SPECIALE |
CAMILLO BENSO CAVOUR
Il regista dell’Unità d’Italia fra agricoltura e politica
"Sono figlio della libertà e a lei devo tutto ciò che sono."
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LA PROTOINDUSTRIA |
2a parte L’economia del regno e la sua politica |
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Così viene chiamata in alcune zone del Piemonte, del Lombardo-Veneto e della Toscana la fase di trasformazione di prodotti dell’azienda. Es: la prima lavorazione che si faceva nelle fattorie del baco da seta (I bachi da seta vengono allevati dai contadini e la prima fase della lavorazione, la trattura del filo dai bozzoli avviene spesso nelle stesse case coloniche. Il prodotto così ottenuto viene direttamente immesso sui mercati europei, generalmente su quelli di Londra o Lione). In genere verrà poi classificata come lavorazione a domicilio effettuata nei mesi invernali, la prima lavorazione della lana, dei prodotti caseari, etc.... Lo stesso dicasi per il tabacco. Se i grandi nomi della tessitura italiana sono di questo periodo non lo sono le macchine che l’industria italiana non è in grado di produrre. Ritardo tecnologico che influirà negativamente anche sul decollo dell’industria siderurgica e meccanica per anni. |
L'agricoltura come la politica è l'arte del possibile. Cavour
Nell'immagine a fianco fiera agricola inglese della prima metà dell'800 Economia politica della prima metà dell'800 http://www.torinoscienza.it/accademia/dossier/ L’ECONOMIA SOSTENIBILE |
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LA DOTTRINA ADAM SMITH (1723-90) Secondo la dottrina del liberismo
economico, elaborata verso la fine del 700 dall’economista e filosofo
scozzese Smith, se lo Stato rispetta la libertà economica di ciascuno e non pone
ostacoli, chi svolge in proprio un’attività, chi esercita un’impresa cerca
di eseguire al meglio il proprio lavoro per guadagnare il massimo profitto. Tutti i suoi concorrenti, cioè coloro che
vendono il medesimo prodotto, si sforzeranno di fare lo stesso. Ciascuno,
quindi, cercherà di vendere la sua merce al prezzo più conveniente per
conquistare un maggior numero di clienti.
Carlo Alberto apre ai liberali, ma sarà costretto a ritrattare Se in Europa si contano all’inizio dell’800 187 milioni di individui il Piemonte contribuisce con pochissimi, circa 3, ma in rapida crescita. la canapa piemontese http://web.econ.unito.it/prato/papers/qr74.pdf |
Il 90% della popolazione italiana viveva (allora inizi '800) in campagna
(o al mare e ai monti) ed era dedita ad attività agricole
semplici Possono sembrare percentuali altissime e lo sono perche non molto
differenti con la Russia della metà del secolo. Qualche branca agricola ha si la capacità di esportare e non per
merito dei nostri emigrati che ancora non esistono o esistono in numero
ridotto. Si tratta di aziende
concentrate soprattutto nel nord in aree limitate gestite in maniera
capitalistica. Nelle campagne italiane sono infatti quasi del tutto
assenti le più moderne tecniche agricole adottate in Inghilterra, Francia
e Germania e solo i 3/5 dei terreni utili sono messi a coltura. La
pastorizia e i suoi derivati tengono ancora banco mentre intere aree del
paese sono paludose e malsane e comunque non sfruttabili economicamente.
Quando si parla di aree malsane non si precisa che tali erano anche tutte
le zone sotto il livello dei fiumi, soggette ad allagamenti frequenti che
abbisognavano di una regimentazione. Importanti opere idrauliche vengono
realizzate in Val di Chiana, nella pianura del Po e in Piemonte,
attraverso le tecniche della colmata e della canalizzazione.
L’introduzione di colture particolari poi richiede acqua nei momenti
giusti, come il mais originario delle americhe, che trova ancora ostacoli
alla coltivazione come tante altre solanacee. |
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Tratto riassunto e ispirato da T. Detti-G. Gozzini"Storia contemporanea - l'Ottocento Bruno Mondadori Ed. |
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L'ESEMPIO INGLESE |
Il numero dei figli calò, moltiplicando le risorse a disposizione. Il grande balzo della rivoluzione industriale inglese giunse in tempo per evitare all'economia britannica i contraccolpi negativi dell'incremento demografico, facendone così per la prima volta un fattore di sviluppo. Tuttavia, se stavolta la crescita della popolazione non ebbe i consueti effetti depressivi sull' economia fu perché l'agricoltura era già in grado di produrre cibo a sufficienza con la rivoluzione agraria. Rivoluzione partita, secondo alcuni, già nella seconda metà del 700 con le cosiddette enclosures ("recinzioni"): fra il 1760 e il 1819, con 3.500 decreti legge, oltre 600.000 ettari di terra furono recintati con siepi o palizzate. Si trattava di pascoli, terre incolte e piccoli lotti che contribuivano all' agricoltura di sussistenza delle comunità di villaggio (diritti o usi civici come il legnatico, erbatico, ghiandatico, etc…) e che vennero sottratte, riunendole in unità colturali più grandi (Il fenomeno si svilupperà anche in Italia ma a unificazione compiuta). Il paese sottopopolato aveva estensioni immense senza presenza umana e non stupiva quindi la figura del Robin Hood imprendibile della foresta. Questi imprenditori capitalisti investirono risorse cospicue in migliorie che portarono un forte aumento di produttività, prima fra tutte la rotazione a quattro cicli o di Norfolk, che ebbe un propagandista infaticabile nell'agronomo Arthur Young, ministro dell'agricoltura dal 1793. Alternando la coltivazione di frumento, rape, orzo e trifoglio, tale sistema evitava di impoverire la terra, senza che occorresse lasciarla periodicamente a riposo e perciò improduttiva. Frattanto anche l'allevamento ebbe un grande sviluppo grazie ai progressi che si realizzarono nella selezione delle razze del bestiame. Provocando una concentrazione della terra, facendo sparire la piccola proprietà contadina e aumentando la produttività, le enclosures avrebbero cioè reso eccedente il numero dei coltivatori, che sarebbero stati espulsi in massa dalle campagne per andare a costituire il proletariato di fabbrica. Gli studi più recenti hanno però smentito questa interpretazione, provando che in realtà il numero degli occupati nell' agricoltura continuò a salire (da 1,7 a 2,1 milioni tra il 1801 e il 1851). Le recinzioni costrinsero si molti piccoli proprietari a vendere, accelerando la scomparsa dei contadini e la trasformazione del lavoro rurale in lavoro salariato. La manodopera per le nuove fabbriche venne invece (quindi) dalla crescita della popolazione, che nelle campagne sopravanzò ora le capacità di assorbimento dell'agricoltura e dalle città. Qui fu consentita dall' abbondanza di derrate alimentari sul mercato, dall’incremento demografico e dalla immigrazione (specie dall'Irlanda). Nell’Inghilterra del '700 un agricoltore sfamava 1,7 persone cento anni dopo 2,5. Anche qui il processo industriale vero e proprio fu preceduto dalla proto industria. A questa capacità economica vincente faceva quindi riferimento l’opera di Cavour per attualizzarla, seppur in ritardo, anche in Piemonte poi in Italia cosa che non gli riuscì per la repentina morte. | ||
Fu nel XIX secolo che il vecchio sistema (la produzione aumentava ma i consumi crescevano di più) si spezzò e ciò avvenne perché la produzione aumentò più della popolazione. Le nuove industrie traevano energia e materie prime dal sottosuolo e ciò alleggeriva la loro pressione sulla terra, consentendo a quest'ultima di sfamare sempre più persone (e di dar da mangiare a meno animali che allora garantivano la locomozione e più a quelli d'allevamento). La stessa produttività agricola aumentò grazie alle macchine e alla chimica oltre che alle tecniche di coltura (rotazione delle colture) e agli investimenti con le enclosures. .Nel 1825-50 comparvero i primi segni di un nuovo equilibrio. Fino ad allora lo sviluppo economico aveva incoraggiato la gente a sposarsi prima, allungando l'età feconda delle donne sposate e accelerando di conseguenza la crescita della popolazione. Ma dopo il 1825 il tasso di fecondità mostrò segni di declino. Ciò fu dovuto all' adozione di misure contraccettive da parte di un numero crescente di coppie. In Inghilterra, dove negli anni '30 (800) le famiglie numerose erano già rare, questo mutamento dei costumi sessuali fu decisivo per rompere il circolo che aveva sempre legato sviluppo economico e incremento demografico. | |||
La capacità economica e industriale del Piemonte (o almeno le sue prospettive di sviluppo) permettevano in presenza di un governo stabile (e per molti di legislazione certa e liberale) l'indebitamento presso grandi compagnie e banche per lo sviluppo e gli investimenti. Naturalmente sui prestiti si pagano gli interessi ma se l'investimento produce più utili del costo, il rischio di insolvenza è nullo. Il Piemonte nel'inserirsi a pieno titolo in una economia europea liberale doveva però scontare diversi handicap come le difficoltà di collegamento. Il progetto di Suez già in atto poi richiedeva che l'Italia diventasse il ponte verso l'Africa e l'India. A questi fattori e ai capitali stranieri si deve in gran parte il successo delle guerre risorgimentali |
Nei 3 anni in cui fu ministro con D’Azeglio all'attività (all’incentivazione della) nel campo economico si accompagnò quella nel campo finanziario, dove il compito era reso assai arduo, dato il grave deficit del bilancio. Anche qui Cavour procedette con energico coraggio, affrontando l'impopolarità che gli derivò dall'imposizione di nuove tasse, rese necessarie non solo per colmare il passivo del bilancio, ma anche per la politica di grandi lauori pubblici, coi quali dovevano essere migliorate le condizioni dello Stato e promosse le forze produttive. Le direttive economiche e finanziarie adottate in qualità di ministro dell' Agricoltura e delle Finanze, non vennero certo abbandonate dal Cavour quando, dall'autunno 1852, assurse alla direzione del Governo, anzi vennero intensificate. Seppe incoraggiare e aiutare, insieme all'agricoltura, anche l'industria, alla quale trovò nuovi sbocchi. Favorì lo sviluppo delle comunicazioni, promuovendo la costruzione di ferrovie. quali quella fra Torino e Genova compiuta nel 1854, il traforo del colle del Frèjus, iniziato nel 1857 (e compiuto nel 1871),.la costruzione della rete di canali nel Vercellese, alla quale restò legato il suo nome. Diede impulso anche alla marina mercantile, nel tempo stesso che creava un grande arsenale a La Spezia, per la marina militare. Siffatta molteplice attività portò alla vita economica piemontese un impulso che è documentato in modo eloquente da pochi dati. Le importazioni, che erano nel 1850 di II2 milioni annui, salirono a 307 milioni nel 1855 e a 321 nel 1858. Anche più intenso il progresso delle esportazioni negli stessi anni: da 94 milioni, a 132, a 237 (C'era quindi un deficit). Lo sviluppo economico significava aumento di ricchezza e di capacità finanziaria dello Stato, come appare dimostrato dal fatto che il Piemonte superò, senza restar sopraffatto, le conseguenze della crisi parassitaria delle vigne e le spese della guerra di Crimea. Il debito pubblico, che nel 1846 non raggiungeva i 120 milioni, dieci anni dopo appariva più che quintuplicato avendo raggiunto la cifra di 630 milioni: ma l'enorme aumento era agevolmente sopportato dalle finanze dello Stato (e dal prodotto interno lordo aumentato). Qualche maligno dirà poi che il debito piemontese si spalmerà sul resto della penisola che vantava, si meno attività economica ma anche meno debiti (o nulli). | ||
Entro la metà del 18° secolo (700) il modello di viticoltura si trasforma da policolturale a specializzato. Fino ad allora crescevano sullo stesso lotto le viti ed altre coltivazioni. Le viti venivano coltivate prevalentemente in pianura. All’inizio del 18° secolo, quando l’Inghilterra era in guerra contro la Francia, i mercanti inglesi cercarono vini alternativi ai rossi di Bordeaux (porto sull'atlantico e pregiata zona di produzione). Il problema dei trasporti e del lontano e scomodo porto savoiardo di Nizza non ne favorirono l'espandersi. Lo sviluppo vitivinicolo ebbe però una brusca frenata quando i vigneti vennero attaccati a metà del secolo da parassiti d'origine americana (nel 1845 l'oidio, nel 1868 la filossera e nel 1878 la peronospora, che gettarono la viticoltura in una crisi gravissima. |
LE ACCADEMIE La Società Agraria fu istituita ufficialmente il 24 maggio 1785. I suoi scopi erano il progresso, il perfezionamento dell'agricoltura, delle industrie agricole, delle condizioni igieniche e alimentari dei contadini, l'insegnamento, la sperimentazione, la fondazione di istituzioni a giovamento dell'agricoltura. Trattò temi di grande interesse per l'economia piemontese quali la viticoltura, la risicoltura, l'irrigazione, le scuole agrarie gratuite, la concimazione, la meccanizzazione, il calendario georgico, l'allevamento del baco da seta, la produzione di lana. Nel 1843 re Carlo Alberto le conferì il nuovo titolo di Reale Accademia di Agricoltura. Ne fecero parte illustri piemontesi tra i quali Camillo Benso di Cavour, Federico Sclopis, Matteo Bonafous, Giuseppe di Rovasenda e molti altri uomini di fama e di cultura. Il 31 maggio 1842 venne fondata l'Associazione Agraria Subalpina, a cura della quale si pubblicò la "Gazzetta dell'Associazione Agraria" che uscì dal 1843 al 1848. Questa società, riunitasi intorno al marchese Cesare Alfieri di Sostegno, godeva del pieno appoggio del re C. Alberto e mirava alla diffusione delle tecniche agrarie, all'incremento dell'agricoltura e allo sviluppo delle attività ad essa attinenti. Il suo motto era un pensiero di Lamartine: "Ce n'est pas seulement du blé qui sort de la terre labourée, c'est une civilisation toute entière". I soci arriveranno a 3.971 nel 1848. L'Associazione Agraria possedeva una ricca biblioteca dove oltre ai libri di scienza e di economia, si potevano consultare 105 periodici di diverse nazionalità. In molte città i soci formarono un gruppo rappresentativo dell'Associazione, denominato"Comizio Agrario". (fonte Regione Piemonte). |
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Ferrovie Piemontesi dal sito Museo Ferroviario di BUSSOLENO http://www.feralpteam.com/
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La prima concessione ad una società privata (99 anni) venne rilasciata il 9 luglio 1850 ad una società anonima rappresentata dal marchese di Pamparà, per la costruzione e l’esercizio di una ferrovia da Torino a Savigliano, partendo da Trofarello, sulla linea Torino-Genova. Il 5 maggio 1852 la medesima Società fu autorizzata a prolungare la linea fino a Cuneo, passando per Fossano, e il 6 febbraio 1856 di realizzare la diramazione da Savigliano a Saluzzo. La Torino-Cuneo, lunga 87 km (di cui 13 in comune con la Torino-Genova), e la Savigliano-Saluzzo, di 16 km, furono aperte al traffico il 1° gennaio 1857. Il 14 giugno 1852 fu la volta della Torino-Susa la cui costruzione venne affidata alla Società inglese Jackson, Brassey ed Henfrey. La linea, lunga 54 km, fu aperta all’esercizio il 25 maggio 1854. Il Governo concorse per il 50% della spesa e provvide al personale ed al materiale rotabile, prelevando in compenso il 50% degli utili. Questo capitolato di oneri venne esteso in seguito a molte di quelle linee secondarie che si distaccavano dai rami principali della rete ferroviaria di proprietà statale. In virtù di esso il Governo poteva assumerne l’esercizio con un relativo aggravio per l’erario. Sempre nel 1852, con legge dell’11 luglio, si autorizzò la costruzione,ad opera della Società rappresentata dai signori Giuseppe Arconati, Antonio Litta ed altri, della linea da Mortara a Vigevano, di 13 km, aperta all’esercizio il 24 agosto 1854. Con la stessa legge si concesse al sig. Brassey, in rappresentanza di una Società che in seguito prenderà il nome di “Società delle Strade Ferrate di Novara”, di realizzare, su progetto dell’ing. Woodhouse, la ferrovia da Torino a Novara per Vercelli, con facoltà di prolungarla fino al confine austriaco presso Boffalora (Ticino). La linea, della lunghezza di 101 km, fu inaugurata il 20ottobre 1856. L’11 luglio 1852 venne pure deliberata la costruzione della Bra-Cavalermaggiore, di 13 km, aperta al traffico il 4 ottobre 1855. Sempre nel 1856, il 14 giugno,Tommaso Brassey e Carlo Henfry furono autorizzati a costruire, su progetto Comotto e Peyron, la Chivasso-Ivrea. Quando era ancora in costruzione (la linea venne inaugurata il 5 novembre 1858) si impegnò ad assumerne l’esercizio la “Società di Novara”, che si era già assicurata la gestione della Biella-Santhià e del tronco da Vercelli al Po. La rete ferroviaria veniva a questo punto a coprire la parte centrale pianeggiante del Piemonte con una specie di triangolo avente ai vertici Torino, Novara, Alessandria; collegava molti altri centri con i vertici o i lati; era anche una rete aperta da Novara verso Milano, da Alessandria verso la Piacenza austriaca, da Torino verso il Frejus in costruzione. Con legge del 29/1/1853 fu affidata ad una Società anonima la costruzione della Genova-Voltri, di 15 km, aperta all’esercizio l’8 aprile 1856. Il 26 giugno si autorizzò la ditta Edoardo Pickering a costruire la ferrovia Pinerolo-Torino, di 38 km, di cui 8 comuni con la Torino-Genova, inaugurata il 5 luglio 1854. Negli anni successivi altre società anonime, appositamente costituitesi, chiesero la concessione di nuove ferrovie. L’11 marzo 1854 venne decretata la costruzione dei due tronchi da Valenza a Casale e da Vercelli al Po (aperti all’esercizio il 22 marzo1857 e collegati poi fra loro il 18 luglio 1858 quando fu inaugurato il ponte sul fiume); il 2 settembre dello stesso anno venne concesso ai signori Ferroggio Celestino e Andrea Crida di realizzare la strada ferrata da Biella a Santhià,compiuta e aperta all’esercizio l’8 settembre 1856. Il 16 gennaio 1856 presero il via i lavori di costruzione della ferrovia da Alessandria, per Tortona e Voghera, a Stradella (era la congiunzione con Piacenza Austriaca) con diramazione da Tortona a Novi (Ligure) stazione sulla tratta per Genova. Il 15 aprile 1889 verrà qui aperta la linea Succursale dei Giovi, lunga oltre 24 km, dal Quadrivio Torbella (Rivarolo) a Ronco Scrivia, il cosiddetto secondo valico. La nuova linea si rese necessaria per fare fronte al notevole aumento della domanda di trasporto merci da e per il porto di Genova. La linea viaggia lungo la stessa direttrice e valico della linea originaria, ma è molto più veloce e sicura avendo un tracciato con ascesa costante e quindi con pendenza massima decisamente inferiore alla linea originaria che invece ha un tracciato poco pendente fino a Pontedecimo per poi diventare ripida nel tratto fino a Busalla. Ciò è stato possibile grazie alla nuova galleria Ronco, lunga 8294 metri. | ||
"Dopo il disastro di Novara e la pace di Milano, due vie politiche si aprivano davanti a noi. Noi potevamo, piegando il capo avanti a un fato avverso, rinunziare in modo assoluto a tutte le aspirazioni che avevano guidato negli ultimi anni il magnanimo re Carlo Alberto. Noi potevamo rinchiuderci strettamente nei confini del nostro Paese, e chinando gli occhi a terra per non vedere quanto succedeva oltre il Ticino e oltre la Magra, dedicarci esclusivamente agli interessi materiali e morali del nostro Paese, noi potevamo, in certo modo, ricominciare e continuare la politica in vigore prima del 1848, [....] noi potevamo ricominciare quella politica prudentissima che non si preoccupava che delle cose interne. L’altro sistema invece consisteva nell’accettare i fatti compiuti, nell’adattarsi alle dure condizioni dei tempi, ma nel conservare a un tempo viva la fede che ispirato aveva le magnanime gesta di re Carlo Alberto. Consisteva nel dichiarare la ferma intenzione di mantenere i patti giurati, ma di continuare nella sfera politica quella impresa che andò fallita sui campi di battaglia. Non vi è rivolgimento politico notevole, non vi è grande rivoluzione che possa compiersi nell’ordine materiale se preventivamente non è già preparata nell’ordine delle idee. E se noi siamo giunti ad operare questo cangiamento nell’ordine morale e nell’ordine delle idee a favore dell’Italia, noi abbiamo fatto assai più che se avessimo guadagnato parecchie vittorie". (Camillo Cavour Atti Parlamentari- 16 aprile 1858). Aveva detto prima “I nostri disastri militari e politici mi hanno reso ebete. Non ho più la forza di scrivere una riga. Quanti errori, gran Dio! E’ impossibile concepire una più funesta riunione di incapacità di ogni genere, nell’Esercito come nel Governo” Camillo Benso de Cavour
Non era infrequente che nei primi anni della meccanizzazione del lavoro, le stesse, in occasioni di scioperi e rivendicazioni venissero distrutte o danneggiate. |
Da il "Dagherrotipo" di Torino 1840 - UTILITA' DELLE MACCHINE | ||
Lo scopo per cui s'adornano le macchine
non è altro in fine che di sostituire la forza della materia inanimata
alla forza animale. Quindi tanto più perfetta è la macchina e tanto
maggior vantaggio arreca, quanto maggiori sono le forze create, e quanto
più varie sono le direzioni. Siccome l'invenzione di queste ha talvolta
arrecato degl'inconvenienti momentanei, alcune persone indotte in errore
da una non bene intesa umanità, altre dalla tema d'ogni innovazione,
sentimento che favorisce la loro naturale inerzia, altre finalmente
mosse da privato interesse hanno bandito la croce contro l'uso di esse,
quantunque esse diffondano la prosperità per tutte le contrade
incivilite. Non sarà quindi inutile il dimostrare questa utilità, la
tenuità dei danni che arrecano e la facilità di ovviar a quelli. Noi
mostreremo ancora che il vietare l'uso di queste macchine finirebbe col
peggiorare la condizione stessa delle persone che si vogliono favorire e
che quindi il danno nascente sarebbe molto peggiore di quello che si
volle evitare. Parliamo primamente dell'agricoltura. Se l'uomo col solo uso delle proprie mani, senza l'aiuto di alcuna macchina dovesse provvedersi tutto ciò che è indispensabile alla vita, le operazioni sarebbero così lente; produrrebbero un effetto cosi scarso proporzionatamente alle fatiche impiegate, al tempo speso, che non vi sarebbe più luogo alcuno a produrre ciò che rende dolce la vita. Se l'uomo dovesse, a cagion d'esempio, senza aratro con la sola zappa, lavorar quella terra che lo dovesse sostentare e fabbricar quella capanna che il difendesse dalle intemperie, ciascun vede che dovrebbe impiegar tutta la vita per procacciar solamente per sé, per la sua famiglia o ancora impotente al lavoro, o logorata dagli anni, il necessario. Chi allora avrebbe ancor agio di lavorar quella lana che lo difende dai rigori del verno, di fabbricar quelli utensili, que' mobili anche grossolani, che giovano all'uomo in ogni momento, di prestargli que' soccorsi che gli sono necessari quando è afflitto dalla malattia? Non parliamo più delle facoltà intellettuali dell'uomo, le quali non potrebbero mai svilupparsi sotto l'impero di una crudele necessità. Al contrario l'uomo che è provvisto di adatti istrumenti, che si serve della durezza e della gravità del metallo per fendere la terra, della forza dell'acqua corrente, o del vento per volgere una ruota; la quale farà muovere la macina che deve tritare il frumento, con questi mezzi non solo provvede al proprio sostentamento, ma a quello ancora degli altri, i quali a lor volta giovandosi di altri agenti materiali provvederanno di vesti non solo se stessi, ma in compenso quelli che lo nutrirono. È cosi evidente l'utilità delle macchine che servono all'agricoltura che nessuno che abbia fior di buon senso pone in dubbio se l'aratro e i mulini arrechino danno o vantaggio. - Eppure v'ha ancora (e parecchi che ho uditi io) - chi grida contro l'uso di macchine più complicate e che producono effetti più prodigiosi nell'industria manufatturiera. E tuttavia la sola differenza che passa in economia politica fra queste e quelle si è che le prime agevolano la produzione dei frutti terrestri, le seconde il lavoro sui detti prodotti. L'utilità che arreca ad una popolazione la diminuzione del prezzo di una merce non è proporzionata alla detta diminuzione ma ordinariamente molto maggiore, poiché a misura che sono più basse e bisognose le classi della gerarchia sociale sono anche molto più numerose. Quindi se in una ditta vi saranno dieci famiglie, la cui rendita ascenda a diecimila lire annue, ne troverete venti che non hanno che il quarto. Se pertanto un oggetto costava quattro lire e dopo l'introduzione d'una macchina il di lui prezzo fu abbassato a due lire, saravvi pure il quadruplo di richieste di tale oggetto. Cosa diremo poi di quelle invenzioni che portano il prezzo di una cosa a un decimo o ad un ventesimo? In una parola, la pubblica ricchezza non consiste che in una nuova forma data alla 'materia, mercé cui si fece essa servire a soddisfare qualche bisogno, a procacciare qualche piacere. Ora quando le forze stesse della natura, l'acqua, il vento, il vapore, che innanzi erano oziosi, si costrinsero, per mezzo di macchine, a dar questa novella forma alla materia, si è creata una quantità maggiore di beni per gli uomini. Il grande argomento che adducesi dagli oppositori delle macchine SI e che quando una parte della popolazione si guadagna il vitto con un genere di lavoro, supponiamo, di venti persone, nove decimi degli operai saranno intanto ridotti alla miseria e solo un decimo potrà impiegarsi nella direzione della macchina. Potrebbesi a prima giunta far osservare a questi oppositori che per favorire una piccola parte della nazione non è giusto defraudare a tutti gli altri cittadini il vantaggio che avrebbero procacciandosi una merce a minor prezzo. E gli operai stessi non profittano forse come consumatori del minor prezzo che cagionano le macchine? Senzachè, se si fossero ascoltate le lagnanze degli operai di un mestiere, vietando l'introduzione d'una macchina che sostituiva alla lor forza la forza bruta, egual diritto avrebbero avuto gli operai degli altri mestieri: i fabbricatori di calze i filatori di cotone che si abolissero i telai pel cotone. Supponete che tutti gli operai colle loro lagnanze fossero riusciti a far proibire l'uso delle macchine, che ne sarebbe avvenuto? Essi avrebbero continuato a guadagnare uno scarso salario ma non avrebbero mai profittato dei prodotti, dei comodi che l'incivilimento ha messo a loro portata; sarebbero ancora esposti ai rigori del freddo, alle intemperie, a schifosi malori. Brevemente, noi saremmo nella miseria. Cosi poco conoscono i loro reali interessi coloro che non si diedero a tutt'uomo e con animo disappassionato e scevro di prevenzioni alla ricerca del vero. Consideriamo ora il caso opposto, cioè quando si lascia una libera carriera all'industria, come si pratica ora fortunatamente nelle contrade illuminate dell'Europa. Ciò che innanzi era privilegio di pochi individui, dei favoreggiati dalla fortuna, mediante le macchine che hanno scemato cotanto la mano d'opera, e l'impiego de' capitali diventa proprietà delle masse. Il modesto artigiano, se ha Contratto abitudini economiche, se è morigerato, non manca di panni che lo riparano, di lingerie che lo mantengono netto, di una casa decente; la crestaia, la contadina stessa hanno il loro grembiule di seta. Eppure non sono tre secoli che quasi incognito era l'uso delle camicie, così favorevoli alla salute; al tempo degl'imperatori romani la seta non valeva meno dell'oro. Molti de' nostri concittadini, che non spiccano per opulenza, godono tuttavia mercé dell'industria molti agi che non conobbero né Crasso né Lucullo. A misura che le macchine furono sostituite al lavoro manuale, gli operai che s'impiegavano in quelle si diedero ad altri generi d'industria non necessari, ma che tuttavia aumentarono la pubblica prosperità, e il bello fu congiunto al buono. Non si mancò di avere quello che si aveva innanzi, e si ebbero per soprammercato l prodotti delle novelle industrie. Che più? È cosa dimostrata dal semplice raziocinio e comprovata dall'esperienza che le macchine aumentano lo smercio dei prodotti, mantengono un maggior numero di persone che non fa il lavoro manuale. Un torchio tipografico fa il lavoro di circa duecento uomini, e si crederebbe perciò che la stampa impieghi soltanto la ducentesima parte di braccia di quello che fossero occupati avanti la stampa in trascrivere le opere. Ma siccome il prezzo de' libri, oltre la loro maggior correzione ed eleganza, è anche immensamente scemato, il numero de' compratori è aumentato in tal modo che le persone impiegate a fabbricar la carta, e i tipi, a comporre, ad imprimere, ad eseguire insomma tutte le operazioni che hanno relazione coll'arte tipografica sono in numero di gran lunga maggiore del numero degli amanuensi. Sorprendente è l'esempio che a questo proposito adduce il Say. Avanti l'introduzione delle macchine per filare il cotone, vi avevano in Inghilterra, impiegati tra la filatura e la tessitura del cotone 7.900 operai, senza più; mentre nel 1787, cioè dieci anni dopo, questo numero era salito a 352.000, e la paga giornaliera degli operai era salita da 2 franchi a 5. Supponiamo invece che amministratori poco oculati proibiscano in una provincia l'introduzione di una macchina che diminuirebbe notabilmente il prezzo di un prodotto. Nella vicina provincia, ove la macchina fu introdotta, un tappeto verbigrazia che costava 60 lire si può vendere a 35. Il commercio gl'introduce tosto nella provincia ove si proibì la macchina; i tappeti fabbricati a mano e che non possono darsi a meno di 60 lire, non potranno più smerciarsi, e gli operai rimarranno privi di lavoro, e la popolazione priva di que' vantaggi che le avrebbe arrecati l'introduzione della nuova industria nella propria provincia. Tuttavia siccome la produzione non si equilibra in un momento coi bisogni della nazione e che una repentina innovazione nell'industria, ancorché in breve tempo dovesse arrecare immensi vantaggi, potrebbe privare momentaneamente una parte della popolazione dei mezzi di provvedersi del necessario, poiché degli artigiani una gran parte non conoscono altro mestiero che il proprio, non sarebbe sconveniente il porre in opera alcuni de' mezzi che propongono gli economisti, onde andar all'incontro di un male anche momentaneo. Droz propone di avvertire gli operai alcun tempo avanti l'introduzione della macchina. Altri, che il governo impieghi gli operai che rimangono privi di lavoro in abbellimenti delle città. Ciò prova che noi dobbiamo correggere, perfezionare le nostre industrie, non distruggere, vietare ciò che non è perfetto. Tutti, massime quelli che si ricordano della difficoltà e de' pericoli delle comunicazioni di quarant'anni fa, confessano la massima utilità che arrecò al Piemonte la costruzione delle spaziose strade che lo tagliano per ogni verso. Eppure quelli che portavano i pesi sulle spalle, che tragittavano le persone, esclamavano che loro sì voleva togliere la sussistenza: se invece di soccorrerli in altro modo si fosse datò orecchio ai loro richiami, noi saremmo ancora nel deplorabile stato in cui si trova oggidi la Spagna per mancanza di comunicazioni. L Re |
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IL TEMPO DELLO STATUTO
I partiti: Cito le due semplici formazioni che non si identificavano con partiti rivoluzionari o progressisti dei “Liberali moderati” di cui il “Risorgimento” era la bandiera (aderirono oltre a Cavour, D’azeglio e Cesare Balbo per una monarchia costituzionale e parlamentare) e I cattolici neo guelfi (per loro il leader era il Papa a capo di una confederazione che comprendeva anche l’Austria !!. ispiratore del movimento e autore del “Primato …....” (sotto)) Vincenzo Gioberti
In Italia una rivoluzione democratica non ha probabilità di successo [...] Il partito favorevole alle novità politiche [...] non incontra grandi simpatie nelle masse... in genere assai attaccate alle vecchie istituzioni del paese. La sua forza risiede nelle classi medie e in una parte della classe superiore. Su queste classi [...] così fortemente interessate al mantenimento dell'ordine sociale le dottrine sovversive della Giovine Italia non hanno presa. Perciò ad eccezione dei giovani [inesperti ed ingenui] si può affermare che non esiste in Italia se non un piccolissimo numero di persone seriamente disposte a mettere in pratica i principi esaltati di una setta inasprita dalla sventura. Cavour |
Quando Cavour ebbe i primi incarichi di governo la legge fondamentale del
Piemonte era lo Statuto concesso da Carlo Alberto il 17 marzo 1848. Le
prime elezioni del Parlamento, a suffragio universale diretto, si svolgono
il 18 aprile 1948. Sono elettori i cittadini maschi, ricchi (requisiti: età non
inferiore ai 25 anni, saper leggere e scrivere, pagamento di un censo di
40 lire), oppure che siano ufficiali, professori universitari o
magistrati. In sostanza è l'1,70% della popolazione. I deputati, in numero
di 204, erano eletti in altrettanti collegi uninominali. Si calcola che
per essere eletti bastassero 300/350 amici: un invito a cena allargato
oltre la cerchia dei parenti. Lo statuto era il
coronamento di una serie di provvedimenti di riforma dello stato già presi
da Carlo Alberto a partire dal 1835. Codice Civile 1837, Penale 1839,
Penale Militare 1840, del Commercio 1842. Amministrazioni comunali
1838, provinciali 1843. Si creano ministeri ad Hoc come quello per la
Sardegna, per gli affari di grazia e giustizia e affari ecclesiastici
(1835) e uno delle finanze (1844), entrambi autonomi rispetto a quello
degli interni che era ed è il padre di tutti i ministeri (lo si evince
dalla foga a ricoprire questo incarico che ne vale 3 di quelli buoni e 10
di quelli scadenti).
Il Parlamento era composto di due Camere: quella alta di nomina regia Senato,
a vita (non poteva sciogliersi) e quella
bassa elettiva, la Camera dei
Deputati. Le camere si riunivano esclusivamente dietro
convocazione del re e, sempre al re, era concesso il potere di sciogliere
la camera dei deputati e indire nuove elezioni. Per diventare legge i
provvedimenti dovevano essere approvati nello stesso testo da entrambe le
Camere, senza ordine di precedenza (a parte quelle tributarie e di
bilancio che dovevano passare prima per la Camera dei Deputati).
L’esistenza di una seconda
camera prevista dagli articoli 33 e seguenti avrebbe potuto bloccare
qualsiasi possibilità di evoluzione della forma di governo statutaria
verso il modello parlamentare. L’articolo 33 sceglieva infatti un sistema
bicamerale con una seconda camera composta in numero non limitato di
membri nominati a vita dal re e scelti in base alla loro appartenenza a 21
categorie meticolosamente descritte. Le ragioni di questa scelta furono
due. Per la prima dovendo il re dividere la propria autorità fu ritenuto
preferibile che tale divisione avvenisse non con un sol corpo ma con due.
Per la seconda, la nomina regia dei membri vitalizi del senato costituiva
dì per se una forte attenuazione del principio della rappresentanza
politica su base democratica che era rappresentato dalla Camera elettiva.
L’evoluzione della forma di governo statutaria in senso parlamentare non
poteva non rendere la presenza del Senato sempre più contraddittoria
rispetto alle nuove tendenze. …Fin dall’inizio dell’esperienza
statutaria
si pose quindi il problema della estensione del controllo politico del
Senato sul governo; problema che fu risolto nel senso di riconoscergli
ampiamente il diritto di sindacato per tutto ciò che concerne la facoltà
d’impedire col suo voto che un provvedimento del governo dannoso o
semplicemente inopportuno abbia seguito; o che un abuso rimanga senza
censura. Tuttavia questo ampio potere di sindacato politico non poteva
spingersi fino ad ammettere anche il voto di fiducia, che doveva
considerarsi come una facoltà esclusiva della Camera dei deputati. Da Storia dello Stato Italiano dall’Unità a oggi di Raffaele Manelli |
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E così giunsero alla vigilia della seconda guerra di indipendenza. A fianco del re di Sardegna questa volta era l’imperatore dei francesi. Dietro ai due eserciti che avanzavano erano il telegrafo, linee ferroviarie, navi a vapore, il primo porto commerciale d’Italia a Genova, un bilancio statale florido, ampi crediti internazionali, un vigoroso commercio internazionale, un’agricoltura prospera. Egli aveva soprattutto evitato l’errore più grave commesso nel 1848, quello che i rivoluzionari commettono sempre e del quale non si accorgono mai, che la gente dabbene avesse paura di ciò che stava per avvenire. Alexander Herzen:“L’Italia, il più poetico paese del mondo, ha abbandonato il suo fanatico amante Mazzini, ha tradito il marito Ercole-Garibaldi, non appena il geniale borghese Cavour, grassottello e occhialuto, le ha proposto di farne la sua mantenuta” Camillo Benso, Conte di Cavour, come molti grandi personaggi che sono intervenuti spietatamente nella storia del loro paese e l’hanno trasformato di forza nel giro di pochi anni, costringendolo talvolta a una parte che non era sua, era un uomo di confine, quasi uno straniero. Stranieri o quasi nel paese che trasformarono furono, tra gli altri, Mazzarino (siciliano per la Francia), Caterina la Grande (tedesca-svedese per la Russia), Napoleone (corso per la Francia), Disraeli (ebreo per l'Inghilterra), Stalin (georgiano per L'Urss), Hitler (austriaco per la Germania), e, più modesto, anche De Gasperi (altoatesino per l'Italia). Vi sono, nello straniero o quasi, la decisione fredda del chirurgo che opera sulla carne altrui, il fanatismo e le illusioni del neofita, una confusa incomprensione del carattere nazionale, che travisa e semplifica difetti e virtù, possibilità reali e immaginarie, per cui egli concepisce, per il paese in cui vive, ambiziosi disegni e grandi destini che molto spesso finiscono nella catastrofe. ……Aveva una capacità di lavoro incredibile. Per anni, ogni giorno, ha letto, capito, digerito, giudicato montagne di documenti, studi, rapporti, e bilanci, ha scritto diecine di lettere, sempre di suo pugno, ognuna grave di responsabilità, ricevuto diecine di persone, collaboratori diretti. avversari come il Guerrazzi, agenti segreti, militari, finanzieri, patrioti che venivano da lontano, ha frequentato la Camera, dove dominava la discussione di qualsiasi problema, del quale egli conosceva a memoria i dati e sul quale egli aveva idee più chiare e pratiche degli altri. Si fidava solo di sé. Si affidava a uomini mediocri, come tutti i grandi accentratori. Dell’agricoltore aveva in politica le abitudini: si occupava di cento faccende allo stesso tempo, in vari stadi di sviluppo, ognuna da condurre avanti con cautela, a suo tempo. Non bruscava il corso degli avvenimenti. Seguiva la natura, perché la politica non obbedisce come le macchine, ma va assecondata, accompagnata, e va solo per la sua piega. Anche l’agricoltura è l’arte del possibile. Luigi Barzini jr “Epoca” 30 aprile 1961 | |||
LETTERA DEL CONTE CAVOUR AL GEN. ALFONSO LA MARMORA,
MINISTRO DELLA GUERRA E MARINA DEL RE DI SARDEGNA Baden 24 luglio 1858 Caro amico Ho creduto debito mio il far conoscere senza indugio il risultato delle mie conferenze coll'imperatore al Re. Ho quindi redatta una lunghissima relazione (40 pagine circa) che spedisco a Torino ad un addetto alla Legazione del Re a Berna. Desidererei molto che il Re se la facesse leggere, giacché mi pare di avere in essa riferito quanto di notevole mi disse l'Imperatore in una conversazione che durò poco meno di otto ore. Non ho il tempo di ripeterti ogni cosa: tuttavia in massima ti dirò che si è stabilito: l° Che lo Stato di Massa e Carrara sarebbe causa o pretesto della guerra; 2° Che scopo della guerra sarebbe la cacciata degli Austriaci dall' Italia: la costituzione del Regno dell'Alta Italia, composto di tutta la valle del Po, delle Legazioni e delle Marche; 3° Cessione della Savoia alla Francia. Quella della contea di Nizza in sospeso; 4° L'Imperatore si crede sicuro del concorso della Russia e della neutralità dell'Inghilterra e della Prussia. Nullameno l'Imperatore non s'illude sulle risorse militari dell'Austria, sulla sua tenacità, sulla necessità di prostrarla per ottenere la cessione dell'Italia. Egli mi disse che la pace non si sarebbe firmata che a Vienna, e che per raggiungere questo scopo era mestieri allestire un esercito di 300.000 uomini. Essere pronto a mandare 200.000 combattenti in Italia; richiedere 100.000 Italiani. L'Imperatore entrò in molti particolari sulle cose della guerra che m'incaricò di comunicarti, e ch'io ti riferirò a viva voce. Mi parve avere studiata la questione assai meglio de' suoi generali, ed avere in proposito idee giuste. Parlò pure del comando - del modo di governarsi col Papa - del sistema di amministrazione da stabilire nei paesi occupati - dei mezzi di finanza. In una parola di tutte le cose essenziali al nostro grande progetto. In tutto fummo d'accordo. Il solo punto non definito si è quello del matrimonio della Principessa Clotilde. Il Re mi aveva autorizzato a conchiudere solo nel caso in cui l'Imperatore ne avesse fatta una condizione sine qua non dell'alleanza. L'Imperatore non avendo spinto tant'oltre le sue istanze da galantuomo non ho assunto impegno. Ma sono rimasto convinto che esso mette a questo matrimonio una grandissima importanza, e che da esso dipende se non l'alleanza, l'esito suo finale. Sarebbe errore, ed errore gravissimo l'unirsi all'Imperatore e nello stesso tempo fargli una offesa che egli non dimenticherebbe mai. Ci sarebbe poi di danno immenso l'avere a lato suo, nel seno de' suoi consigli, un nemico implacabile, tanto più da temersi che gli corre nelle vene sangue corso. Ho scritto con calore al Re, pregandolo a non porre a cimento la più bella impresa dei tempi moderni, per alcuni scrupoli di rancida aristocrazia. Ti prego, ove ti consultasse, di aggiungere la tua voce alla mia. Non si tenti l'impresa, in cui si mette a repentaglio la corona del nostro Re e la sorte dei nostri popoli, ma se si tenta, per amar del Cielo, nulla si trascuri di quanto può assicurare l'esito finale della lotta. Ho lasciato Plombières con l'animo più sereno. Se il Re consente al matrimonio, ho la fiducia, dirò quasi la certezza, che fra due anni tu entrerai in Vienna il capo delle nostre file vittoriose. Tuttavia, per accertarmi del fondamento delle speranze manifestatemi dall'Imperatore circa al contegno probabile delle grandi Potenze nell'evento di una guerra con l'Austria, ho pensato di venire a fare una corsa a Baden, ove trovansi riuniti Re, Principi e Ministri di varie contrade dell'Europa. Fui bene ispirato, poichè in meno di 24 ore parlai col Re di Wurtermberg, col Principe Reale di Prussia, con la Granduchessa Elena, con Manteuffel e vari altri diplomatici russi e tedeschi. Stando a quanto mi dissero e la Granduchessa Elena, ed il signor Ballau, uno dei più accorti diplomatici russi, si potrebbe far assegno sicuro sulla cooperazione armata della Russia, La Granduchessa mi disse che se la Francia s'univa a noi, la nazione russa costringerebbe il suo Governo a fare altrettanto. Ballau mi disse: Si vous avez à l'un de vos cotés un chasseur de Vincennes, comptez que de l'autre VouS avez un soldat de notre garde. Rispetto alla Prussia credo che, quantunque senta una grande antipatia per l'Austria, essa rimarrà dubbiosa ed incerta, finchè gli eventi la spingano irresistibilmente a prender parte alla lotta. Non ho più tempo di proseguire. Ma il fin qui detto ti proverà che,non ho perduto il mio tempo, e che il mio viaggio non si può contare per vera vacanza. Addio. Spero sempre vederti al confine. C. CAVOUR. |
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Su posizioni molto distanti
dai liberali erano schierati i cosiddetti neoguelfi (= nuovi guelfi), un
movimento costituito da moderati cattolici. Il loro nome derivava da
quello dei guelfi del Medioevo, sostenitori del pontefice. Essi vedevano
nel papato la guida del movimento per l'indipendenza nazionale. Vincenzo
Gioberti (1801-52), il neoguelfo più autorevole, con il suo libro più
importante (Il primato morale e civile degli italiani) propose di creare
una confederazione dei vari Stati italiani sotto la presidenza del papa.
Quando (1846) divenne papa Pio IX, un pontefice che pareva abbastanza
vicino ai liberali, le speranze di molti italiani resero il movimento
neoguelfo assai popolare. Anche se l'idea di Gioberti si dimostrò poi irrealizzabile, il movimento neoguelfo ebbe grande importanza nell'Italia del tempo: molti cattolici si avvicinarono all'idea dell'indipendenza italiana. Così Luigi Settembrini (1813-76 Ricordanze della mia vita ) del libro di Gioberti" Il primato morale e civile degli italiani"- Il Primato del Gioberti fu un libro che fece una rivoluzione profonda in tutta Italia. Noi eravamo servi, divisi, sminuzzati, spregiati dagli stranieri; noi stessi ci ritenevamo inferiori a tutti gli altri e per tanti secoli di misera servitù avevamo offuscato lo nostra coscienza quando costui ci dice: «Voi Italiani siete il primo popolo del mondo». «Noi?». «Sì, voi avete il primato morale e civile sopra tutti». Non mai libro di filosofo, e neppure di poeta o di altro scrittore, è stato più potente di questo. |
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LA VITTORIA |
http://dipeco.economia.unimib.it/web/corsi/storia_economica134/lezioni/settimananoveecotur.doc http://www.cheminsdememoire.gouv.fr/page/affichepage.php?idLang=fr&idPage=3082 lettere |
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GOVERNI PIEMONTESI
PREUNITARI 16 marzo 1848 - 27 luglio 1848 Cesare Balbo Il canale Cavour deve a Cavour solo il nome e la fase progettuale avviata prima della sua morte. L'opera, ideata dall'agrimensore vercellese Francesco Rossi venne riprogettata dall'ispettore delle Finanze ingegner Carlo Noè nel 1852 per incarico di Cavour. I lavori di costruzione del canale ebbero inizio dopo la sua morte e furono portati a termine in 3 anni. L'opera che desta meraviglia per la sua complessità è scavalcata da strade (101 ponti), lui (canale) stesso scavalca strade (62 ponti-canale) e sottopassa fiumi e torrenti in sifoni (210). |
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DOPO LA VITTORIA LA SFURIATA DI VILLAFRANCA |
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Del colloquio qualcuno da una versione diversa e di parte come quella di Kossuth uomo di Napoleone III. Le mettiamo intercalate di colore diverso nei passi più significativi che Nigra può, per patriottismo e diplomazia, aver purgato. “A questo ci devo pensare Io, che sono il Re", ribattè Vittorio Emanuele II. E Cavour: "il Re? il vero Re in questo momento sono io!"....“Chiel a l’è 1 re? Chiel a l’è mac un birichin! (sfacciato) scattò in piemontese V.E. e rivolgendosi a Nigra: “Nigra, cu lu, mena a doumi!” (Nigra lo porti a dormire!). |
V. Emanuele II non lo sopportava, non l'aveva mai sopportato, e ci teneva a fargli osservare che le sue spericolate proposte di primo ministro erano vere e proprie smazzate a carte di cui lui non vedeva chiaramente i risultati (Quando, nel 1860, il Re era nel Mezzogiorno con l’esercito, l’Austria poteva preparare la rivincita con le potenze che protestavano e il Papa che brandiva l’unione di tutti i cattolici contro il nuovo regno. Tutto poteva svanire nel giro di pochi giorni). “Lei se sbaglia si va a godere le sue 150.000 lire di rendita, io invece finisco in Portogallo ”. (Ndr: come tutti quelli della famiglia, fu l’unico a non finirvi). Due giorni dopo la battaglia di Solferino e San Martino, Cavour mandò l’ambasciatore Nigra a Cavriana presso l’imperatore per esprimergli il suo desiderio di avere un’udienza. Fu ricevuto subito dopo pranzo e fissarono l’udienza per l’indomani mattina. Fu durante questo incontro che Napoleone III si mostrò al Nigra molto preoccupato per la situazione della Francia. Le considerevoli perdite subite nella battaglia e la situazione militare, stando ai dispacci appena ricevuti da Parigi, da Berlino e da S. Pietroburgo, facevano parlare di mobilitazione generale in Prussia. L’impressione che ne riportò il Nigra fu che l’imperatore da quel momento fosse deciso alla pace. I motivi addotti erano essenzialmente due: | ||
Garibaldi scrisse il 26 febbraio 1854 a Giuseppe Mazzini: “… appoggiarci al governo piemontese è un po' duro, io lo capisco, ma lo credo il miglior partito, e amalgamare a quel centro tutti i differenti colori che ci dividono; comunque avvenga, a qualunque costo… gli Inglesi unici che ponno (possono) tollerare una nazione italiana, e appoggiarci, quando loro convenga, sono del mio parere, e voi lo sapete” . E dopo gli incontri del febbraio 1859 … “lo posso con orgoglio dire: fui e sono repubblicano; ma nello stesso tempo non ho creduto il popolare sistema esclusivo al punto da imporsi con la violenza alla maggioranza di una nazione. |
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In un paese libero, ove la maggioranza virtuosa del popolo senza pressione vuole la Repubblica, il sistema repubblicano è certamente il migliore. Trovandomi, dunque, nel caso di dover dare il mio voto, come mi successe a Roma in 1849, a tale sistema, io darei sempre; e procurerei sempre di convincere nella mia opinione le moltitudini. Non essendo possibile la Repubblica, almeno per ora (1859) sia per la corruzione che domina la società presente, sia per la solidarietà in cui si mantengono le monarchie moderne, e presentandosi l'opportunità di unificare la penisola colla combinazione delle forze dinastiche colle nazionali, io vi ho aderito. Dopo pochi giorni dalla mia permanenza a Torino, ove dovevo servire di richiamo ai volontari italiani, io m’accorsi subito con chi avevo da fare e cosa da me si voleva. Me ne addolorai; ma che fare. | 1) le difficoltà militari (l’imperatore precisò che per continuare la
guerra bisognava far arrivare dalla Francia una nuova armata di 100.000
uomini con una spesa di 100 milioni di franchi) 2) l’avviso ricevuto da Berlino della mobilitazione prussiana e dell’intenzione di un eventuale intervento da parte del principe reggente. Cavour arrivò a Monzambano di sera e, dopo aver visto La Marmora, si recò presso il re alla villa Melchiorri. Egli aveva già saputo che l’indomani ci sarebbe stato l’incontro dei due imperatori a Villafranca e consigliò il re di farsi accompagnare dal Nigra a Valeggio sul Mincio la sera stessa per firmare i preliminari sorvolando diplomaticamente sul fatto che Napoleone III aveva annullato la sua visita. La sera dell’11 luglio il re si recò in carrozza, verso le dieci, presso l’imperatore Napoleone III a Valeggio, accompagnato dal suo aiutante di campo generale Solaroli. In una seconda carrozza seguiva il Nigra. Arrivato a Valeggio, il re salì da solo al primo piano del quartier imperiale (oggi Villa Sicurtà parco verde); il Nigra rimase al piano terra con gli alti ufficiali di servizio. |
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Accettai il minore
dei mali; e non potendo operare tutto il bene, ottenerne il poco che si
poteva il paese infelice. Garibaldi doveva far capolino, comparire, e non
comparire. Sapessero i volontari ch’egli si trovava a Torino per riunirli,
ma nello stesso tempo, chiedendo a Garibaldi di nascondersi per non dare
ombra alla diplomazia. Che condizione! . Il generale La Marmora (Alfonso), ministro
della guerra, che sempre aveva avversato l’istituzione dei volontari, si
rifiutò a riconoscere i gradi dei miei ufficiali, dimodoché vi fu
l’obbligo, per dare alcuna legalità a quei reietti, di ricorrere al
sotterfugio di dar brevetti firmati dal Ministero dell’Interno (Guardia
Nazionale) e non dall’eccellenza della guerra. Tutto, comunque, si
soffriva in silenzio: trattavasi di far la guerra per l’Italia e
combattere gli oppressori dei fratelli nostri “ (da G. Garibaldi: Memorie)
Da siti si da per certa l'appartenenza di Cavour alla massoneria e gli si imputa di aver preso ordini dalla loggia londinese per la campagna meridionale del 1860. Naturalmente avrete capito di che siti si tratta. Anche Garibaldi era massone e con Cavour non ha mai avuto buoni rapporti. Si racconta di grandi sfuriate: che recitassero sempre sotto ordine di Londra ? Forse erano logge diverse. |
(dal racconto di Costantino Nigra a Livio Minguzzi, 1903).
”Il principe Napoleone arrivò verso le 10,45 da Verona con i preliminari firmati dall’imperatore d’Austria. Vitt. Emanuele. II li firmò dopo di lui, aggiungendovi la famosa postilla «en ce qui me concerne... per quanto mi compete». Verso le undici e mezza il re scese al piano terra assieme a Napoleone (ricordiamo che questi era genero dei Savoia avendo sposato la figlia Clotilde) e dopo che fu fatta una copia dei preliminari ripartì per Monzambano accompagnato dal suo aiutante di campo e dall’ambasciatore Nigra. Vi arrivammo verso le 24. Cavour attendeva febbricitante e molto eccitato. Il re lo fece entrare con me nella stanza che gli serviva da salotto da ricevere (Villa Melchiorri). Si tolse la tunica (il caldo era soffocante), accese un sigaro, si sedette a un grande tavolo posto in mezzo, e con i gomiti appoggiati sull’orlo mi disse: «Nigra, date il documento al Conte». Il foglio era la copia che avevo fatto dei preliminari. Cavour era in piedi, vicino al tavolo, alla sinistra del re, io che ne ero separato dal tavolo, ero davanti al re. Cavour prese il foglio e lo lesse.—man mano che andava innanzi nella lettura gli si accendeva il volto e cresceva l’orgasmo. Quando poi giunse a quel punto nel quale è detto che tutti i sovrani d’Italia avrebbero formato una lega presieduta dal Papa, allora non si contenne più e proruppe altamente dicendo al Re di sperar bene che non avrebbe apposto la sua firma a quel trattato ignominioso. E qui dette sfogo lungamente all’animo esacerbato bollando con parole roventi la condotta dell’Imperatore. E ricordando al Re che tanti secoli gloriosi di Casa Savoia sarebbero stati contaminati per sempre e facendo appello disperato a tutti i sentimenti dell’animo, ora supplice ora minaccioso, lo scongiurò a respingere ciò che egli chiamava inique proposte. |
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“Maestà voi non firmerete questo documento, sarebbe ignominoso. Ci vien data la Lombardia. Ma che vale se il resto dell’Italia vien mantenuto sotto il dominio degli Asburgo? Napoleone se ne vuole andare. Se ne vada. Lei continui la guerre da solo. Se dovremo perire, periremo da prodi” “Si -disse il re- torneremo a Torino sotto le baionette austriache, tra le risate di tutto li mondo” | ||
Mirabile fu il sangue freddo col quale il Re ascoltò lo sfogo di Cavour. Quando ebbe finito, il Re gli disse: « Sta bene, Cavour, io pure avevo pensato molto di quanto lei mi ha detto, ma non è colpa mia se l’Imperatore non vuol continuare la guerra; e poiché non è possibile farlo recedere, la cosa migliore è di piegarsi nobilmente alla forza degli eventi anziché abbandonarsi ad atti inconsulti . Malgrado l’evidenza del ragionamento, Cavour concluse che se il Re voleva accettare era libero di farlo, ma ch’egli non intendeva assolutamente di rendersene solidale e gli offriva le sue dimissioni. Sempre con calma il Re gli rispose che le dimissioni erano accettate fin da quel momento. Ma poi, quasi fosse ferito più da quell’atto che dalle parole iraconde, fattosi più severo e alzando man mano la voce disse « Oh, per loro signori le cose vanno sempre bene, perché aggiustano tutto con le dimissioni. ma chi non si può levare d’impaccio così comodamente sono io che non posso disertare. Si fa insieme la strada e quando si è nel fitto delle difficoltà, allora mi lasciano solo ad affrontarle, solo responsabile in faccia al Paese e alla storia » Quindi, accennando il Ministro a continuare, il Re lo interruppe dicendo: « Ella non è in condizioni di continuare questo colloquio, vada a riposare, e il riposo le darà calma e consiglio; domani ne riparleremo. | |||
La morte del nipote a Goito In Parlamento si alleò con la sinistra, con la destra, con i democratici, con i ribelli, con tutti. Usò Garibaldi, il Re, i nemici come amici, gli amici li trasformò in nemici di altri amici, accese tante micce per scatenare una guerra, minacciò un po’ tutti, e s’inventò le annessioni che volevano dire sottomissioni, il tutto per dare una soluzione monarchica all’unità italiana, o forse se fosse vissuto farne un Regno personale !!!! Per saperne di più: http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/cavour4.htm Cavour è stato avvelenato ? |
In un impeto d’ira Cavour invitò allora il sovrano ad abdicare. “A questo ci devo pensare Io, che sono il re, ribattè Vittorio Emanuele". E Cavour: "il re? il vero re in questo momento sono io!". “Chiel a l’è l re? Chiel a l’è mac un birichin! (sfacciato) scattò in piemontese il re e rivolgendosi a Nigra: “Nigra, cu lu, mena a doumi!” (Nigra lo porti a letto). | ||
“Il Re? Gli Italiani non guardano il Re, ma a me, il vero Re sono Io". Vittorio Emanuele, pur offeso, mantenendo una calma glaciale si rivolse a Nigra “Si è fatto molto tardi, portatelo a dormire!” Il giorno dopo Cavour prosegue con la propria furia e l’indignazione: “ Il vostro imperatore mi ha disonorato. Mi aveva dato la sua parola che avremmo cacciato tutti gli austriaci dall’Italia E adesso si prende Nizza e Savoia e ci pianta in asso a mezza strada. E’ terribile, terribile.. Alla pace non si verrà!.. io mi farò cospiratore, rivoluzionario. Questo trattato di pace non si dovrà attuare. No! Mille volte no! Mai!, mai” (Memoriale di Luigi Kossuth, Meine Schriften aus der Emigration. Presburgo, 1880, vol 1, pagg. 518-519). | |||
http://www.bancaditalia.it/interventi/intaltri_mdir/20070925_finocchiaro.pdf
http://it.wikipedia.org/wiki/Presidenti_del_Consiglio_del_Regno_di_Sardegna post statuto
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Il 6 giugno 1861, a meno di tre mesi dalla proclamazione del
Regno d'Italia, Cavour moriva a Torino nel palazzo di famiglia. Cavour, turbato
dalla triste vicenda toccata al caro amico Santa Rosa, si sarebbe poi premunito
per tempo per essere confessato in punto di morte prendendo accordi col frate
della vicina parrocchia. Insopportabile e rivoltante, infine, la vera e propria
violenza psicologica che il Papa in persona fa verso l'umile frate. Perseguitato
e minacciato dall’Inquisizione, convocato d’urgenza dal Papa per giustificarsi e
poi sospeso a divinis e scacciato come l’ultimo dei miscredenti. Eppure l’unico
"peccato" del francescano Fra Giacomo da Poirino (al secolo Giacomo Marrocco),
rettore della parrocchia di Santa Maria degli Angeli a Torino, era stato quello
di assolvere sul letto di morte un moribondo. http://nicovalerio.blogspot.it/2010/06/beati-pio-ix-il-papa-buono-perseguito-e.html Poirino fu poi costretto ad affrontare l’esame della Inquisizione. "E qui intimorito e forse minacciato – spiega Greco - il frate soffre ed esita appena, ma decide di tenere testa anche davanti all’inquisitore che lo interroga con grande abilità gli offre vari escamotage logici per risolvere la controversia". Basterebbe che il frate dicesse che nell’emozione del momento era un po’ confuso e non ha pensato a far fare la ritrattazione al Conte, e tutto sarebbe risolto. "Ma il frate non si arrende, si rifiuta di svilire il suo operato – continua Greco -. E quindi i superiori lo prendono per birbante, zuccone, ignorante. Ma egli: "non posso aderire al vostro consiglio perché non voglio agire contro la mia coscienza, sarò vittima, andrò sul patibolo, ma dirò sempre che non posso"" Quando poi Poirino scrive la dignitosa relazione e la porta al Papa, questi la scorre appena e lo rimbrotta dicendo che quei fogli sono buoni per "avviloppare i salami"...Poco dopo sarà sospeso a divinis, pagando una fermezza e una dignità straordinarie". Fra Giacomo muore povero e solo a 77 anni, quindici anni dopo la Breccia di Porta Pia e la fine del potere temporale della Chiesa. |