RISORGIMENTO
Massimo Taparelli Marchese D'Azeglio - 2a parte
D’Azeglio continuò la guerra e il 10 giugno 1848 fu ferito a Monte Berico nell'eroica difesa di Vicenza. Mentre la guerra volgeva al peggio lui dal suo letto di “Dolore” Toscano (faceva riabilitazione dopo il primo intervento a Ferrara) continuava ad arringare i popoli d'Italia guadagnandosi un’altra espulsione. dalle memorie di Antonio Caregaro Negrin ... All’alba del successivo 11 Giugno le truppe, agli ordini del gen. Durando, uscirono dalla città e con esse naturalmente partirono, con gli onori militari, tutti coloro che avevano avuto tanta parte nell’eroica resistenza. Fra questi anche Negrin: "Non dirò dello strazio dell’anima mia e di mia moglie alla mia partenza. La marcia a piedi fino a Rovigo fu disastrosa, perché gli austriaci avevano devastato tutto ciò che potesse lenire ai vinti le pene del lungo viaggio. Molta strada la feci montato sopra un predellino della carrozza della famiglia Nievo, nella quale eravi l’illustre Massimo D’Azeglio ferito gravemente ad una gamba nel combattimento a Monte Berico. Gli tenevo sopra la ferita una vescica d’acqua fredda....
LETTERA ALLA FIGLIA ALESSANDRINA
(detta Rina figlia di Giulia Manzoni, rimasta senza madre in tenera
età)
Tornò a Torino, dove il 10 dic.1848 gli fu offerta la presidenza del Consiglio dei ministri, che egli rifiutò e che venne presa invece da Gioberti (un prete). Dapprima l'A. avversò Gioberti ma, quando lo vide assai più moderato di quello che non lasciassero temere le sue parole, non gli negò il suo appoggio. Dopo la rotta di Novara del 7 maggio e la conseguente abdicazione di Carlo Alberto, in un momento difficile, accettò il compito di presiedere il Consiglio dei ministri (7 maggio 1849 - 4 novembre 1852) dopo 2 personaggi "ignoti". Il problema più grave era la pace che, per l'opposizione della Camera, si complicava con la questione istituzionale. Farà firmare al giovane Re Vittorio Emanuele II la pace, tra dolorosi contrasti (proclama di Moncalieri del 20 novembre 1849 con 2 scioglimenti di camere, l'ultimo con elezioni indette per il 9 e 13 dicembre - È certo che d’Azeglio sfruttò tutti i mezzi di pressione a disposizione per avere un esito favorevole. Su 87.000 aventi diritto votarono 80.000 elettori, mentre in giugno avevano esercitato il loro diritto in 30.000. Il Presidente del Consiglio, soddisfatto della nuova Camera, tirò alfine un lungo sospiro di sollievo) e rimarrà in carica fino al 1852 quando gli subentrerà Cavour. Si apriva un’epoca di riforme vere in una penisola dove tutti avevano rimesso la marcia indietro. l'A. poté in toto dedicarsi alla sua opera di ricostruzione. L'esercito fu riorganizzato; Casale venne fortificata; il Piemonte divenne asilo di migliaia di intellettuali e cominciò ad essere punto d'attrazione per il resto della penisola. Con l'abolizione del foro ecclesiastico (5 febbr. 1850), l'A. avviò la trasformazione del Piemonte in stato liberale laico moderno e mantenne coraggiosamente le sue riforme contro tutti gli attacchi del clero. Tra gli altri Giovanni Nigra che riorganizzò le finanze e Cavour, entrato nel ministero l'11 ott. 1850, che diede nuovo impulso al commercio. |
COSE D'ALTRI TEMPI Lettera al Ministro dell'Interno. Quand' io lasciai il posto di governatore di Milano, fui messo in
disponibiìità con metà dello stipendio.
Trovo di poter fare a meno della somma che importa. Considerando che io
d'altronde già ricevo dallo Stato 5000 franchi, come direttore della
Galleria, mi par dovere nelle attuali condizioni delle finanze di
rinunziare al soldo di disponibilità. Prego l’E. V. a voler dare gli
ordini in conseguenza, ed a credermi con tutta osservanza |
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All' estero (fuori dal Piemonte), se l'A. non riuscì a mantenere fedeli al regime costituzionale gli altri Stati della penisola con la missione Balbo a Gaeta del 1849, ebbe invece l'appoggio morale entusiasta dell'Inghilterra e, salvo qualche noia per la libertà di stampa, godé anche dell'appoggio della Francia Repubblicana. La sua caduta si deve imputare ad un fatto solo: non condivideva le prolisse discussioni politiche da parte di gente che si identificava or in uno schieramento politico or in un altro quando l’obiettivo era uno solo. Si annoiava infatti delle lunghe discussioni parlamentari e non sapeva dominarle. 25/9/1849 alla moglie Luisa Blondel nata Maumary- Ti scrivo dalla Camera, dove si sta battagliando per sapere se ci devono dare i denari da pagare all’Austria l’indennità !!!!!! Ti puoi immaginare il diluvio di stupidità che piovono sulle spalle del ministero, e che sento come il mormorio d’un ruscelletto senza capirne il senso… Se non prendevo questo momento credo che difficilmente avrei potuto scriverti. Finché non è finita questa discussione… non s’ha un momento, ed oggi non ho neppur potuto leggere un dispaccio. Se non fosse il pensiero del resto d’Italia, credo che questa Camera sarebbe già a casa. Ma ciò renderebbe più arduo il mantenere qualche istituz[ion]e negli altri Stati. Perciò si sopporta, ma se scambiassero questo sopportare colla paura o la debolezza, sbaglierebbero assai… prega Dio che mi dia pazienza. Non sapeva fare sintesi cosa che non mancherà al Cavour a cui prestò comunque aiuto in più occasioni, non considerandolo suo nemico. Nel 1859 tornò alla vita politica accettando dal governo sabaudo l’incarico di plenipotenziario a Roma e poi a Parigi e a Londra, dove operò senza tuttavia sortire risultati apprezzabili per la soluzione della causa italiana. Nello stesso anno fu inviato a Bologna come commissario straordinario per la sollevazione della Romagna, impegnandosi con successo a favore dell’annessione dell’Italia centrale al Piemonte. Il suo rapporto con Cavour andò progressivamente deteriorandosi a causa delle profonde divergenze di vedute politiche circa il processo di unificazione della penisola (sud) dopo la spedizione dei Mille. D’Azeglio vi si opponeva vigorosamente, non giudicando sufficientemente matura la partecipazione del Sud al movimento risorgimentale essendo già scarsa quella dell'Italia Centrale. Questo dissenso s'acuì ulteriormente per il disaccordo sulla questione romana. Il vecchio e malato (62 anni) d’Azeglio visse a Cannero gli ultimi anni della sua ormai solitaria esistenza, amareggiato dalla morte de fratelli superstiti, Roberto e Prospero e dalla lontananza dell’unica figlia, Alessandrina, e si dedicò, a partire dagli inizi del 1863, a scrivere le sue memorie -I miei ricordi- Per saperne di più "I miei ricordi" http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t207.pdf . Aggravatosi nel dicembre 1865, morì il 16 del nuovo anno. |
In realtà, gli stati più estesi della penisola, quello Pontificio e il Regno delle Due Sicilie, non contenevano significativi germi di progresso culturale ed economico, né a livello istituzionale, né a livello sociale. Non a caso le loro classi intellettuali non elaborarono, neppure a unificazione avvenuta, alcuna teoria federalista che non fosse ancorata a vecchi privilegi storici o proiettata in avanti nell’inseguimento di utopie rivoluzionarie o sindacalistico-rivoluzionarie. Persino in un volume collettivo di qualche anno fa curato da Leonardo La Puma, Il federalismo nella cultura politica meridionale (Ed. Lacaita), emerge, sostanzialmente, l’inesistenza di una vera e propria cultura federalista nel Meridione. Non è solo in Giovanni Bovio, uno dei più eletti rappresentanti dell’intellighenzia napoletana di fine Ottocento, che <manca quella visione dei poteri degli stati federati che garantiscono la coesione e l’armonia di quelle che, altrimenti, resterebbero delle entità immiserite nella logica dei particolarismi comunali>. In quasi tutti i meridionali troviamo, a ben guardare, un federalismo strumentale: le autonomie diventano la testa d’ariete in grado di abbattere le fortezze di uno stato impari al suo compito di apportatore di benessere e di più elevate chances di vita per tutti. Quando ci si convince che quegli obiettivi potrebbero raggiungersi anche mediante il rafforzamento dello Stato, il federalismo e le autonomie vengono messe in un canto. Prof. Dino Cofrancesco, Università di Genova: L'Italia, il Risorgimento, l'Europa 2003
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Così scriveva il Prof . Scirocco in -
In difesa del Risorgimento - ... Era dal 1796 che non si apriva un dibattito sull'assetto della penisola e sul destino dell'Italia come nazione. Il fatto nuovo dello scenario politico era che i governi tolleravano (per un po’ ed entro certi limiti) la discussione sulle aspettative della classe dirigente (borghese) e sui compiti dei sovrani. Le osservazioni che prima si scambiavano in lettere private (rigorosamente segrete) ora trovavano posto in scritti sulla stampa (periodica o d’altra natura circolante coi problemi della distribuzione tipiche dell’epoca e della geografia del paese in tutta Italia o quasi come si è visto dalle numerose pubblicazioni di D’Azeglio). Grande risonanza ebbe un'altra ponderosa opera, Delle speranze d'Italia, di Cesare Balbo, scritta in risposta al Primato di Gioberti. Balbo mise a fuoco il problema dell'indipendenza dall'Austria, perché la presenza di una potenza straniera nella penisola condizionava l'azione dei prìncipi. Era questo l'obiettivo da raggiungere prima di ogni altro. Scartate le possibilità di un'azione concorde dei sovrani italiani, di una sollevazione popolare nazionale, e dell'intervento di un' altra potenza straniera, Balbo si dilungava sulle prospettive offerte dal disfacimento dell'impero turco (allora esteso dai Balcani a tutto il Medio Oriente), che si riteneva imminente. Lo scrittore si soffermava sull'interesse dell'Europa ad impedire che la Russia si impadronisse delle vie di accesso al Mediterraneo e a far sì che gran parte dei possedimenti turchi nei Balcani passasse agli Asburgo. In questo caso si poteva ragionevolmente supporre che, in ossequio al principio dell' equilibrio tra le grandi potenze, l'Austria fosse costretta a lasciare le province italiane (non in altra tutela). ……Non bisogna credere, però, che il discorso politico si saldasse pienamente col discorso sul mercato nazionale e sulla rivoluzione industriale. Ripetiamo che l'Italia non era ricca di materie prime e non aveva risorse che ne rendessero imminente il decollo (e l’indipendenza) tra i paesi industrializzati. Con la pubblicazione di libri, opuscoli, articoli su riviste e giornali, in Italia e all'estero, si ebbe tra il 1843 ed il 1846 un dibattito sull' assetto dell'Italia paragonabile a quello di fine '700. Allora, per le speranze suscitate dalla rivoluzione francese, avevano prevalso le aspettative rivolte all'unità e alla repubblica; ora, nell'immobilismo imposto dalle grandi potenze in nome dell'equilibrio europeo, le prospettive non andavano oltre la federazione con la conservazione della forma monarchica. Non in tutti i casi si consideravano le diversità regionali come una ricchezza da tutelare: Gioberti, per esempio, si augurava che col tempo i dialetti perdessero importanza e si generalizzasse l'uso dell'italiano, lingua per ora ristretta a poche persone (D’Azeglio scriveva e parlava fluentemente in Francese come la maggioranza della classe dirigente piemontese e la stessa corte o Parlamento in cui era lingua ufficiale, al sud era molto se qualcuno conosceva ancora l’uso dello spagnolo). Gioberti aveva indicato la possibilità di un progetto moderato. Balbo ne aveva mostrato la convenienza. Ad affermarne l'urgenza e a tradurre gli schemi politici in una strategia di medio periodo fu ancora un piemontese, Massimo D'Azeglio. Allora, per le simpatie di cui godeva e per il fatto di non essersi compromesso coi partiti, sembrò l'uomo adatto per avviare il dialogo con i cospiratori romagnoli…. |
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D'Azeglio era aperto al modo di vedere della borghesia, di cui comprendeva le preoccupazioni immediate, ed era in grado di esercitare una mediazione tra posizioni politiche diverse molto meglio del Gioberti, rimasto volontariamente in esilio (a Parigi e Bruxelles ma qui non si imparava a conoscere l’Italia) anche dopo il successo del Primato, e del Balbo, a disagio fuori dell'ambiente torinese !! …Il moto di Rimini offrì a D'Azeglio l'occasione di sottoporre a critica il malgoverno pontificio e il sistema delle cospirazioni: si scendeva finalmente sul «quotidiano» delle accuse ai governi e dei metodi di lotta. In un opuscolo, Degli ultimi casi di Romagna, pubblicato a Firenze nel marzo '46, D'Azeglio concorda col Balbo circa la priorità della indipendenza, e circa la necessità «che da tutti si dia mano alla grand'opera della nostra nazionale rigenerazione» e «di discutere liberamente senza mistero le cose nostre». … Non ci soffermeremo sull'ampia documentazione che D'Azeglio porta a sostegno delle sue asserzioni. Quello che ci interessa dell' opuscolo è il modo «innovatore» di affrontare la lotta politica che vi viene suggerito. Le grandi mutazioni negli stati avvengono gradualmente, egli afferma, e se talvolta appaiono rapide, in realtà sono state preparate da tempo «con lentezza e prudenza». Noi italiani non conosciamo «l'arte del maturare i disegni e prepararne la riuscita». «L'opinione (il giornalismo) è oggi la vera padrona del mondo», afferma ancora, cogliendo in anticipo il ruolo che stanno acquistando i media con lo sviluppo delle comunicazioni (è di questi anni l'invenzione del telegrafo che permette la trasmissione delle notizie in tempo reale e su lunghe distanze). Quanto maggiore sarà in Italia il numero di coloro che pubblicamente e saviamente discuteranno le cose nostre - è detto in conclusione -, che protesteranno in qualunque modo contro le ingiustizie che ci vengono usate, tanto più rapidamente e felicemente progrediremo nella via della rigenerazione. Questa congiura al chiaro giorno, col proprio nome scritto in fronte ad ognuno, è la sola utile, la sola degna di noi e del favore dell'opinione. L'opuscolo, scritto da D'Azeglio, ma durante la stesura discusso e messo a punto col concorso di esponenti del moderatismo piemontese, toscano, romagnolo, fu l'espressione di idee che si andavano affermando nell' opinione pubblica italiana. Diffuso in migliaia di copie, diede ulteriore impulso ai dibattiti sulle riforme. L'area moderata trovava un programma. Per la prima volta si passava dalle generiche esortazioni ai sovrani alla denunzia circostanziata di carenze e disfunzioni (in via di superamento nei paesi liberi e industriali) che avvalorava la richiesta di provvedimenti, indicati con precisione. |
Al fratello
Luigi, Gesuita, scriveva |
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Sono note come leggi Siccardi la n. 1013 del 9 /4/1850 e la n. 1037 del 5/6/ 1850 che abolirono i privilegi goduti fino ad allora dal clero cattolico. Furono seguite dalla cosiddetta L. Rattazzi n. 878 del 29/5/1855 e dalle L. n. 3036 del 7/7/ 1866 e n. 3848 del 15/8/1867. |
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LA LEGGE SICCARDI E LA VICENDA FRANSONI | ||
.. L' eguaglianza de' cittadini davanti alla legge era certamente fra le più importanti di dette applicazioni (Statuto); come quella che rappresenta il principio più unanimemente accettato, ed anzi il solo forse universalmente accettato e creduto in questa nostra età, che di tanti principii d' autorità ha veduto il naufragio. Era dunque insieme dovere, convenienza e necessità il modificare quella parte della legislazione che dal detto principio s'allontanava: ed a quest'atto il governo del Re è venuto non certo avventatamente; ma dopo lungo e maturo esame delle condizioni interne dello Stato… Una volta poi divenuta legge dello Stato, quella che abolisce il foro privilegiato degli ecclesiastici, venne per naturale conseguenza ad esserne affidata l’applicazione al potere giudiziario, sul quale non può il potere esecutivo esercitare, senza flagrante violazione d' ogni principia d' equità e di giustizia, autorità od influenza veruna. Dell'imparziale applicazione della legge poi per parte de' magistrati, a norma della loro coscienza e de' loro giuramenti, è stata dolorosa conseguenza l'arresto ed il giudizio di monsignore arcivescovo. Non era in mano del Re, del suo governo, né del magistrato l'evitargli né il primo né il secondo. Ma poteva bensì monsignore arcivescovo esimersi dall'arresto, se avesse voluto piegarsi a dar cauzione, secondo vuole la legge. Ma per fini, de' quali non intendo farmi giudice, egli stimava meglio non approfittare di questo mezzo: e posta così la questione fra la legge ed esso, era dovere del pubblico ministero mantener forza alla legge….Da una lettera del D’Azeglio Ma come si era arrivati a questo punto ?. Il guardasigilli Giuseppe Siccardi, su mandato del Governo D’Azeglio, aveva proposto le leggi che da lui presero nome (1850) e che avrebbero dovuto far crollare tre grandi pilastri su cui si fondava il potere temporale della chiesa cattolica su questioni che con la religione avevano poco o nulla a che fare. Il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia laica gli uomini di Chiesa macchiatisi di reati anche gravi sia nei confronti dei cittadini (e dello Stato) che di altri appartenenti al clero, il diritto di asilo, ovvero l'impunità giuridica di coloro che chiedevano rifugio nelle chiese, la manomorta e l'inalienabilità dei possedimenti ecclesiastici che venivano incamerati nel patrimonio della chiesa spesso per donazione lascito e che non avrebbero mai pagato tasse. La legge Siccardi alla fine toglieva alla Chiesa la autonoma giurisdizione e quindi il riconoscimento di essere “Stato nello Stato”con facili raffronti a situazioni odierne. |
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I cattolici intransigenti promossero una strenua resistenza, che continuò anche a seguito della promulgazione e sfociò con l'arresto dell'Arcivescovo di Torino, Luigi Giovanni Battista Maria Alessandro Fransoni, che venne processato e condannato (ad 1 mese di carcere) dopo aver invitato il clero alla disobbedienza. L'Arcivescovo fu rinchiuso a forte Fenestrelle e poi mandato in esilio a Lione ( http://www.fortedifenestrelle.com/Prigioni.html ). Quando mons. Fransoni nega i sacramenti al conte Pietro de Rossi di Santarosa*, cugino di Santorre di Santarosa (vietò al parroco di S. Carlo di somministragli i Sacramenti – 5 ago. 1850- e una sepoltura religiosa per aver appoggiato la Legge Siccardi), il cattolicissimo Silvio Pellico, legato a Santarosa da un rapporto di stima e di affetto, vive un forte contrasto interiore, non potendo né criticare l’operato del vescovo né difendere le scelte politiche dell’amico, che non condivide, ma che comunque non meritano, secondo il suo punto di vista, una sanzione così severa. Silvio Pellico aveva superato le sofferenze patite, sia durante il periodo del processo sia negli anni dello Spielberg, grazie alla fede religiosa. Il gravoso fatto causò a Torino commenti e gravi agitazioni in città e scontri. Il re stesso rientrato, non criticò i magistrati che avevano poi condannato l'arcivescovo, ma criticò aspramente il prelato, ed espresse un…. "sentimento di disprezzo e di indignazione contro l'autore di una simile nefandezza, il quale dimentico dei sacri doveri di religione e di carità, che doveva ispirargli il suo santo ministero, scendeva a sì bassa ed irreligiosa vendetta".... "con questi mezzi, e questi esempi non potremo mai costruire un felice e glorioso avvenire; non sono certo questi i mezzi per combattere i nemici" (trattamento uguale toccherà a lui in punto di morte). In una lettera del 18 maggio 1852, indirizzata a mons. Filippo Artico, Pellico scrive; "Ebbi la consolazione di baciare il piede del nostro sommo Pontefice e di confermarmi nel filiale vivissimo amore ch’io nutro per quel modello mirabile di paterna ed apostolica bontà (sta parlando di Pio IX !! non di una creatura soprannaturale). Non si può vedendo il suo volto, i suoi sguardi, e udendo le sue parole, non venerarlo, non amarlo teneramente, ed insieme non gemere della nera ingratitudine con cui tanti e tanti l’hanno rimeritato dei benefizi che spargeva e che avrebbe voluto maggiormente spargere. V. E. sente questo meglio di me. Figuriamoci quanta [aggiungasi] afflizione ancora oggidì al Papa delle discordie che si sono elevate e dalle presenti difficoltà d’aggiustarle. Egli sospira il momento di poter accontentare il Piemonte; ma il desiderato accordo non pare così prossimo. Nella mia ignoranza di siffatte cose, io mi riduco a far voti e pregare il Signore e Maria Vergine di far cessare questa nostra grande tribolazione disponendo tutti gli animi alla pace, sì ardentemente bramata dall’intera Chiesa e da Chi la regge". |
I primi 23 articoli dello statuto dettano le competenze della Corona mentre gli altri dal 24 al 32 riconoscono i diritti e doveri dei cittadini. I successivi fino al 67 dettano le disposizioni relative agli altri organi dello Stato. L'art. 24 diceva « Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi» *Ministro dei Lavori pubblici (1848), poi dell'Agricoltura e commercio (1849) con D’Azeglio. Dicastero che passa a Cavour alla sua morte con la Marina e le Finanze (da reggente). |
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Le sue vacanze |
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IL SUO DECLINO da dizionario biografico degli italiani | ||
.... Il suo costituzionalismo era una e specie di paternalismo costituzionale, che giovò peraltro molto ai difficili inizi del regime parlamentare in Italia. Come uomo di Stato, difettavano all'A. la continuità nel lavoro, che egli da artista amava soltanto a sprazzi e a scatti, la visione d'insieme lungiveggente, l'energia coordinatrice, la cultura tecnica nei problemi particolari. Salvo nella politica interna, nelle altre branche dell'amministrazione prevaleva la personalità dei singoli collaboratori: Giuseppe Siccardi, Giovanni Nigra, Cavour, Alessandro Iocteau, Alfonso La Marmora. Non fa meraviglia, quindi, che l'A. finisse col farsi sbalzare dal potere dal Cavour, che aveva tutte quelle doti che a lui mancavano, e fosse costretto a dimettersi il 22 otto 1852. Fino a quel giorno l'A. aveva preceduto gli eventi con mirabile fiuto ed era stato volta a volta pittore, romanziere, pubblicista, uomo politico e sempre al momento opportuno; d'allora in poi non precedè più i fatti, ma li segui. Non derivava ciò da ripieghi personali, né da affievolimento delle facoltà intellettive e dell'entusiasmo morale, ma dalle conseguenze eccessive che traeva dall'esperienza del 1848-49: un'Italia ancora immatura per la libertà e un'Europa ancora non disposta a comprenderla. Tuttavia, non mancò di secondare Cavour tutte le volte che ne fu richiesto, senza piccinerie personali. Quando il re, colpito da una serie di lutti (vedi Cavour 1a parte), balenò nella lotta anticlerica1e le colpe (neanche fosse un giudizio divino), l'A. intervenne e lo consigliò a perseverare con la sua lettera del 29 apr.1855, e quando Cavour incontrò al Senato forte opposizione per la spedizione di Crimea trovò in lui un convinto sostenitore. Ma l'A. ebbe il torto di rifiutare l'incarico di rappresentare il regno di Sardegna al Congresso di Parigi (1856) e lasciò al suo rivale un'altra bella occasione per affermarsi. Dopo tre anni di vita tranquilla a Cannero, in cui tra l'altro pubblicò ne Il Cronista dell'amico G. Torelli i suoi deliziosi Bozzetti della vita italiana (Torino 1856), nei quali campeggia una delle sue più popolari figure umoristiche, il sor Checco Tozzi, tornò alla politica militante nel 1859. Ebbe prima una missione segreta a Roma e poi un'altra a Parigi e a Londra alla vigilia della guerra, ma in quest'ultima missione, per i suoi scrupoli legalitari, era per cadere nelle panie della diplomazia europea quando, per fortuna, l’errore dell’Austria nel volere la guerra giovò più al Cavour dell’opera del suo collaboratore. Nell’opuscolo Questioni urgenti (1861) si scagliò contro la romano mania non vedendo in essa che un motivo retorico..... |
D'Azeglio e il palio di Siena |
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Hanno detto di lui |
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Margherita Provana di Collegno nel suo Diario
(ed. A. Malvezzi, Milano 1926, p. 26):.. e La materia prima in lui è
quella dell'artista, ne ha tutte le qualità e tutti i difetti, ed egli
sembra compiacersi tanto delle une quanto degli altri... Nel 1847 faceva
il cospiratore da artista, nel 1848 fece il soldato da artista, nel 1849
fu nominato capo del Ministero piemontese e riuscì a dare un colore ed
un carattere artistico a quella carica antiartistica ... Francesco De Sanctis suo sostenitore: sotto un'apparente negligenza - spensierato, stravagante, piacevole nel conversare, pieno di motti e di frizzi, con certa scioltezza di forme, con certo abbandono naturale l'A. celava un fondo d'uomo serio, una profonda vocazione etico-politica. L'A. fu essenzialmente un grande educatore nazionale e dell'educatore nazionale ebbe la dote fondamentale assai rara, del coraggio civile. In un momento delicato per la storia del Piemonte e dell'Italia, in cui alta politica e morale coincisero, l'azione dell'A. fu decisiva per il nostro paese. La paura di veder rimorchiato il governo sabaudo dal partito d'azione rivoluzionario, secondo alcuni (Vaccalluzzo) o, a nostro avviso esattamente, la paura di vedere sommergere il vecchio Piemonte dai sopravvenuti tumultuosi elementi t delle altre parti d'Italia, secondo altri (Silva), spiegano l'opposizione finale dell'A. alla soluzione unitaria.... |
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