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Nelle meccaniche che regolano i rapporti di forza del “Filottete”
gli dei assumono un ruolo fortemente ambiguo, che solo nell’ultima
parte della tragedia diviene centrale e determinante. Tuttavia la loro
presenza, o per meglio dire la loro assenza, aleggia sottile e impalpabile
per l’intero dramma, e influenza i pensieri e le parole dei personaggi
in scena.
Anzitutto la questione del deus ex machina: è questa l’unica
tragedia di Sofocle che fa uso di questo espediente scenico e narrativo.
Perché questo elemento inusuale? Perché cade in momento
di stasi suprema della vicenda, e senza l’intervento divino si sarebbe
giunti ad un punto di non ritorno. Con l’apparizione di Eracle invece
l’ordine si ristabilisce e si può dire che la tragedia volga
al “lieto fine” (tale solo per la comunità), pur senza
intaccare minimente il profondo dramma esistenziale di Filottete, che
peraltro rinnega un’esigenza vitale, quella della vendetta. Ma la
figura dell’eroe leggendario non rispecchia completamente il giudizio
divino, egli è solamente lo strumento materiale della volontà.
Il deus ex machina del “Filottete” ha infatti poco
o nulla in comune con quelli euripidei, perché gli manca la caratteristica
essenziale di distacco, di trascendenza sentita come assoluta irrilevanza
reciproca tra un uomo e dio. Eracle è amico e uomo prima che divinità,
e le sue parole non sono né perentorie né umilianti. Il
suo è un exemplum di sofferenza e di sopportazione, che
mai una divinità trascendente avrebbe mai potuto offrire, e che
getta un ponte di solidarietà tra la sua esperienza e quella di
Filottete:
“Prima di tutto, ti ricorderò qual è stata la
mia sorte, tutte le fatiche che ho attraversato prima di giungere alla
virtù immortale che tu vedi. Anche a te, sappilo, è serbato
questo destino, di arrivare attraverso le pene a una vita gloriosa…”
( 1418-1422)
Eracle dunque non è un emissario del tutto attendibile e il giudizio
divino persiste beffardo nella luce tremolante del mistero. È impossibile
comprendere se l’intervento della divinità rappresenti una
condanna dell’operato di Neottolemo, del suo mutamento interiore,
o se, al contrario, vada letto come un premio per il ragazzo ed i suoi
genuini principi etici: ogni interpretazione è vana e parziale.
Un aspetto rimane comunque oggettivo: nel corso della tragedia gli dei
vengono spesso citati e invocati, debitamente o meno, al fine di giustificare
un’idea o un atto. È questo il caso di Odisseo, che annovera
tra i protettori divini Ermes dolioV,
al fine di legittimare la propria condotta morale:
Od.: “Vado alla nave e lascio nelle tue mani questa impresa.
Siano nostre guide Ermes signore degli inganni, e Atena, dea della città
e della vittoria, che sempre me protegge.” (versi 132-135)
Ancora più eclatante quando chiama in causa addirittura Zeus:
Od.: “E’ Zeus, il padrone di questa terra, che ha deciso
così; io sono al suo servizio.”
Fi.: “Essere odioso, cosa non riesci a dire! Mettendo avanti
gli dei, li rendi bugiardi.” (versi 989-992)
E’ altamente improbabile che un intelletto multiforme come quello
di Odisseo non intuisca il fatto che gli dei non siano altro che proiezioni
mentali di desideri umani. Il suo è un sordido utilitarismo, un
bieco tentativo di sfruttare la religione per giustificare i propri atti:
il mondo religioso di Odisseo è infatti strettamente delimitato
dalle esigenze della sua politica. Il rapporto tra religione e politica
è analizzato in dettaglio nell’apposito approfondimento.
“Tantum religio potuit suadere malorum” asseriva
gravemente Lucrezio. Tuttavia nel caso del sacrificio di Ifigenia era
l’uomo che, succube, si adeguava al comando divino e compiva “sclerosa
atque impia facta”; ora sono gli dei che si conformano alla sconfortante
opacità della condizione umana. “Non si macchia di empietà
– scrive Epicuro nella lettere a Meneceo – chi distrugge
gli dei che l’uomo si finge, ma chi attribuisce agli dei le opinioni
dell’uomo”.
Ma il guerriero di Itaca è un esperto oratore e riesce a influenzare
anche Neottolemo:
Ne.: “(…), e le pene che lo travagliano, senza che nessuno
lo aiuti, non possono non essere nel disegno di qualche dio.”
(versi 195-196)
Tuttavia, più che un plagio da parte di Odisseo, tale affermazione
appare come un autoconvincimento interiore, un alibi che il giovane si
costruisce per il compito che gli ripugna, un mezzo per resistere alla
pietà.
L’interrelazione psicologica che si instaura tra Filottete
e le divinità è invece totalmente differente. Da un lato
l’eroe ferito si appella agli dei per ottenere una vendetta nei
confronti degli Atridi che lo hanno abbandonato sull’isola di Lemno:
“Questo mi hanno fatto gli Atridi e Odisseo: vorrei che gli
dei d’Olimpo dessero loro altrettanto da patire.” (versi
314-316)
“Non sareste mai tornati qui per un uomo infelice, se non vi
avesse spinto un pungolo divino. Terra dei miei padri, dèi che
vedete tutte le cose, puniteli, puniteli tutti, anche tardi, se avete
qualche compassione per me” (versi 1030-1042)
La rabbia è primitiva, il sentimento quasi infantile, un inutile
quanto disperato occhio per occhio.
Dall’altro Filottete riconosce la colpa divina per ciò che
ha dovuto subire dalla sorte. E se spesso tale risentimento si risolve
in un’amara constatazione, ripiega verso l’autocommiserazione:
“Sciagurato che sono, e odioso agli dei!” (verso
254)
Altre volte dà vita a vere e proprie rivolte interiori:
“Come interpretare queste cose, come accettarle, come lodare
gli dei, quando vedo che gli dei sono ingiusti?” (versi 451-452)
Il tema della (presunta) ingiustizia divina è talmente complesso,
è caratterizzato da così tante sfumature interpretative
e sfaccettature semantiche, che gli è stato dedicato un'apposita
pagina di approfondimento.
In un altro passaggio Filottete lambisce la blasfemia:
Co.: “Vieni con noi, te ne preghiamo.”
Fi.: “Mai, mai, tenetelo per fermo, neppure se il signore delle
folgori venisse a fulminarmi.”
(versi 1196-1198)
Egli infatti porta all’esasperazione l’auton-omia della propria
volontà e giunge quasi a sfidare “il signore delle folgori”.
Tornano alla mente le parole di una canzone di De Andrè:
“Mai più mi chinai, e nemmeno su un fiore
più non arrossii nel rubare l’amore
dal momento che inverno mi convinse che dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio” (“Il blasfemo”)
Anche il coro sembra comprendere i reclami inascoltati di Filottete e,
con dolente rassegnazione, ammette:
Co.: “Come, come può resistere? O disegni degli dei,
o infelicità degli uomini che non hanno una vita modesta!”
(versi 176-179)
È il caso comune della maggior esposizione al rischio che caratterizza
le persone privilegiate, più che semplicemente da una posizione
sociale elevata, da esperienze eccezionali: nel caso di Filottete, il
rapporto con Eracle. Così il Coro dipinge negativamente un modello
di normalità quotidiana, illuminata da canoni che guidano mestamente
ad un’esistenza incolore e indolore, il paradigma di una vita in
autentica tanto cara alla divinità gelosa.
Altri due personaggi del mito possono essere accostati a Filottete ed
alla profonda ingiustizia divina di cui è vittima: Prometeo e Sisifo.
Ma al contrario dell’arciere greco questi sono due ribelli, che
evitano vane lamentele e recriminazioni (come Filottete), le quali non
fanno che aumentare il potere degli dei, e assumono interamente su di
loro il peso dell’indicibile supplizio, innalzando un sublime monumento
alla nobiltà interiore dell’uomo. Riportiamo in merito uno
scorcio del “Mito di Sisifo” di Albert Camus, il quale ha
visto nell’eroe mitologico il simbolo dell’assurdità
dell’esistenza umana, sbilanciata tra l’infinità delle
aspirazioni e la finitezza delle possibilità e culminante nella
vanità di tutti i suoi sforzi (il masso che sempre rotola giù),
ma anche il massimo grado della dignità umana. Ogni commento è
superfluo, se non oltraggioso:
“Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino
gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimente, l’uomo
assurdo; quando contempla il suo tormento, fa tacere tutti gli idoli.
Nell’universo improvvisamente restituito al silenzio, si alzano
le mille voci attonite della terra. Richiami incoscienti e segreti, inviti
di tutti i volti sono il necessario rovescio e il prezzo della vittoria.
Non v’è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se
l’uomo assurdo dice di sì, il suo sforzo non avrà
più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un
fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo
giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone
dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna
verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale
e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute
il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria
e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine
esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che
desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre
in cammino. Il macigno rotola ancora.
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello.
Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva
i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene (come Edipo prima
di accecarsi). Questo universo, ormai senza un padrone, non gli appare
né sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni
bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da
soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore
di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.”
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