Globalizzazione

Da qualche tempo a questa parte una parola nuova e difficile come “globalizzazione”, fino a qualche tempo fa uso esclusivo di pochi addetti ai lavori e di qualche avanguardia politica, è entrata a far parte del lessico comune di centinaia di migliaia di persone.
Ancora di più di tanti importanti convegni che in questi anni hanno saputo sottolineare il rapporto tra la liberalizzazione dei mercati e i processi di esclusione e di povertà, merito di questo è stata la nascita e lo sviluppo di importanti mobilitazioni globali che hanno scosso l’intoccabilità dei “potenti del mondo”. Le giornate di Seattle e le successive mobilitazioni europee, sorprendenti per molti e invece frutto di un lavoro spesso poco visibile ma indispensabile, ne sono state il segno più tangibile: al punto che oggi possiamo dire di avere a che fare con un nuovo movimento, articolato, plurale, denso di differenze e anche per questo di potenzialità.  E capace, forse per la prima volta, di mondializzare le resistenze e le lotte sociali, che pure in anni di difficoltà e crisi delle sinistre, non hanno in realtà mai smesso di esistere: anche denunciando come questa globalizzazione, spacciata dai potenti come la nuova alba dell’umanità, “serve invece gli interessi materiali di un gruppo di 225 persone o famiglie che detengono il 47% della ricchezza mondiale”, per usare le parole del premio Nobel Josè Saramago. 
In realtà non è casuale che le prime tappe di questo movimento (Seattle, Davos, Praga e Nizza, sono quelle di cui si è più parlato, ma non dobbiamo dimenticare che le mobilitazioni hanno attraversato anche altri paesi del mondo, dal Canada all’Australia)  si siano verificate in presenza di vertici mondiali organizzati da governi, capi di stato, o dalle famigerate organizzazioni mondiali (Wto, Fmi), che, pur prive di rappresentatività e mandato popolare, determinano i destini e le fortune di buona parte del mondo.

Esiste un avversario

Possiamo anzi dire che la capacità di leggere in questi appuntamenti, e soprattutto in chi li promuove, l’“avversario comune” da affrontare, ha rappresentato forse un primo salto di qualità di questo movimento. Al di là della indubbia riuscita mediatica delle mobilitazioni, che pure non è un elemento di secondo piano in un epoca in cui i media possono far sparire quasi tutto, e senza dimenticare che sarà necessario, in futuro, anche costruire scadenze proprie oltre che contestare quelle degli altri, è importante sottolineare questo dato. Soggetti diversi, vertenze e rivendicazioni diffuse ma incapaci di incontrarsi perché estremamente frammentate, per la prima volta si sono unificate nella critica comune agli organismi sovranazionali e all’idea che il mondo possa essere gestito da poche decine di persone e dai poteri forti che queste rappresentano. E se agli occhi dei più è ancora sottile se non inesistente il nesso che, per fare un esempio, lega la critica all’Organizzazione mondiale del commercio alla “Carta dei diritti” votata dall’Unione europea, tanto per citare la prima e l’ultima delle mobilitazioni in campo, possiamo però dire che il tema della riunificazioni delle vertenze, se pure lontano da una piena realizzazione, almeno viene nominato. E possiamo anche aggiungere che in altri tempi avremmo avuto noi stessi più difficoltà a trovare un filo conduttore tra lotte relative all’unificazione europea ed altre relative al dominio delle multinazionali o al cibo modificato. Difficoltà non risolta, naturalmente, ma resa più semplice dagli avvenimenti di questi mesi.
Da questo punto di vista la “individuazione dell’avversario” e la capacità di ricondurre alla “critica del capitalismo” le diverse rivendicazioni, appare come un argomento chiave e un primo risultato raggiunto. Diventa così non l’uno o l’altro aspetto del capitalismo neoliberale ma questo modello di sviluppo il “grande accusato” dal popolo di Seattle. Le stesse cronache delle giornate americane ne sono la testimonianza, e sottolineano proprio come a Seattle l’incrociarsi della questione ambientale con quella di classe,  la rivendicazione per una alimentazione sana con quella per un salario giusto, fossero in realtà ad un punto più avanzato delle tradizionali difficoltà.

Un nuovo ruolo del sindacato

Come è stato giustamente scritto da Bruno Cartosio, “nelle dimostrazioni contro l’Organizzazione mondiale del commercio i lavoratori sindacalizzati erano la maggioranza dei manifestanti. Non furono loro a catturare la attenzione principale dei media, perché le loro tecniche di lotta sono in genere poco chiassose e provocatorie: non sono stati i portuali, né i camionisti, né i siderurgici a bloccare gli ingressi della sala riunioni, a sedersi per terra e sfidare i lacrimogeni della polizia; non sono stati loro a spaccare le vetrine. Tuttavia, la presenza di alcune decine di migliaia di lavoratori al fianco di altre migliaia di manifestanti di tante estrazioni ideologiche e sociali diverse è un fatto di enorme importanza”. Questo dato, che si configura come una novità certamente non irrilevante, è stato in realtà molto più presente nelle mobilitazioni americane che non in quelle europee, dove ancora si evidenzia una difficoltà di interazione del mondo della produzione con quello delle avanguardie giovanili presenti nelle mobilitazioni. Negli Stati Uniti, in questi anni, il sindacato ha saputo adattare ai cambiamenti del capitalismo il baricentro del proprio intervento, spostando la propria azione dalla fabbrica e dal lavoro stabile al quel retroterra sociale fatto di precarietà e sottoccupazione che coinvolge oggi la maggioranza dei giovani americani. E questa scelta coraggiosa, come si è visto, sta cominciando a produrre risultati, e impone al sindacato europeo, soprattutto nelle sue componenti di sinistra, almeno uno sforzo uguale. In realtà, nelle mobilitazioni che si sono sviluppate nel nostro continente, al di là dei facili entusiasmi, non siamo ancora di fronte ad uno spirito simile. A Praga, nelle mobilitazioni contro il Fondo monetario internazionale, l’assenza del mondo della produzione è stata pressoché totale. E nella stessa Nizza, che pure avrebbe potuto rappresentare un passo in più su questo versante, la rivendicazione sindacale, pur numerosa e con un’anima “di sinistra”, si è incrociata relativamente con quella giovanile e delle strutture dei disoccupati, a partire dalla difficoltà dovuta dalla sostanziale accettazione, almeno da parte dei vertici della CES, della Carta dei diritti.
In questo senso, lo stesso ritardo di molti tra i partiti della sinistra alternativa e comunista europei, che hanno da poco cominciato a discutere delle tematiche relative alla globalizzazione in maniera più capillare ed articolata, è un limite da superare definitivamente.

Pensare globalmente, agire localmente

In realtà, e l’esperienza americana sta lì a testimoniarlo, un processo di riunificazione di vertenze e di lotte va costruito senza intenderlo come una semplice sommatoria di diverse soggettività sociali. Si tratta invece di provare ad adeguare gli stessi impianti analitici ai cambiamenti profondi dell’organizzazione del lavoro, della scuola, della società, analizzando le nuove figure sociali che, soprattutto tra le giovani generazioni, si sostituiscono, almeno nei paesi più ricchi, a quelle più tradizionali. Il che non vuol dire abbandonare il terreno della resistenza, anche perché sarebbe sbagliato confondere la crisi del sistema fordista con la sua estinzione, ma assumere la multicentralità come nuovo paradigma, indagando il nesso produzione- territorio, producendo un lavoro di inchiesta per conoscere meglio la realtà in cui si vive. Ed è necessario, ancora, che questo nuovo movimento che prende di mira la globalizzazione capitalistica non si limiti a costruire manifestazioni, mobilitazioni, scadenze internazionali, ma si confronti invece, a partire dalle dimensioni locali, con i grandi interrogativi posti dalla crisi della politica. Come ricostruire una rappresentanza politica; come opporre alla globalizzazione una idea che non sia da una parte la riproposizione delle identità nazionali e dall’altra il “ritorno al passato” protezionista; ancora, come intendere l’autogoverno territoriale senza che questo significhi rimuovere l’idea della trasformazione complessiva; sono tutte questioni ancora aperte, che possono diventare decisive per lo sviluppo delle lotte.
Le scadenze dei prossimi mesi, a partire dal Forum di Porto Alegre, che sarà per l’appunto un momento di riflessione oltre che di incontro delle tante esperienze, potranno offrire nuovi stimoli, e potranno essere utili anche a chi, come noi, cerca nel proprio paese di contribuire alla costruzione di questo movimento.

Il nostro ruolo

Anche in Italia abbiamo assistito in questi mesi ad un salto di qualità, almeno per quanto riguarda la visibilità delle lotte. Le manifestazioni di Genova e di Bologna, le esperienze dei treni per Praga e per Nizza sono state partecipate da un numero di giovani superiore a quello normalmente organizzato dalle strutture politiche (i Giovani Comunisti, i Centri Sociali) che hanno promosso alcune delle scadenze. Ma, nonostante questo, non dobbiamo nascondere il carattere ancora “di avanguardia” delle mobilitazioni, ma sforzarci di capire come allargare il campo degli interlocutori.  
Il carattere “giovanile” delle mobilitazioni italiane può rappresentare un elemento di novità positivo, anche alla luce di un disagio complessivo nel rapporto giovani generazioni - politica. Ma, dieci anni dopo la Pantera studentesca, forse l’ultimo movimento giovanile di una certa consistenza in Italia, è necessario provare a dare le gambe al nuovo possibile movimento affrontando le tematiche della globalizzazione a partire dai “luoghi del conflitto”. Questa sfida chiede a chi è impegnato nelle scuole, nelle università, nel lavoro, di provare a costruire l’iniziativa politica in relazione ai temi sollevati in questi mesi: le biotecnologie, il dominio delle multinazionali, il ruolo della politica, sono questioni che possono essere affrontate anche non soltanto nei cortei. E’ possibile allora chiedere, per fare un esempio, alle strutture studentesche (associazioni, collettivi, sindacato) un salto di qualità anche nell’analisi, per mettere a tema la questione dei saperi e del rapporto saperi – produzione, e per provare ad indagarne il nesso con la globalizzazione dell’economia? Ancora, è possibile tornare a interrogarsi su “cosa studiare e per quali obiettivi studiare”, senza limitare la lotta alla difesa di quel poco che rimane, come spesso è stato fatto, obbligatoriamente, in questi anni?
Probabilmente, anche nel nostro paese, la costruzione di un movimento diffuso e plurale, capace di porsi i grandi interrogativi aperti da questa fase del capitalismo, passa anche per lì.