GIOVAN BATTISTA PALOMBO
ARDITO BERSAGLIERE
 
(30 marzo 1892  -  28 maggio 1981)
UN EROE DI VILLA SANTO STEFANO

Brani dal sito http://www.villasantostefano.com/villass/giovan_battista_palombo/index.htm  a cura di Giancarlo Pavat*
 

Giovanni è decisamente fuori ordinanza nel vestire

  I kommandos italiani

Quando si  parla della Storia con la "S" maiuscola,  quella che modifica i destini di interi Popoli e Nazioni, possiamo comprenderla meglio basandoci sulle memorie, sui ricordi dei singoli. Ed ecco che, anche quando questi protagonisti non ci sono più, quando non possiamo più sentire dalla loro viva voce il racconto di quelle vicende lontane nel tempo, allora continuano a parlare per loro non più ricordi mentali "affabulati" dalla parola, ma i loro ricordi materiali. Gli oggetti che sono appartenuti ai nostri nonni, ai nostri padri. E' quello che fanno gli archeologi quando, disvelando le vestigia di antiche civiltà, fanno parlare i loro protagonisti attraverso gli oggetti, magari di tutti i giorni, che tornano in superficie con lo scavo e coi resti di mura e statue. E questo vale anche per periodi più vicini a noi. Ecco perché dobbiamo conservare con cura, con rispetto, le testimonianze dei nostri avi. Le medaglie, gli attestati, elementi dell'uniforme, ma anche lettere, scritti, addirittura vecchissime banconote ormai fuori corso aventi un semplice valore storico, tutti i ricordi di G.B. Palombo sono stati conservati dalla figlia Sonia. Ed alla testimonianza tangibile di quei tempi di guerra, leggendo tutti quei documenti ormai storici, oltre ai ricordi dei racconti del padre, si è sommato il desiderio di saperne di più, di conoscere i luoghi in cui G.B. Palombo si trovò a combattere. Ai viaggi turistici nel Friuli-Venezia Giulia, a Gorizia, a Redipuglia, a Trieste, sul Piave, a Vittorio Veneto, si sono affiancate lunghe ricerche su libri e pubblicazioni specializzate sulla Grande Guerra. Nelle motivazioni della concessione delle decorazioni e degli attestati di benemerenza ricevuti da G.B. Palombo, per ovvi motivi di sicurezza e segretezza militare non viene mai specificata la località esatta del fatto d'armi, ma un generico e laconico "Zona di Guerra". Ma, fortunatamente, su alcuni di questi stessi documenti è riportato il Reparto in cui era stato inquadrato; il IX Battaglione Bersaglieri Ciclisti della "Invitta" Terza Armata del Generale Emanuele Filiberto Duca d'Aosta.

 

   

Villa Santo Stefano (prov. FR, ab. 1780)

posta su di un colle, domina la valle dell'Amaseno. Nella valle esisteva un precedente insediamento, "Castrum Sancto Stephani de Valle", in seguito alle numerose invasioni e guerre dopo la fine dell'Impero Romano; l'abitato venne portato in una posizione migliore di difesa. Il centro storico fu costruito nel medioevo e con Pisterzo e Prossedi costituiva una base strategica sulla sottostante vallata. La leggenda vuole però che il paese abbia dato ospitalità al mitico re volsco Metabo, padre di Camilla. Villa Santo Stefano fu per molti anni in possesso dei Conti di Ceccano, padroni nel XIII sec. di quasi tutta la zona, i quali la fortificarono con un poderoso torrione cilindrico e con una serie di mura nella zona Portella. Nel 1562 Villa Santo Stefano entrò in possesso dei Colonna, ai quali rimase fino alla generale soppressione dei feudi avvenuta con Napoleone. Centro storico: Un massiccio torrione circolare del XIII sec., detto Torre del Re Metabo a due piani, controlla la sottostante porta d'ingresso. L'abitato del centro storico presenta strade strette, numerose gradinate, case a più piani poste a diversi livelli. Una caratteristica è data da archi in muratura che uniscono gli edifici ai due lati delle stradine, in modo da avere numerosi cripto-portici. La minuscola piazza Mons. Amasio Bonomi è dominata dalla facciata barocca della chiesa di Santa Maria. Questa, a tre navate, presenta un alto campanile movimentato soltanto da alte monofore arcuate e poste nella cella campanaria. Interessanti sono i ruderi della chiesa di San Pietro. Questa, di stile barocco, non fu mai portata a termine: la copertura, che doveva essere a cupola, non fu neppure iniziata; si notano due ampie cappelle laterali e un'abside.

Estratti da "LA XIII COMUNITA' MONTANA DEI MONTI LEPINI": Luigi Zaccheo maggio 1980 ETIC-GRAFICA- Cori (LT)

 

Come è noto la 1° guerra mondiale  scoppiò il 28 luglio 1914, a seguito dell'assassinio dell'erede al Trono dell'Impero Austroungarico, l'Arciduca Francesco Ferdinando, da parte di terroristi Serbi. Il complesso sistema delle alleanze militari trascinò nel conflitto gran parte delle nazioni Europee e dei loro Imperi Coloniali. L'Italia, sebbene legata dalla "Triplice Alleanza" (Germania ed Austria-Ungheria), rimase neutrale. Il Paese si spaccò in due. I cosiddetti "Neutralisti" volevano rimanere fuori dal conflitto, mentre gli "Interventisti" volevano scendere in guerra ma non al fianco della alleanza bensì dell’Intesa tradendo la Triplice. Dopo quasi un anno di accesi dibattiti parlamentari, manifestazioni (anche violente) di piazza, interventi di personaggi illustri (come il poeta Gabriele D'Annunzio), il Governo (ma principalmente il Re)  fecero la scelta. La Guerra contro gli Austraici. Il 24 maggio del 1915  l'Italia, varcando i confini del 1866, attaccava l'Impero Austroungarico, con il non celato proposito di completare il risorgimento relativamente a terre dove l’etnia italiana era ancora forte (Trentino, Istria, Dalmazia).

All'entrata  in guerra dell'Italia G.B. Palombo non si trovava nel paese. A quell'epoca il nostro Paese era terra di emigranti e anche Giovan Battista (nato nel 1892 e conosciuto da tutti in paese come "Titta"), come tanti altri si imbarcò giovanissimo per gli Usa alla ricerca di lavoro e di fortuna. Gli Stati Uniti sono sempre stati il Grande Paese delle Opportunità. La Nazione che persino nella propria Costituzione prevede "il diritto alla ricerca della felicità". Certamente in quegli anni, gli emigranti (risorsa importantissima per un Paese sterminato e poco popolato) non sempre erano particolarmente ben visti, soprattutto se venivano da nazioni "latine". Ma per chi aveva capacità e voglia di lavorare le porte erano aperte. G.B. Palombo, giovane volonteroso ed onesto, si stabilì nello Stato di New York poi in Pennsylvania. Gli Stati Uniti, sin dalla fine della loro Guerra di Indipendenza, seguivano una politica di non ingerenza negli affari delle Nazioni del Vecchio Continente. Nel contempo, mediante la cosiddetta "Dottrina Monroe" (dal nome del Presidente J. Monroe 1817-1825 che l'aveva formulata nel 1823), avevano impedito, dissuaso anche militarmente, qualsiasi intervento delle Potenze Europee nelle vicende delle Americhe contro i regimi coloniali spagnoli e portoghesi (ma non solo) che stavano andando in pezzi. Sintetizzando tale dottrina era celebre dalla frase "L'America agli Americani". Pertanto, quando in Europa scoppiò la "Grande Guerra", il Governo Americano si guardò bene dall'intervenire seguendo la tendenza isolazionista e neutralista che ora si ispirava a una nuova versione della dottrina Monroe, l'imperialismo.  Non esistevano leggi federali o trattati internazionali che obbligassero il Governo della più grande democrazia del Mondo a rimandare gli emigrati in Italia, dove, dopo il 24 maggio 1915 sarebbero finiti al fronte a combattere. Giovan Battista Palombo fece la sua scelta. Non si imboscò. Avrebbe potuto farlo legalmente, semplicemente rimanendo a lavorare negli Stati Uniti ed invece si imbarcò a New York. Fortunatamente la sua nave non fu colpita e riuscì a rientrare in Italia dove si arruolò volontario (la sua classe non era ancora in chiamata) nel Regio Esercito Italiano. (Rientrare in Italia era pericolosissimo. Bisognava riattraversare l'Oceano Atlantico, infestato dai sottomarini U-BooT tedeschi che affondavano tutte le navi, anche neutrali. Clamoroso fu l'affondamento, il 7 maggio del 1915, al largo delle coste irlandesi, del celebre transatlantico Usa "Lusitania". Ma la Marina Tedesca era stata chiara: nessun rifornimento alle Isole Britanniche ed ai porti Francesi).

     

nel passaggio da ciclista ad ardito ci aveva rimesso i gambali di cuoio

 

Non entrò a far parte di un Corpo qualsiasi bensì di uno dei più duri ma anche circondato da un alone di romanticismo; quello dei "Bersaglieri Ciclisti"; il IX Battaglione, appartenente al XXVIII Corpo d'Armata, parte integrante della "Invitta" Terza Armata. Con questa divisa, G.B. Palombo ebbe il suo "battesimo del fuoco" sul fiume Isonzo. Si batté alle porte di Gorizia, durante la cosiddetta "VI Battaglia dell'Isonzo", durata dal 6 all'8 agosto 1916 che portò alla liberazione della città giuliana. Qui ottenne, per il coraggio dimostrato in combattimento, il suo primo riconoscimento. La città di Gorizia era stata fortificata divenendo il "campo trincerato" più munito d'Europa. I monti che la circondavano, il S. Gabriele, il S. Michele, il Sabotino, il Montesanto, il Podgora ed altri ancora, erano stati anch'essi trasformati in inespugnabili fortezze. Uno di questi, il Podgora, dopo la battaglia con la quale gli Italiani riuscirono a conquistarlo, cambierà il nome in "calvario", a causa dell'enorme tributo di sangue versato.

Quando nell'estate del 1917, per volontà del Generale Capello, nacquero i Reparti d'Assalto degli Arditi, G.B. Palombo chiese ed ottenne di entrarne a far parte. Sorti appositamente per azioni e missioni molte volte senza ritorno, richiedevano ai propri uomini coraggio, sprezzo del pericolo, ma anche una preparazione ed un addestramento che non venivano impartiti ai normali fanti. Erano tutti giovani e giovanissimi, anche più di Giovanni e per essere accettati nei ranghi degli Arditi dovevano essere molto prestanti fisicamente. Svolgevano molta attività fisica e sport.  Per G.B. Palombo, quindi, alle peculiarità dei "Bersaglieri Ciclisti" si univano le caratteristiche da "mission impossible" degli Arditi. Assaltatori temerari, si lanciavano contro le trincee e le fortificazioni nemiche con i loro caratteristici "attacchi a valanga". A volte, per cogliere di sorpresa il nemico, andavano all'assalto, con il pugnale tra i denti e lanciando bombe a mano, senza il cannoneggiamento preparatorio dell'artiglieria che metteva sul chi vive il nemico. Trovavano sì i nemici non decimati dal bombardamento e con le difese intatte ma pativano meno perdite degli altri reparti, impegnati nei "classici" falcidianti attacchi frontali, proprio perché sfruttavano l'effetto sorpresa. Leggendario divenne il loro "Spirito di Corpo", il loro "cameratismo" ed il loro morale altissimo.

     

 

Giovanni con la tradizionale bici e senza il piumetto (che era stato proibito poiché ritenuto attira colpi cecchini) e i gambali

 

Al contrario degli altri milioni di soldati di tutte le nazioni belligeranti, che trasformati in una sorta di automi, di carne da cannone, andavano a morire all'assalto passivamente, gli Arditi si muovevano nella  consapevole adesione alle motivazioni della guerra ed agli ideali patriottici.  Ai reparti degli Arditi veniva risparmiata la dura vita di trincea, venivano alloggiati in comode caserme nelle retrovie del fronte. Avevano un soprassoldo, una disciplina meno rigida e formale, più licenze, permessi e vitto migliorato. I segni di riconoscimento di questi reparti erano il "fez" e le "fiamme" di colore nero, (cremisi per i bersaglieri, verdi per gli alpini e nere per la fanteria di linea) ed il distintivo con il teschio e le tibie. Usavano armi "sui generis", oltre al fedele pugnale infilato nella cintura, ed alle bombe a mano, utilizzavano i primi lanciagranate e lancia fiamme.  Di loro scrisse anche E. Hemingway che si unì al IX Reparto d'Assalto degli Arditi e fu con loro nei combattimenti di Bassano del Grappa. Dopo Gorizia il fronte si spostò sull'Altipiano della Bainsizza ed il conflitto si impantanò nuovamente. Di nuovo inutili assalti frontali della dottrina cosiddetta "di logoramento" allora imperante nei Comandi Militari. Nell'autunno del 1917 assieme alle piogge torrenziali che dalle Alpi si rovesciavano sulla pianura friulano-veneta, arrivò anche la disfatta di Caporetto, preparata ad arte con il contributo dei tedeschi svincolati dal fronte Russo dopo la Rivoluzione. Gli Arditi, assieme ad altri reparti, resistettero il più possibile, ma alla fine, sebbene mai sconfitti dagli Austroungarici, dovettero anche loro ripiegare sulla linea dal Grappa al Piave.

Cadorna, ritenuto colpevole della rotta fu destituito e sostituito dal Generale Armando Diaz che, anche migliorando le condizioni di vita dei soldati, risollevò il morale, riuscendo ad infondere coraggio e volontà di resistere. Alle fine di quello spaventoso inverno del ‘17, fatto di paura, di morti, di dispersi e di popolazioni civili in fuga dalle regioni invase dal nemico, si riuscì a bloccare l'avanzata degli Austroungarici. Ma questi, sebbene a loro volta provati da ormai quasi 5 anni di guerra su più fronti, riuscirono a raccogliere le forze per dare un ultima e decisiva spallata al fronte italiano.  "L'attacco dovrà essere fatto a guisa di uragano, con un avanzata ininterrotta sino all'Adige, i nostri primi obiettivi saranno le città di Treviso e Venezia" Dal discorso del Feldmaresciallo S. Boroevjc von Bojna, Comandante III° Gruppo Armate Austroungariche del Piave, ai suoi ufficiali ed alle sue truppe. – Villa Ancillotto di Spinè di Oderzo – 13 giugno 1918.

     

Si noti il moschetto corto in questa foto e l'arma  lunga  nella foto di sopra quando è ancora ciclista

*Giancarlo Pavat è nato il 20 giugno 1967 a Trieste, dove ha frequentato il Liceo Classico "Dante Alighieri". Studia Giurisprudenza a Roma. Città in cui lavora come dipendente della Pubblica Amministrazione. Sposato dal 1997 con Sonia Palombo, figlia del Bersagliere Ciclista Giovan Battista.

 

G.B. Palombo fu un prima linea anche qui. Si batté con coraggio e disperazione. Sul manico del suo pugnale d'Ardito si allungò la fila di tacche per ogni cecchino nemico ucciso. Fu coinvolto in scontri corpo a corpo con armi bianche. Per anni avrebbe raccontato ai figli di aver visto le acque del fiume Piave tingersi di rosso per lo spaventoso tributo di sangue. Il 27 giugno, mentre la battaglia si avviava verso la sua conclusione, ed ormai emergeva chiaramente che gli Italiani avevano compiuto un altro miracolo, respingendo (stavolta definitivamente) il nemico, il Comandante in Capo del XXVIII Corpo d'Armata appuntava, sul petto di G.B. Palombo, la Croce di Guerra per gli atti eroici compiuti durante i furiosi combattimenti. La guerra non finì con la "Battaglia del Solstizio". Continuò per altri 4 mesi, con altri combattimenti ed altro sangue e sofferenze. Finché il 24 ottobre 1918, il Gen. A. Diaz lanciò l'offensiva che si concluse vittoriosamente a Vittorio Veneto. Il 3 novembre 1918, dall'Incrociatore "Audace", i Bersaglieri sbarcarono a Trieste. G.B. Palombo raccontava spesso ai figli come, dal molo al quale avevano attraccato (e che ancora oggi porta il nome della storica nave da guerra), tra ali di folla acclamante, si riversarono nella centralissima "Piazza Grande" che prese il nome di "Piazza Unità d'Italia", ove vennero letteralmente sommersi dai Triestini tripudianti in lacrime.

Per il nostro paese iniziarono gli anni incerti e difficili del dopoguerra. La crisi economica, le tristi condizioni e le ingiustizie in cui versavano i reduci che tornavano alle proprie case, oltre alla situazione internazionale, concorsero al crollo dello Stato liberale e costituzionale. Proprio per questo G.B. Palombo, una volta smobilitato e tornato a Villa Santo Stefano in quel di Frosinone prese la decisione di ripartire per gli Usa, poco prima che Gabriele D'Annunzio, alla testa proprio degli Arditi, compisse l'Impresa di Fiume. Carico di gloria, con le sue decorazioni, Palombo si lasciava alle spalle la spaventosa crisi economica che imperversava nell'Italia del Dopoguerra. Era ancora giovane, forte, era passato attraverso esperienze terribili, aveva visto la morte in faccia decine e decine di volte, nulla poteva spaventarlo. Sbarcò a New York, da dove era partito quasi 5 anni prima, e dopo qualche anno acquisì la cittadinanza statunitense. Ma G.B. Palombo non recise mai il cordone ombelicale che l'univa alla propria Patria per la quale aveva combattuto (ndr e dalla quale poco aveva avuto). Vi ritornerà definitivamente negli anni '60. Nel 1968, il Presidente della Repubblica Saragat lo insignì del titolo di "Cavaliere di Vittorio Veneto" per i meriti acquisiti partecipando, in difesa dell'Italia, al conflitto di 50 anni prima.

     

Pavat, alpinista e subacqueo, pratica la speleologia e collabora con Musei ed assessorati alla cultura di amministrazioni locali. Ha scritto numerosi articoli di carattere storico e culturale su varie riviste anche a tiratura nazionale. Attualmente collabora con il quotidiano "Ciociaria Oggi".

I bersaglieri visti in una stampa americana

Nella prima foto in alto Giovanni ha una camicia nera con fiocco anarchico, fiamme di dimensioni esagerate il tutto fuori ordinanza come il teschio sul bavero della giacca. Da notare anche nelle foto di centro l’intreccio ricercato delle fasce gambiere non presente sugli altri che vestono il girocollo ma non sempre come i calzettoni che sostituivano le fasce gambiere o volgarmente pezze.

 

……. Dal canto suo Di Giorgio (comandante il corpo d’armata speciale) scusò (di fronte alla commissione) la mancata controffensiva della 20a divisione e giustificò pure la propria azione di comando adducendo a pretesto le difficoltà dell’azione di comando di una Grande Unità in quelle condizioni, segnate fra l’altro da molti fattori negativi. In particolare egli richiamò a sua discolpa “le difficoltà delle strade che, intasate di carreggio, di sbandati, di profughi, rendevano lenti, penosi, incerti i movimenti” e impedivano a lui di portarsi “sui punti del vasto fronte, dove”, spiegò, “sarebbe stato pur necessario dare un impulso personale e rendersi conto de visu dello stato delle cose e della fedele interpretazione ed esecuzione delle mie direttive e dei miei ordini”. Con sincero stupore, Di Giorgio lamentava come spesso egli aveva dovuto spostarsi a piedi, impiegando talvolta “lunghe ore di penosissima marcia per sbrigare negozi che, con un comando bene organizzato, avrei sbrigato in 5 minuti con una telefonata, o inviando sul luogo un provetto ufficiale di S.M.” Non era facile capire la ragione di tanti elogi, o forse sì... Il generale Barco, a dirla tutta, non aveva combinato granché, però si era segnalato per il ferreo controllo esercitato sui suoi uomini. Al pomeriggio del 3 novembre, dopo aver varcato il Tagliamento all’altezza di Andreis aveva fatto fucilare “da alcuni militari del suo seguito, un soldato del 73° fanteria, allontanatosi senza motivo dalle file”. Non era molto, ma forse era bastato per uscire assolto dalla Commissione. Il CdA Speciale continuò a combattere anche nei giorni successivi. Nella notte sul 5 novembre, l’unità ripiegò sulla destra del Meduna. In quel frangente, il 3°(III) gruppo bersaglieri (III-VI-IX btg. ciclisti) fu costretto ad allungare i tempi della marcia perché dovette evitare alcuni abitati caduti in mano nemica, tra cui Travesio e Toppo. Di fatto, verso le 14,30 i bersaglieri erano a Meduno, dove passavano alle dipendenze del XII Corpo d’Armata: le truppe erano “stanchissime, ma ancora in grado di combattere”. Alle 17,30 intervenne il Comando Retroguardie fissando il settore d’occupazione del Corpo Speciale (in quel momento forte di 8.600 fucili). Le unità ricevettero un ordine “perentorio”: in caso di attacco, erano richiesti “contegno aggressivo, truppa alla mano e contrattacchi”. Veniva inoltre raccomandato “il benessere delle truppe” suggerendo di sfruttare “le risorse locali” (saccheggio). Nel corso della giornata affluirono oltre il Meduna vari soldati non inquadrati, tra cui “alcuni dispersi dei battaglioni bersaglieri ciclisti”, subito riuniti e tenuti a disposizione dal comando. Alle 20.45 fu assegnato al Corpo un intero gruppo battaglioni ciclisti. Nel frattempo, un distaccamento avanzato (nucleo arditi e due compagnie) curò la protezione dell’ala sinistra. Il giorno dopo, il gruppo Mautino (“residui del battaglione misto formato coi resti del 2°  e 9° bersaglieri” nonché unità alpini e mitragliatrici) venne posto alle dipendenze della 20a divisione, con l’incarico di far parte delle retroguardie. Alle 08.15 i comandi della l6a divisione di fanteria e 3a di cavalleria ricevettero l’ordine di assumere notizie sul XII Corpo d’Armata che non dava segni di vita. Nel frattempo, il III gruppo bersaglieri ciclisti (Com. Sifola) passava alle dipendenze del Corpo d’Armata Speciale, e veniva subito impiegato per la sorveglianza delle linee avanzate. Sulla base di documenti catturati al nemico vennero tratteggiate situazione e intenzioni del nemico. Nel corso della giornata aumentò la pressione nemica, e alle 21.15 il Comando retroguardie confermò al Corpo d’Armata Speciale l’ordine di appoggiarsi, dopo aver passato il Monticano, alle alture di Vittorio (Veneto)-Conegliano, per coprire “ad ogni costo” il tratto del Piave antistante al Montello e di ripiegare, occorrendo, per il ponte di Vidor. Alle 21.30 il Corpo d’Armata inviò due battaglioni ciclisti al ponte di Vidor. Alle 22, il Corpo d’Armata Speciale comunicò l’ordine per il ripiegamento. Nel maggio del 1915 i bersaglieri ciclisti erano balzati in avanti e primi fra i primi soldati dell’avanguardia avevano preceduto l’avanzata del R.E.I.. Nel novembre del 17, ultimi tra gli ultimi avevano protetto la ritirata. Era il loro mestiere e l’avevano svolto con dedizione ed efficacia. Da Piume a Nord Est di Antonio Sema.

 

Oggi, a guardare le placide anse del fiume Piave, si stenta a credere che lì, circa 90 anni fa, si scatenò l'inferno in Terra. Eppure, se rimaniamo fermi lungo l'argine, in silenzio, possiamo ancora percepire tutto il dolore, il dramma di quei terrificanti e lontani avvenimenti. A ricordarlo sono poi i numerosissimi monumenti, cippi e targhe commemorative che costellano la Bassa Pianura Veneta e, più a est, gli immensi Sacrari di Redipuglia, Oslavia ed altri ancora, ove riposano tanti ragazzi immolatisi lassù. Ragazzi schierati da entrambi i lati del fronte. Il pensiero, infatti, deve andare anche a quanti si batterono, per scelta, per beffardo destino o per costrizione, dall'altra parte della barricata. Come il nonno di chi scrive. Il quale italiano d'Istria e quindi suddito Asburgico, venne chiamato alle armi, con l'ultima classe di leva, appena diciassettenne. Oggi Giovan Battista Palombo riposa nel cimitero di Villa S. Stefano. Sulla lastra di marmo nero del proprio sacello volle una sua fotografia di settantanni prima in divisa da Ardito e, come epitaffio una frase secca, concisa, l'insieme dei suoi titoli e qualifiche. Non potrebbe emergere più chiaramente il profondo amore per la propria Patria, intesa nel senso antico, latino, del termine. Ovvero la Terra dei propri Padri, la Terra natia. Un amore che ha segnato una vita intera.

Qualche tempo fa,uno degli ultimi cavalieri di Vittorio Veneto ancora in vita, Carlo Orelli (classe 1894), durante un ricevimento al Quirinale, davanti alle più alte cariche dello Stato così si espresse: 
"Eravamo legati alla nostra Bandiera, alla nostra divisa, ma non c'era astio ideologico, non c'era volontà d'annientamento del nemico. Dalla guerra non ho avuto alcun vantaggio, ma non ho combattuto per i vantaggi, per nulla che non fosse il nostro Paese".

 

Qui riposa l'Italo-Americano, Bersagliere Ciclista
Ardito Fiamme Rosse, Cavaliere di Vittorio Veneto


Giovan Battista Palombo

Torna all'indice di Carneade

Torna