Racconti

Tres carrus de canna


Eravamo ormai alla fine di luglio del 1949 e il semestre appena trascorso aveva dato poche soddisfazioni economiche a noi carradoris. Ma vai a cercare quale poteva essere la stagione più propizia: d'inverno, se pioveva a lungo, non potevamo entrare nei campi per arare; se poi la primavera era siccitosa, anche il raccolto era magro e poche le giornate lavorative del contadino. Quell'anno ci furono tutte quelle concomitanze negative e il guadagno fu davvero scarso; tuttavia mi diedi sempre da fare e, pur nelle ristrettezze, alla famiglia non mancò il necessario: il mio carro fu impegnato con diversi viaggi di letame dal paese fino ai giardini, di ladri dalle cave di ziu Bissenti e di ziu Luiginu Masala, di calce dalle fornaci di ziu Erminiu Sanna e di legna per la provvista invernale.
In Agosto, finita la trebbiatura, si presentavano poche occasioni di lavoro, ma quel mese è sempre stato conosciuto per il riposo degli addetti ai lavori agricoli.
Cercai comunque di darmi da fare per non stare inoperoso fino a sa binnenna, quando, liberando il carro da is cubas , avrei utilizzato tutto il piano di carico col grande tino ovale, che di solito avevo in prestito da Giovanni Piras dopo la vendemmia del suo pregiato cannonau di Fighezia.
In quel caldo agosto era in corso il taglio delle canne palustri degli argini del Rio Mannu ad opera dell'impresa Linzani del Basso Sulcis; ma anche i proprietari fluminesi, con un ritmo meno intenso, stavano effettuando lo stesso lavoro lungo le siepi dei loro giardini.

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Negli spiazzi lungo la strada per Buggerru, a partire dal ponte di ziu Luisu Sanna fino a su Pont'e Fenoli , quasi fossero accampamenti indiani, si notavano i grandi coni delle canne selezionate e su quelle mi venne un'idea: mi sarei trasformato in commerciante, organizzando un convoglio di carri per trasportare e vendere nel Campidano quel prodotto spontaneo della nostra valle. Anni prima era capitato ad altri carradoris di venderne molte nei dintorni di San Gavino e di Sanluri.
Il prodotto del nostro alveo fluviale era di buona qualità e si prestava a varie utilizzazioni, dalle lossias ai vari cannicci per l'edilizia, in particolare per cannizzadas e bovidas . Perché non cercare di guadagnare qualcosa nella lontana pianura, ripetendo l'esperienza fatta dai nostri amici?
A Flumini le canne si compravano a 1 lira e 25 centesimi l'una e un carro ne poteva trasportare 2500. Rivendute a 5 lire, ci avrebbero assicurato un discreto guadagno. Era capitato che qualcuno avesse spuntato 7 lire e 50 centesimi, perciò il guadagno era allettante. Con 3 carri da 2500 canne ciascuno i conti erano belli e fatti: 7500 canne, vendute a 7 lire e 50 centesimi l'una, avrebbero dato una bella somma. Conveniva davvero arrivare fino a Seddori e se era il caso anche più in là, fino a Mogoro!
Non mi fu difficile trovare due soci: uno lo avevo in famiglia, mio cugino Salvatore Garau, che accettò subito; l'altro era l'amico Severino Demontis, che aveva necessità anche lui di guadagnare qualche lira, perciò non ebbi bisogno di fargli grandi discorsi perché condividesse l'avventura.
Non programmammo un itinerario preciso e non ci fu bisogno di studiare orari e tappe nei particolari, perché bastò citare il nome di qualche paese per fissare nella nostra mente il percorso e le località da visitare.

Io comprai ottime canne da Emilio Frau a Is Ortus de su cadru, Salvatore e Severino dai fratelli Sanna, a Riu Sessini. Caricammo i carri la domenica pomeriggio, appena dopo la festa di Santa Maria, e tutto fu pronto per partire il lunedì alla conquista del Campidano.
Ognuno di noi riempì la bisaccia con le provviste di pane soffice, formaggio, lardo, olive in salamoia e qualche sardina sotto sale: erano le poche derrate che potevano offrirci le povere dispense delle nostre case.
Severino portò con sé due figli, mi pare Giuanniccheddu e Arrichetteddu, i quali dovevano cominciare presto ad apprendere la professione di carradori con tutte le regole del commercio, perché, secondo lui, un buon padre aveva il dovere di insegnare un mestiere alla prole. Non è che Severino non ragionasse bene, ma io credo che i figli se li fosse portati dietro per dare meno lavoro alla moglie Maria Luigia, che a casa ne aveva altri a cui badare e soprattutto da sfamare.

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Povero Severino! Altro che insegnare il mestiere di carradori ai suoi bambini! Una decina d'anni dopo, anche lui, come altre centinaia di fluminesi, fu avvinto dal fascino dell'emigrazione verso il Continente, ma forse è meglio dire che fu la povertà che dilagava in paese a fargli attraversare il mare. E fu la ricca Lombardia ad accoglierlo con tutta la famiglia.
Quindi non più is odriagus e su strumbu a dare ordini a su jù e a su carru ma, in un ambiente industriale e con altri ritmi di lavoro, i Demontis ebbero a manovrare insoliti macchinari con nuovi compagni.
Torniamo a casa nostra, alla valle del Rio Mannu.
Alle quattro del mattino iniziammo la nostra avventura: poca strada in piano e subito la salita di Nieddoris, che i nostri buoi, con quel carico poco pesante, fecero tutto d'un fiato.

La sosta, come prescritto nei viaggi verso quella direzione, si fece a Cuccuru de Cabi, alla fine dell'altopiano di Bidderdi. Slegammo gli animali e Teniddu a notu assieme a De chini t'arrisi, così si chiamavano i miei buoi, poterono riposare brucando erba secca lungo le cunette della strada; la stessa cosa fecero i buoi dei compagni.
Due ore furono sufficienti per rinfrancarci e poco dopo fummo ad Arbus e poi a Guspini; ma nessuna vendita venne fatta in quei paesi, che non costituivano una piazza adatta per lasciarvi la nostra merce.
Passammo dritti al bivio di Pabillonis perché la meta era San Nicolò Arcidano, ma ci fermammo prima, nell'area vicino al ponte. A dire il vero non avevamo la necessità di far riposare le nostre gambe, perché, tranne i centri abitati e la salita, potevamo viaggiare seduti o distesi sulle canne. In pianura, stando sull'alto carico, sembravamo di vedetta e vincevamo la monotonia del lento procedere, osservando l'ambiente circostante popolato dalle pecore che si cibavano di stoppie e facevamo qualche considerazione sui quei pastori fluminesi, i quali, quando da noi scarseggiava l'erba, tansumavano nell'agro guspinese perché il loro gregge si cibasse qualche settimana cun cussa stua .
Ad Arcidano speravamo di liberarci almeno di una parte delle canne; invece anche lì, nonostante i nostri buoi circolassero a lungo con quel carico ingombrante, nessuno mostrò attenzione per il nostro prodotto.
Subito dopo fummo ad Uras, paese agricolo e produttore di vino, ma neanche lì incontrammo una persona interessata alle nostre canne e ognuno di noi faceva la stessa considerazione: "Innoi non si binti mestus de muru traballendu. Parridi chi nemusu depada furriai pati a sa domu innantisi de cabai s'ierru!" Lì non avevamo visto muratori all'opera; non c'era proprio nessuno che dovesse rifare il tetto della propria casa prima dell'inverno?

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Quella gente era davvero imprevidente a non profittare dell'occasione offerta da noi che portavamo le belle canne fino all'uscio della loro casa!
Qualcuno aveva chiesto il prezzo della nostra merce, ma solo per curiosità. Dall'approccio si vedeva che non c'era alcun interesse per una trattativa seria. Altri spendevano qualche parola in più, ma soltanto per piccole curiosità: "De abì beneisi?" E, sentito da dove venivamo, aggiungevano: "E su tali ddu conosceisi? " Talvolta seguivano altre domande di approfondimento sulla persona chiamata in causa.
Ora la speranza era Mogoro, che raggiungemmo all'imbrunire di martedì; sostammo però alla periferia per passarvi la notte, già pregustando il suo buon vino, ma solo se fossero andati bene gli affari! Anche i buoi, liberati dal giogo, trovarono ristoro ai margini della strada. "Speriamo di trovare qualche acquirente in questo ricco paese", pensavamo preoccupati e, in attesa del sonno, guardavamo il cielo stellato, accovacciati vicino ai carri; ma l'ansia era pressante perché ormai si delineava il fallimento della nostra spedizione.
Anche lì, dove avevamo riposto tante speranze, il carico rimase intatto: non una canna alleggerì i carri. I buoi, pazienti e ignari delle nostre ansie, continuavano a percorrere le strade de su Prãu.
Mercoledì mattina aggiogammo le bestie e via per Masullas, che attraversammo senza alcun utile. A tarda sera eccoci a Gonnoscodina: altra sosta, necessaria più per i buoi che per noi.
Il viaggio aveva ormai tutte le caratteristiche dell'insuccesso e la preoccupazione non era per il lungo impegno in quel viaggio infruttuoso, sul guadagno potevamo sorvolare, ma perché avevamo sulla gobba il costo delle canne pagate in anticipo.


Giovedì partenza per Gonnostramatza e per Forru , che fu raggiunto nella mattinata di venerdì. Passammo all'interno di quei villaggi con la speranza che qualcuno ci degnasse di attenzione. In quelle strade non notammo alcuna traccia di muratore o di manovale che fosse all'opera in qualche casa.
Ormai era svanita ogni speranza di incassare qualche lira ed eravamo sulla via del ritorno.
Che fare? Se fossimo giunti a Guspini col carico intatto, avremmo cercato un'area adatta dove scaricare l'infruttuoso bagaglio per dargli fuoco, se il clima ce lo avesse consentito. Avremmo così evitato di riportare le canne in paese, dove ce n'erano già tante e non potevamo sperare di restituirle a chi ce le aveva vendute! Invece Collinas fu per noi il paese fortunato, perché inaspettatamente trovammo il compratore. E non del carico di un solo carro, ma di tutti e tre!
"Chenz'e dinai, ma scéti trigu e lori", ci disse un uomo anziano, dopo aver osservato e valutato la nostra merce. Dunque solo un baratto, niente denaro. Noi gli avremmo dato tutte le canne e lui grano e legumi! Quasi increduli ci guardammo in faccia e i nostri occhi brillarono di gioia.
Quale sarebbe stato il vostro comportamento se foste stati al nostro posto? Avreste insistito per avere almeno una parte in denaro? Era opportuno rischiare che l'affare fallisse chiedendo modifiche all'offerta? Neanche per sogno. Anche i figlioli che Severino si era portato dietro per fare scuola di commercio sembravano felici!
Dopo aver girovagato nel Campidano per una settimana, non era proprio il caso di perdere altro tempo: bisognava accettare quell'offerta e concludere l'affare. L'unica cosa che ci venne da dire, ma solo per pronunciare qualche parola, fu: "Ma come facciamo? Non abbiamo sacchi vuoti per sistemare le granaglie!"

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"Non preoccupatevi, disse l'acquirente, i sacchi ve li do io e ve ne regalo uno pieno di fave ed anche un po' di ceci"!
Lo scambio fu di dexi mois de trigu e de lori po dogna carru, dieci starelli di grano e fave per ciascun carro di canne.
Scaricammo la nostra merce nel cortile della casa, poi accostammo i veicoli ad un magazzino. In men che non si dica, prima che ci fosse qualche ripensamento sul baratto, riempimmo i sacchi.
Anche Giuanniccheddu e Arricchetteddu si adoperarono in quel lavoro, tenendo aperta la bocca dei recipienti per facilitarne il riempimento.
Quel proprietario fu davvero generoso, perché, oltre ad averci offerto da mangiare e da bere, mentre ci stavamo preparando per la partenza, ci disse: "All'uscita da Forru vedrete un campo con un grande mucchio di paglia, sciogliete i buoi e datene da mangiare a loro e riempitene quanta ne volete per il viaggio. Lì vicino troverete un piccolo abbeveratoio dove dissetare le bestie, ma attenti che non arrechino danni al mio orto!"
Riposammo per una parte della notte e a chizzi, di buon mattino, riprendemmo il viaggio per Flumini. Lungo strada ricevemmo in dono un bel po' di uva: merito di Severino, che, fermato il carro di fronte ad alcuni vendemmiatori, ebbe il coraggio di chiedere ûa pariga de scrichillõis po is piccioccheddus, ca disigiant: solo qualche racimolo per i bambini che desiderano tutto, disse Severino, ma ne mangiammo tutti in abbondanza!
A casa, dove già c'era qualche preoccupazione per il nostro insolito ritardo, giungemmo che era buio.
Quando arrivarono l'autunno e l'inverno, i nostri campi e quelli di qualche amico ebbero grano, fave e ceci per la semina e nella mangiatoia del nostro bestiame non mancò mai una buona razione di granaglie.


Anche dalle nostre pentole si scodellò con frequenza lori bellu a coi de su Prãu .
Sono sicuro che voi volete sapere se dopo quell'avventura io abbia tentato ancora di commerciare canne. Ebbene si, rischiai altre volte, sempre nel Campidano e con nuovi soci, con ziu Francischeddu Pinna, con Franceschinu Concas e col figlio Peppinu, che, non possedendo un carro suo, ne prendeva uno a nolo. Talvolta il trasporto avveniva su ordinazione, quindi con un guadagno sicuro, altre volte alla pari, pur di rientrare nelle spese. Ma quella era la vita di noi carradoris!

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Is crapittas ferradas

Vidi per la prima volta Cagliari nel gennaio del 1932 ed avevo appena compiuto sei anni. Non vi andai per un viaggio di piacere, ma per le esigenze economiche della famiglia, che, dopo la morte di mio padre, era rimasta senza mezzi di sussistenza.
Benché sofferente per le ferite della Prima Guerra Mondiale, non essendogli stata riconosciuta alcuna pensione, mio padre Angelo aveva cercato lavoro ad Ingurtosu; ma il duro operare nelle gallerie malsane di quella miniera non fece che indebolire ulteriormente il suo organismo, affrettando la sua morte. Babbo morì giovane, alla fine del 1931, aveva solo trentacinque anni.
Così, come capitava nelle case dove scarseggiavano o non esistevano risorse economiche, fu mia madre a rimboccarsi le maniche per mandare avanti la famiglia.
Mamma Desolina si impiegò a Cagliari in un opificio di via Iglesias dove si macinava e si insaccava il sale marino. In via Pessina, allora periferia della città, affittammo un minuscolo appartamento senza comodità, appena sufficiente per accogliere me, mia sorella Maria, mamma e zia Pasquina, mentre mia sorella Luigina era rimasta a Flumini dai nonni.
Prima di allora io non ero mai uscito dal paese e per andare in città, come si usava un tempo, fui tutto vestito di nuovo: giacchetta e pantaloni corti, corti si fa per dire, perché la lunghezza della loro gamba andava oltre il ginocchio e ciò perché l'indumento mi durasse qualche anno.
Ebbi anche un paio di scarpe nuove, che io stesso ritirai dalla bottega del calzolaio: due belle polacchine che maistu Francischeddu Fidalis aveva confezionato con morbida vacchetta di Bosa e robuste suole di cuoio, ferrate con chiodi rigati perché durassero più a lungo, ma che in realtà non fecero che appesantire la calzatura.

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A dire il vero quella chiodatura si usava per le scarpe di un adulto, non per quelle di un bambino, alle quali meglio si addicevano le bomberine, i chiodi lisci, leggeri e bombati.
Lo stesso ziu Francischeddu, legando insieme le scarpe perché non mi cadessero, me le aveva messe a tracolla, dicendomi: "Là, Peppucceddu, crapittasa bellasa e fotisi cument'e custas in Casteddu non dd'anti biu mai!"
Mia madre volle che io le calzassi subito e cominciassi ad usarle a Flumini, perché, circolando in paese, si sarebbero ammorbidite e adattate meglio ai miei piedi che non avrebbero subito abrasioni percorrendo le strade della città.
Non ricordo l'impatto che ebbi nel giungere a Cagliari, ma ho presente la confusione che regnava nella zona del porto per il viavai dei tram e dei carri.
Come trascorrevo le lunghe giornate cittadine lontano dalle abitudini del mio paese? In tasca non avevo né soddus, né arriabis per soddisfare i desideri di gola alla vista de is pastas de latti; ma, credetemi, la maggior parte dei bambini del tempo si accontentava solo del bel profumo che scaturiva dalle pasticcerie!
Le mie amicizie con i coetanei cagliaritani erano poche, mentre ne avevo molte fra gli operai fluminesi, quasi tutti manovali e carrettieri impegnati in una cava di pietre nelle vicinanze del colle di Bonaria.
In particolare strinsi amicizia con ziu Srabadoricu Scriãu, meri de cuaddu e carrettõi , impegnato nel trasporto delle pietre per le banchine del porto. Ero sempre con lui, mattina e
pomeriggio, andendu e benendu, avatu de su carrettõi, candu fudi carriau de pedra, e in pizzusu candu fudi sbuidu! Il tempo trascorreva veloce, stando dentro o dietro il carro: assieme a ziu Srabadoi mi sentivo davvero importante!

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E i miei doveri verso la scuola?
A Flumini avevo frequentato per pochi mesi la prima classe di signorina Peppina Valvo , ma a Cagliari, per quell'anno, di scuola non si parlò più. Però posso dirvi che dovetti trascorrere qualche mese nell'orfanotrofio del Buon Pastore e in quello di Giorgino, perché, ammalatasi gravemente mia madre, durante la sua degenza ospedaliera mia zia pensò bene, data la mia irrequietezza, di affidarmi alle cure di quei due istituti per l'infanzia.
Lì il mio soggiorno non fu felice, anzi, lo definirei tormentato: fu un continuo evadere per riguadagnare la libertà e sfuggire alla disciplina di quei collegi, insopportabili per me, bambino ribelle per natura.
Ma torniamo alle amicizie dei miei coetanei, che erano occasionali e legate all'uso saltuario del tram, non all'interno della carrozza come viaggiatore munito del prescritto biglietto, ma come passeggero abusivo, aggrappato e seduto sui respingenti della carrozza assieme ad altri ragazzi, i cui nomi quasi sempre mi rimanevano sconosciuti.
Ricordo che una volta, in quella posizione tanto scomoda, riuscii a percorrere la via Sonnino e la via Roma fino alla stazione delle ferrovie. E non vi dico quante volte sono caduto nel discendere frettolosamente da quel sedile proibito e pericoloso, pestandomi muso e ginocchia.
Era poi difficile giustificare davanti ai famigliari le sanguinanti abrasioni del mio corpo.
Oltre ai rimproveri di mamma, che, assente da casa tutto il giorno, sarebbe stata ben felice di non farmene, avevo quelli di zia, che mai mi difendeva o si schierava dalla mia parte; anzi era sempre pronta ad accusarmi per le mie birichinate e per le mie disubbidienze: zia Pasquina sembrava messa lì solo per controllare e per non lasciarne passare una liscia.


Una mia incombenza quotidiana al servizio della famiglia era l'acquisto di un litro di latte presso la latteria centrale, che era vicino al porto, quindi molto distante da casa. Ebbene io non percorrevo mai scorciatoie, anzi allungavo volutamente il percorso. E sapete perché? Mi interessava passare in via Sonnino davanti alla Legione dei Carabinieri perché lì c'era una grande attrazione, la sentinella armata di moschetto.
Quel carabiniere, che continuamente scattava sull'attenti per salutare chi entrava e chi usciva dal portone del Comando, esercitava su di me un grande fascino e rimanevo lì incantato e potevo rimanerci a mio piacimento!
Vi dicevo prima delle abrasioni della mia pelle causate dai viaggi in tram, ma molte di più erano le escoriazioni dovute agli scivoloni continui nelle strade cittadine, selciate e lastricate, belle per le scarpe dei cagliaritani, non adatte al calpestio delle polacchine fluminesi, irrobustite dai chiodi rigati che tardavano a consumarsi.
Ma un giorno, ahimè, la vantata opera di maistu Francischeddu me la combinò bella: proprio nella via Sonnino, dove passavo per godere del saluto militare, al rientro dalla latteria, quindi con la bottiglia piena di latte, le mirabili e pesanti scarpe mi fecero ruzzolare, mandandomi gambe all'aria.
E il guaio fu che la mia bottiglia andò in frantumi, sprizzando cocci di vetro e bianco latte in ogni dove.
Vedendo quel disastro, mi appoggiai piangendo vicino ad un portone. Ero proprio sconsolato. Pensavo alle ire di zia Pasquina quando mi avesse visto rincasare senza latte e senza denaro e alla punizione di mamma al rientro dalla raffineria.
Il danno era grande. Altre volte ero caduto, rompendo la bottiglia vuota. E le avevo buscate. Ma questa volta la punizione sarebbe stata più grave perché era andato perduto anche un litro di costoso latte, che bisognava ricomprare e io non avevo né soldi, né bottiglia.

 

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Nel pensare a tutto questo il mio pianto si rinvigoriva, le lacrime scendevano copiose lungo le mie guance e non smettevo di stropicciarmi gli occhi e di ripulirmi col dorso della mano il moccio che gocciolava abbondante.
Mentre ero lì, afflitto, piangente e sconsolato, ecco avvicinarsi una signora che sicuramente aveva assistito al mio ruzzolone dagli effetti evidenti. Mi lisciò i capelli e, rivolgendomi parole di consolazione, cercò di alleviare le mie pene; ma io al suo gesto consolatorio rispondevo intensificando il pianto. La signora mi indirizzò ancora parole dolci e amorevoli, di quelle che mai, prima di allora, mi erano state rivolte da qualcuno. E mi sentii davvero confortato e consolato. Quando mi vide rasserenato, mi pregò di attendere qualche istante e si ripresentò porgendomi una bottiglia vuota e una pagnotta con buon companatico. Ma ciò non bastò, perché mi diede anche qualche moneta, il tanto per ricomprare il latte. E quella fu la cosa che cancellò ogni mia preoccupazione!
Non ricordo quali parole avesse aggiunto la mia benefattrice, né se io ne avessi proferito qualcuna per ringraziarla; ma una cosa ricordo bene: per non incorrere in altri ruzzoloni, mi tolsi subito le diaboliche polacchine e le legai insieme, appendendomele al collo, così come mi aveva insegnato mestu Fidalis il giorno della consegna.
Scalzo, senza paura di inciampare o di scivolare, lebiu che pilloneddu, leggero come un uccellino, in poco tempo ritornai alla centrale per rifornirmi di latte.
Rincasai con la bevanda quotidiana senza dir nulla dell'accaduto, cosa che però rivelai qualche giorno dopo.
Vi confesso che ancora oggi, passando in via Sonnino, anche se molte cose sono cambiate nella città di Cagliari, a cominciare dalla scomparsa del tram e della scattante sentinella della Benemerita, rivedo e ricordo piacevolmente la scena di Peppucceddu piangente e il dolce volto della donna consolatrice.

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Sa manta de is sodraus

Un fuoristrada della Nato, carico di soldati, mi passa davanti mentre sto per entrare al bar in compagnia di Nino Coni e di Giovanni Zanda. Ci sediamo attorno al tavolino e, mentre gustiamo uno dei tanti caffè della mattinata, si unisce a noi Antonino Tiddia, che è lì per la giocata della schedina. Guardo gli amici e, sorridendo, mi rivolgo a loro: "Avete visto quel fuoristrada militare? Sembrava proprio la camionetta tedesca che durante la guerra si era fermata davanti all'ufficio postale di signora Letizia. Vi ricordate che cosa avevate combinato a quei soldati? Sappiate che mi avevate fatto passare un bel po' di paura! Ma cercate di fare un sforzo di memoria."
Il richiamo all'auto dei militari tedeschi non poteva non suscitare antichi ricordi su un fatto capitato all'inizio del 1943, quando l'Ufficio Postale era in su bixiãu de cresia, appena sotto lo spiazzo de is domus sciusciadas, allora dedicato al ministro Italo Balbo . Immagino che pochi ricordino quell'intestazione, che durò poco, perché, appena caduto il Fascismo, la targa toponomastica fu smantellata.
Quell'area , dove si faceva il grande falò di Sant'Antõi de su fogu, era il punto di raccolta dei ragazzi del vicinato, e non solo, perché c'era lo spazio per giocare al calcio. Lì però non ho mai visto un bel pallone, perché nessuno lo possedeva e al suo posto c'era una palla di gomma, sempre sgonfia, o una di stracci, che, se si inzuppava d'acqua, era difficile da lanciare o da far rotolare; ma per noi andava bene anche così. Qualcuno si ritagliava spazi per giocare a luna monta, a dinai, a buttõis e, se era la stagione giusta, a badrunfula, spesso invadendo, non senza proteste, il territorio del calcio.

E io cosa facevo? Quel poco che poteva un bambino di cinque anni, il raccattapalle quando la palla, che di sfera sapeva poco, rotolava nelle strade sottostanti, se non si affrettavano altri più veloci o che, per età, contavano più di me. Ma io a is prazzas sciusciadas avevo diritto di restare e nessuno me lo contestava, perché lo spiazzo era nel mio vicinato. Se qualcuno accennava a sfrattarmi, c'erano i miei cugini, Franco, Renzo, Eliano, tutti più anziani di me, a far valere il mio diritto, non scritto da nessuna parte, ma riconosciuto!
Che piacere trovavamo noi bambini a stare lì tutta la giornata? Se non eravamo impegnati a mangiucchiare foglie di cicoria, di lisporra, di ambuazza, o qualche stelo di caraganzu, tutte erbe spontanee della scarpata di quell'area, osservavamo gli amici bravi nel palleggio, nel far zumiai e anninniai la trottola o nell'ampuai le monete: si, per noi ragazzi denotava abilità far sibilare, tenere la trottola in movimento nel palmo della mano e perfino sull'unghia del pollice, o lanciare in alto le monete con un certo garbo. Ma sentivamo anche le imprecazioni, le parolacce e le bestemmie di chi perdeva al gioco o si infortunava le dita dei piedi scalzi nel calciare la palla. Erano parole da non ripetere mai, così ci ammonivano i genitori, i quali avrebbero preferito che non si andasse dove c'erano ragazzi di età superiore alla nostra.
Altri posti dove potessimo passare il tempo non ce n'erano. E i bambini della mia età erano sempre affidati al fratello maggiore, che ne assumeva la tutela; ma io non avevo fratelli e allora subentravano i cugini. Ma torniamo ai tedeschi.
Quel giorno, mentre eravamo impegnati nel gioco, vedemmo una camionetta militare fermarsi vicino alla posta; i tre occupanti scesero ed entrarono nell'ufficio per telefonare o per fare un telegramma.
Io osservai attentamente stando sul ciglio del piazzale, mentre altri ragazzi, incuriositi, si avvicinarono all'insolito mezzo privo di sorveglianza e, accerchiandolo, cominciarono a toccare le leve, il volante e altro, ma soprattutto altro.
Torniamo al bar. "Naraimì, piccioccus, chiedo agli amici, cumenti esti andada a finì sa storia de is mantas chi fiant in sa macchina de is sodraus tedescus? Parlatemi di quella bravata, perché io vidi la scena, ma non ricordo i particolari. Da lontano seguii il vostro percorso fino al piazzale di chiesa e quel fatto, anche se sono passati quasi sessant'anni, mi è sempre rimasto nella memoria."
Interviene Nino Coni: "E' accaduto che, a forza di toccare e lisciare la macchina e il suo carico, due coperte scivolarono a terra e qualcuno si chinò per raccoglierle. Secondo me sarebbe stato giusto rimetterle sulla campagnola, invece non fu così."
Antonino Tiddia, altro abitante del vicinato e membro della combriccola, aggiunge un altro tassello alla storia: "Si, raccogliemmo subito le coperte. Che fare? Qualcuno propose di portarle via e di nasconderle. Ma dove? Bisognava fare in fretta, prima che uscissero i tedeschi dalla posta. Non ricordo chi, ma uno suggerì: " Ninu potada in busciacca sa crai de su campanibi!" E la chiave custodita nelle tasche di Nino fu la soluzione del problema! Le coperte non si potevano portare a casa, perché le mamme non lo avrebbero consentito, né si potevano nascondere in qualche siepe vicina, perché le avrebbe portate via qualche passante. Quale nascondiglio poteva essere migliore del campanile? Il problema era il campanaro!
Nino, che sorseggia la solita acqua minerale, accenna ad un sorriso e aggiunge: "Si, è vero, io avevo in tasca la chiave del campanile, ma per andare a suonare le campane, non per nascondere le coperte. All'insistenza degli amici, e non c'era tempo da perdere, mi lasciai convincere di mettere a disposizione quel nascondiglio, ma voi non immaginate quanti giorni di paura ho passato. Quando vedevo i carabinieri vicino
alla chiesa, la caserma era lì di fronte, mi sembrava sempre che mi seguissero mentre salivo lassù!"

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Così le coperte giallognole dell'esercito di Hitler trovarono rifugio momentaneo vicino alle nostre campane!
Rivolgendosi a me, Giovanni Zanda, anche lui interessato al fatto, prende la parola: "Non vi ricordate che c'ero anch'io quel giorno? Non giocavo a palla, precisa, ma con la trottola o forse a soldi. Anch'io, assieme agli altri, mi avvicinai alla macchina e, agendo da solo, scelsi e presi la mia parte e voi, intenti ad altro, non vi siete accorti! E tui, Brunu, abì fusti?"
Non era facile tenere a mente la presenza di tante persone, poi lui apparteneva ad un altro rione. "Io ero troppo piccolo per prende parte a quell'operazione, pensa che non andavo ancora a scuola, dissi rispondendo a Giovanni, e voi non volevate pippieddus in mesu de is peis: avere i bambini fra i piedi era un disturbo; ma, stando nel piazzale, vidi la scena, però non ricordavo che quel giorno fossi lì anche tu, né me lo disse mai qualcuno!"
Giovanni continua a rievocare i fatti, aggiungendo particolari inediti sulla sua azione: "Sul volante del fuoristrada avevo adocchiato un cinturone, di quelli lunghi e larghi, e fu tutt'uno vederlo, afferrarlo e portarlo via. In un attimo, passando vicino alla casa di Antonino, fui nel cortile di ziu Antiogu Congia Giladru e, evitando le scabereddas, mi ritrovai nello stradone. La mia casa era a poche decine di metri e nascosi il pregiato cuoio in giardino. Come se nulla fosse avvenuto, tornai alla posta, ma non c'era più nessuno, né i ragazzi, né l'automobile."
Ecco che entra nel bar Tore Diana, il quale, sentendo la storia, precisa: "Quel giorno fui io ad avvicinarmi alla macchina militare, non mio fratello!" Nino e Antonino rispondono a Tore e a Giovanni Zanda: "Eravamo convinti che ci fosse tuo fratello, che spesso veniva a giocare con noi, anche se quello spiazzo lo frequentavi anche tu.

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Quando fummo nel campanile, il posto più adatto ci sembrò la cella dell'orologio che si chiudeva come un armadio e lì nascondemmo le coperte.
Scendemmo solo dopo che se n'erano andati i militari, perché dal piano più alto, quello delle campane, seguimmo la loro partenza e ci sembrò che non si fossero accorti di nulla. Così ognuno tornò a casa sua, cercando di non suscitare sospetti!"
"Del furto si erano accorti, eccome, interviene ancora Giovanni, i soldati tedeschi tornarono poco dopo, si guardarono intorno e fecero domande alle persone che erano lì vicino. Anche da me vollero sapere se avevo visto qualcuno con la loro roba."
Probabilmente fu la mancanza del cinturone, prima delle altre cose, a segnalare ai soldati il saccheggio dell'auto.
Io, che in quel tempo abitavo a pochi metri dalla posta e che avevo visto anche il ritorno della campagnola, confermo quanto detto da Giovanni Zanda e aggiungo: "Voi non immaginate quanta paura, anzi quanto terrore mi era venuto alla vista di quei militari armati di pistoloni, che a me sembravano ben più grandi di quanto in realtà non lo fossero. I tedeschi, anche se non ancora perdenti, godevano di una brutta fama! Su quel fatto non mi scappò mai una parola con i miei famigliari e nemmeno con gli amici. E fu un segreto che mantenni molto a lungo!"
Ma che fine fece quella refurtiva? Sono sicuro che il lettore vuole conoscerla e qualche fluminese anziano ricorderà e confermerà qualche particolare.
Torniamo al cinturone e ascoltiamo i protagonisti.
"Scampato il pericolo dei militari, racconta Giovanni, tornai a casa e, appena babbo rincasò con l'asinello carico di legna, andai a prendere il cinturone. Castidi it'appu agattau in su stradõi, dissi con tono sicuro. E babbo ci credette. La cinghia tedesca con i bordi ben rifiniti e adornata da una lucida fibbia fu divisa in due strisce, che servirono per i finimenti di Pisurina, la nostra asina. Inutile dire che mio padre fu fiero della nuova e imprevista bardatura de su bestiou!"
Sentiamo ora quale utilizzazione ebbero le coperte, ma prima facciamo una premessa.
Ricordate che Nino aveva in tasca la chiave del campanile? Come mai? E' presto detto: il padre di Nino, ziu Celestinu, faceva il sacrestano e il campanaro; inoltre aveva l'incarico della manutenzione e della carica giornaliera dell'orologio del campanile. A queste incombenze collaborava anche Nino: ora capite perché quella chiave era nelle sue tasche.
Ma sappiate che ziu Celestinu faceva anche il sarto, arte che esercitava nella sua casa vicina alla chiesa.
L'incarico di addetto al pubblico orologio, se da un lato aveva consentito di nascondere le coperte, per un altro aspetto aveva dato qualche preoccupazione, perché, salendo fin lassù, il campanaro avrebbe scoperto la refurtiva. E sarebbe stato un guaio per tutti, specialmente per Nino!
Le cose però andarono bene, perché per una buona settimana le scale del campanile le fece solo Nino, che si assunse l'onere di fare tutto lui, regolazione dell'orologio e suono delle campane per la messa e per il mezzogiorno, ad eccezione della prima Ave Maria; ma a quell'ora era buio e ziu Celestinu non poteva scorgere la refurtiva. Anche l'oscuramento imposto dalla guerra, non consentendo l'accensione della luce, agevolò l'azione dei ragazzi!
Superfluo dirvi che il campanaro fu orgoglioso di avere un figlio attento, laborioso e puntuale, che gli risparmiava fatiche!
Scampati i vari pericoli, Antonino, Nino, Tore e Peppi , pensarono di fare buon uso delle coperte e non per scaldare il letto nelle notti fredde, ma per dotarsi di qualche indumento personale. E sapete dove le portarono? Ma dal sarto!, dirà qualcuno. Quella soluzione pare anche a me logica.
Il maltolto andò a domu de su mestu de pannu più vicino al campanile, quindi a casa di ziu Celestinu, al quale fu detto che le coperte erano state trovate nella strada.

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Furono Antonino e Tore a descrivere le circostanze del ritrovamento e quest'ultimo, controllato bene il tessuto: "Chi faidi, disse con disinvoltura e con tono deciso, a mei m'iada a srebì su tanti de ûa giacca!". Il calcolo per la ripartizione fu presto fatto: due teli da dividere, quattro i ragazzi, perciò metà coperta a ciascuno. Anzi non furono nemmeno divise, perché rimasero nella sartoria.
"Su consiglio di ziu Celestinu, conclude Antonino Tiddia, tolta la quota necessaria per la giacca di Tore, decidemmo di usare il restante tessuto giallo kaki per fare dei pantaloni corti per me, per Peppi e per Nino. Superfluo dire che la confezione non ci costò nulla, perché Nino, apprendista nella sartoria paterna, diede la sua collaborazione e il sarto non volle nessun compenso, soddisfatto della generosità che avevamo mostrato col dare una parte della coperta anche al figliolo!"
Io ero sempre convinto che Tore avesse fatto confezionare la giacca a Ziu Celestinu, invece fu un suo allievo, Antoniccu Diana, a fargliela. Su quell'indumento c'è qualcosa da aggiungere: "Non s'arregodaisi, dice Giovanni Zanda, che, pur non interessato alla divisione delle coperte, ha una buona memoria, comenti fudi abragheri Tori cum cussa giacca grogancia?" Era proprio così, la sua ostentata eleganza veniva dall'indumento confezionato col tessuto di lana tedesca dall'allievo di ziu Celestinu!
Anch'io ho da dire qualcosa agli amici e ai lettori: "Non ricordo i finimenti di Pisurina, su bestiou de ziu Antiogu, ma della giacca di Tore e dei vostri pantaloni si. E non posso non ridere nel pensare a Nino, Antonino e Peppi in circolazione nelle strade di Flumini.


Tutti coi pantaloni dal taglio uguale e dello stesso colore, larghi, lunghi fino al ginocchio, con la cinta alta fin sotto le ascelle, perché l'indumento durasse a lungo, cosi come richiedeva l'innata previdenza di ziu Celestinu.
Ricordate le giacche confezionate nella sartoria Coni? Vita attillata, spalle strette, spalline alte: così era l'elegante giacchetta di Tore! Così era lo stile degli anni quaranta dell'atelier de caro ziu Celestinu.
La sua alta moda era sempre riconoscibile da lontano e nessun evento poté mai modificarla.



I racconti sono tratti da: Autori vari
Quaderni di storia fluminese 5
CONTUS DE BIDDA NOSTA

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