RISORGIMENTO AVARO*
I Bersaglieri
del Faro
e brevi ricordi sulla vita
del Bersagliere Natalino De Filippi
Brevi ricordi sulla vita del Bersagliere Natalino De
Filippi (Maggiore Garibaldino)
Torino1904 edit. Roux e Viarengo di Giovanni Tonso |
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Natalino
De Filippi nacque a Torino, Borgo Rubano, il giorno di Natale del
1827 da Giuseppe, capitano d'artiglieria morto nel 1851, e da
Caterina Giuseppa Pereno. Egli ebbe tre fratelli e una sorella.
Giovanni, nato nel 1820, fece le campagne degli anni 1848-49 e fu
congedato col grado di foriere di artiglieria. Nel 1850 emigrò in
America e non si ebbero più sue notizie. Stefano, nato nel 1826,
prese parte - ancorché monocolo - a tutte le guerre per
l'indipendenza italiana e alla spedizione della Crimea. Da semplice
soldato arrivò al grado di maggiore d'artiglieria: fu decorato di
due medaglie al valore militare, della croce di cavaliere della
Corona d'Italia e di quella dei Santi Maurizio e Lazzaro. Riposato
nel 1874, mori a Torino nel 1881. Felice, nato nel 1835, combatté
nelle guerre degli anni 1859 e 1866. Nel 1876 fu fatto capitano di
fanteria, ma nel 1878, colpito da congestione cerebrale al campo di
Somma, esalò lo spirito a Oleggio ai 28 di agosto. Paola, nata nel
1830, é l'unica superstite della patriottica famiglia De Filippi.
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Nicola o Nicolò Fabrizi patriota italiano
(Modena 1804 -Roma 1885)
partecipò alla congiura modenese di Ciro Menotti ed Enrico Misley
nel 1831 e pur finendo arrestato venne liberato dagli insorti. La
fuga che seguì lo portò a Marsiglia di fatto entrando nel circolo
mazziniano. E’ fra i protagonisti della fallita spedizione di Savoia
(1834) e riesce anche qui a mettersi in salvo emigrando fra Spagna e
Malta che diventerà la sua base quando dietro a diverse operazioni
si noterà la sua mano. Qui fonderà nel 1839 la Legione italiana, con
intendimenti simili alla Giovine Italia. Ritornò per la rivoluzione
romana poi veneziana con i risultati che sappiamo e fu fra i
propugnatori della spedizione Pisacane nel 1857 a Sapri dove questi
trovò la morte. Nel 1860 preparò la piccola spedizione dei
“Cacciatori del Faro” o Bersaglieri d. F che da Malta raggiunse
(precedette) i Mille nella Sicilia orientale. Garibaldi gli affidò
allora, dopo la vittoria di Milazzo e la caduta di Messina, il
comando militare e poi il portafoglio della Guerra. Arrestato nel
1862 per aver aiutato Garibaldi nell'impresa dell'Aspromonte,
combatté ancora con le camicie rosse nel 1866 e nel 1867. Deputato
dal 1861, sedette sui banchi della sinistra.
Immagine Lobbia da Ist. Cent. per la Storia del Risorgimento |
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Ora torniamo al nostro
Natalino. Egli a di 13 di febbraio del 1839 entrò nel Collegio pei
figli dei militari a Racconigi, dal quale, compiuto lodevolmente il
corso de' suoi studi, usci nel settembre del 1845 col grado di
caporale. Ai 4 dello stesso fu destinato alla compagnia cacciatori
del 15° reggimento fanteria di presidio al Forte di Fenestrelle e il
xx dicembre venne promosso caporale foriere. Il De Filippi, giovane
d'ingegno e studioso, facilmente sarebbe salito alle prime cariche
della milizia; ma, carattere vivace e spirito bellicoso, non tardò
ad annoiarsi della vita monotona, oziosa e snervante della caserma.
Inoltre, amante della libertà, a malincuore serviva un governo
assoluto. Era l'anno 1847, nel quale i Francesi preparavano la
spedizione dell'Algeria, e il De Filippi, desideroso di pugnare ad
ogni costo, non potendo ciò fare per il suo paese, pensò di prendere
parte a quella spedizione e, senza misurare le conseguenze del passo
che faceva, disertò con armi e bagaglio. Partito da Fenestrelle in
sulla sera del 18 di giugno, arrivò al confine francese sull'alba
del giorno appresso. Giunto in Francia fu subito arruolato nel 2°
reggimento della legione straniera e fatto partire per l'Algeria.
Colà fece le due campagne di Rissodor e di Mogador, nelle quali, per
il suo valore e sangue freddo, consegui il grado di caporale
foriere. Ma ecco portatore di grandi novità sopravvenire il mese di
marzo del 1848. Carlo Alberto ai 4 diede lo Statuto della
costituzione, ai 23 bandi contro l'Austria la prima guerra per
l'indipendenza italiana e ai 31 concesse grazia piena ai bassi
ufficiali e soldati disertori, anche se con esportazione della
sciabola. Il De Filippi non poteva desiderare di meglio. Poter
tornare nella patria sua a godere delle libertà costituzionali e a
combattere per l'Italia una e libera era il suo sogno diventato
realtà. E perciò, senza mettere tempo in mezzo, prese congedo dalla
legione straniera, salpò da Algeri, sbarcò a Tolone e di là per
terra rientrò in patria a Nizza Mare. Recatosi poscia ad
Alessandria, agli 11 di ottobre fu riammesso nell'esercito
piemontese e destinato nei bersaglieri col suo grado di caporale
foriere. Nel 1849 prese parte vigorosa al combattimento della
Bicocca dei 23 di marzo, pugnò con bravura e dimostrò l'esperienza
di guerra, acquistata nell'Algeria. Dopo la rotta di Novara il De
Filippi venne a Torino insieme col suo reggimento e il xx di
novembre fu fatto sergente. A mezzo il mese stesso per il cambio di
guarnigione andò a Genova e quivi il xx di dicembre del
1850 fu
promosso foriere del 2° battaglione bersaglieri. Nel 185 1 a Genova
gli capitò un caso assai doloroso. Fu arrestato un bersagliere per
ladroneccio e il De Filippi, per il fatto solo che ebbe la disgrazia
di prendere a pigione una camera mobiliata in comune con quel
furfante, da lui reputato uomo onesto, venne accusato di complicità.
Ma il tribunale riconobbe del tutto falsa l'accusa e lo dichiarò
innocente. Nel novembre di quell'anno
fece ritorno a Torino e qui ai xx di giugno del 1852 ottenne il suo
congedo assoluto. Il De Filippi era allora nel fiore degli anni. Di
statura media, biondo era e bello e di gemile aspetto. Dopo essersi
fermato qualche mese a Torino presso la famiglia andò a Novara, dove
nel gennaio del 1853 un magistrato, conosciuto pendente la guerra
del 1849, gli ottenne il posto di contabile in quel Tribunale civile
e correzionale. Ivi il De Filippi, al quale, per il suo carattere
franco e gioviale, tutti volevano bene, menava una vita comoda e
tranquilla; ma a turbare la sua pace vennero gli anni 1859-60. Nel
marzo del 1859, col cuore acceso di nobile entusiasmo e bramoso di
prendere parte alla guerra contro l'Austria, chiese di essere
riammesso nell'esercito col suo grado di foriere; ma il Ministero,
coi pretesti del fatto di Genova e dell'età d'anni 32, non
acconsenti e in questo modo fu impedito ad un volonteroso ed esperto
militare di combattere per la patria. |
Gli era compagno oltre a Natalino de
Filippi di cui narriamo in questa pagina, LOBBIA, Cristiano nato ad
Asiago il 30 genn. 1826, da Giovanni Domenico e da Maddalena Bonomo.
Studente a Padova, nel febbraio 1848 si aggregò ai moti mazziniani
del Fabrizi nel 1856. La spedizione di Sapri nata con un altro scopo
e obiettivo andò fallita senza che i due ne venissero coinvolti. Il
progetto era comunque sbarcare in Sicilia e dare avvio ad una
rivolta non si sa con quali aiuti e con quali forze. Ancora alla
vigilia dei “Mille” si organizzavano e facevano queste spedizioni
che fallivano regolarmente. Non così nell’estate del 1860 con
Garibaldi già in marcia (vittorioso) da Palermo verso lo stretto.
Sbarcati presso Ragusa raccolsero alcune centinaia di volontari,
anche Netini (Noto) che già da maggio hanno messo in fuga i
borbonici. La colonna che marcia verso nord verrà chiamata dei
cacciatori o bersaglieri del Faro come meglio raccontata da Natalino
De Filippi (nella quale il L. ebbe il grado di tenente del genio).
Lobbia si distinse a Meri (18/7) poi a Milazzo (20) con la
promozione sul campo al grado superiore. Nei giorni seguenti Lobbia.
fu nominato dapprima sottocapo, poi capo di stato maggiore presso il
comando militare della Provincia omonima, detenuto da Fabrizi. Dopo
la nomina di quest'ultimo a ministro della Guerra nel governo del
nuovo prodittatore A. Mordini (17 sett. 1860), il L. seguì il suo
comandante a Palermo. Dimessosi Fabrizi nel novembre successivo, il
L. rimase al ministero della Guerra, al servizio del luogotenente
M.P.G. Cordero di Montezemolo. |
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È facile immaginarsi il dolore
del bravo De Filippi per il villano rifiuto. Ma eccoci al 1860.
L'invito di Garibaldi ad accorrere in aiuto dei fratelli insorti
contro la tirannide borbonica, risvegliò nel De Filippi gli spiriti
bellicosi degli anni giovanili e lo fece fremere di nobile sdegno,
sebbene presto si trovasse nel mezzo del cammin di nostra vita. E,
non ostante i consigli degli amici e dei superiori, agli xx di
maggio si dimise dall'ufficio, che con tutta probità, ed
intelligenza sosteneva da oltre un settennio, per correre in
Sicilia. Partito da Novara, si fermò a Torino per abbracciare la
vecchia madre, che piangente lo benedì; di poi si recò a Genova e di
là per mare andò a Malta. Colà arrivato, con lettera commendatizia
del generale Medici e col certificato della dimissione spontanea
dall'impiego si presentò al generale Nicolò Fabrizi, l'Aristide
della rivoluzione italiana (1804-1885), il quale preparava una
seconda spedizione per ingrossare quella dei Mille. Il Fabrizi
subito scorse nell'occhio vivace del De Filippi l'aspetto marziale,
la fermezza maschia, il carattere audace e spartano, l'anima
schietta, disdegnosa d'indugio e di freno e perciò gli fece
un'accoglienza cortese. Al di 30 di maggio il Fabrizi radunò i
volontari a lui accorsi e nella notte del di appresso pochi
coraggiosi, con mille fucili e grande carico di munizioni, salparono
da Malta e sbarcarono a Pozzallo. Essi erano : Fabrizi Nicola -
Lobbia Cristino - De Filippi Natalino - Tamajo Giorgio
segue elenco
Da Pozzallo ai 2 di giugno
procedettero fino a Modica, dove il Fabrizi organizzò un primo corpo
di spedizione, affidando al De Filippi l’istruzione tecnica
militare. Promosso sergente istruttore dei bersaglieri del Faro
col
motto: Italia e libertà, il De Filippi si diede ad eccitare i suoi
soldati alla pugna, dicendo loro: miei prodi, se volete vincere
irrompete d’improvviso sul nemico, incalzatelo con forza,
respingetelo, non dategli tempo di pensare: baionetta, rapidità e
sorpresa sono tre cose indispensabili in guerra. Il valore sfida la
morte, ma se non sapete combattere non andate a battaglia. Egli non
tardò a cattivarsi la stima e la fiducia di tutti: a farsi notare
per il modo pratico di istruire i suoi soldati, per l’arte militare
e per il valore guerriero. Ai 5 partirono da Modica con un centinaio
di muli carichi di materiale di guerra e si avviarono verso Noto. Di
là, a fine di scansare gli avamposti della guarnigione di Siracusa,
per sentieri erti e scoscesi, guadando fiumi e passando monti,
marciarono alla volta di Catania, ove giunsero stanchi a di 15. Ivi,
alloggiati dai padri benedettini e benevolmente trattati, si
organizzò la brigata Fabrizi e il De Filippi, che a Noto era stato
fatto luogotenente, fu promosso capitano del suo battaglione,
composto di soli picciotti. In sull'alba dei 2 di luglio ripresero
la marcia e per Misterbianco, Paternò, Adernò, Bronte, Randazzo,
Francavilla, Novara, Castroreale, Barcellona, San Filippo,
camminando notte e giorno sotto la sferza del solleone, sulla sera
del 18 arrivarono stracchi finiti a Santa Lucia del Mela. Colà
occuparono un punto strategico della massima importanza, donde
potevano osservare i movimenti del nemico. Ai 20 ebbe luogo la
grande battaglia di Milazzo, nella quale i garibaldini sconfissero
completamente l'esercito nemico, liberando la Sicilia dalla
tirannide dei Borboni. Il De Filippi in quella giornata memoranda
pugnò da eroe, dimostrando valore e arte militare. Egli aveva il
volto sfavillante di gioia e gli brillava il cuore, perciocché il
suo battaglione di picciotti era stato a tutti esempio di disciplina
e di bravura. A di 27 la brigata Fabrizi entrò in Messina, portata
in trionfo e salutata liberatrice della Sicilia. Garibaldi incaricò
del governo della Sicilia il Prodittatore Mordini unitamente al
generale Fabrizi: egli passò lo stretto e di trionfo in trionfo
entrò in Napoli. Nominato il Fabrizi Ministro della guerra, il De
Filippi, l'intrepido e valoroso condottiero dei picciotti, ai 14 di
agosto fu comandato alla difesa di Messina e al servizio
pericolosissimo degli avamposti presso le mura della cittadella,
ancora occupata dalle truppe borboniche. 11 Prodittatore con decreto
del 18 di settembre del 1860 nominò, in nome di S. M. Vittorio
Emanuele II, il De Filippi maggiore dei bersaglieri (i).
(i)
Ecco a proposito il Fabrizi: «Il De Filippi istruttore prima
dei suoi compagni di spedizione, senz'altro grado che quello di
sott'ufficiale, lo promossi ufficiale allorché la forza mi permise
di poterlo organicamente fare. Da istruttore a organizzatore del
battaglione bersaglieri del Faro, lo comandò per qualche tempo col
solo grado di capitano e non fu che dopo la battaglia di Milazzo e
Messina che fu proposto a maggiore. In data 18 settembre, essendo io
Ministro della guerra, feci decretare dal Prodittatore il grado di
maggiore, che da lungo tempo il De Filippi con onore esercitava.
Oltre l'istruzione e l'organizzazione del battaglione i suoi servigi
spiccarono pel contegno militare che quel corpo conservò in mezzo
alle più difficili circostanze, durante il blocco della cittadella
di Messina, e al servizio di avamposti continuamente esposto alle
offese del nemico e per la stessa situazione della caserma più volte
presa di mira dalle artiglierie della cittadella stessa, come lo
mostrano ancora le mura danneggiate e qualche vittima. |
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Il De Filippi fu comandante della piazza
e presidente del Consiglio d'amministrazione di tutti i servizi
militari. Come egli abbia militarmente educato il suo battaglione,
dal quale era idolatrato, lo provano i delicati servigi resi e
l’essere stato modello di computisteria, di disciplina e di valore.
Il Fabrizi il xx di dicembre si dimise da Ministro della guerra e lo
scrisse al De Filippi (1), che a sua volta nel febbraio del 1861
diede le consegne al generale Chiabrera dell'esercito nazionale. Ai
13 di marzo la cittadella di Messina fu espugnata dal Cialdini e a
mezzo l’aprile il De Filippi con dolore abbandonò la Città (2),
nella quale con l’onestà, con l’imparzialità e col valore aveva
saputo guadagnarsi la stima e la benevolenza di tutti.
(1- le dimissioni di Fabrizi) «
Palermo, 3 dicembre 1860. Carissimo Maggiore, Non più qual capo di
un corpo che fu primo a comporsi negli avvenimenti che fanno
gloriosa quest'epoca alla Sicilia, anzi all'Italia, né quale
comandante militare della Provincia, ove il battaglione al di Lei
comando prestò sul campo e tra le mura stesse della Città servigi
della più alta importanza e delicatezza, né quale Segretario di
Stato della guerra, che per ragioni del proprio ufficio ebbe ad
apprezzare i titoli che distinguono il battaglione bersaglieri del
Faro fra i più benemeriti dell'esercito meridionale ; bensì quale
commilitone ai proprii compagni, io mi dirigo a Lei e per suo mezzo
ai di Lei subordinati nel momento che cessano le mie funzioni
militari d'ogni classe per ritornare a vita privata. Oggi che la
missione mia è compiuta, sono gli interessi morali e materiali
dell'esercito meridionale che trovansi in gioco, perciò credetti che
tanto più potessi appoggiarli, quanto più l'interesse mio proprio
personale avessi disciolto da ogni immischiamento negli interessi
comuni e così fu che col dimettermi rinunziando ad ogni benefizio
per me stesso, credetti validare il mio appoggio nell'interesse
generale colla mia indipendenza ».
(2). In quella ricevè dal
Fabrizi: «Malta, 13 aprile 1861. Carissimo Maggiore. In fretta due
righe... coll'augurio a Voi ed ai vostri ufficiali della sorte che
si meritano, cioè di far parte dell'esercito destinato ad onorare
sempre più l'Italia nella finale campagna che deve costituirla
padrona di sé dall'Alpi al Lilibeo, una indivisibile. Credo che
dobbiate far caso e memoria nel rappresentare il vostro battaglione,
come il corpo degli ufficiali, oltre del servizio assiduo, delicato
e rimarchevole, che sosteneste da principio a fine della
composizione del Corpo, del sistema inviolato che accompagnò le
promozioni in rapporto alla forza numerica e solo eccezionalmente
avendo passato qualche ufficiale a dar base ad altro battaglione,
talché giovani istruiti, per limitarsi il numero delle nomine
all'organico dovettero restare sott'ufficiali sino alla fine, dopo
ottima condotta e buon servizio. Fatto esemplare pei Corpi Creatisi
in Sicilia. E fu questo spirito di proporzionalità e misura che
meco, trasportai al Ministero della guerra, per la buona prova che
aveva fatto nel battaglione bersaglieri del Faro e il Corpo di
vostro comando in certo modo mi si offre a base dimostrativa del mio
procedimento. Voi perché militare potete apprezzare la giustezza
delle mie vedute e dei mezzi adoperati per attuarle... debbo pure
ricordare che mentre il battaglione di vostro comando, da me
individualmente costituito, quindi scrutato nelle nomine, poteva io
eccepire per essere già in possesso dei brevetti, io invece lo
lasciai correre al secondo scrutinio, onde ogni corpo sentisse la
dovuta sommissione ai risultati dello scrutinio stesso. Queste
spiegazioni amichevoli io depongo presso Voi perché per la
conoscenza del mio carattere leale e direi pure preciso, possiate
esprimerle nei casi che vi si presenteranno e accoglietele come
espressione di affetto e di stima del vostro commilitone e amico
Nicolò Fabrizi ». |
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(1) Fabrizi scrisse al De Filippi: «Carissimo
Maggiore. Oltremodo mi addolora la di Lei sciagura. Io che l' ho
esperimentata piena di zelo e di onestà, che so i di Lei buoni
comportamenti negli impieghi della maggiore a delicatezza, non so
darmi ragione di un rigore eccezionale verso di Lei. Creda, caro
Maggiore, il pensiero della di Lei posizione mi mortifica oltre di
affliggermi. E altra fiata: .... presso chiunque potesse servire il
mio nome, potete liberamente usarlo, che io sarò immediatamente a
confermarvi di tutto e il mio appoggio. La poca fortuna che vi
procacciarono i servigi prestati sotto i miei ordini, non è per me
se non che un titolo maggiore a quell'interessamento che i servigi
stessi suscitarono nell'animo mio. Conosco la vostra capacità, lo
zelo e l'onestà vostra per dover contrapporre la mia stima alla
ingiustizia altrui. Vi saluta col solito affetto. N. Fabrizi.
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Da Messina De Filippi per mare andò a
Napoli e di là per terra venne a Torino. Qui i molti amici gli
fecero gran festa, rallegrandosi delle eroiche sue imprese nella
Sicilia in prò dell'indipendenza italiana. Pochi giorni dopo il suo
arrivo, dal comando militare di Torino fu destinato al Deposito di
Vercelli, al comandante del quale si presentò ai primi di maggio e a
di 10 di giugno consegnò il decreto della sua nomina di maggiore dei
bersaglieri. Fin qui vittorie, onori e feste, ma ora incomincian le
dolenti note. Il grado di maggiore del De Filippi turbò i sonni agli
autori delle sventure di Novara, i quali già sognavano gli allori di
Lissa e di Custoza. Essi, che nel 1859 con pretesti ricusarono di
accettarlo foriere, non si piegarono due anni dopo a riceverlo
maggiore e per screditarlo si diedero a spargere insinuazioni
maligne. Il De Filippi, informato di questa opposizione calunniosa,
nel dicembre del 1861 chiese al Ministro della guerra (Alessandro
della Rovere nel I Governo Ricasoli), se mai avesse fondamento
quanto si mormorava sul suo conto e il Ministro, in udienza
particolare, dissegli, che nulla eravi di vero e che le cose
andavano bene. Egli perciò viveva tranquillo, avendo fiducia nella
giustizia e nel suo buon diritto; ma invece all'improvviso sul
mezzogiorno dei 26 di gennaio del 1862, senza riguardo al grado di
maggiore, fu arrestato da due carabinieri travestiti, trasportato a
Casale e di là a Bologna, dove arrivò alle ore 6 mattutine del
giorno appresso. Venne rinchiuso nelle carceri, trattato come fosse
soldato semplice e dopo giorni 70 il tribunale militare dichiarò non
esservi luogo a procedere, né per la diserzione né per il fatto di
Genova. Assolto da ogni accusa tornò a Vercelli, confidando che la
cricca soldatesca, insediata al Ministero, lo avrebbe lasciato in
pace; ma essa, che, a dirla schietta, aveva deciso di rovinarlo ad
ogni costo, non accettò la sentenza di Bologna e lo fece giudicare
da un consiglio di disciplina. Questo ai 5 di maggio 1862 sentenziò
secondo le intenzioni del Ministero (Agostino Petitti Bagliani di
Roreto nel I Governo Rattazzi), il quale con decreto dei 15 rimosse
dal grado e dall'impiego, che non aveva riconosciuti mai, l'onesto e
valoroso De Filippi.
Il consiglio di disciplina, vero consiglio dei
dieci , a torto giudicò il De Filippi colpevole della diserzione
perché compresa nell'amnistia dei 31 di marzo del 1848, per la quale
egli fu riammesso nell'esercito piemontese, da caporale foriere
promosso sergente e poscia foriere dei bersaglieri ; a torto giudicò
il De Filippi colpevole dell'accusa di Genova perché dichiarata
falsa dal Tribunale e di fatto egli conservò il grado suo di foriere
e congedato — quod maximum dictit est — ebbe l'impiego di
computista al Tribunale di Novara; a torto infine giudicò il De
Filippi come maggiore perché ai tempi della diserzione e dell'accusa
di Genova egli era sott'ufficiale semplicemente. Codesti custodi
dell'ordine non si curarono né dei decreti regii, né delle sentenze
dei Tribunali e disconoscendo le benemerenze del De Filippi, uno dei
migliori soldati dell'indipendenza italiana, risparmiarono nulla per
umiliarlo e avvilirlo a morte! Quanta malafede e quanta malignità
L’indarno l'intemerato generale Fabrizi (1) protestò: non ci fu modo
né verso di ottenere giustizia! Ancora oggidì il militarismo si
crede superiore alla legge appoggiato da chi per legge dovrebbe
frenare codeste prepotenze da Medioevo.
Il De Filippi, vittima innocente della
ferocia militare, stomacato da tanta perfidia, senza più si ritirò a
vita privata, colla coscienza però di non aver fatto mai altro che
il proprio dovere.
Nel 1863 egli, insieme col Col. Nullo
e con altri
garibaldini, andò in proprio a combattere per l’indipendenza della
Polonia, infelice come il cuore di Prometeo sempre divorato
dall'avvoltoio e non estinto mai. Fu una lotta disperata fra il
diritto delle genti e la forza brutale della Russia, che una volta
ancora barbaramente represse nel sangue l’insurrezione, annunziando
ai popoli attoniti che l’ordine regnava a Varsavia... ! I volontari
italiani si batterono da forti e alcuni lasciarono la vita sul campo
di battaglia, ma il De Filippi é potuto tornare in patria.
Nel 1866,
scordando che l’aveva servita ingrata, di nuovo volle sacrificarsi
per la patria e, pieno d'entusiasmo, ai 26 di giugno
si arruolò
soldato semplice nel 1° reggimento dei volontari italiani. I
generali Garibaldi e Fabrizi lo invitarono a occupare il posto suo
di maggiore, ma egli rimase fermo nel proposito preso (2).
(2) Il Fabrizi il giorno
stesso da Salò gli scrisse : « Carissimo Maggiore. Il dirle quanto
mi dolori il non vederla con noi, io che l'ebbi altra volta con
tanta soddisfazione e che la vidi sotto i miei ordini guadagnarsi i
suoi gradi da caporale a maggiore, io non potrei. Se Ella fosse sul
luogo io spero che se non altro potrei dimostrarle il mio affetto e
come apprezzi il suo patriottismo, la sua volontà e il suo valore ».
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Collo stesso testamento legò alla Città di
Torino:
a -le medaglie militari e i relativi brevetti
b - la sciabola inglese avuta in dono dal Fabrizi nel 1860 sbarcando
a Pozzallo
c - la pistola che aveva alla battaglia di Milazzo
d - il berretto, la boraccia, la gamella e il cucchiaio, dei quali si
servi pendente la guerra del 1866
e - lo sciabolone preso alli dragoni papalini nel 1867 a Monterotondo
f - tutte le carte relative alle diverse campagne unitamente a lire
100 per spese di collocamento nel museo.
Ma il Municipio di Torino non accettò. |
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Scopo suo fu di dimostrare ai
burbanzosi dell’esercito italiano, che egli maggiore o soldato
semplice sapeva
sempre per amore della patria combattere e vincere. Garibaldi parti
da Torino e per l'alta Lombardia penetrò nel Tirolo, dove co' prodi
suoi volontari vittoriosamente combatté a Caffaro, a Monte Suello, a
Vezza, a Condino e a Bezzecca; ma, ai 24 di luglio, mentre stava
per prendere Trento, ricevette l'ordine di arrestarsi! La figura
eroica del De Filippi, il quale nei combattimenti correva dove
maggiore era il pericolo, incoraggiando tutti colla voce e
coll'esempio, spiccò sulle altre per valore marziale. Egli nella
battaglia di Monte Snello del 3 di luglio, per aver da semplice
soldato comandato con perizia la propria compagnia, spiegando . non
comune coraggio e bravura, come dice il decreto,
fu decorato della
medaglia d'argento al valore militare. Nell'agosto insieme col suo
reggimento passò a Lodi e quivi ai 26 di settembre fu congedato. Le
sconfitte di Lissa e di Custoza lo addolorarono, ma non lo
sorpresero: solo lo convinsero più che mai, come la prosopopea di
certi generali nel disconoscere il valore dei garibaldini non fosse
che l'ignoranza loro nelle cose di guerra.
Nel 1867 Garibaldi, al
grido di Roma morte, mosse alla conquista della Città eterna, e il
De Filippi, che ai primi di ottobre era stato chiamato a Terni dal
Fabrizi e incaricato di organizzare alcuni battaglioni di volontari,
ebbe il comando del 23°
sciolto. Alla battaglia di Monterotondo del
26 egli combatté da eroe, e a Mentana ai 3 di novembre, al comando
di attaccare alla baionetta le truppe pontificie assalitrici, col
suo battaglione si slanciò con tanto valore e con tanto entusiasmo,
che mise in fuga il nemico. La vittoria dei volontari pareva
assicurata, ma improvvisamente comparvero i chassepots di Napoleone
e la battaglia fecesi troppo disuguale. Per il che Garibaldi
dichiarò sciolto il corpo dei volontari e il De Filippi tornò alla
sua Torino. La questione di Roma era però vicina alla soluzione. Di
fatto nel settembre del 1870 il difensore del Papa pagò a Sédan il
fio della sua doppiezza e gli Italiani entrarono nella loro
capitale. Nel dicembre di quell'anno il De Filippi elesse per suo
domicilio Roma, dove fu segretario privato, applicato alla
biblioteca del Corpo di Stato maggiore e maestro di scherma; ma, non
confacendoglisi il clima, nel 1880 fece ritorno alla diletta sua
Torino e più non si mosse. Dal 1882 al 1888, in cui volle
dimettersi, fu Segretario della Direzione del Regio Ricovero di
mendicità. Ritiratosi definitivamente a vita privata, visse
frugalmente coi risparmi fatti e colla pensione derisoria di lire
cento annue, datagli colla medaglia al valore militare. Ai veri
fattori della libertà e dell' indipendenza l'ospedale e a quelli che
non hanno fatto mai niente gli onori e le ricchezze: ecco la
giustizia dell' Italia nostra ! |
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Il De Filippi conservò sempre le
abitudini militari. Egli, per accennarne una, non portò mai
l'ombrello e per quanto piovesse lesto camminava per le vie muro
muro. Sebbene negli ultimi anni soffrisse di nefriti, pure fu sempre
vegeto e arzillo; ma improvvisamente alle ore 9 di sera dei 3
gennaio del 1898 il De Filippi cessò di vivere, pianto da quanti lo
conoscevano. Pochi giorni prima egli aveva messo piede nel suo
70°anno. Il De Filippi propugnatore dell'incenerimento dei
cadaveri, che egli compendiava nel detto: homo pulvis es et ad
pulverem reverteris, alle parole fece seguire i fatti e nel suo
testamento olografo scrisse: « Lascio erede dei risparmi miei, fatti
col lavoro e con economie rigide, ma senza umiliazioni, la Società
per la Cremazione in Torino. Voglio che la mia salma sia cremata,
possibilmente al suono della fanfara garibaldina e tre quarti delle
mie ceneri siano disperse al vento Muoio e contento vado all'
abbruciamento ». Nel mattino dei 5 di gennaio, giorni due dopo la
morte, la salma del caro De Filippi fu trasportata nel tempio
crematorio e incenerita.
*è
stata usata la parola avaro perché altre definizioni sarebbero state
impublicabili o offensive per molti personaggi legati al
risorgimento, meglio che campano o hanno campato su un
risorgimento personale
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