foundation e una delle massime esperte mondiali di cultura ebraica - quando dal Vaticano giungevano indicazioni ben diverse per la sorte dei tantissimi orfani ebrei battezzati, che sono vissuti e morti senza mai conoscere le proprie origini, il futuro Papa ebbe il coraggio di dire no». La Eliach è stata la prima a rivelare al mondo la storia di Berger. Che ha dato poi il via alla grande e inedita branca di studi che approfondiscono ciò che la Eliach definisce «lo straordinario filosemitismo di Wojtyla: il miglior amico degli ebrei negli ultimi duemila anni». Grazie al rigore morale del futuro Papa, il piccolo Shachne poté intanto partire per il Nord America, dove l’aspettavano i parenti materni. «Non fu un’impresa facile - racconta Berger -. La legge polacca proibiva agli orfani di lasciare il Paese e le norme sull’emigrazione canadesi e statunitensi non mi concedevano il visto. Così fui palleggiato per altri tre anni da un parente all’altro. Imparai a non affezionarmi mai ai posti e alle persone. Perché niente durava più di sei mesi». Alla fine, nel 1949, il Consiglio ebraico canadese riuscì a ottenere dal governo di Ottawa il permesso di fare entrare nel Paese 1.210 orfani. Tra questi c’era Shachne, l’unico polacco. Il 3 luglio del ’49, il transatlantico «Batory» getta l’ancora nel porto di New York. Dalla cabina numero 228, in prima classe, emerge il piccolo che non ha ancora compiuto nove anni e ignora ancora di essere ebreo. «Da questo momento in poi la mia odissea si è fatta ancora più rocambolesca. Senza visto americano fui costretto ad andare a vivere dalla zia Aaron a Montreal. Ma quando suo marito morì di cancro, finii in orfanotrofio e poi a casa di ricchissimi industriali, i Kertz, che mi ospitarono in attesa dei visto Usa». Il 19 dicembre del ’50, dopo due anni di pressioni da parte di Jenny Berger, il presidente americano Harry Truman firmò un decreto speciale che assegnava Shachne Hiller ai Berger. «Erano passati più di otto anni da quando, nel ghetto di Cracovia, mia nonna aveva scritto il testamento. Alla fine il suo desiderio si era realizzato». Ma il giovane Shachne, che nel frattempo si era educato nelle migliori università ebraiche americane ed era diventato un ebreo osservante, marito devoto e padre di due gemelli, ignorava ancora un piccolo, grande dettaglio della sua storia. A rivelarglielo, nell’ottobre del ’78, fu la signora Yachowitch, con cui era rimasto in rapporti epistolari. «Per la prima volta, mi rivelava che aveva cercato di battezzarmi ed educarmi come cattolico. Ma che era stata fermata da un giovane prete, futuro cardinale di Cracovia, Karol Wojtyla, da poco eletto Papa». Quando il rabbino capo di Bluzhov, rabbi Israel Spira, apprese dalla professoressa Eliach questa storia, disse: «Le vie di Dio sono misteriose, meravigliose, sconosciute agli uomini. Forse è stato il merito di aver salvato quell’anima ebrea che lo ha condotto a essere Papa. È una storia che deve essere raccontata».
 

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