GIUSEPPE CESARE 

ABBA

 

Cesare Abba

Abba nacque a Cairo Montenotte (Sv) il 6 ottobre 1838, e visse, come tutti i ragazzi di quei tempi, fino agli 8/9 anni, con poco tormento di scuola. A 12 anni entrò dagli Scolopi di Carcare, in quel Collegio dove gli entusiasmi del 1848 erano ancora vivissimi, specie nel padre Atanasio Canata, grande svegliatore di ingegni e di cuori, come erano stati tra gli Scolopi di Savona i padri Pizzorno e Faà di Bruno. Svegliavano all'amore delle lettere, dell'arte e della patria, cui molti degli alunni offrirono il braccio nel 1859. Tra questi fu G.C. Abba che andò volontario con l' Aosta Cavalleria, e che l'anno appresso trovò tre di quei suoi compagni di scuola nei Mille. Nel 1866 si unisce di nuovo ai garibaldini per combattere contro gli austriaci. Alla fine della terza guerra d'indipendenza, Abba lascia definitivamente la vita militare. Torna a Cairo Montenotte e ne diviene sindaco. Nella città natale si dedica allo studio e allo scrivere. Diventa amico di Giosuè Carducci, e ne legge "le Rime nuove" e le "Odi barbare". Nel 1880 escono "Le noterelle d'uno dei Mille" edite dopo vent'anni dai fatti, più tardi riprese e pubblicate in edizione definitiva col titolo di "Da quarto al Volturno". Nel frattempo scrive anche altre opere di carattere patriottico ed educativo. Un'altra opera storica è "Nunzia". Incaricato di commemorare Garibaldi, Abba legge in Campidoglio un lungo discorso davanti al re Vittorio Emanuele III. Nominato senatore del Regno nel 1910, muore improvvisamente a Brescia nello stesso anno.

http://it.wikisource.org/wiki/Da_Quarto_al_Volturno
"Da Quarto al Volturno: Noterelle di uno dei mille" di G. C. Abba - ”15 agosto 1860 i fatti di Bronte http://www.bronteinsieme.it/2st/mo_60.html 
… Bixio in pochi giorni ha lasciato mezzo il suo cuore a brani, su per i villaggi dell'Etna scoppiati a tumulti scellerati.
Fu visto qua e là, apparizione terribile. A Bronte, divisione di beni, incendi, vendette, orgie da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi.
Bixio piglia con sé un battaglione, due; a cavallo, in carrozza, su carri, arrivi chi arriverà lassù, ma via.
Camminando era un incontro continuo di gente scampata alle stragi.
Supplicavano, tendevano le mani a lui, agli ufficiali, qualcuno gridando:
- Oh non andate, ammazzeranno anche voi!
Ma Bixio avanti per due giorni, coprendo la via de' suoi che non ne potevano più, arriva con pochi: bastano alla vista di cose da cavarsi gli occhi per l'orrore!
Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a pié del vecchio Rettore.
- Caricateli alla baionetta!.
Quei feroci sono presi, legati, tanti che bisogna faticare per ridursi a sceglier i più tristi, un centinaio.
Poi un proclama di Bixio è lanciato come lingua di fuoco:
"Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato d'assedio: consegna delle armi o morte: disciolti Municipio, Guardia Nazionale, tutto: imposta una tassa di guerra per ogni ora sin che l'ordine sia ristabilito".
E i rei sono giudicati da un Consiglio di guerra. Sei vanno a morte, fucilati nel dorso con l'avvocato Lombardi, un vecchio di sessant'anni, capo della tregenda infame. Fra gli esecutori della sentenza v'erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa.
Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lagrime.
Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! ma niuno osò più muoversi. Sia pur lontano quanto ci porterà la guerra, il terrore di rivederlo nella sua collera, che quando si desta prorompe da lui come un uragano, basterà a tenere quieta la gente dell'Etna. Se no, ecco quello che ha scritto: "Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo come nemici dell'umanità".
Vive chi ricorda d'una sommossa avvenuta per quei paesi lassù, sono quarant'anni. Un generale Costa v'andò con tremila soldati e quattro cannoni, ma dové dare di volta senza aver fatto nulla. E sul finire del secolo passato, il titolo di duca di Bronte, fu dato a Nelson. Bixio che titolo gli daremo? Non questo che fu di chi strozzò Caracciolo!"


"Un collegio nelle Langhe a mezzo 1' Ottocento" cosi diceva in Cronache a memoria…. Ma altre cose si udivano poi verso il Quaranta… novità lieta fu l'udire che era stata creata una compagnia di soldati vestiti così e così, col cappello piumato, armati di carabine perfette, capaci essi di arrampicarsi fino ai tetti delle case e i loro superiori quasi di volarvi. E ognuno si gloriava che di quei soldati, scelti in tutto l'esercito, molti fossero delle Langhe, chi del tal paese, chi del tal altro, e con orgoglio si nominavano. Presto si narrò che quei soldati avevano avuto l'abilità di fare la loro mostra in piazza San Carlo, a piè del cavallo di bronzo, mentre passava Carlo Alberto che partiva in carrozza per Genova, e poi di correre, di volare, per vie traverse a Moncalieri, per mostrarsi al Re un'altra volta. Era vero, e v'erano riusciti così bene, che il Re, sorpreso, aveva detto d'aver permesso che di quei soldati se ne fosse formata una compagnia, e che non sapeva chi si fosse fatto lecito di formarne due. I volghi chiamavano abbracciaglieri quei soldati, storpiatura innocente che faceva sorridere le ragazze.
… Due ciuffi di case sulle due rive della Bormida, un ponte che li congiunge, colli che si profilano chiari sullo sfondo cupo dei monti, ai quali fa da nodo il Settepani, pioppeti lungo il fiume, castagneti a piagge nei colli, macchie d'abeti in quei monti lassù, e lì, fuori un passo dalla borgata, il convento Calasanziano, che le genti delle terre intorno chiamano senz'altro: Collegio di Carcare, dal nome della stessa borgata; dolce visione il tutto insieme, per chi vi fu e vi amò qualcuno o qualcosa….. Di questo era anima un Padre Canata da Lerici; poeta focoso in tutto, fin nel far penitenza; uomo da dipinger con la spada in pugno come San Paolo. Quello poi sì! non solo sarebbe divenuto della Giovane Italia, ma se fosse rimasto nel mondo, fra il 1830 e il 1848, avrebbe trovata la via di andar a morire in qualcuna delle sfide di pochi al potere onnipotente, qua o là dove che gli fosse capitato di vedere un po' di tricolore. Egli poi leggeva nella scuola pagine della Battaglia di Benevento e dell'Assedio di Firenze, lettere dell'Ortis, passi del Colletta; né il Rettore del Collegio glielo vietava. Anzi, questi, come gli altri Rettori degli Scolopi di Genova, di Savona, d'Ovada, di Finale, metteva a nuovo qualcosa anch'egli nella giovinezza dei suoi convittori; dava il bando all'abito a coda, all'alta cravatta, alla feluca, e vi sostituiva la divisa dei bersaglieri, e il cappello piumato, nero e azzurro i colori. Da tutto ciò una bell'aria di rinascita che spirava da tutto, e chi aveva lasciato pensare o pensato che gli Scolopi fossero stati sempre un po' in guerra contro i Gesuiti, poteva dire che avevano vinto o stavano per vincere …..E chi non aveva potuto vedere Vittorio Emanuele in Montenotte (Cairo durante una rivista militare o esercitazione), lo vide là su certo poggio, dove la tradizione ancor fresca diceva che si fosse fermato pur Buonaparte. Stava il Re non per darsi dell'aria, ma pensoso, a guardare il suo esercito simulare gli assalti e le difese, onde potersi fidare d'adoperarlo sul serio quando fosse tempo. Era allora tutto biondo !!!, giusto di forme, d'occhi brillanti, quasi bello. Il suo baio gli si muoveva sotto come se si sentisse d'aver l'animo da lui. Cavalcava grave al suo lato sinistro il generale Lamarmora, di cui le donne e i ragazzi dicevano che era ben brutto. Parlavano del generale Lamarmora come d'un drago e i piemontesi come d'un padre. Ma quella faccia asciutta, quasi smunta, dava l'idea d'un uomo che lavorasse giorno e notte pel Re, a fargli spendere in armi e soldati tutto il danaro che il ministro Cavaoro (Cavour) aveva cominciato a spremere dalla povera gente.

Il principe Arthur d'Inghilterra  figlio della Regina Vittoria e fratello di Edoardo VII sfila con i BersaglieriMontenotte, Dego e Cosseria
Queste alture di Montenotte le vidi da fanciullo, gremite di gente, un giorno già quasi di autunno, nel 1851. Tutta quella gente aveva fatto folla quassù dalla Liguria e dal Monferrato, per godersi lo spettacolo d'una battaglia. Battaglia non per davvero, s'intende, che anzi ingentilivano tutto tante, tante signore; ma era cosa guerriera veder quei nostri antichi reggimenti piemontesi, attelati sulle creste nude, lunghe file scure che parevano tormentate dal balenìo delle loro armi. Trasalivamo allo sbucare improvviso dei bersaglieri piumati, irrompenti da qualche fitto di faggi, da qualche sviluppo di rovi; l'artiglieria si arrocciava, si piantava sui culmini, e di lassù tuonava: una festa che si faceva sentir da lontano.
Quei reggimenti portavano il lutto recente di Novara, nome che allora faceva dolere il cuore sin dei bambini. Pareva non vero che avessero potuto perdere in quella giornata! Ed era qui con essi Vittorio Emanuele, giovane allora come la speranza, re da due anni: v'era il Duca di Genova, cavaliere fine e pensoso cui si leggeva l'ingegno grande in faccia;
v'erano i due Lamarmora, quello che pareva masticasse di continuo la palla ricevuta in bocca sul ponte di Goito; e l'altro (Alfonso) che lavorava a rifar l'esercito, e già quel giorno lo metteva a una prova finta. Con essi poi altri molti divenuti illustri o passati con la turba; tutti, o quasi morti oramai; e non tutti fortunati tanto da aver visto prima questo miracolo della patria rifatta.
Gioco che fra le migliaia di teste vedute qui in quel giorno, nemmeno cento pensavano più in là d'una buona guerra contro l'Austria che allora si chiamava l'eterna nemica. Oh! se si avesse potuto pigliare la rivincita di quel tetro quarantanove! E non si rifletteva che, cacciata via l'Austria, il resto sarebbe venuto quasi da sé; che il sentimento dell'unità si sarebbe svegliato pronto, generale, indomabile. Ci siamo veduti quando fu il tempo.
Veggo dei segni di tende levate di fresco, e so che la prima compagnia alpina ha passato qui la notte dal 25 al 26 luglio. Dunque su queste alture furono visti i cappelli geniali dei nostri alpini? Che bel rammentare il cinquantanove, e Torino, e i portici del Maggi, dove fra i figurini di divise proposte per i Volontari, una ve n'era che somigliava tutta a questa delle Compagnie! Non fu adottata perché allora si era massai a spendere, o perché quella foggia di cappello era troppo alla calabrese. Ma i volontari furono chiamati Cacciatori delle Alpi; ed ora in quel nome glorioso, nella memoria di quel figurino, nell'uniforme e nel nome delle compagnie, pare di veder composti certi dissidi, che i giovani d'oggi non sanno, ma ch'erano in quei tempi vivi molto e pericolosi.
Soldati quadrati questi Alpini. Se non hanno superato, di certo arrivarono l'eccellenza dei bersaglieri. Vennero qui dalle gole di Val di Tanaro, dove l'Appennino è più aspro e foresto, ed essi v'han le loro sedi e sanno i sentieri, i varchi; sin l'orme dei lupi. Là impararono a conoscere i nomi dei Piemontesi che, di rupe in rupe, contrastarono per quattro anni il suolo della patria ai Francesi, e a quali Francesi! Ora hanno dato una corsa qui, passi da difendersi esultando; e forse hanno inteso che come si faccia a starvi, lo insegnò Rampon nel 1796.
Non v'è una pietra che segni il punto dove fu il forte del famoso combattimento. Eppure nel 1805 Napoleone decretò che qui, forse sul culmine su cui stette Rampon, fosse innalzato un monumento. E il sei fiorile dell'anno tredicesimo repubblicano, ne scriveva al general Berthier, in una lettera che anni or sono doveva essere pubblicata in Francia, dove si crede che il monumento sia stato eretto davvero, tanto che nel 1875 fu chiesto di là per via di consoli, se esistesse ancora e in quale stato; o se distrutto, in qual tempo lo fu, e in quali circostanze. Ma nessuno vide mai nulla: di monumenti questi montanari non ricordano, né hanno visto mai che i ripari di pietre formate dai Granatieri di Rampon; li hanno rispettati e li chiamano il ridotto.
Di qui si vedono i punti estremi della linea occupata dagli alleati nel 1796; e mentre il sole va sotto, si contano a certe oscurità tutte le valli che la tagliano via via. Era lunga dalla Bocchetta di Genova all'Argentiera più di cento miglia pei monti; vi campeggiavano trentamila Piemontesi e cinquantamila Austriaci; questi condotti da Beaulieu, quelli dal Colli. Intanto Buonaparte se ne veniva da Nizza lungo il mare, con ventottomila fanti, tremila cavalli, trenta cannoni e i suoi ventisei anni. Tesoro non se ne parlava; perché il Direttorio gli aveva dato una pizzicata di luigi come a uno scolaro, e ancora l'aveva incaricato di spartirseli coi vecchi generali che sarebbero stati suoi luogotenenti. I soldati erano mezzo nudi, pasciuti appena da reggersi ritti, mandati alla guerra da un governo che, per bocca del giovane generale, aveva dichiarato di non poter nulla per loro. Ma il generale aveva aggiunto di suo, che di qua dai monti v'erano le più belle campagne d'Europa, città ricche, abbondanza. Stanchi di assaettarsi a morire per i greppi della Provenza, quei soldati venivano lieti e cantando alla terra promessa.
Cose che sanno tutti, ma che io intesi da uno che conobbi vecchissimo, e nel 1796 aveva già più di vent'anni. I Francesi lo avevano colto vicino al Santuario della Misericordia di Savona, mentre se ne tornava a casa sua nei boschi. Invitato a servir loro di guida, non s'era fatto pregare. Diceva che erano stracciati e magri da far pietà, ma non feroci come li gridava la gente. Egli aveva parlato con Buonaparte e lo menzionava toccandosi il berretto; ma, ricordo vivissimo in cui si compiaceva, gli era rimasto il cavallino bianco montato da quel giovane magro, pallido, di capelli lunghi, i cui occhi tiravano come due pistole. «Pareva che quel cavallino avesse le ali, tanto correva veloce, qua, là, in cento punti: e lo seguiva un nugolo di cavalieri tutto oro e pennacchi, i diavoli e il vento». Così diceva quel vecchio tenendo gli occhi fissi come in una lontananza ideale. Forse si moveva laggiù la sua cara antica visione…...

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(G.C. Abba-“Noterelle di uno dei Mille”).... a quei tempi (1850/60), si avevano in Italia 269 tra Arcivescovati e Vescovati pari a poco meno della metà delle sedi vescovili del mondo cattolico, cifra che si stimava in 816 unità. La seguente tabella può chiarire meglio il numero degli ecclesiastici negli ex stati italiani.
82.000 nel Napoletano e Sicilia
40.000 negli ex Stati Pontifici
31.900 nell’Italia Centrale
16.500 negli ex Stati Sardi
10.700 in Lombardia
8.700 nel Veneto

ossia 2\3 di quanti erano presenti in Roma che, da sola, ne contava 12.000. Solamente tra Roma, Napoli e Palermo, ve ne erano complessivamente 30.000. Per meglio far comprendere quanto la proprietà immobiliare urbana ed extra urbana in mano al clero incidesse sulla realtà sociale dell’epoca, ci si permetta di raccontare ad esempio quanto, il 22 maggio 1860, Giuseppe Cesare Abba, allora poco più che ventenne, riportò nelle sue “Noterelle di uno dei Mille”.

LA LIBERTA'

... Egli racconta della conversazione che ebbe con un frate prima che iniziassero i combattimenti per l’assalto di Palermo. Il frate (Padre Carmelo) rivelò allo scrittore di essere “con tutto il cuore con i garibaldini” e che avrebbe voluto combattere con loro, ma che qualcosa gli impediva di farlo. Abba racconta che il frate aveva parlato con molti volontari e ad essi aveva chiesto per quale motivo erano venuti a combattere contro i Borboni in Sicilia. Questi ultimi avevano risposto “per l’Unità d’Italia”, il frate allora fece presente che si aspettava qualcosa di più, insomma “voleva che il popolo fosse felice”. Il garibaldino, di rimando, affermò che il popolo avrebbe avuto “la libertà e le scuole”, il religioso rispose “e niente altro?”. Poi continuando “perché, mio giovane amico, la libertà non è pane e le scuole nemmeno. Queste son cose che basteranno per voi Piemontesi. Per il popolo siciliano, in stragrande maggioranza contadino e senza terra, non basta!”. Abba replicò dicendo “ma allora, che ci vorrebbe per i Siciliani?”. Pronto il frate disse “una guerra! Ma non contro i Borboni soltanto, ma degli oppressi contro gli oppressori, grandi e piccoli, che non sono soltanto alla Corte del Re delle due Sicilie, ma in ogni città, in ogni villaggio”. Abba soggiunse, con un filo di sarcasmo, “allora anche contro di voi frati che avete conventi, terre, case e campagne ovunque”, “certo, ribatté prontamente il frate, anche contro di noi, anzi prima di ogni altro”. Frate Carmelo aveva spiegato con francescana semplicità la necessità e le aspirazioni secolari degli zappaterra siciliani e di tutti i poveri d’Italia, piemontesi compresi, non ci può essere libertà senza giustizia sociale.
 

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