| Qu'est-ce que Dieu fait donc de
ce flot d'anathèmes
Qui monte tous les jours vers ses chers Séraphins?
Comme un tyran gorgé de viande et de vins,
Il s'endort au doux bruit de nos affreux blasphèmes.
(Che ne fa dunque iddio dell’onda d’anatemi
Che tutti i giorni sale verso i suoi serafini?
Come un tiranno gonfio di carnami e di vini,
s’addorme al dolce suono degli oltraggi blasfemi.)
Charles Baudelaire, “Il Rinnegamento di San Pietro”
La sua profonda sofferenza, prolungata per dieci interminabili anni,
ha posto Filottete di fronte ad una domanda, fondamentale passo avanti
per la liberazione da tutta una serie di dogmi imposti dalla società
e dall’educazione, e che ha effettivamente interessato intere generazioni
di pensatori attraverso i secoli: “Come posso lodare gli dèi,
quando vedo che gli dèi sono ingiusti?” (Vv. 450-451).
Nonostante il suo comportamento sempre rispettoso, sebbene uno tra i più
valorosi Achei, pur non avendo commesso alcun atto sacrilego, egli è
stato abbandonato da qualsiasi entità superiore, lasciato solo
in balia dell’incommensurabile dolore che probabilmente proprio
da una divinità, Crise la ninfa, gli e stato senza alcun motivo
causato. C’è solo dolore e disperazione intorno a lui: dove
sono Pallade Atena, il suo amico Eracle o Zeus protettore? Perché
non vengono a soccorrere un uomo così ingiustamente infelice? Probabilmente
all’inizio del suo esilio, ancora devoto come ogni buon cittadino,
questi pensieri si saranno fatti largo nella sua mente, violenti come
le eruzioni del vulcano di Lemno, spingendolo se non verso l’ateismo
in sé, almeno verso un radicale disprezzo degli onnipotenti. Gli
esseri supremi non meritano più alcun rispetto: anche se il Padre
delle divinità in persona scendesse in terra per convincere i marinai
di Neottolemo ad abbandonare Filottete durante gli accessi della sua malattia,
egli dice: “Mai, mai, tenetelo fermo, neppure se il signore
delle folgori venisse a fulminarvi”.
Egli è completamente smarrito nella disperazione della deficienza
del possibile. Non vedeva possibilità, e, come dice Kierkegaard,
“se l’uomo rimane senza possibilità è come
se gli mancasse l’aria”. Ed allora si rivolta con cieca
furia contro chi gli ha impedito di respirare. Quando poi scorge una speranza,
la nave di Neottolemo, egli riprende lena, si rianima e comincia a lottare
con rinnovato vigore. Ma non intraprende la via della fede, come il filosofo
di Copenahgen auspicava. Filottete non si sente dipendente da un dio,
egli ha vissuto da solo per dieci anni, ormai è completamente autosufficiente.
Gli unici segni dell’esistenza degli dèi sono la ferita inflittagli
dal guardiano dell’altare della ninfa e l’arco donato da Apollo
al suo divino amico figlio di Zeus. Che se poi il serpente sia stato istigato
da un dio e l’arco sia veramente stato donato da Apollo sono cose
dubbie, probabilmente solo leggende come tante. In bocca a Filottete avrebbero
probabilmente trovato una collocazione magnifica le parole che Eliu (un
personaggio biblico) rivolse all’amico Giobbe a proposito dell’indifferenza
di Dio nei confronti del mondo e delle sofferenze degli uomini: “Se
tu pecchi cosa fai contro di lui? Se moltiplichi i tuoi delitti cosa puoi
fargli? Se sei giusto qual vantaggio gli dai? O che cosa riceve dalla
tua mano? […] Per le molte oppressioni si alzano grida,
contro il braccio dei potenti s’invoca aiuto; […] Allora
benché si gridi Egli non risponde, di fronte all’orgoglio
dei malvagi. Invano si grida, ma Dio non esaudisce, l’Onnipotente
non porge ascolto.” (Giobbe, 35, 6-7; 9 e 12-13).
Escludendo l’intervento finale di Eracle ex machina, nel corso della
tragedia di Sofocle gli immortali sembrano rispecchiare la concezione
epicurea e vivere beati ed incuranti delle umane vicende nelle loro dimore
negli intermundi. Lo stesso possessore originario dell’arco conteso
potrebbe essere (al pari del mercante), secondo l’interpretazione
data da I. Errandonea, Odisseo travestito. Ma se l’unico essere
superiore che compare nella tragedia fosse in realtà un uomo travestito,
allora potremmo leggere l’affermazione “Il tuo Dio è
tale qual è il tuo cuore” (Feuerbach - L’essenza
della religione) riportando l’ingiustizia divina all’ingiustizia
terrena. In questo modo non solo la divinità è una proiezione
dell’interiorità dell’uomo, ma uomo e dio si identificano
completamente, ed allora come l’uomo ha la crudeltà necessaria
per abbandonare un suo simile in una condizione del genere, così
gli immortali lasciano l’uomo abbandonato al proprio destino, alla
ceca forza della tuce
caotica ed imprevedibile.
Ad onor del vero và ricordato che nell’antica Grecia non
è solo Epicuro ad assegnare agli dei l’attributo dell’immobilità
e della non-interferenza con le vicende umane. Anche se basandosi su principî
radicalmente diversi, Aristotele considera il mondo ancora imperfetto
e pieno di mali perché si trova ancora sul lungo cammino di avvicinamento
alla perfezione.Tutto ciò che esiste nasce dalla Materia Prima
necessariamente imperfetto e tende, mosso da quel Motore immobile che
è Dio, all’espressione in atto della perfezione che contiene
dentro di sé solamente in potenza, al Raggiungimento della Forma
che la Sostanza non è. Il Dio non può quindi agire nel mondo
perché è puro atto, non ha più potenza, non può
modificare il suo stato di perfezione ed immobilità.
Completamente diversa invece era la posizione di Platone, che non pensava
ad un dio immobile, ma giustificava la sua apparente ingiustizia attribuendo
le imperfezioni ed i mali del nostro mondo alla resistenza ribelle della
materia, che in qualche modo ostacola il progetto del Demiurgo nonostante
tutto il suo impegno e la sua buona volontà nel tentare di plasmare
qualcosa di più simile possibile all’Iperuranio. Il male
deriverebbe quindi dalla materia, o Necessità (il nome stesso ci
mostra che esso non può essere eliminato).
Un altro debole tentativo di conciliare l’iniquità del mondo
che ci circonda con la presunta bontà ed onnipotenza di Dio fu
compiuto da S. Agostino che, per salvare in qualche modo la fede Cristiana,
si rivolge a negare la realtà sostanziale del negativo, utilizzando
lo schema neoplatonico secondo cui il male è una forma di non-essere
del bene. Poiché Dio ha creato le cose, sostiene, tutto ciò
che è, è bene. Per cui essere e bene coincidono. Alla luce
di questo presupposto il male non può che presentarsi come privazione
di bene. Se infatti essere = bene, ogni sottrazione di bene è nel
tempo stesso una sottrazione di essere e viceversa, il male assoluto,
metafisicamente parlando, non può esistere, poiché verrebbe
a coincidere con il non-essere assoluto, e quindi non con una sostanza.
Il male è quindi un semplice accidente e le imperfezioni di natura
non sono veramente tali se le si pensa dal punto di vista dell’ordine
universale delle cose: o derivano dalla struttura gerarchica dell’universo,
che per la sua completezza non richiede solamente gli esseri superiori
ma anche quelli inferiori, oppure fungono da elementi necessari per l’armonia
cosmica così come le ombre, in un quadro, sono necessarie per dar
risalto alle luci.
Ma queste posizioni potevano andare bene per quel periodo, quando ancora
la ricerca filosofica era ancora, per quanto vasta ed estesa, praticamente
un bimbo in fasce. Al giorno d’oggi si cercano risposte meno grossolane
e più raffinate, la più importante tra le quali è
stata senza dubbio data da Hans Jonas nella sua opera “Il concetto
di Dio dopo Auschwitz”. Jonas ritiene che di fronte al male nel
mondo – esemplificato da Auschwitz – non si possa più
sostenere la simultanea bontà, comprensibilità ed onnipotenza
di Dio. Infatti, se posta in rapporto con il male, una divinità
onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile.
Ma un Dio privo di bontà cessa di essere Dio, mentre un Dio totalmente
incomprensibile è qualcosa di cui non possiamo nemmeno discorrere.
Non resta quindi che abbandonare il problematico concetto di onnipotenza
(per quanto scandalosa possa apparire questa scelta per chi è abituato
a pensare Dio con la mano forte e il braccio teso). Per cui, se vogliamo
continuare a discorrere di Dio, dobbiamo ammettere che egli non è
intervenuto ad impedire Auschwitz non perché non lo volle, ma perché
non fu in condizione di farlo. Infatti, concedendo all’uomo la libertà,
Dio ha rinunciato alla sua potenza.
Possiamo quindi ricollegarci alla scia dell’affermazione “Le
cose accadono o per necessità o per arbitrio della fortuna o per
arbitrio nostro” (Epicuro – Epistola a Meneceo), che
esclude completamente gli dei dal governo del mondo, per la quale l’ateismo
viene a configurarsi come una necessità imprescindibile, come un
dato di fatto, tant’è che Nietzsche dice “non è
un risultato, e tanto meno un avvenimento – come tale non lo conosco:
io lo intendo per istinto”, e non ritiene necessario darne
una spiegazione metafisica tradizionale. Ma mentre nell’Ottocento
l’ateismo era ancora una fatto intellettuale e di élite,
nel Novecento, quasi a conferma della profezia nietzscheana della morte
di Dio, esso è divenuto un fenomeno di massa. In altre parole,
l’allontanamento dalle varie fedi, o dalla stessa credenza in Dio,
ha finito per non riguardare più delle minoranze agguerrite di
intellettuali, ma per investire, almeno per quanto concerne le società
avanzate, una fascia sempre più estesa di persone. Ci troviamo
in una società in cui Dio sembra diventato un’ipotesi inutile
o il retaggio di una cultura ancora bisognosa di certezze assolute o di
aiuti provvidenziali , cioè ignara del fatto che l’assenza
di Dio, di fronte ai mali fisici a morali, elegge l’uomo ad artefice
del proprio destino. Esemplare è la teoria di Bonhoeffer in proposito,
secondo la quale l’uomo, divenuto maggiorenne, si è completamente
sottratto alla tutela di un Dio padre onnipotente, di quel Dio “Tappabuchi”,
di quel Dio rappresentato solamente come un Essere che interviene a turare
le falle dell’uomo ed ha imparato a fare da sé. Lo stesso
Albert Einstein afferma: “Non posso immaginare un dio che premi
e punisca gli oggetti della sua creazione, i cui fini siano modellati
sui nostri - un dio, in breve, che non è che un riflesso della
fragilità umana.”
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