RISORGIMENTO
Massimo Taparelli Marchese D'Azeglio
Massimo Taparelli d’Azeglio nasceva a Torino il 24 ottobre 1798 da una famiglia aristocratica, legata a solidi valori monarchici e cattolici. La madre Cristina Morozzo, marchesa di Bianzè e il padre Cesare, marchese dei feudi d’Azeglio e di Lagnasco, devotissimo come detto ai Savoia (ma anche alla chiesa http://www.treccani.it/enciclopedia/cesare-taparelli-marchese-di-azeglio_(Dizionario-Biografico)/ , tentarono inutilmente di infondere questi principi al figlio che invece si sarebbe mostrato ben presto insofferente delle imposizioni familiari, di quelle religiose e dell’obbligo scolastico. L’infanzia la trascorse, tra il 1800 e il 1807 in Toscana, dove la famiglia si era trasferita in conseguenza dell’occupazione francese del Piemonte (ma anche la Toscana divenne parte integrante della Francia). Fra le tante disgrazie di questo burrascoso periodo (I Savoia si erano ritirati in Sardegna) questa è considerata la minore perché l'esilio gli giovò: lo aprì a nuovi orizzonti rari nei suoi coetanei Piemontesi d'allora: l'avviò ad essere più profondamente italiano (dopo il Gioberti si dice). Nel 1807, in seguito a un editto dell’imperatore francese, che intima il ritorno in patria ai piemontesi residenti all’"estero", pena il sequestro dei beni, tutta la famiglia fa ritorno a Torino. Massimo fu mandato a studiare dapprima all’oratorio di padre Polan indi alla scuola gesuitica tenuta dall’abate Guala. Studiò retorica con il professor Bertone e per finire fu ammesso all’Università, dedicandosi con scarso impegno agli studi filosofici e scientifici. A Torino le sue prime impressioni (giovanili) politiche furono il contrasto tra gli ultimi anni della dominazione napoleonica e i primi della Restaurazione. Ma, più che la politica, egli sentiva allora la passione di vivere e divertirsi. Nel 1814 con il ritorno di Vittorio Emanuele I, d’Azeglio, che aveva appena intrapreso la carriera militare entrando nella Guardia urbana, seguì il genitore nominato ambasciatore presso la Santa Sede a Roma. Questo grazie ai meriti conseguiti in patria per aver prestato soccorso al clero perseguitato dai francesi. |
1a parte
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Il suo stile di vita non era però cambiato neanche a Roma e l’incontro col professor G. Bidone lo spinse, solo in seguito, ad approfondire il patrimonio artistico e culturale che comunque sopravviveva nell’antica -Caput Mundi- dalle cui profondità si estraevano tesori che andavano a rimpinguare le collezioni cardinalizie. Durante questo primo breve soggiorno romano aveva infatti conosciuto aristocratici e prelati, committenti ed antiquari, conosciuto artisti del calibro di Antonio Canova, Bertel Thorwaldsen e soprattutto uomini di teatro, il librettista Jacopo Ferretti, il commediografo Giovanni Gherardo De Rossi e astri del panorama musicale contemporaneo come Gioacchino Rossini e Niccolò Paganini. Al ritorno in Piemonte entrò in Cavalleria ‘Piemonte Reale’ mentre il padre andava a ricoprire la carica di governatore di Casal Monferrato: ma come detto era in arrivo la conversione sulla “via di Damasco” che lo riporterà in seguito a Roma. .
da I
maestri all'università: la Scuola pedagogica di Roma, 1904-1923 Di
Alberto Barausse
. .
da -Il sor
Checco Tozzi - Di Massimo d' Azeglio Il primo frutto maturo del suo apprendistato pittorico giunse nel 1825, con la composizione di un dipinto, Morte di Montmorency, che coniugava la pittura di paesaggio con il soggetto storico e che riscosse apprezzamenti a Roma ma soprattutto lo rivelò in patria, dove fu presentato con successo a Carlo Felice. Di ritorno a Torino, realizzò il grande quadro intitolato "La disfida di Barletta", primo lavoro di ispirazione patriottica che segnò un’autentica svolta nella sua carriera e fu esposto con successo a Milano nella Pinacoteca di Brera. Dalla pittura al vero e proprio romanzo storico il passo fu ancora più breve. Ma quale prosa usare? Non quella aulica, classicheggiante, di cui s'era servito nelle composizioni giovanili ma la prosa moderna, di cui era maestro insuperabile Alessandro Manzoni; e l'A. andò a stabilirsi nel marzo del 1831 a Milano: si mise a scuola del grande lombardo, di cui sposò la figlia Giulia (23/12/1808-20/9/1834 da cui ebbe Alessandrina nata il 10/1/1834), e, servendosi dei suoi consigli, pubblicò a Milano nel 1833 il romanzo Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta, che ebbe un successo strepitoso. Si può immaginare una sfida tra “Italiani” e francesi sul suolo deriso della penisola: c’era di tutto e di più per cavalcare il sogno unitario e antiaustriaco. Da nord a sud divenne il bestseller di piemontesi, toscani, romani e lombardi ma anche di giovani patrioti meridionali come Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini, che ne furono lettori entusiasti. Dopo il secondo romanzo, Niccolò dei Lapi, che non era andato bene come il primo, si dedicò alla composizione d'un terzo romanzo, La Lega Lombarda (quella del Carroccio, storia del secolo XII, suggeritogli dal soggetto di un altro suo noto dipinto, La battaglia di Legnano), nel quale voleva romanzescamente colorire il mito storiografico neoguelfo, della funzione patriottica del papato. Vi lavorò fino al 1845-46, ma gli avvenimenti politici del 1845 lo distolsero da quest' opera (fermatasi all’8° capitolo) e lo spinsero all'aperta polemica politica pubblica (ormai aveva l'età per decidere cosa fare da grande). L'A aderiva alla fine del 1844 all’invito che gli amici romani gli avevano fatto per la direzione del movimento liberale in Romagna e col passaporto segreto della « trafila » mazziniana, compi il suo avventuroso giro politico in Romagna nel settembre del '45. Predicava la fiducia in Carlo Alberto e smontava le diffidenze verso di lui delle vendite carbonaresche, stigmatizzando i moti violenti, propugnando nuovi metodi di agitazione legale, tentando in una parola di attrarre nell'orbita del riformismo i partiti estremi. Terminato il viaggio, l'A. ottenne a Torino un'udienza da Carlo Alberto (12 ott. 1845, secondo il De Rubris) dove gli parlò delle speranze dei Romagnoli in lui riposte, e Carlo Alberto rispose con le celebri parole: “Faccia sapere a quei Signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi che, presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana”. Prima ancora di pronunciare queste parole pero, Rimini, come era insorta così era stata repressa. Nasceva un libricino clandestino (in Piemonte non vollero pubblicarlo) - Degli ultimi casi di Romagna - scritto a 4 mani e uscito nel 1846. Si scoprì poi che era stato stampato di nascosto in Toscana da cui fu D'Azeglio espulso. I nobili non andavano in galera, venivano espulsi. |
Carriera Militare:
Colonnello insignito di Medaglia d’argento per i fatti di Vicenza. altre onorificenze
*Lettera di D’Azeglio al
Ministro della Guerra
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Con - i Casi ... - il partito moderato
usciva dalle zone dell'alta politica, dei dotti volumi, e scendeva nelle
piazze con un linguaggio facile, piano, alla buona comprensibile da
tutti anche dai "cafoni". Si cominciò a vedere allora
in lui un messaggero della nuova era nell’opera di riconciliazione
nazionale: metteva pace tra Balbo e Giusti, tra moderati neoguelfì e
moderati anti-guelfi ; persuadeva Genova a restituire a Pisa le catene
della Meloria per simboleggiare la fine di ogni contrasto municipale e
campanilistico;
faceva offrire una spada d'onore a Garibaldi, che si era coperto di
gloria nell'Uruguay; cercava di sopire i contrasti sociali tra nobiltà e
borghesia con un articolo sull' Antologia Italiana di Torino. I
reazionari suoi conterranei, per opera di Solaro, tentarono di far espellere
l'A. da Torino, ma non vi riuscirono. Carlo Alberto però non si
pronunciava (per questo lo chiamavano tentenna) e in contraddizione alla sua fede D'Azeglio chiese udienza al nuovo
papa, attorno al quale s'era aperta un’aurea di orgoglio nazionale. Prima,
però, di ottenere dal papa il permesso di rientrare nello Stato romano,
scrisse una lettera a Marco Minghetti, membro della consulta di
stato, nella quale attenuava il linguaggio dei -Casi- contro il
governo papale. Così il 6 febbr.1847 salpava da Genova alla nuova conquista
di Roma. A Roma, il 13 febbr., ottenne un'intervista da Pio IX
riferita in una famosa lettera al cugino Balbo, che fu ampiamente diffusa e
divenne l'anima del movimento moderato. Ma ormai era la guerra, tante volte sognata,
contro il nemico d'oltralpe, dichiarata finalmente a viso aperto e,
quando Carlo Alberto nominò Balbo presidente del primo ministero
costituzionale, l'A. anziché raggiungerlo e collaborare con lui, preferì
pagare di persona sul campo. Dopo i fatti di Ferrara
(occupata dagli austriaci nell’agosto del 1847) il Papa si convinse a
schierare sul Po parte delle sue truppe in gran parte anche volontarie
della Romagna. In quella occasione Carlo Alberto aveva detto (in
una lettera al suo segretario resa pubblica)
"Vi scrivo
solamente due righe perché molte cose restano da fare. L'Austria ha
diramato una nota a tutte le Potenze, in cui dichiara di voler mantenere
Ferrara, credendo d'averne il diritto. Al mio ritorno da Racconigi ho
trovato una gran folla davanti il palazzo: una dimostrazione contenuta e
senza grida. Se la Provvidenza ci manda la guerra dell'indipendenza
d'Italia, io monterò a cavallo con i miei figli, mi porrò alla testa del
mio esercito e farò come fa ora Sciamyl in Russia. Che bel giorno sarà
quello in cui si potrà gridare alla guerra dell'indipendenza italiana".
Massimo d’Azeglio intanto fungeva da aiutante di campo di Giovanni Durando
sul Po col
grado di Colonnello e si occupava quando poteva dei proclami. La
missione però era un po’ uscita dal seminato delle intenzioni papali,
che non è solo il papa degli italiani e che
non aveva nessuna voglia di mettersi contro la cattolicissima Vienna a
favore di altri non altrettanto dichiaratamente fedeli. Con l’allocuzione del 29
aprile 1848 Pio IX sconfesso l’operato di Durando che si apprestava a
passare il fiume. ..un passo NELLA SECONDA PARTE LA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA E LA DIREZIONE DEL GOVERNO CON LA LEGGE SICCARDI |
Cesare Balbo (Torino, 21 novembre 1789- 3 giugno 1853) figlio di Prospero Balbo e di Enrichetta Taparelli d'Azeglio era di 10 anni più vecchio di Massimo D'Azeglio suo cugino. Oltre al fratello Roberto la famiglia in odore di santità (stanno tutti fra i beati) aveva un fratello prete di nome Prospero 1793/1862. Prospero era infatti il quarto degli otto figli (5 viventi), di Cesare conte di Lagnasco e marchese di Montanera, diplomatico della corte di Vittorio Emanuele I, e della contessa Cristina Morozzo di Bianzé. Gli fu imposto il nome di Prospero, che al momento di diventare Gesuita cambiò in Luigi in segno di devozione per san Luigi Gonzaga. Maturò la propria vocazione religiosa a seguito di un corso di esercizi spirituali dettati dal venerabile Pio Bruno Lanteri (1759-1830) solo da giovinetto. Studiò prima nel Collegio Tolomei di Siena quando all’avanzata delle armate di Napoleone Bonaparte (1800) il padre Cesare riparò in Toscana. Il padre Cesare era stato animatore in Piemonte delle Amicizie Cattoliche (sorte dall’iniziativa del venerabile Lanteri) e fondatore del giornale l’Amico d’Italia chiaramente antinapoleonico e papista o neoguelfo. A Siena, retta dai padri scolopi, conosce il conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869), futuro segretario di Stato per gli Affari Esteri del regno di Sardegna. Studia poi all'Ateneo di Torino fino al 1809 conseguendo il diploma in Magistero. Chiamato alla scuola militare di St.-Cyr, a Parigi, dopo sette mesi ottiene la dispensa dalle armi e può definitivamente dedicarsi agli studi sacri. Quando suo padre fu inviato come diplomatico alla corte di Pio VII nel 1814 si trasferì con lui a Roma ed entrò nel noviziato dei gesuiti di Sant'Andrea del Quirinale. Fu ordinato presbitero nel 1820. |
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Massimo aveva un fratello Roberto che sposa nel 1814 Costanza Alfieri dei marchesi di Sostegno, cugini di Vittorio Alfieri. Costanza nasce a Torino da Carlo Emanuele Alfieri di Sostegno e da Carlotta Melania Duchi il 27 gennaio 1793. A vent'anni (17/1/1814) sposa Roberto d’Azeglio 24enne ufficiale di cavalleria e primogenito del Marchese Cesare dal quale ha due figli, Melania (1814) che muore nel 1841 (sposata al marchese Salvatore Pes di Villamarina) e Emanuele (1816) che intraprende la carriera diplomatica nel 1838. I due sin dal principio della loro vita matrimoniale si trovano a dover contrastare le tenaci resistenze dell’ambiente conservatore in cui vivono i genitori di lui e, contro la loro volontà, invitano nel proprio salotto i patrioti che saranno fautori dei moti del 1821. Dopo una assenza "forzata" dal Piemonte di 5 anni fanno ritorno in Patria riaprendo le porte di casa ai principali personaggi Risorgimentali. Insieme a Cavour (Tesoriere) istituisce la Società delle sale per l’infanzia e anni dopo, in Borgo Po, un asilo maschile e una scuola diretta dai Fratelli cristiani per ragazzi e ragazze dai 2 ai 15 e, insieme alla sorella contessa di Favria e alla cognata Luisa Costa della Trinità sposata a Cesare Alfieri, fonda il “Ricovero delle povere figlie detto della Misericordia”, oggi Opera Pia Carrù. Nel 1832 Il marito Roberto è nominato dal Re Carlo Alberto direttore della Regia Pinacoteca, ora Galleria Sabauda, carica che mantenne fino al 1854 quando fu sostituito dal fratello Massimo. Muore a Torino nello stesso anno del marito (1862). Il figlio Vittorio Emanuele dopo essere passato attraverso le legazioni sarde di Vienna, Aja, Bruxelles, San Pietroburgo, arriva a Londra (1850) dove rimane fino al 1868 come ministro plenipotenziario (era però stato nei momenti cruciali della I guerra di indipendenza a Parigi per partecipare alle trattative di pace tra Piemonte e Austria). Rientrato a Torino si interessa al Museo Civico d'Arte Antica, donando ad esso le proprie preziose collezioni di ceramiche, di vetri dorati graffiti e dipinti, una delle più importanti al mondo per numero e qualità delle opere. Nel 1879 ne diviene anche direttore fino alla morte. Tra lui e la madre aveva avuto corso un fitto scambio di lettere che nel 1884 viene dato alle stampe presso la casa editrice F.lli Botta con il titolo “Souvenirs historiques de la marquise Constance d’Azeglio née Alfieri tirés de sa correspondance avec son fils Emanuel avec l’addition de quelques lettres de son mari le marquis Roberto d’Azeglio, de 1835 à 1861” e, nello stesso anno, l’altra opera in omaggio alla famiglia paterna e in particolare allo zio Massimo, “Une famille piémontaise au moment de s’éteindre»”. Muore il 24 aprile 1890. a Roma. |
Costanza Alfieri d'Azeglio |
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..Stando così le cose, Noi, ai nostri soldati mandati al confine pontificio (con l'Austria) raccomandammo soltanto di difendere l'integrità e la sicurezza dello Stato della Chiesa. Ma se a quel punto, alcuni desideravano che noi assieme con altri popoli e principi d' Italia prendessimo parte alla guerra contro gli Austriaci, giudicammo conveniente palesar chiaro ed apertamente in questa solenne radunanza che ciò è lontano dalle Nostre intenzioni e consigli, essendo Noi, sebbene indegni, facciamo in terra le veci di Colui che è autore di pace e amatore di carità, e secondo l'ufficio del supremo nostro apostolato proseguiamo ed abbracciamo tutte le genti, popoli e nazioni con pari paternale amore. E se non mancano tra i nostri sudditi coloro che si lasciano trarre dall'esempio di altri italiani, Noi potremo contenere codesto ardore. Qui non possiamo astenerci dal ripudiare al cospetto di tutte le genti i subdoli consigli, palesati eziandio per giornali e per vari opuscoli, da coloro i quali vorrebbero che il Pontefice romano fosse capo e presiedesse a costituire una simile nuova Repubblica degli universi popoli d'Italia. Anzi in quest'occasione ammoniamo e confortiamo gli stessi popoli d' Italia, mossi a ciò dall'amore che loro portiamo, che si guardino attentamente da siffatti astuti consigli e perniciosi alla stessa Italia, e di restare attaccati fermamente ai loro principi, di cui sperimentarono già la benevolenza e non si lascino mai staccare dalla debita osservanza verso di loro.... | All'altro fratello Luigi, Gesuita, scriveva …E l'asserire poi da ciò, che non ho animo cattolico, sarebbe una strana deduzione. Il dire che non si può essere insieme cattolico e liberale, è una di quelle accuse che ogni partito getta al partito contrario, o per dir meglio, gettava; e che oramai non trovan più luogo né negli scritti né nei discorsi di chi pensa un po' seriamente: e non le vedi neppur più comparire nelle colonne della "Gazette de France" e della "Quotidienne". Caro fratello, si tratta di leggi, di sicurezza personale, di gabelle, d' imposizioni, di commercio, d' istruzione; e non di questioni teologiche. Ed il voler essere Principe per opprimere e consumare i sudditi; e diventar poi Papa per impedir loro, come cattolici, d' alzar un lamento, lascio a te il giudicare che modo sia... |