Lo chiamavano familiarmente Shortly ("il corto") per via della
sua altezza che non superava forse il metro e mezzo.
Era un giovane Zambiano, dal viso sempre sorridente e dallo sguardo furbo,
da poco assunto per rinforzare la squadra degli inservienti addetti alle
pulizie dei nuovi uffici, recentemente consegnatici dall'impresa di costruzioni.
Il trasloco dei mobili, delle macchine e delle scartoffie d'ufficio si era
svolto, nonostante la migliore volontà di tutti, nel caos più
assoluto, rendendo estremamente difficoltoso ricostruire i precedenti abbinamenti
esistenti fra scrivanie, tavolini-dattilo, armadi, lampade da tavolo e carte
di lavoro. Nei corridoi girovagavano le anime disperate degli impiegati,
bianchi e neri, che cercavano quella particolare pratica, il proprio posacenere,
un cestino gettacarta o il ritratto fotografico dei propri figli. Si vedevano
passare altre impiegate africane che tenevano in mano dei fornellini elettrici
e le cuccume di metallo smaltato con cui si preparavano di tanto in tanto
qualche bevanda, e che cercavano una nuova stanza in cui fosse possibile
allestire il loro posto di ristoro. L'architetto italiano che aveva progettato
il fabbricato, non aveva infatti pensato che oltre alle sale per le riunioni,
ai salotti di attesa, agli uffici, ai corridoi, alla mensa e ai gabinetti,
fosse necessario prevedere anche un vano che potesse salvaguardare le abitudini
del cosiddetto tea-time degli impiegati indigeni.
In mancanza di più precise istruzioni, gli addetti al trasporto e
alla consegna avevano lasciato i "colli" più o meno dove
capitava, con il risultato che le stanze e il corridoio prossimi alla rampa
delle scale erano intasati di cose, mentre quelli più lontani erano
del tutto vuoti, così come lasciati dagli ultimi imbianchini.
E' a questo punto facile, per chiunque abbia un'esperienza "europea",
dire che sarebbe stato necessario organizzare meglio il trasloco, etichettando
adeguatamente i vari oggetti e indirizzandoli alla loro destinazione finale
con l'aiuto di un'accurata mappa dei nuovi uffici. Ma l'Europa è
l'Europa e l'Africa - come acutamente diceva quel tale - è l'Africa.
In ogni caso, sarà stato per la deficienza degli organizzatori o
per le solite difficoltà "ambientali", ma la situazione
era alquanto confusa.
Fra l'altro, considerato che erano rimaste alcune stanze inutilizzate e
che in uno dei corridoi erano malamente accatastati centinaia di raccoglitori
pieni di documenti, si poneva il problema di approntare a dovere un vero
e proprio locale-archivio per conservare tutta quella carta.
Mentre me ne stavo in piedi in corridoio, meditando sul da farsi, vidi passare
lo Shortly, con il suo abituale sorriso sulle labbra. «Ehi, tu»,
gli dissi (Occorre a questo punto chiarire che l'"Ehi tu" non
intendeva essere assolutamente dispregiativo, né tanto meno vagamente
razzista, bensì la semplice conseguenza di una obiettiva difficoltà
di memorizzare e di pronunziare i nomi di molti Africani. Inoltre, sarebbe
stato indelicato interpellarlo con il nomignolo di Shortly), «sei in
grado di leggere e di scrivere?».
La domanda non era poi così tanto fuori luogo, dal momento che il
giovane era stato assunto soltanto per fare le pulizie e che a quei tempi
l'analfabetismo era purtroppo ancora molto diffuso da quelle parti.
Il volto rubicondo si illuminò di un lampo di furbizia, che sembrava
aver sollevato il piccolo Zambiano di almeno cinque centimetri, mentre mi
rispondeva: «Certamente, Master, in cosa posso esserti utile?».
«Ascoltami bene», gli dissi allora, «devi cercare fra i tuoi
amici qualche aiutante e assieme trasferite quegli scaffali metallici nella
stanza là in fondo al corridoio. Quindi, prendi questi raccoglitori,
leggi bene cosa c'è scritto sull'etichetta e sistemali, in ordine
di argomento e di anno, sugli scaffali. Comincia subito; fra poco verrò
a vedere come va il lavoro».
Il mio nuovo aiutante non chiese altro, scattò sull'attenti come
un militare professionista e con un ennesimo sorriso partì a razzo
per eseguire il compito che gli avevo affidato.
Dopo circa mezz'ora tornai per verificare e lo vidi tutto indaffarato che
impartiva ordini ad altri due o tre Africani con i quali stava mettendo
in perfetto ordine il famoso archivio. Entrai nella stanza, feci un controllo
rapido, aggiunsi qualche ulteriore raccomandazione circa il metodo di archiviazione
delle pratiche, e me ne andai.
Oltre a sistemare i nuovi uffici, avevamo anche la necessità di seguire
la cosiddetta "ordinaria amministrazione" che - proprio a causa
del trasloco - era stata purtroppo un poco accantonata. Ciò mi costrinse
a rintanarmi per qualche tempo nel mio ufficio, ricevendo visite di clienti
e di fornitori e senza più pensare né all'archivio, né
tanto meno allo Shortly.
Qualche giorno dopo, passando per il corridoio, ormai sgombro di carte,
vidi che la porta della stanza da me destinata ad archivio era chiusa e
che su di essa era stato affisso un cartellino con una scritta. Mi avvicinai
incuriosito e notai delle lettere a caratteri cubitali, fatte con un pennarello,
che recitavano testualmente: "Filing manager" (Direttore dell'archivio).
Entrato, mi trovai di fronte a una scena del tutto inaspettata. L'archivio
appariva in perfetto ordine, con tutti gli scaffali sistemati a dovere e
i raccoglitori dei documenti accuratamente allineati sui vari ripiani.
Ma la cosa più curiosa era un'altra. Al centro del locale, comodamente
seduto dietro una scrivania su cui c'erano soltanto un posacenere, qualche
matita ben appuntita, un blocco per le note, una vaschetta per i documenti
e l'immancabile tazza per il thé, c'era proprio lo Shortly, così
auto-sistematosi nella sua nuova veste di "Direttore dell'archivio".
Non potei fare a meno di sorridere a mia volta e, evitando di complimentarmi
eccessivamente con lui (perché in questo caso avrei corso il rischio
di trovare presto lo Shortly sulla poltrona del Direttore Generale o, perché
no, del Presidente), lo confermai nell'incarico, assicurandogli un conseguente
e ben meritato aumento di stipendio.
Dove lo mettiamo?
La stagione delle grandi piogge aveva trasformato Monrovia in un enorme
pantano, in cui si mescolavano liquami di ogni genere. Quando da quelle
parti arrivano le grandi piogge, non si tratta di qualcosa di simile ai
nostri temporali estivi, dai quali ci si può riparare con semplici
ombrelli o normali impermeabili, ma lo scroscio è talmente violento
che sembra cadano dal cielo enormi secchi d'acqua. Poi, cessata la pioggia,
il sole appare sfolgorante nel cielo, riscaldando un terreno dal quale si
solleva una nube di vapore che crea un tasso d'umidità simile a quello
che si avverte in una angusta stanza da bagno appena dopo aver riempito
la vasca con acqua calda.
Avevamo da poco attrezzato in forma provvisoria una specie di ufficio alla
periferia di Monrovia, utilizzando un container-baracca che era stato appoggiato
su precari sostegni quasi galleggianti nella fanghiglia e che si raggiungeva
grazie ad una passerella di assi posta all'esterno. Più o meno sistemati
in quella infelice collocazione logistica, lavoravamo in due persone, cercando
di gestire le paghe del personale locale, recentemente assunto per effettuare
i trasporti dei minerali ferrosi estratti dalle miniere della Bond Mines,
situate ad oltre 100 miglia dal porto di Monrovia.
L'impegno che dedicavamo al nostro lavoro era notevole, in quanto, oltre
ad amministrare il personale, dovevamo organizzare una sistemazione più
consona agli uffici della società che, nel giro di poche settimane,
avrebbe fatto affluire in Liberia anche una ventina di nostri connazionali.
Si lavorava quindi per l'intera giornata, ed anche oltre. D'altro canto,
Monrovia non offriva molte alternative ed eravamo perfettamente consapevoli
del fatto che non appena terminato il nostro compito, saremmo potuti rientrare
nella nostra sede in Italia, certamente ben più confortevole.
Una sera, mentre eravamo all'interno di quello pseudo-ufficio, impegnati
nel nostro lavoro, intrisi di umidità e bersagliati da uno stuolo
di zanzare che banchettavano allegramente su di noi, nonostante l'ora ormai
avanzata, sentimmo bussare alla porta. Fuori, c'erano due nostri autisti,
che ci indicarono un autocarro parcheggiato nel bel mezzo del pantano con
le luci di posizione ancora accese.
«Dove lo mettiamo quello lì?», chiese uno dei due, indicando
una massa scura che si intravvedeva malamente sul cassone. Ci avvicinammo
al veicolo e ci accorgemmo che "quello lì", non era altro
che il corpo di un altro autista, decisamente defunto.
«E' uscito di strada con il suo autocarro a 60 miglia da qui ... e
l'abbiamo raccolto passando. Non sapevamo cosa fare e l'abbiamo portato
qui», aggiunsero i due. Come se noi, da poco giunti in Liberia e certamente
non avvezzi a gestire abitualmente anche i decessi, avessimo la benché
minima idea sul da farsi.
L'unica cosa che ci passò allora per la mente fu di suggerire ai
due volonterosi autisti di liberarci al più presto della triste presenza
di quel veicolo, e del suo carico, raggiungendo il locale ospedale dove
di sicuro ci sarebbe stato qualcun altro, ben più esperto di noi,
in grado di provvedere alla bisogna.
D'altro canto, nel container-baracca non c'era posto per un'altra persona,
viva o defunta che fosse, e al momento non avevamo bisogno di altri compagni
di sventura.
Una lingua civile
Nel corso di una mia delle mie periodiche visite di lavoro nella filiale
tanzaniana della multinazionale per la quale lavoravo, mi capitò
di assistere a un episodio che metteva in risalto l'arroganza dei nuovi
quadri dirigenti di un Paese che si era da poco affrancato dalla colonizzazione
britannica e, per contro, la stupidità di certi Europei che pensavano
ancora di poter esercitare sugli indigeni un potere basato solo sul colore
della pelle e su un millenario bagaglio storico-culturale dal quale, evidentemente,
non avevano tratto alcun beneficio diretto.
Nell'ufficio in cui mi trovavo per svolgere il mio abituale lavoro, c'era
una seconda scrivania, occupata da un aitante giovane originario della provincia
di Biella, che svolgeva le funzioni di credit controller, cioè dell'impiegato
che curava i crediti e gli incassi dell'azienda.
In Tanzania c'era ancora, in quegli anni, una numerosa colonia di funzionari
europei, soprattutto inglesi, che stavano gradualmente istruendo i quadri
locali per poter lasciar loro, non appena possibile (ma, soprattutto, quando
proprio non potevano più difenderli) i posti di comando nelle principali
strutture economiche del Paese. Quelle stesse organizzazioni dalle quali
la Gran Bretagna aveva, per molti anni, sfruttato tutto quanto era sfruttabile.
Dopo aver ottenuto l'indipendenza politica, la Tanzania aveva cercato in
tutti modi di rendersi pienamente indipendente anche sotto il profilo economico,
lottando tuttavia contro le enormi difficoltà frapposte dalla povertà
endemica di una popolazione divisa, fra l'altro, in varie etnie, nonché
da un territorio privo di infrastrutture e da un clima certamente non favorevole.
Per contro, i Tanzaniani si sentivano fieri di essersi finalmente affrancati
da una colonizzazione che li aveva a lungo tenuti soggiogati, prima dai
Tedeschi e poi dagli Inglesi, e manifestavano spesso questo loro stato d'animo
con punte di orgoglio che talvolta sfociavano in forme di vera e propria
arroganza.
Il nuovo Governo aveva da poco emanato una legge che istituiva, come seconda
lingua ufficiale (la prima rimaneva l'inglese), il swahili, l'idioma parlato
dalla maggior parte della popolazione e basato su ceppi linguistici di origine
bantù, arricchiti da vocaboli arabi, indiani, tedeschi e inglesi,
curiosamente modificatisi in base alle caratteristiche fonetiche delle popolazioni
locali. Si trattava di una vera e propria lingua franca, con tanto di grammatica
scritta, di vocabolari e di opere letterarie di un certo pregio. Per noi
Italiani era di facile apprendimento, in quanto foneticamente semplice e,
soprattutto, povera di vocaboli. Dopo pochi mesi di permanenza sul posto,
non era quindi difficile apprendere l'indispensabile per farsi comprendere
dagli indigeni, anche se poteva diventare alquanto difficoltoso intavolare
con loro una vera e propria conversazione.
Il giovane collega era piuttosto noto nella comunità italiana per
le sue scorribande sentimentali, godendo fama di essere un accanito latin
lover che non disdegnava di sollazzarsi con avvenenti e disponibili consorti
dei funzionari inglesi, ma anche con fanciulle dalla pelle decisamente scura
e dalle curve generose. Proprio dalle relazioni intrattenute con queste
ultime aveva rapidamente appreso la lingua swahili, mettendo in atto il
famoso detto, secondo il quale s'impara meglio una lingua straniera se si
utilizza opportunamente un piacevole "sleeping dictionary"
Un giorno, entrò nell'ufficio un Tanzaniano alto, grosso e ben vestito,
che si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania del giovane
Biellese pronunciando alcune frasi in swahili. Il mio collega non sollevò
neppure il capo dal suo lavoro e fece finta di non sentire. L'Africano allora
cambiò il tono della voce e, sempre in swahili, ma in modo piuttosto
arrogante, ripeté il suo discorso. Anche questa volta il giovane
Biellese non sollevò minimamente il capo, ma con un tono alquanto
sarcastico rispose: «Why dont'you speak in a civil language? (Perché
non parli in una lingua civile?)».
Allora successe quasi il finimondo. L'Africano, accettando l'invito, rispose
in perfetto inglese, qualificandosi come il Ministro degli Affari Interni
del Governo tanzaniano e minacciando il suo interlocutore con un bastone
d'ebano che portava con sé. Intervennero allora anche due guardie
del corpo del Ministro che stavano sulla porta in deferente attesa e solo
grazie a tutti noi l'imprudente giovane potè evitare un'immediata
punizione.
Il giorno dopo, giunsero in ufficio due poliziotti che gli notificarono
un perentorio foglio di via con l'intimazione di lasciare il Paese nel volgere
di 24 ore. Da parte nostra ci volle del bello e del buono per acquietare
l'ira del Ministro e solo l'assistenza del nostro Ambasciatore, che presentò
le scuse formali del Governo italiano, scongiurò in extremis la messa
in atto del provvedimento di espulsione.
In seguito non ebbi più occasione di incontrare quel giovane, ma
ho sempre sperato che quella lezione gli sia servita a fargli capire che
un ospite in un Paese straniero ha sì i suoi legittimi diritti, ma
anche dei precisi doveri, ai quali non dovrebbe mai derogare.