TUTTO LENIN

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L'INCONSCIO IN LENIN

Qualunque attività (persino quella onirica) ha un significato per il soggetto solo se egli è consapevole. La psicanalisi ha sì scoperto l'inconscio, ma nella misura in cui ha preteso di conoscerlo lo ha reso "conscio", intelligibile. L'inconscio era sicuramente più oscuro e misterioso in quei filosofi romantici tedeschi che ne parlarono prima della psicanalisi (Herbart, Hartmann, Brentano e altri ancora). L'analogia tra questi filosofi e Freud sta nell'aver delineato, dopo aver costatato le contraddizioni della civiltà borghese, un'identità irrazionale dell'inconscio, senza però riuscire a comprendere l'origine economico-sociale di tali contraddizioni; la differenza sta nell'aver cercato di dimostrarlo con esempi concreti: sotto tale aspetto, l'importanza di Freud è decisamente superiore, anche se le sue interpretazioni dei sintomi nevrotici sono spesso arbitrarie. In particolare, Freud ha dimostrato (e qui la differenza da quei filosofi tedeschi è molto netta), che se l'inconscio fosse assolutamente "inconscio", nessuno ne potrebbe parlare, essendo del tutto incomprensibile. In seguito però, Freud è arrivato a sostenere che gli effetti dell'inconscio possono essere rilevanti anche su un soggetto che non ha consapevolezza della propria malattia, in quanto l'Es (fonte di tutti gli istinti) è una forza cieca e irrazionale. Cioè, in pratica, Freud non ha mai abbandonato l'idea tradizionale che l'inconscio fosse una realtà, in ultima istanza, incomprensibile. Questo non gli ha mai permesso di approfondire adeguatamente l'idea secondo cui le nevrosi più significative sono quelle per le quali il soggetto è cosciente della propria alienazione: maggiore è la coscienza e maggiore è la nevrosi, se con una diversa esperienza disalienante non la si risolve. Il che apre le porte alla comprensione del campo delle psicosi, il cui profondo significato sfugge ancora all'indagine analitica. La psicanalisi pretende di conoscere l'inconscio attraverso i sogni, i lapsus, gli errori di lettura, le dimenticanze dei nomi, i tic, le manie..., ma in realtà l'inconscio può essere conosciuto solo in rapporto alla coscienza. Un lapsus ci indica che esiste un inconscio, ma finché non parliamo col soggetto, a partire dal lapsus, interrogandolo sul perché e sul come, noi non faremo un passo avanti. La stessa follia è il frutto di una coscienza distorta delle cose, anche se il soggetto non vuole ammetterlo e ha rimosso nell'inconscio le cause della sua malattia. Non è possibile risalire a queste cause se non passando attraverso la coscienza del malato. Se vogliamo, l'inconscio non ha realtà propria: è come la tasca in cui la mano si nasconde dopo aver gettato il sasso. Nascondiamo la mano perchè ci sentiamo giudicati, da noi stessi e soprattutto dagli altri. Naturalmente è anche possibile che un'azione negativa sia compiuta da un'intera collettività, più o meno grande: in tal caso dovrà essere una coscienza sociale alternativa (che può anche essere minoritaria) a porre il giudizio. L'inconscio, in ogni caso, resta subordinato alla coscienza. Ciò che inoltre si deve accettare è l'idea che non è l'inconscio che può avere la forza di opporsi all'alienazione di una determinata coscienza sociale, ma è la stessa coscienza, la quale può essere superficiale, istintiva, o riflessiva, matura. Parlare di "opposizione inconscia" (p.es. a una ingiustizia, a un'etica formalizzata) altro non vuol dire che parlare dell'opposizione più superficiale della coscienza, destinata a durare poco e a non essere molto efficace. Questo viene in mente leggendo il Che fare? di Lenin (cap.II). "L'elemento spontaneo -dice Lenin- [cioè poco consapevole, istintivo, di cui non si ha ancora piena coscienza e che non permette di acquisirla] non è che la forma embrionale della coscienza". E ancora: "La coscienza dei propri errori [fatti coll'istinto e quindi solo parzialmente consapevoli] equivale già ad una mezza correzione [cioè ad un aumento del lato conscio], ma il mezzo male [cioè la scarsa consapevolezza] diventa un male effettivo quando questa coscienza comincia ad oscurarsi, cioè quando si tenta di giustificare teoricamente la propria sottomissione servile alla spontaneità [o all'inconscio]". Lenin voleva dire che il "mezzo male" (o la mancanza di forte consapevolezza), viene utilizzato dagli intellettuali borghesi, regressivi, come pretesto per non prendere consapevolezza dei propri errori (il che porta a un "male intero"). Il "vero male", quello "totale", nasce quando si vuole imporre la logica dell'inconscio alla coscienza, cioè quando si vuole opporre all'esigenza di un'alternativa, di una transizione, la logica della rassegnazione, dell'opportunismo, del relativismo, sino all'irrazionalismo. Tuttavia, il male peggiore di tutti -dice Lenin- è quello per cui "il soffocamento della coscienza da parte della spontaneità avviene in modo spontaneo, cioè senza lotta dichiarata fra due concezioni diametralmente opposte", ma attraverso una "lotta occulta", invisibile, difficilissima da combattere. Vi sono degli intellettuali, infatti, che, in piena coscienza, cercano di far passare alle masse, in un modo che dia l'impressione della naturalezza, l'esigenza di conservare inalterato il sistema. Questa tattica porta gli individui a credere che il prevalere dell'inconscio sulla coscienza delle cose, sia un fatto normale, inevitabile, e non un fatto opinabile, su cui si può e si deve discutere. Lasciare che l'inconscio predomini significa affidarsi alla spontaneità degli eventi, alla casualità del vivere quotidiano, non avere un progetto di vita su di sé, credere ciecamente nel destino o nel potere di un "duce", ovvero lasciarsi dominare dai rapporti di forza. In realtà è la discussione ad essere inevitabile: potrà essere poca o tanta, in rapporto alla coscienza che abbiamo dei nostri problemi, ma è impossibile che non ci sia. Una vita affidata alla spontaneità delle cose può far contento qualcuno, non la maggioranza delle persone o comunque non per un periodo illimitato. Finché queste persone istintive sono ignoranti e sottomesse, non vi sarà dibattito democratico, ma appena inizia ad aumentare la consapevolezza e la cultura, grazie alle quali possiamo capire gli inganni, i meccanismi dello sfruttamento, la protesta s'impone da sé, anche di fronte alla reazione più dura del sistema. "Se certi elementi spontanei dello sviluppo [sociale] sono accessibili in generale alla coscienza umana -dice Lenin-, l'errata valutazione di essi equivarrà a una sottovalutazione dell'elemento cosciente. E se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo parlare". Dunque, ciò che condiziona negativamente non è tanto l'inconscio, quanto piuttosto il suo prevalere (specie quello teorizzato dagli intellettuali) sulla coscienza. Ecco perchè la spontaneità delle masse esige da parte degli intellettuali progressisti un alto grado di coscienza politica.

CENTRALISMO E DEMOCRAZIA

Nella storiografia marxista spesso si notano dei giudizi positivi circa il fatto che lo sviluppo degli Stati borghesi implicò la fine delle autonomie locali e regionali, in quanto -si afferma- senza la centralizzazione dei poteri difficilmente la borghesia avrebbe potuto avere la meglio su feudatari e clero. Tuttavia, la stessa storiografia, subito dopo aver costatato il successo della centralizzazione politica, afferma che proprio essa creò nuovi problemi, nuove contraddizioni antagonistiche, che finirono col danneggiare soprattutto gli interessi dei ceti non proprietari. Questo modo di vedere le cose oggi può essere considerato superato, poiché una qualunque forma di centralizzazione dei poteri (anche la più progressista sul piano ideologico), senza una forte democratizzazione a livello locale e regionale, porta sempre a favorire gli interessi di una ristretta minoranza (anche se le intenzioni originarie andavano nella direzione opposta). Lenin si accorse subito di questo pericolo, ma non ebbe il tempo per scongiurarlo (il suo testamento politico, purtroppo, non venne neppure preso in considerazione). La centralizzazione non può servire a giustificare il superamento più agevole del passato regime, se in tal modo si rischia di compromettere, anche nel breve periodo, l’interesse della maggioranza dei cittadini. Il socialismo sovietico fu favorevole (anche con Lenin) al centralismo, al fine di combattere meglio l’aristocrazia feudo-clericale e la borghesia, e pensò che nel lungo periodo -dopo la vittoria sulla controrivoluzione- le masse avrebbe beneficiato di una ricaduta positiva delle conquiste rivoluzionarie. Ma tale ricaduta, in realtà, non si è mai verificata, se non in termini molto limitati (relativamente alla situazione socioeconomica, poiché in quella delle libertà civili e politiche la ricaduta non ci fu per nulla). Oggi bisogna affermare che il centralismo può essere condiviso solo a condizione che si affermi, nel contempo, un’ampia democrazia di base e che, in ogni caso, il centralismo ha senso solo se è funzionale alla democrazia e non questa a quello. Nessun centralismo può vincere l’antagonismo sociale e politico senza l’appoggio delle masse.

 

DALLE TESI D'APRILE A STATO E RIVOLUZIONE

Nel 1917 Lenin ritorna in Russia dall’esilio svizzero, godendo dell’appoggio del governo tedesco, che ha astutamente capito che nel partito bolscevico (favorevole alla pace) può sperare una breve uscita della Russia dallo scacchiere bellico. Rientrato in Russia, Lenin trova un partito bolscevico dalle idee confuse e decide di stabilizzarlo sfruttando la propria abilità di teorico marxista. Ed è per questo che egli pubblica le celeberrime Tesi d’aprile . In esse si affrontano molti dei problemi che travagliavano la Russia: in primis, come effettuare una rivoluzione in un paese tanto arretrato quale era la Russia. I Menscevichi, in sintonia con il pensiero marxiano, intendevano fare la rivoluzione solo dopo il pieno sviluppo del capitalismo, poiché ritenevano assurdo fare la rivoluzione ancor prima che si fosse giunti al capitalismo. Lenin la pensava diversamente: ci voleva una rivoluzione immediata, senza passare per il capitalismo, il che sembra assurdo poiché non ha senso fare la rivoluzione socialista in un paese dove non c’è il capitalismo. Ma Lenin sosteneva l’esigenza della rivoluzione proprio per questo: in un paese che di più arretrati non ce n’erano, non aveva senso alcuno che a governare fosse la borghesia. Ne venne fuori una situazione paradossale, in disaccordo con le previsioni di Marx: la piena industrializzazione russa doveva essere gestita non dalla borghesia (come era avvenuto in tutti i paesi europei), bensì dal proletariato. Lenin ci tiene a precisare che il capitalismo non è un fatto di un singolo paese, bensì è un processo di portata mondiale, sicchè non ci si deve aspettare la rivoluzione da paesi capitalisticamente progrediti (quali la Germania o l’Inghilterra), ma dal più arretrato e feudale di tutti (la Russia appunto), poiché essa è ‘ l’anello debole ‘ della catena del capitalismo mondiale. La rivoluzione sarebbe dunque divampata in Russia (il paese più arretrato) per poi coinvolgere l’intero mondo, trovando il suo epicentro in paesi progrediti quali la Germania o l’Inghilterra: non è dunque corretto parlare di tante e singole rivoluzioni, bensì vi è una sola grande rivoluzione, destinata ad abbattere l’unico capitalismo che infesta il mondo. E del resto, notava Lenin, se la rivoluzione avesse attecchito solo in Russia, una volta terminata la guerra, le grandi potenze reazionarie europee si sarebbero coalizzate per estinguerla brutalmente. Questo ci permette di capire come il Lenin delle Tesi d’ aprile avesse in mente un’idea che verrà poi meglio esplicitata da Trotsky : l’idea di ‘rivoluzione permanente’, che altro non era che la convinzione che la rivoluzione dovesse svilupparsi in tutto il mondo per annientare in esso il capitalismo. Una delle grandi novità proposte da Lenin nelle Tesi d’aprile fu la parola d’ordine ‘ il potere ai soviet ‘: aveva dichiarato aperta ostilità al governo provvisorio di Kerenskij, in nome della lotta intransigente contro la guerra, definita come imperialista indipendentemente dall’assetto politico del paese e aveva espresso la volontà di trasformare il partito di forza minoritaria in forza di maggioranza, guida di una nuova rivoluzione, quella appunto destinata a conseguire il potere ai soviet. Secondo Lenin il partito bolscevico doveva ‘ spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, gli errori della loro tattica […], sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai consigli dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dai loro errori sulla base dell’esperienza ‘. Una parola d’ordine che comportava il massimo di democrazia diretta e di autogoverno per le masse popolari veniva così sostenuta attraverso l’esaltazione del ruolo del partito, posto implicitamente al di sopra delle masse stesse, alle quali doveva insegnare a vincere. L’iniziativa spontanea delle masse, che aveva portato ai soviet (Lenin riconobbe sempre il carattere spontaneo delle nuove organizzazioni), doveva assoggettarsi alla direzione del partito: le masse potevano sbagliare, anzi il loro cammino era disseminato di errori, mentre il partito era infallibile. La concezione di Lenin sulla rivoluzione era nettamente diversa da quella di tutte le altre forze socialiste, poiché infatti Lenin, come accennavamo, voleva arrivare immediatamente al regime socialista, senza passare per il capitalismo. In una delle prime Tesi d’aprile egli dice che ‘ l’originalità dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di coscienza del proletariato alla seconda fase che deve dare il potere al proletariato e agli strati più poveri dei contadini ‘. Lenin voleva arrivare al socialismo bruciando le tappe del capitalismo per diversi motivi: uno di questi consisteva nella convinzione che la guerra avesse creato una crisi profonda degli equilibri politici e dei rapporti di forza nella società in tutta Europa. La Russia sarebbe stato il punto di partenza della rivoluzione che avrebbe presto (secondo Lenin) raggiunto tutto il pianeta proprio perché essa era l’anello debole della catena imperialista, ovvero era il paese in cui il rovesciamento del potere esistente era più facile e rapido. Questa tesi era già stata sostenuta con grande precisione da Lenin, nel marzo 1917, dall’esilio svizzero: ‘ la Russia è un paese contadino, uno dei paesi più arretrati d’Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente. Ma il carattere contadino del paese […] può dare alla rivoluzione democratica borghese in Russia un’ampiezza formidabile e far sì che la nostra rivoluzione sia il prologo della rivoluzione socialista mondiale, sia un passo verso di essa ‘. Giocava poi a favore della Russia un altro fattore, notava Lenin: la rivoluzione in Russia non avrebbe assunto il carattere di rivoluzione proletaria (come nel resto d’Europa), non sarebbe cioè stata una ribellione di una sola classe sociale (gli operai), ma della stragrande maggioranza della società (operai e contadini), all’interno della quale il partito bolscevico doveva avere un ruolo di guida. Considerando il nuovo stato come il potere della stragrande maggioranza del popolo, contrapposto ad un’esigua minoranza (sia pure la minoranza degli ex privilegiati), Lenin vedeva nel parlamentarismo un inutile orpello, reso oltre tutto antiquato dalle trasformazioni politiche in tutto il mondo. La formula ‘ dittatura democratica degli operai e dei contadini ‘ riassumeva bene il concetto: si sarebbe dovuto trattare di una dittatura, poiché non avrebbe lasciato alla minoranza borghese e aristocratica il diritto di opporsi, ma democratica poiché avrebbe comunque rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione. Di questa dittatura democratica i soviet sarebbero stati la migliore espressione ed è per questo che nelle Tesi d’aprile campeggia il motto ‘il potere ai soviet’. Oltre che nelle Tesi, Lenin tratta dello stato anche in un altro suo scritto, intitolato Stato e Rivoluzione (composto nell’estate del 1917) , in cui sostiene che la rivoluzione deve mettere lo stato in mano al proletariato, ovvero al partito del proletariato poiché il Bolscevismo è un partito di quadri. Lo stato non viene abolito, bensì resta ed è strumento della dittatura del proletariato: qualsiasi regime è sempre, per definizione, la dittatura di una classe sulle altre, anche quando si dà una maschera democratica (il regime pre-rivoluzionario è per esempio dominio della borghesia). Si tratta dunque non di instaurare una dittatura, ma di passare da una dittatura ad un’altra: da quella borghese a quella proletaria. Ed è una dittatura ‘democratica’ perché a favore della stragrande maggioranza contro pochi contrari. Dopo un po’ di tempo di tale dittatura, però, lo stato porterà all’eliminazione definitiva delle vecchie classi sociali (borghesia in primis), sicchè verrà meno il conflitto di classe (non essendoci più classi antagoniste) e anche la dittatura, in quanto ad esistere sarà solo più il proletariato e la dittatura era sui non-proletari. A questo punto lo stato perderà ogni significato: se prima serviva come strumento di dittatura, ora sarà del tutto inutile. Esso dunque si estingue (l’intera macchina statale finisce ‘ nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo ’, diceva Engels) e si passa all’anarchia. Tuttavia nella storia della Russia rivoluzionaria non si riuscirà mai a sorpassare la fase di dittatura del proletariato e lo stato non verrà mai eliminato, come già temeva Bakunin quando accusava Marx sostenendo che dalla dittatura non si sarebbe mai usciti. Quando Lenin dice che bisogna dare tutto il potere ai soviet, intende soprattutto dire che è opportuno uscire, il più presto possibile, da quella strana ambiguità di potere per cui il potere effettivo è in mano al governo democratico-liberale dei Cadetti ma senza il consenso dei soviet non può fare nulla. La soluzione la si otterrà quando i Bolscevichi attueranno la Presa del Palazzo d’Inverno. E’ curioso il fatto che Lenin si accorga di come, con la guerra mondiale, lo stato, a livello europeo ma anche mondiale, abbia cessato di essere un puro e semplice strumento del dominio di classe per diventare la massima potenza economica: sul piano dei rapporti delle classi, restava e anzi si esasperava il capitalismo, ma sul piano economico era stata avviata una statalizzazione della produzione che anticipava il socialismo o, addirittura, cominciava ad attuarlo. ‘ La metà materiale, economica ‘ del socialismo era già realizzata; si trattava di realizzare l’altra metà, cioè quella politica. ‘ Il socialismo non è altro che il capitalismo monopolistico di stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico. Non vi è via di mezzo. La guerra imperialista è la vigilia della rivoluzione socialista. E non solo perché la guerra con i suoi orrori genera l’insurrezione proletaria, ma perché il capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo ‘. Lenin avvertiva che con la guerra lo stato si era sempre più militarizzato anche nella sua politica interna (reprimendo ovunque i movimenti socialisti) e andava sempre più maturando la convinzione che alla fine lo stato andasse eliminato, tant’è che fu più volte accusato duramente di anarchismo (soprattutto da Kamenev).

 

IL MARXISMO E LA SUA APPLICAZIONE PRATICA IN LENIN

Lenin era convinto nel 1917 della possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia, nonostante tale arretratezza. Da tempo Lenin aveva criticato i populisti russi, fautori di un comunismo agrario anticapitalistico, opponendo ad essi la necessità di passare attraverso la fase capitalistica. Ciò non significava che la transizione al socialismo dovesse avvenire attraverso le riforme e la lotta parlamentare: anche per Lenin l' unica via era data dalla rivoluzione. Ma per condurre ad essa era necessaria la formazione di un partito di rivoluzionari professionisti, inteso come avanguardia della classe operaia. Già nel 1902, in Che fare? , Lenin aveva elaborato la sua concezione del partito, come gruppo fortemente cementato al suo interno dall' unità ideologica, disciplinato e centralizzato nelle sue decisioni ed efficiente sul piano operativo. Con queste tesi egli si opponeva a tutte le forme di anarchismo e spontaneismo, che affidavano l' iniziativa rivoluzionaria a moti spontanei e improvvisi delle masse, non preparati, organizzati e guidati dal partito, o indulgevano ad atti di terrorismo puramente individuali, svincolati dai movimenti di massa. Su questi temi Lenin tornerà ancora nel 1920 con lo scritto Estremismo, malattia infantile del comunismo . Questi erano i problemi preliminari alla presa del potere, ma alla vigilia della vittoria della rivoluzione nel 1917 egli affrontava in Stato e rivoluzione la questione dei caratteri che avrebbe assunto il periodo di transizione al comunismo, con il passaggio del potere nelle mani del proletariato. Lenin riteneva necessaria una fase transitoria di dittatura del proletariato, ossia un momento coercitivo caratterizzato dall' uso della forza per preparare il passaggio al regno della libertà. Infatti il controllo operaio sulla produzione e la partecipazione dei lavoratori alla direzione dello Stato, attraverso la formazione dei Soviet (consigli) degli operai e dei contadini, avrebbero avviato il processo, che avrebbe condotto all' estinzione dello Stato stesso. Per la formazione dei membri del partito, in quanto guida consapevole della classe operaia nei suoi momenti di lotta e di esercizio del potere, è essenziale una componente teorica, fornita dal marxismo. Lenin individua i due elementi fondamentali della teoria marxiana nel materialismo e nella dialettica e torna a collegarli, mentre per ragioni opposte i marxisti di stampo positivistico ed evoluzionistico e i marxisti revisionati li avevano scissi o eliminati. Per combattere la diffusione dell'empiriocriticismo tra i marxisti russi egli pubblica Materialismo e empiriocriticismo (1909). Qui egli sostiene che la materia , agendo sui nostri sensi, produce le sensazioni: questo significa che essa e, quindi, le cose in generale esistono indipendentemente dalle nostre sensazioni e dalla nostra coscienza. In questo senso la scienza conferma l' esistenza della terra prima che esistesse l' umanità in grado di conoscerla. Non si può dunque affermare che esista una di9fferenza di principio tra i fenomeni, ossia le cose come appaiono a noi, e le cose in sè, come pretendevano certe forme di kantismo. L' unica differenza rilevante è quella intercorrente fra quel che è conosciuto e ciò che non lo è ancora. Esiste dunque una verità oggettiva assoluta, a cui ci si avvicina progressivamente: dire che la conoscenza è relativa equivale soltanto a dire che essa non è ancora in possesso della verità totale, non che non esiste una verità unica, ma esistono soltanto verità diverse in relazione a ciascun individuo. L' errore dei positivisti, dei neokantiani e degli empiristi consiste, secondo Lenin, nel considerare i dati della conoscenza come qualcosa di già costituito e invariabile. Si tratta invece di analizzare questi dati all' interno del processo dinamico che conduce alla conoscenza. In questo senso la conoscenza è il "riflesso" della realtà, ma ciò non significa che essa sia un rispecchiamento puramente passivo di una realtà intesa come qualcosa di fisso e immutabile. La realtà e il processo della conoscenza devono, invece, essere interpretati alla luce della dialettica. Su questo punto Lenin insisterà anche nei Quaderni filosofici , pubblicati postumi nel 1933, frutto anche della sua rilettura delle opere di Hegel. Egli giunge alla conclusione che " non si può comprendere perfettamente il Capitale se non si è compresa e studiata attentamente tutta la logica di Hegel. Di conseguenza, mezzo secolo dopo nessun marxista ha compreso Marx ". Hegel e Marx avevano insegnato che la dialettica non è un movimento o un' evoluzione puramente meccanica, ma è sviluppo che ha il suo motore nella lotta degli opposti. In questo senso la dialettica offriva secondo Lenin, la chiave di lettura della storia come lotta di classi, alla quale sarebbe seguito il momento sintetico della società senza classi. In Stato e Rivoluzione riprende a sviluppare le idee di Marx sulla dittatura del proletariato e sulla trasformazione rivoluzionaria dello Stato nell'autogoverno dei produttori (che egli intendeva attuare attraverso il movimento dei Soviet).

 

RIFLESSIONI FAMOSE
 

Revisionisti : Sul piano politico il revisionismo ha tentato di rivedere il fondamento reale del marxismo, la dottrina della lotta di classe. La libertà politica, la democrazia, il suffragio universale, ci è stato detto, distruggono le basi stesse della lotta di classe e confutano la vecchia tesi del Manifesto comunista secondo cui gli operai non hanno patria. In regime di democrazia, dove domina la "volontà della maggioranza", non si può più considerare lo Stato come un organo del dominio di classe e non ci si può più sottrarre all'alleanza con la borghesia progressista, propugnatrice di riforme sociali, contro i reazionari. E' incontestabile che queste obiezioni dei revisionisti danno vita a un sistema abbastanza irganico di idee, cioè; al sistema già noto da un pezzo delle concezioni liberali borghesi. I liberali hanno sempre sostenuto che il parlamentarismo borghese distrugge le classi e la divisione in classi, perché tutti i cittadini senza distinzione hanno diritto al voto, hanno diritto di partecipare agli affari dello Stato. Ma tutta la storia dell'Europa nella seconda metà del XIX secolo, tutta la storia della rivoluzione russa all'inizio del secolo XX dimostrano chiaramente quanto siano assurde queste concezioni. Con la libertà del capitalismo "democratico" le differenze economiche non si attenuano, ma si accentuano e si inaspriscano. Il parlamentarismo non elimina ma mette a nudo l'essenza delle repubbliche borghesi più democratiche come organi dell'oppressione di classe. (Lenin, Marxismo e revisionismo, marzo-aprile 1908)

Cretinismo parlamentare : Soltanto dei mascalzoni o dei semplicioni possono credere che il proletariato debba prima conquistare la maggioranza alle elezioni effettuate SOTTO IL GIOGO DELLA BORGHESIA, sotto IL GIOGO DELLA SCHIAVITU' SALARIATA, e poi conquistare il potere. E'il colmo della stupidità o dell'ipocrisia; ciò vuol dire sostituire alla lotta di classe e alla rivoluzione le elezioni fatte sotto il vecchio regime, sotto il vecchio potere. Il proletariato conduce la sua lotta di classe senza aspettare le elezioni per incominciare uno sciopero, benché per il completo successo dello sciopero occorra la simpatia della maggioranza dei lavoratori (e di conseguenza anche della maggioranza della popolazione). Il proletariato conduce la sua lotta di classe abbattendo la borghesia, senza aspettare nessuna votazione preliminare (organizzata dalla borghesia e che si svolga sotto la sua oppressione), e nel farlo sa benissimo che per il successo della sua rivoluzione, per l'abbattimento della borghesia E' ASSOLUTAMENTE NECESSARIA la simpatia della maggioranza dei lavoratori (e di conseguenza della maggioranza della popolazione). I cretini parlamentari e i moderni Louis Blanc "esigono" assolutamente delle elezioni, e assolutamente organizzate dalla borghesia, per determinare la simpatia della maggioranza dei lavoratori. Ma questo è; un punto di vista di pedanti, di cadaveri o di abili ingannatori. La realtà viva, la storia delle vere rivoluzioni mostrano che assai spesso "la simpatia della maggioranza dei lavoratori" non può essere dimostrata da nessuna votazione (per non parlare delle elezioni organizzate dagli sfruttatori, con l'"eguaglianza" tra sfruttatore e sfruttato!). Assai spesso "la simpatia della maggioranza dei lavoratori"è dimostrata NON da votazioni, ma dallo sviluppo di un partito, o dall'aumento del numero dei sui membri nei soviet, o dal successo di uno sciopero che, per un qualche motivo, abbia acquistato grandissima importanza, o dal successo della guerra civile, ecc. ecc. (...) La rivoluzione proletaria è impossibile senza la simpatia e l'appoggio dell'immensa maggioranza dei lavoratori per la loro avanguardia, il proletariato. Ma questa simpatia, questo appoggio non si ottengono di colpo, non sono le elezioni a deciderli, ma SI CONQUISTANO con una lunga, difficile, dura lotta di classe. La lotta di classe del proletariato PER la simpatia, PER l'appoggio della maggioranza dei lavoratori non si esaurisce con la conquista del potere politico da parte del proletariato. DOPO la conquista del potere questa lotta CONTINUA, ma in ALTRE forme. (Lenin, Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi, 10 ottobre 1919)

La Borsa : La potenza del capitale è tutto, la Borsa è tutto, mentre il parlamento, le elezioni, sono un gioco da marionette, di pupazzi. (Lenin, Sullo Stato., 11 luglio 1919)

Concezione del mondo : Tutta l'esperienza della storia moderna e, in particolare, la lotta rivoluzionaria del proletariato di tutti i paesi, sviluppatasi per più di cinquant'anni, dopo la pubblicazione del MANIFESTO COMUNISTA, dimostrano inconfutabilmente che la concezione marxista del mondo è; la sola espressione giusta degli interessi, delle opinioni e della cultura del proletariato rivoluzionario. (Lenin, Sulla cultura proletaria, 8 ottobre 1920)

Dottrina marxista-leninista La dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta. Essa è completa e armonica, e dà agli uomini una concezione integrale del mondo, che non può conciliarsi con alcuna superstizione, con nessuna reazione, con nessuna difesa dell'oppressione borghese. Il marxismo è il successore legittimo di tutto ciò che l'umanità ha creato di meglio durante il secolo XIX: la filosofia tedesca, l'economia politica inglese e il socialismo francese. (Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, marzo 1913)

Concezione proletaria : Tutta l'esperienza della storia moderna e, in particolare, la lotta rivoluzionaria del proletariato di tutti i paesi, sviluppatasi per più di cinquant'anni, dopo la pubblicazione del MANIFESTO COMUNISTA, dimostrano inconfutabilmente che la concezione marxista del mondo è la sola espressione giusta degli interessi, delle opinioni e della cultura del proletariato rivoluzionario. (Lenin, Sulla cultura proletaria, 8 ottobre 1920)

Gioventù : Il compito della Gioventù Comunista consiste nell'indirizzare la propria attività in modo che, studiando, organizzandosi, raggruppandosi, lottando, questa gioventù educhi se stessa e tutti coloro che vedono in essa una guida così da formare dei comunisti.

 

GIACOBINISMO LENINIANO, SOVIET E ACCUSE DI BLANQUISMO

L'accusa di essere una tendenza "giacobina" e "blanquista" è quella che più di frequente si muove alla Corrente Leninista Internazionale e al suo Manifesto. E' sintomatico che essa ci sia lanciata da organizzazioni che, pur accusandosi reciprocamente delle peggiori nefandezze teoriche e pratiche, fanno a gara nel considerarsi "trotskyste ortodosse". Caratteristica comune di tutti i trotskysti più o meno ortodossi è quella di avere introiettato il peccato originale di Trotsky (peccato di cui egli si vergognerà per tutta la vita): quello di aver inizialmente combattuto il bolscevismo come "deviazione giacobina". E' tipico dei trotskysti dimenticare quanto Trotsky stesso ebbe modo di dire più volte negli anni '20 e '30, e che cioè sul Partito, cioè sulla questione del "giacobinismo", Lenin, e non lui o Rosa Luxemburg , ebbe ragione sin dall'inizio. Tutta la titanica lotta per costruire la Quarta Internazionale (lotta che egli considerò il compito più importante della sua vita), Trotsky la condusse infatti sotto la bandiera del leninismo più intransigente: “Non si possono esprimere gli interessi di classe se non sotto forma di programma; non si può difendere il programma se non costituendo un Partito. La classe in sé considerata non è che oggetto di sfruttamento. Il ruolo specifico del proletariato comincia nel momento in cui una classe sociale in sé diviene una classe politica per sé. Ciò può avvenire solo tramite il Partito. Il Partito è l'organo storico mediante il quale la classe acquista coscienza di sé. Dire "la classe è al di sopra del partito", significa affermare: la classe allo stato bruto è al di sopra della classe che sta per acquistare coscienza di sé. Non solo questo è falso, ma è reazionario”. ( L.D.Trotsky. "E ora?". Gennaio 1932) Molti trotskysti non hanno fatto mistero che, dalla scissione del POSDR al 1917, sarebbero stati con Trotsky contro Lenin, dimostrando così di non avere capito nulla né del leninismo né del trotskysmo. E' un fatto che la gran parte delle correnti trotskyste, sulla questione del Partito, dell'insurrezione e della dittatura proletaria, cioè del “giacobinismo”, sono molto più vicine alle posizioni della Luxemburg che a quelle di Lenin. Esse attaccano il giacobinismo ma in realtà il loro vero bersaglio è la concezione leninista. E' degno di nota che la critica al giacobinismo ha sempre tentato di mascherare la sua natura opportunista e socialdemocratica camuffandosi coi panni dell'estremismo parolaio e con il culto della spontaneità operaia. I trotskysti hanno anche un altro difetto, di non aver mai afferrato il contenuto reale della parola d'ordine leninista del 1905 che va sotto il nome di "dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini", dimenticando quanto Trotsky stesso ebbe modo di precisare nel 1940. L. Trotsky. "Tre concezioni della rivoluzione". 1940 Per loro Lenin voleva tenere, durante la rivoluzione democratico-borghese, il proletariato russo a rimorchio della borghesia. Ma questa era la posizione dei menscevichi (per i quali, siccome la rivoluzione era borghese, occorreva spingere al governo il Partito liberale) non dei bolscevichi! Già nel giugno 1905 Lenin affermava: “I giacobini della socialdemocrazia contemporanea, i bolscevichi, vogliono elevare, con le loro parole d'ordine, la piccola borghesia rivoluzionaria e repubblicana, e specialmente i contadini, al livello del democratismo conseguente del proletariato, senza che questo perda la sua fisionomia di classe. Vogliono che il popolo, cioè il proletariato e i contadini, regoli i conti con lo zarismo e l'aristocrazia "alla plebea", sterminando implacabilmente i nemici della libertà, reprimendo con la forza la loro resistenza, non facendo alcuna concessione al maledetto passato di schiavitù, di asiatismo, di oltraggio all'essere umano”. (V.I.Lenin. "Due tattiche della socialdemocrazia russa". Giugno 1905) In altre parole Lenin non era affatto per una coalizione con la borghesia, per appoggiare la borghesia, ma per prendere a calci nel sedere la borghesia, riteneva, in polemica con i menscevichi, che “Alcuni mesi di dittatura rivoluzionaria del proletariato e dei contadini faranno molto di più che decenni di pacifica e abbrutente atmosfera di stagnazione politica”. (V.I. Lenin "La dittatura democratica rivoluzionaria". Aprile 1905) Con estrema chiarezza affermava che la rivoluzione del 1905 non doveva essere un nuovo 1789, ma un 1793 (nel senso della dittatura giacobina dal giugno 1793 al 27 luglio 1794) o, per essere più precisi, un 1848, nel senso che “Il compito della socialdemocrazia deve essere spingere più in là possibile la rivoluzione borghese, senza dimenticare mai l'obbiettivo principale: l'organizzazione autonoma del proletariato”. (V.I.Lenin "Una rivoluzione del tipo 1789 o del tipo 1848?" . Marzo 1905) I sostenitori di una supremazia di Trotsky su Lenin, non solo mostrano una pericolosa sottovalutazione della questione del Partito;la cui costruzione è stato il principale merito strategico di Lenin su tutte le altre correnti di sinistra della II. Internazionaleas; essi giustificano la loro tesi con l'argomentazione (notoriamente di origine staliniana) secondo cui Lenin avrebbe fino all'ultimo respinto l'idea che il proletariato doveva prendere il potere durante la rivoluzione democratica. In realtà Lenin giunge alle conclusioni essenziali di Trotsky (rivoluzione permanente) molto prima dell'aprile del 1917: “Nessuno è in grado di predire fino a che punto saranno attuate in Russia trasformazioni realmente democratiche nell'epoca delle sue rivoluzioni borghesi, ma non v'è ombra di dubbio che solo la lotta rivoluzionaria del proletariato determinerà il grado e il successo delle trasformazioni. Tra le "riforme", nello spirito borghese, ma che recano il marchio della servitù, da una parte, e la rivoluzione democratica guidata dal proletariato, dall'altra, possono esserci solo le esitazioni impotenti, senza carattere, senza idee, del liberalismo e del riformismo opportunista. Dando uno sguardo generale alla storia della Russia dell'ultimo mezzo secolo, agli anni 1861 e 1905, possiamo soltanto ripetere con convinzione ancora maggiore le parole della nostra risoluzione di Partito: "lo scopo della nostra lotta è, come prima, l'abbattimento dello zarismo, la conquista del potere politico da parte del proletariato, che si appoggia sugli strati rivoluzionari delle masse contadine ed attua la rivoluzione democratico-borghese mediante la convocazione di un'assemblea costituente di tutto il popolo e l'instaurazione di una repubblica democratica"”. (V.I. Lenin "Riforma contadina e rivoluzione proletaria-contadina" . Marzo 1911) Un'altra critica che spesso viene rivolta dai trotskysti alla politica proposta da Lenin nel 1905 è quella di subordinare la classe operaia ai contadini. E' vera questa critica? No, è falsa. “Essere diffidenti verso i contadini, organizzarsi separatamente da loro, essere pronti a lottare contro di loro, nella misura in cui operano come reazionari o come antiproletari. In altri termini: aiutare il contadino, quando la sua lotta contro il proprietario fondiario giova allo sviluppo e al consolidamento della democrazia; mantenersi neutrali nei confronti del contadino, quando la sua lotta contro il grande proprietario fondiario non è altro che una resa dei conti, senza interesse per il proletariato e la democrazia, tra due frazioni della classe dei proprietari fondiari”. (V.I. Lenin "Il proletariato e i contadini" . Marzo 1905) Di più. Lenin, al pari di Trotsky, e contrariamente alla vulgata staliniana, escludeva che i contadini potessero "intaccare il dominio della borghesia": “Non si può parlare della unione dei contadini e degli operai in un unico Partito. Gli operai si prefiggono di distruggere la schiavitù del salario mediante l'eliminazione del dominio della borghesia. I contadini avanzano rivendicazioni democratiche che possono distruggere la servitù della gleba, in tutte le sue basi e manifestazioni sociali, ma che non sono in grado nemmeno di intaccare il dominio della borghesia”. (V.I. Lenin "I Trudoviki e la democrazia operaia" . Maggio 1912) Tuttavia, come Shakespeare, ebbe a dire, accadono più cose nel mondo di quante possa concepirne una intera filosofia. Così, pur se sconfitta in Russia, l'ipotesi della "dittatura democratica degli operai e dei contadini", si è rivelata una possibile chiave di lettura di rivoluzioni come quella jugoslava, cinese, vietnamita o cubana. In questi paesi, contrariamente ad uno dei postulati della teoria di marxista i contadini e non il proletariato urbano sono stati la forza motrice dei processi di rivoluzione democratica e di liberazione dal gioco imperialista. Questi movimenti, sotto la guida di una intellighenzia giacobina legata al Komintern, approfittando dell'equilibrio di forze contrassegnato dalla potenza mondiale dell'URSS, non solo sono saliti al potere, ma hanno infine spezzato le compatibilità capitalistiche permettendo l'edificazione di sistemi collettivisti o, per dirla con la Quarta Internazionale, di "Stati operai deformati" (così confermando l'essenziale della teoria della rivoluzione permanente). Polemizzando con Plechanov, Lenin scriveva: “I giacobini del 1793 erano i rappresentanti della classe più rivoluzionaria del XVIII secolo, degli strati più poveri della città e della campagna. L'esempio dei giacobini è istruttivo. Non è ancora invecchiato, ma bisogna applicarlo alla classe rivoluzionaria del XX secolo, agli operai e ai semiproletari. Se il potere passasse ai "giacobini" del XX secolo, ai proletari e ai semiproletari, essi dichiarerebbero nemici del popolo i capitalisti che accumulano miliardi nella guerra imperialistica, cioè nella guerra per la spartizione del bottino e dei profitti capitalisti. I giacobini del 1793 sono entrati nella storia come un grande esempio di lotta veramente rivoluzionaria contro la classe degli sfruttatori da parte della classe dei lavoratori e degli oppressi, impadronitasi di tutto il potere statale”. (V.I. Lenin. ""Sui nemici del popolo" giugno 1917) Rappresentare e organizzare gli strati più poveri e oppressi della città e della campagna, lottare per l'annientamento della classe dei capitalisti e a questo scopo edificare la dittatura rivoluzionaria: ecco l'essenziale dell'esperienza giacobina, esperienza di cui il Lenin propone di raccogliere l'eredità. Che questa sostanza del giacobinismo debba essere raccolta, mutatis mutanti, dai comunisti, Lenin non si stancherà di ripeterlo proprio mentre tenta di orientare il suo Partito alla conquista del potere statale: “O il "giacobinismo". Gli storici della borghesia vedono nel giacobinismo una caduta ("scendere fino"). Gli storici del proletariato vedono nel giacobinismo uno dei punti più alti mai raggiunti dalla classe oppressa nella lotta per la sua emancipazione. I giacobini non erano destinati a conseguire la vittoria completa, soprattutto perché la Francia del XVIII secolo era circondata sul Continente da paesi troppo arretrati e perché nella Francia stessa non c'erano le basi materiali del socialismo, non c'erano le banche, i sindacati capitalisti, l'industria meccanica, le ferrovie”. (V. I. Lenin "Si può spaventare la classe operaia con lo spauracchio del "giacobinismo"? Giugno 1917) Come si vede Lenin non solo difende l'eredità giacobina, ma considera i giacobini come dei protosocialisti, come dei precursori del movimento comunista e, quel che è più importante, un esempio che i proletari debbono seguire durante la rivoluzione: “Il "giacobinismo" in Europa, o alla frontiera fra l'Europa e l'Asia, nel XX secolo sarebbe il dominio della classe rivoluzionaria, del proletariato che, appoggiato dai contadini poveri e avvalendosi delle condizioni materiali esistenti per un'avanzata verso il socialismo, potrebbe non soltanto dare tutto ciò che i giacobini del XVIII secolo hanno dato di grande, di indistruttibile, d'indimenticabile, ma portare anche, su scala mondiale, ad una stabile vittoria dei lavoratori. E' proprio della borghesia odiare il giacobinismo. E' proprio della piccola borghesia averne paura. Gli operai e i lavoratori coscienti credono al passaggio del potere alla classe rivoluzionaria, oppressa, poiché in questo sta la sostanza del giacobinismo, la sola via d'uscita dalla crisi, il solo modo di evitare la rovina e la guerra”. (V.I. Lenin. Ibidem [sottolineatura di Lenin) Lenin non pronunciava a caso queste parole. Egli stava preparando il Partito bolscevico all'insurrezione, alla conquista del potere e a condurre una guerra civile che egli considerava inevitabile. (“La rivoluzione è la lotta di classe e la guerra civile più acuta, più selvaggia e più esasperata. Nessuna grande rivoluzione, com'è dimostrato dalla storia, si è compiuta senza guerra civile”. V.I.Lenin "I bolscevichi conserveranno il potere statale"? Ottobre 1917) Contro non aveva soltanto menscevichi e socialisti-rivoluzionari ma una parte dello stesso gruppo dirigente bolscevico: essi giustificavano i loro tentennamenti e la loro politica di conciliazione con il criterio che solo una grande maggioranza poteva arrogarsi il diritto di rovesciare il governo provvisorio e fondare uno Stato degli operai e dei contadini. Sottolineando che durante una crisi rivoluzionaria la "maggioranza" non si può calcolare staticamente come in una tranquilla competizione elettorale, Lenin affermava: “La rivoluzione differisce dalla situazione "normale" negli affari dello Stato proprio perché le questioni controverse della vita statale sono direttamente risolte dalla lotta delle classi e dalla lotta delle masse, compresa la lotta armata. Non può essere altrimenti, dal momento che le masse sono libere e armate. Da questo fatto fondamentale deriva che, in tempi di rivoluzione, non basta, no, esprimere la "volontà della maggioranza", ma bisogna dimostrarsi più forti nel momento decisivo, bisogna vincere. A partire dalla "guerra dei contadini" in Germania nel medioevo e continuando per tutti i grandi movimenti e le epoche rivoluzionarie fino al 1848, al 1871, e anche al 1905, troviamo esempi innumerevoli in cui le minoranze meglio organizzate, più coscienti, meglio armate, impongono la loro volontà alla maggioranza e vincono”. (V.I.Lenin, "Illusioni costituzionali" agosto 1917 [sottolineatura nell'originale] E' qui espressa in termini inequivocabili la concezione leninista del rapporto avanguardia-masse durante una crisi rivoluzionaria: date certe condizioni, spetta alle "minoranze meglio organizzate, più coscienti, meglio armate, imporre la loro volontà alla maggioranza e vincere". Da quali elementi ricava Lenin questa convinzione? Da un'accurata analisi materialistica della storia di tutte le rivoluzioni dell'epoca moderna: “Tenendo conto di quest'esperienza della maggioranza delle rivoluzioni, e in particolare della rivoluzione del 1848 (la più simile alla nostra attuale), Marx derideva senza pietà i democratici piccolo-borghesi che volevano vincere a colpi di risoluzioni e richiamandosi alla volontà della maggioranza. La nostra esperienza del 1906 lo conferma in modo ancora più evidente. (...) Dunque, il richiamo alla maggioranza del popolo non decide ancora niente delle questioni concrete della rivoluzione. L'usarlo come prova è proprio un modello d'illusione piccolo-borghese, è il rifiuto di riconoscere che nella rivoluzione bisogna vincere le classi nemiche, bisogna abbattere il potere statale che le difende, e che per far questo non basta la "volontà della maggioranza del popolo", ma occorre la forza delle classi rivoluzionarie che vogliono e possono battersi, una forza capace di schiacciare nel momento e nel luogo decisivo, la forza nemica. Quante volte è accaduto nelle rivoluzioni che la forza piccola, ma ben organizzata, armata e centralizzata delle classi dirigenti, dei grandi proprietari fondiari e della borghesia, abbia schiacciato la forza della "maggioranza del popolo", male organizzata, male armata, divisa! Sostituire ai problemi concreti della lotta di classe, nel momento in cui essa è particolarmente acutizzata dalla rivoluzione, considerazioni "generali" sulla "volontà del popolo", sarebbe degno solo del più ottuso piccolo-borghese”. (V.I.Lenin "Dal diario di un pubblicista". 14 settembre 1917) I più accaniti avversari del "giacobinismo", e tra questi Rosa Luxemburg, hanno giustificato questa loro ripulsa con l'idealistica pretesa secondo cui la rivoluzione proletaria ubbidisce a leggi su e proprie, originali, del tutto differenti se non opposte alle leggi delle rivoluzioni di tipo borghese. Questa idea si basa su un fondamento economicistico, sulla concezione evoluzionistica e storicistica secondo il socialismo è ineluttabile, che esso sarà un parto naturale dello sviluppo capitalistico; di qui la critica al "giacobinismo", la fatale sottovalutazione della funzione della direzione, che dovrebbe limitarsi a svolgere il ruolo di mero organizzatore del movimento. Lenin sferzava questa panzana spontaneista e operaista, rimarcando non solo ciò che differenzia, ma ciò che accomuna le rivoluzioni proletarie da quelle borghesi; ciò che noi potremmo chiamare leggi universali della lotta rivoluzionaria per il potere. L'accusa di essere un "blanquista" fu rivolta per la prima dagli avversari di Lenin, già durante i lavori del II. Congresso del POSDR nel 1902-03. Successivamente diventò il lei moti non solo dei menscevichi ma pure di Trotsky e Rosa Luxemburg. Quest'accusa veniva rilanciata con veemenza dai menscevichi durante la rivoluzione, i quali temevano che Lenin stesse spingendo il suo Partito a preparare un'insurrezione armata per rovesciare il governo provvisorio di Kerensky (del quale essi facevano appunto parte). I nostri critici, che si considerano trotskysti, dovrebbero riflettere sulla simmetria tra le loro accuse alla Corrente Leninista Internazionale e quelle rivolte dai menscevichi al Partito bolscevico. I nostri critici, ritengono "blanquista" la nostra tesi secondo cui la rivoluzione socialista, pur essendo uno sconvolgimento storico caratterizzato dalla mobilitazione di larghe masse, se vuole andare fino in fondo, cioè vincere, non può che concludersi in insurrezione armata, cioè nella conquista del potere da parte dell'avanguardia organizzata in Partito politico. “La menzogna opportunistica secondo la quale la preparazione dell'insurrezione e, in generale, il considerare l'insurrezione come un'arte è "blanquismo", è una delle peggiori e forse la più diffusa delle deformazioni del marxismo compiute dai partiti "socialisti" dominanti. Il capo dell'opportunismo, Bernstein, si è già guadagnato una triste celebrità accusando il marxismo di blanquismo, e gli opportunisti attuali che gridano al blanquismo, in sostanza non rinnovano e non "arricchiscono" affatto le già povere "idee" di Bernestein. Accusare i marxisti di blanquismo perché considerano l'insurrezione un'arte! (...) Per riuscire l'insurrezione deve fondarsi non su di un complotto, non su di un Partito, ma sulla classe d'avanguardia. Questo in primo luogo. L'insurrezione deve fondarsi sullo slancio rivoluzionario del popolo. Questo in secondo luogo. L'insurrezione deve saper cogliere quel punto critico nella storia della rivoluzione in ascesa che è il momento in cui l'attività delle schiere più avanzate del popolo è massima e più forti sono le esitazioni delle file dei nemici e nelle file degli amici deboli, equivoci e indecisi della rivoluzione. Questo in terzo luogo. Ecco le tre condizioni che, nell'impostazione del problema dell'insurrezione, distinguono il marxismo dal blanquismo”. (V.I. Lenin "lettera al Comitato Centrale del POSDR". Settembre 1917. [Sottolineatura nell'originale] Lenin si rivolgeva al suo Comitato Centrale invitandolo a rompere ogni indugio, contro la tendenza all'esitazione e al compromesso con il governo provvisorio. Vi era chi, come Zinoviev e Kamenev, considerava l'atto di forza del Partito proposto da Lenin, un "colpo di Stato", un "complotto blanquista" che avrebbe portato alla vittoria della controrivoluzione. Essi sostenevano che occorreva aspettare l'Assemblea Costituente e al posto di un governo dei bolscevichi proponevano un regime fondato sulla fusione tra i Soviet e il parlamentarismo borghese. “E per trattare l'insurrezione da marxisti, cioè come un'arte, dobbiamo, nello stesso tempo, senza perdere un istante, organizzare uno stato maggiore delle squadre insurrezionali, ripartire le nostre forze, mettere i reggimenti fedeli nei punti più importanti, circondare il Teatro Alessandro, occupare la fortezza Pietro e Paolo, arrestare Stato maggiore e governo, mandare contro gli allievi ufficiali e contro la "divisione selvaggia" reparti pronti a sacrificarsi piuttosto che lasciar entrare il nemico nel centro della città, mobilitare gli operai armati, chiamarli a un'ultima accanita battaglia, occupare simultaneamente il telegrafo e il telefono, installare il nostro stato maggiore insurrezionale nella centrale telefonica, collegarlo per telefono a tutte le officine, a tutti i reggimenti, a tutti i punti dove si svolgerà la lotta armata, ecc”. (Ibidem) Preparare minuziosamente e illegalmente il colpo armato decisivo, tenere segreti i piani d'attacco, tener pronto il Partito ad afferrare tutto il potere: tutto questo per gli avversari di Lenin era la prova infallibile del suo blanquismo. Zinoviev e Kamenev, nella riunione della direzione bolscevica del 29 ottobre, accusarono Lenin di avventurismo blanquista e affermarono che "...un Partito marxista, d'altra parte, non può ridurre l'insurrezione a una congiura militare". (In: V.I.Lenin "Lettera ai compagni". 30 ottobre 1917) Ecco come rispondeva Lenin: “Il marxismo è una dottrina estremamente profonda e complessa. Non è strano perciò che si possano incontrare frammenti di citazioni di Marx soprattutto se fatte a sproposito tra gli "argomenti" di coloro che si staccano dal marxismo. Una congiura militare è blanquismo se essa non è organizzata dal Partito di una classe determinata, se coloro che l'organizzano non hanno valutato giustamente il momento politico in generale e la situazione internazionale in particolare; se il Partito non ha la simpatia, dimostrata concretamente, della maggioranza del popolo; se lo sviluppo degli avvenimenti rivoluzionari non ha condotto alla distruzione pratica delle illusioni conciliatrici della piccola borghesia; se non si è conquistata la maggioranza degli organi del genere dei "soviet”; riconosciuti "muniti di pieni poteri" o diversamente considerati tali per la lotta rivoluzionaria; se non vi è nell'esercito (nel caso che gli avvenimenti si svolgano in tempo di guerra) uno stato d'animo completamente maturo di ostilità contro un governo che prolunga una guerra ingiusta contro la volontà del popolo; se le parole d'ordine dell'insurrezione (come "tutto il potere ai soviet", "la terra ai contadini", " proposta di una pace democratica a tutti i popoli belligeranti", "annullamento immediato dei trattati segreti, abolizione delle diplomazia segreta" ecc.) non hanno la più larga diffusione e la massima popolarità; se gli operai avanzati non sono convinti della situazione disperata delle masse e sicuri dell'appoggio delle campagne, appoggio dimostrato da un importante movimento contadino o da un'insurrezione contro i grandi proprietari fondiari e contro il governo che li difende; se la situazione economica del paese permette seriamente di sperare in una soluzione favorevole della crisi con i mezzi pacifici e parlamentari. Non vi pare che basti”? (Ibidem ) Cosa ci dice dunque Lenin? Che data la maturità di determinate condizioni oggettive e soggettive non c'è opposizione tra insurrezione come arte e congiura militare come questione tecnica, che quando le sorti della rivoluzione si decidono nell'arco compresso di pochi giorni e poche ore, l'una si appoggia sull'altra: “Accerchiare e isolare Pietrogrado, impadronirsene con un attacco combinato della flotta, degli operai e dell'esercito: tale è il compito, che richiede arte e audacia estrema. Il successo della rivoluzione russa e della rivoluzione mondiale dipende da due o tre giorni di lotta”. (V.I.Lenin "Consigli di un assente". 21 ottobre 1917) Ma non era solo contro Zinoviev e Kamenev (di cui chiese l'espulsione per aver fatto pubblicare in un giornale menscevico una loro lettera in cui, comunicando di essere contrari all'insurrezione, portarono con ciò stesso il nemico a conoscenza dei piani del Partito) (V.I.Lenin "Lettera ai membri del Partito". 31 ottobre 1917) che Lenin si scagliava. Egli giunse ad annunciare le sue dimissioni dal CC per protesta contro qui dirigenti (Trotsky era fra costoro) , che volevano attendere il II. Congresso dei Soviet di tutta la Russia previsto per il 7 novembre (pensavano, cioè, che solo il congresso dei soviet aveva la titolarità di decretare il rovesciamento del governo provvisorio e lanciare l'insurrezione): “Sono perciò costretto a chiedere di uscire dal CC, cosa che faccio riservandomi la libertà di agitazione nella base del Partito e nel congresso del Partito. Perché è mia convinzione profonda che se noi "attendiamo" il congresso dei soviet e lasciamo passare il momento attuale, noi perdiamo la rivoluzione”. (V.I.Lenin 20 ottobre 1917) Ai compagni che chiedevano di attendere il II. Congresso dei soviet di tutta la Russia, Lenin diceva appassionatamente: “In tali condizioni attendere è un delitto. I bolscevichi non hanno il diritto di attendere il Congresso dei soviet, essi debbono prendere tutto il potere subito. Così facendo essi salvano sia la rivoluzione mondiale sia la rivoluzione russa, sia la vita di centinaia di migliaia di uomini in guerra. Temporeggiare è un delitto. Attendere il Congresso dei soviet è un giuoco infantile con i formalismi, un giuoco vergognoso con i formalismi, un tradimento della rivoluzione. Se non si può prendere il potere senza insurrezione, bisogna passare subito all'insurrezione” V.I.Lenin "Lettera al CC, ai comitati di Mosca e Pietroburgo e ai bolscevichi nei soviet" 14 ottobre 1917. Alla fine, fortunatamente, la posizione di Lenin ottenne la maggioranza del CC. L'insurrezione ("congiura" o "cospirazione" blanquista secondo Zinoviev) venne scatenata la sera del 6 novembre e il II. Congresso dei Soviet non poteva che prendere atto del fatto compiuto, del fatto che tutto il potere era stato assunto dal Comitato Militare Rivoluzionario. E' bene sottolineare questo "dettaglio", il fatto che il potere fu conquistato non dai soviet, ma dal Partito bolscevico che lo trasferì, una volta scatenata l'insurrezione, cioè solo in un secondo momento e a cose fatte, ai soviet degli operai, dei soldati e dei contadini. Ecco quanto Lenin scriveva il giorno prima dell'insurrezione: “Chi deve prendere il potere? Questo ora non è importante: lo prenda il Comitato militare rivoluzionario "o un'altra istituzione" che dichiari che consegnerà il potere soltanto ai veri rappresentanti degli interessi del popolo, degli interessi dell'esercito (proposta immediata di pace), degli interessi dei contadini (si deve prendere la terra subito, abolire la proprietà privata), degli interessi degli affamati. Preso il potere oggi noi non lo prendiamo contro i soviet, ma per loro. La presa del potere è compito dell'insurrezione; il suo scopo politico apparirà chiaro dopo. sarebbe la rovina o puro formalismo attendere l'incerto voto del 7 novembre, il popolo ha il diritto e il dovere di risolvere simili problemi non con il voto ma con la forza; il popolo ha il diritto e il dovere nei momenti critici della rivoluzione di guidare i suoi rappresentanti, anche i migliori rappresentanti, e non di attenderli”. (V.I.Lenin "Lettera ai membri del CC" 6 novembre 1917) Ci sono in giro per il mondo molti compagni che pur considerandosi leninisti non afferrano la dinamica degli eventi dell'ottobre, e quindi non capiscono né la funzione svolta dal Partito bolscevico né la logica della posizione leninista. Lenin ci dice che nel momento più critico della rivoluzione, quando l'assalto insurrezionale è posto all'ordine del giorno, quando tutto si decide in pochi giorni, non solo il Partito non deve farsi imbrigliare da vuoti formalismi, ma ha il dovere di accelerare le tappe, di guidare i rappresentanti popolari, di spronarli e se necessario di spingerli più avanti e di metterli davanti al fatto compiuto. Noi che ci limitiamo a difendere questa impostazione (che è ricca di implicazioni per quanto concerne la concezione leninista del rapporto tra avanguardia e masse, molto più che tante astratte dissertazioni intellettualistiche) siamo accusati di blanquismo e di giacobinismo. Come abbiamo visto quest'accusa venne rivolta a Lenin in tempo reale dalla destra del Partito e dai menscevichi. Sintomatico è che oggi, dopo il crollo del 1989-91 e la "morte del comunismo", è particolarmente in voga la tesi che la rivoluzione bolscevica fu un puro colpo di Stato militare, una atto di una minoranza. Molte organizzazioni, o raccolgono questa accusa prendendo le distanze dal bolscevismo, oppure, incapaci di resistere all'attacco, negano la supremazia dell'avanguardia sulle masse, del Partito sui soviet, contrapponendo insomma ciò che dialetticamente il Partito di Lenin ricondusse ad unità, e cioè che nell'insurrezione vivono due aspetti l'uno concatenato all'altro: quello dello slancio informe e caotico delle masse e quello centralista e dirigente del Partito d'avanguardia. L'uno non può fare a meno dell'altro. Queste organizzazioni, precipitando nel campo di un luxemburghismo immaginario, mentre negano il ruolo determinante del Partito bolscevico e di Lenin in particolare (Trotsky più tardi dirà che senza Lenin non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione d'Ottobre), tendono ad esagerare quello dei soviet, giungendo a farne dei veri e propri feticci. Ci accusano di "blanquismo" dal momento che noi della CLI affermiamo il diritto del Partito rivoluzionario, nel momento in cui lo sbocco insurrezionale è possibile, non solo a subordinarsi gli organismi consiliari del popolo, ma anche, ove fosse necessario per le sorti della rivoluzione, a conquistare tutto il potere politico. I nostri critici, anche questa volta, dimenticano che su questi punti Lenin dovette ingaggiare, durante il 1917, una dura lotta all'interno del suo Partito. Lenin non escludeva affatto che, ove i bolscevichi non fossero riusciti per tempo a conquistare la maggioranza all'interno dei soviet, il Partito avesse il diritto e il dovere di conquistare il potere statale. “Il nostro Partito, come ogni altro Partito politico, aspira a conquistare il dominio politico per sé. Il nostro scopo è la dittatura del proletariato rivoluzionario. Sei mesi di rivoluzione hanno confermato con straordinaria chiarezza, forza ed efficacia, che tale rivendicazione è giusta e necessaria nell'interesse, appunto, di questa rivoluzione, perché diversamente il popolo non potrebbe ottenere né la pace democratica, né la terra per i contadini, né la libertà completa (Repubblica veramente democratica)”. V.I.Lenin "Sui compromessi". 14 settembre 1917 Un mese dopo, in uno scritto anco più famoso Lenin, sempre fustigando le esitazioni che allignavano tra i bolscevichi e presagendo la rottura con i suoi tradizionali discepoli scriverà e preciserà: “...i bolscevichi si decideranno a prendere da soli tutto il potere statale? Ho già avuto occasione, al congresso dei soviet, di rispondere a questa domanda con un'affermazione categorica, interrompendo dal mio posto Tsereteli durante uno dei suoi discorsi ministeriali. E, per quanto io sappia, nessun bolscevico ha mai affermato, sulla stampa o a voce, che noi non dobbiamo prendere il potere da soli. Io mantengo tuttora il punto di vista che un Partito politico in generale, e a maggior ragione il Partito della classe d'avanguardia, non avrebbe diritto di esistere, sarebbe indegno di essere considerato un Partito, sarebbe un meschinissimo zero sotto tutti i rapporti se, potendo accedere al potere, vi si rifiutasse” V.I.Lenin "I bolscevichi conserveranno il potere statale". Ottobre 1917 Per quanto riguarda i soviet e ciò vale per gli organismi di contropotere che sorgono dal basso nel corso di una crisi prerivoluzionaria nulla è più lontano da Lenin che il feticismo spontaneista di tante tendenze marxiste. Anzitutto occorre ricordare che dopo le giornate di luglio (quando la maggioranza nei soviet era dei partiti piccolo-borghesi nonostante la svolta bonapartista e militarista del governo provvisorio) Lenin, proprio mentre proponeva al Partito di iniziare la preparazione dell'insurrezione, chiese contestualmente di abbandonare la parola d'ordine "Tutto il potere ai soviet" in quanto "tutte le speranze di uno sviluppo pacifico della rivoluzione russa sono definitivamente svanite". V.I.Lenin "La situazione politica". Luglio 1917 Prendendo atto che il "potere reale era nelle mani della cricca militare dei Cavaignac" Lenin così rispondeva ai suoi critici: “Il proletariato rivoluzionario deve prendere il potere...I soviet possono e devono comparire in questa nuova rivoluzione, ma non i soviet attuali, non gli organi di questa intesa con la borghesia, bensì gli organi della lotta rivoluzionaria contro la borghesia. E' un fatto che anche allora noi saremo fautori di una struttura statale di tipo sovietico. Non si tratta di discutere dei soviet in generale, ma di combattere la controrivoluzione attuale e il tradimento dei soviet attuali. Sostituire l'astratto al concreto è, in tempi rivoluzionari, una delle colpe più gravi e più pericolose. I soviet attuali hanno fatto fallimento, sono falliti completamente perché erano dominati dai partiti socialista-rivoluzionario e menscevico. Oggi questi soviet rassomigliano a montoni condotti al mattatoio e che belano lamentosamente sotto la scure. I soviet sono oggi impotenti e abbandonati a se stessi di fronte alla controrivoluzione che ha vinto e che vince. La parola d'ordine del passaggio del potere ai soviet potrebbe essere intesa come un "semplice" invito alla presa del potere da parte dei soviet attuali, ma parlare questo linguaggio, lanciare simili appelli oggi, significherebbe ingannare il popolo. Nulla è più pericoloso dell'Inganno”. V.I.Lenin "Sulle parole d'ordine". Luglio 1917 E anche quando, dopo il fallimento del tentativo del generale Kornilov, Lenin riprese in considerazione la possibilità di chiedere ai soviet di prendere tutto il potere, egli si scagliò apertamente contro l'idea "completamente falsa" che ciò significasse "governo dei partiti che hanno la maggioranza nei soviet", dato che questo avrebbe significato "soltanto un cambiamento di persone nella composizione del governo" mentre il vero problema era distruggere l'apparato statale borghese e costruirne uno proletario sulle sue ceneri. V.I.Lenin "Uno dei problemi fondamentali della rivoluzione". Settembre 1971 Poco dopo, rispondendo a coloro che scambiavano la forma col contenuto dei soviet, a coloro che volevano subordinare l'autonoma iniziativa del Partito a quella dei soviet, Lenin rispondeva: “I soviet, vivendo sotto la direzione di Liberdan, Tsereteli e Cernov, si sono decomposti e putrefatti. Uno sviluppo dei soviet, nel vero senso della parola, uno sviluppo completo del loro carattere e delle loro capacità è possibile soltanto se essi prendono tutto il potere statale; altrimenti non avranno niente da fare, saranno soltanto degli embrioni (e non si può restare embrione per molto tempo) o dei balocchi. Il "dualismo di potere" è la paralisi dei soviet”. V.I.Lenin "I bolscevichi conserveranno il potere statale". Ottobre 1917 [sottolineatura nell'originale] Non solo Lenin non feticizza i soviet, egli sottolinea che essi possono sviluppare le loro potenzialità, possono assolvere in pieno il loro ruolo rivoluzionario solo se rompono il paralizzante dualismo di potere, se cioè si trasformano in organi del potere statale operaio e contadino. Come abbiamo visto, perché ciò accadesse, c'è voluta l'insurrezione d'Ottobre, cioè l'iniziativa autonoma del Partito. Senza l'azione di forza dei bolscevichi il Partito non avrebbe potuto trascinarli e guadagnarli alla causa, essi non sarebbero mai divenuti "l'apparato dello stato proletario" sarebbero restati "informi parlamenti del lavoro". L.D.Trotsky "Terrorismo e comunismo".

 

IL TESTAMENTO E L'ANTIPATIA PER STALIN

Le note che Lenin dettò tra la fine del 1922 e l'inizio del 1923, un anno prima di morire, sono conosciute sotto il nome di "Lettera al congresso" (del partito bolscevico-russo). La famiglia di Lenin e i suoi più intimi collaboratori diedero ad esse il nome di "Testamento". Come noto, ancora oggi l'interpretazione di questo documento da parte della storiografia sovietica e occidentale è piuttosto controversa. Avvolto da ogni sorta di miti e di leggende, esso venne rivelato solo al XX Congresso del Pcus, da Krusciov, e pubblicato integralmente nel 1956. Questa è la breve cronistoria della formazione di tale documento: ad essa faranno seguito alcune riflessioni di merito. Agli inizi del 1921 cominciarono ad apparire i primi sintomi dell'arteriosclerosi di Lenin, che i medici attribuivano all'eccessivo lavoro e alle conseguenze dell'attentato della socialista-rivoluzionaria Fanni Kaplan, di cui era stato vittima nell'agosto 1918. Verso la fine dell'anno egli era già gravemente debilitato e costretto a lasciare l'attività pubblica per molte settimane. Nell'aprile 1922 gli venne estratta una delle due pallottole con cui era stato colpito dalla Kaplan. Il 25 maggio la mano e la gamba destre si erano paralizzate ed aveva difficoltà a parlare. Cedendo malvolentieri alle sollecitazioni dei medici, si era trasferito a Gorki. Nel giugno il suo stato di salute era migliorato, sicché all'inizio di ottobre poté tornare a Mosca per riprendere il lavoro. Ma il 13 dicembre fu colpito da nuovi disturbi. Decide finalmente di curarsi. Nei tre giorni seguenti, pur immobilizzato nel letto, ha diverse conversazioni telefoniche, riceve i suoi più stretti collaboratori, prepara l'intervento per il X congresso dei soviet, scrive diverse lettere e alcune note relative al monopolio del commercio estero, alla distribuzione dei compiti fra i sostituti del presidente del consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, chiede d'indagare su come s'effettuava lo stoccaggio della raccolta del grano nel 1922, s'informa di ciò che viene fatto in materia di sicurezza sociale, del censimento della popolazione e di altre questioni. Sulla questione del commercio estero Lenin si scontra duramente con Stalin (che pur aveva contribuito a far nominare segretario generale del partito), in quanto quest'ultimo patrocinava le tesi di Bucharin , Sokolnikov, Frumkin e altri, relative alla attenuazione se non abolizione del regime di monopolio. Trotski invece parteggiava per Lenin. Nella notte dal 15 al 16 dicembre il suo stato di salute s'aggrava seriamente. Il mattino del 16, Lenin detta una lettera alla moglie, Nadejda Krupskaia. I medici gli propongono di trasferirsi di nuovo a Gorki, ma lui decide di restare a Mosca. Chiede a Nadejda di far sapere a Stalin che la malattia gli impediva d'intervenire al X congresso. Il 18 dicembre si riunisce il plenum del C.C. Viene deciso di comunicare a Lenin, con l'assenso dei medici, il testo delle risoluzioni adottate al plenum. Per decisione speciale dello stesso, Stalin viene investito della responsabilità personale relativa al controllo della terapia prescritta dai medici. A partire da questo momento le visite gli vengono vietate. Alle persone che lo assistono (la moglie, la sorella, alcune segretarie e il personale medico) viene proibito di trasmettergli qualsiasi lettera o di informarlo dei correnti affari di Stato, al fine -questa la giustificazione- di "non preoccuparlo" Il 21 dicembre Lenin detta a Nadejda una lettera indirizzata a Trotski, in cui si dichiara soddisfatto della decisione del plenum circa la conferma dell'intangibilità del monopolio del commercio estero e suggerisce che venga posta al congresso del partito la questione del consolidamento di tale commercio e delle misure da prendere per migliorarne l'efficienza. Avendo saputo di questa lettera, Stalin, al telefono, rimprovera duramente Nadejda d'aver trasgredito l'ordine di riposo assoluto impartito dai medici. Nadejda reagisce inviando il 23 dicembre una lettera a Kamenev, allora vice-presidente del consiglio dei ministri: "Stalin s'è permesso ieri un attacco assai rozzo nei miei riguardi, sotto il pretesto che avevo autorizzato Ilich a dettarmi una breve lettera -ciò che io ho fatto col consenso dei medici. Non è da oggi che sono membra del partito, ma in 30 anni non avevo mai sentito nulla di simile. Gli interessi del partito e dello stesso Ilich mi stanno a cuore tanto quanto a Stalin. So bene ciò di cui si può o non si può parlare con Ilich, poiché so che cosa lo preoccupa, lo so meglio di qualunque medico, in tutti i casi meglio di Stalin... Non sono di marmo e i miei nervi sono al limite". La Krupskaia non disse niente a Lenin dell'incidente, per cui è da escludere ch'essa l'abbia influenzato nel ritratto che di Stalin egli fece in una nota del 4 gennaio 1923. Solo il 5 marzo egli viene a conoscenza dell'incidente, per il quale dettò subito una lettera indirizzata a Stalin: "Compagno Stalin, voi avete avuto l'impudenza di chiamare mia moglie al telefono per insultarla. Benché essa vi abbia promesso di dimenticare l'incidente, il fatto tuttavia, per mezzo di lei, è venuto a conoscenza di Zinoviev e Kamenev. Io non ho intenzione di dimenticare così facilmente ciò che è stato fatto contro di me: va da sé infatti che quanto viene fatto contro mia moglie è come se fosse fatto contro di me. Ecco perché vi chiedo di farmi sapere se siete disposto a ritirare ciò che avete detto e a scusarvi, o se invece preferite interrompere le relazioni tra noi. Con i miei rispetti, Lenin". Stando a una lettera della sorella di Lenin, Maria Ulianova, Stalin presentò le sue scuse. Nella notte del 22 dicembre il braccio e la gamba destri erano paralizzati. Lenin non poteva più scrivere. Il giorno dopo chiede ai medici il permesso di dettare alla stenografa per cinque minuti, poiché una questione assai importante gli impediva di dormire. Fu così che Lenin cominciò a dettare la prima parte della sua cosiddetta "Lettera al congresso". In questa parte egli avanzava la necessità di aumentare l'effettivo del CC facendovi entrare degli operai e dei contadini. Il 24 dicembre, davanti alle insistenze dei medici che imponevano di cessare ogni incontro con la stenografa, Lenin pone un ultimatum: o lo si autorizza a dettare il suo "diario" per qualche minuto al giorno, oppure rifiuterà categoricamente ogni cura. Lenin in pratica supponeva che la parola innocente "diario" gli avrebbe permesso più facilmente d'ottenere l'assenso dei medici. Lo stesso giorno, dopo essersi consigliati coi medici, Stalin, Kamenev e Bucharin, prendono la seguente decisione: "1) Lenin è autorizzato a dettare per 5-10 minuti al giorno, ma non deve dettare delle lettere e non deve aspettarsi una replica alle sue note. Le visite sono proibite. 2) Né i suoi amici, né le persone del suo più vicino entourage debbono dargli informazioni sulla vita politica, per non dargli modo di inquietarsi". Lenin può comunque dettare la seconda parte della "Lettera" in cui delinea i ritratti dei maggiori leader del partito. La stenografa, Maria Volodicheva, annota nel suo diario che Lenin le ha più volte ribadito il carattere assolutamente confidenziale di quanto le aveva dettato i giorni 23 e 24 dicembre e che le note dovevano essere preparate in cinque esemplari: uno per gli archivi segreti, uno per lui e tre per la Krupskaja, e poste in buste sigillate. La stenografa racconterà, nel 1929, d'aver bruciato la minuta e che sulla busta sigillata con la cera avrebbe dovuto scrivere che solo Lenin poteva aprirla e, dopo la sua morte, solo N. Krupskaia, ma che le parole "dopo la sua morte" le aveva tralasciate. Il segreto dunque verteva esclusivamente sulla seconda parte della "Lettera", poiché la prima (riguardante l'ampliamento del CC) era già stata consegnata il 23 dicembre al CC. Nel maggio 1924 la Krupskaia consegnò alla commissione del CC tutte le carte di Lenin, ma non se ne fece niente. I membri dell'ufficio politico e una parte dei membri del CC erano già al corrente dei giudizi che Lenin aveva di taluni responsabili di partito, per cui ritennero opportuno non rendere pubblico il documento. La volontà di Lenin non venne rispettata. La malattia aveva colto Lenin in un momento cruciale della storia del partito comunista e dello Stato sovietico. La guerra civile (1918-20) non si era ancora conclusa, le truppe d'intervento straniere continuavano ad occupare l'Estremo Oriente della nazione, la controrivoluzione interna non s'era ancora rassegnata a deporre le armi, i kulaki manifestavano nella Russia centrale, in Ucraina e in Siberia, il movimento dei Basmaci manifestava in Asia centrale, vi erano sollevazioni in diverse città. La fame e il disastro dell'economia venivano a peggiorare la situazione. E, ciononostante, le norme e le regole del "comunismo di guerra" (tutte le forze e le risorse messe al servizio della difesa, grazie alla nazionalizzazione della grossa e media industria, alla centralizzazione della produzione e della distribuzione, al divieto del commercio privato, al lavoro obbligatorio, all'uguaglianza dei salari, ecc.) facevano sempre più posto alla Nuova Politica Economica, elaborata da Lenin, cioè al fatto che un certo sviluppo del capitalismo veniva tollerato e che la requisizione dei prodotti agricoli era stata sostituita da un'imposta in natura. Misure, queste della NEP, che neppure alcuni membri dell'ufficio politico e del CC riuscivano ad accettare. Ecco perché Lenin, nella sua prima parte della "Lettera", raccomandava di procedere a una serie di importanti cambiamenti politici e organizzativi. Lenin prevedeva che se il CC del partito non fosse stato ben saldo e compatto, l'accerchiamento della Russia sovietica da parte degli Stati imperialisti avrebbe potuto determinare il fallimento della rivoluzione. Temeva infatti che i conflitti interni al partito, fino a quel momento insignificanti, avrebbero potuto, di fronte alle pressioni del nemico esterno, diventare molto gravi. Di qui la richiesta di aumentare il CC fino a 50-100 unità, reclutando "operai e contadini medi" che non avessero un "lungo funzionariato sovietico" e che non appartenessero, né direttamente né indirettamente, alla casta degli sfruttatori. Probabilmente Lenin s'era accorto che in sua assenza, a causa della malattia, lo stato maggiore del partito non riusciva a superare le divergenze di opinioni per organizzare un lavoro intelligente, proficuo. Egli temeva soprattutto la minaccia d'una scissione nel momento più critico del Paese. Lenin, in sostanza, auspicava la creazione di uno staff in grado di garantire il partito contro l'influenza dei tratti negativi di certi suoi dirigenti, in grado cioè di diminuire l'impatto sia dei fattori puramente soggettivi, che delle circostanze accidentali nella soluzione delle questioni più importanti, ma anche in grado di creare le condizioni in cui il contenuto del lavoro di gruppo, rigorosamente centralizzato, del CC, non superasse il quadro, non meno rigorosamente definito, delle sue competenze. Sintomatico è il fatto che la frase di Lenin: "né il segretario generale, né alcun altro membro del CC" dovevano essere in grado d'impedire un controllo sulla loro attività, fu soppressa dalla "Pravda" del 25 gennaio 1923 e mai pubblicata in nessuna delle successive raccolte di scritti di Lenin, fino a quando è stata ripristinata, secondo il manoscritto originale, nel 45° volume della Va edizione delle sue opere, apparso a Mosca nel 1970. Relativamente ai tratti soggettivi dei leader del partito, Lenin, nell'ultima nota del 4 gennaio, rilevava che il difetto principale di Stalin, la "grossolanità", "tollerabile" nei rapporti fra comunisti, era "inammissibile" per un segretario generale, per cui proponeva la sua sostituzione, anche per evitare che il dissidio fra Stalin e Trotski rischiasse di danneggiare l'intero partito. Quanto, su questa decisione, avesse influito il pericoloso atteggiamento assunto da Stalin (ma anche da Ordzonikidze e Dzerzinskij) nella questione delle nazionalità, era facile intuirlo. Le note del 30-31 dicembre su tale questione e sul progetto di autonomizzazione sono tra le più importanti del Testamento. Lenin temeva che il regime sovietico si sarebbe comportato in maniera imperialistica nei confronti delle nazioni più piccole o più arretrate. Stalin, in tal senso, s'era mostrato "fatalmente precipitoso", "nefastamente collerico" verso il preteso "social-nazionalismo"; Dzerzinskij aveva dato prova di preconcetti imperdonabili; per Ordzonikidze, che aveva addirittura malmenato pubblicamente un compagno di partito, Lenin chiedeva una "punizione esemplare". Stalin, come noto, era stato eletto segretario generale del CC del partito nella primavera del 1922. Prima d'accedere a questo posto, egli dirigeva, quale membro dell'ufficio politico a partire dal marzo 1919, il commissariato per gli affari delle nazionalità e l'Ispezione operaia e contadina. Durante la guerra civile e fino a qualche anno dopo, Stalin si era mostrato un leader energico, volitivo, un grande organizzatore. A motivo di queste qualità, l'ufficio politico, nella seconda metà del 1921, gli aveva affidato il lavoro organizzativo in seno al CC. Lo si era incaricato di preparare i plenum del CC, le sessioni del comitato esecutivo centrale e di fare altre cose ancora: sicché, in pratica, egli veniva ad assumere le funzioni del segretario del CC. Lenin, dal canto suo, era il capo del governo sovietico. Non occupava ufficialmente alcun ruolo nel partito, nel CC, ma dirigeva le sedute dei plenum del CC e dell'ufficio politico. Di fatto egli era a capo non soltanto del consiglio dei commissari del popolo, ma anche del CC del partito. In queste attività egli aveva come assistente il segretario del CC. Questa funzione non era ufficiale (non esisteva prima di Stalin un segretario "generale" del partito), ma, in pratica, uno dei segretari era stato scelto per dirigere il lavoro della segreteria. Quando la salute di Lenin peggiorò in modo irreversibile, si prese la decisione di rafforzare la segreteria del partito. Il plenum del CC nominò Stalin, perché sembrava fosse il più idoneo a proseguire i lavori del partito in assenza di Lenin. Fu allora che si decise di dare il nome di "segretario generale" al titolare del nuovo posto, per accrescerne il prestigio e per distinguerlo dagli altri segretari. Col passare del tempo Lenin s'accorse che Stalin aveva concentrato nelle sue mani "un potere illimitato", sia nell'ambito del partito che dello Stato. Per questo propose, senza fare nomi, di sostituirlo. Difficilmente però avrebbero potuto sostituirlo o Kamenev, che nel Testamento vengono ricordati da Lenin per il loro comportamento tenuto nel 1917, allorché si opposero alla sollevazione armata, divulgando presso un giornale non comunista la decisione segreta del partito. Tuttavia, nonostante questa defezione, sia l'uno che l'altro erano rimasti membri del CC e dell'ufficio politico. Kamenev era addirittura vicepresidente del consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, mentre Zinoviev era presidente del comitato esecutivo del Komintern. Era stato proprio Lenin ad appoggiare la candidatura di Kamenev, in seno al CC, nell'aprile del 1917, a motivo dell'ascendente su certi strati sociali popolari che unanimemente gli si riconosceva. Lenin non ha mai accettato di considerare il tradimento dei due come un "crimine personale". Peraltro nel Testamento egli dice a chiare lettere che non si poteva rimproverare loro tale comportamento "più di quanto si possa rimproverare a Trotski il suo non-bolscevismo". Quanto a Trotski, Lenin conosceva bene la lunga, complessa e tortuosa lotta ch'egli aveva condotto contro il bolscevismo, ma sapeva anche che ciò non dipendeva tanto dai tratti negativi della personalità egocentrica di Trotski, quanto dal fatto ch'egli rifletteva l'umore di certi militanti del partito e di vasti strati sociali. Grazie al suo talento d'oratore, egli conosceva i modi di galvanizzare quelle masse (specie i più giovani) sensibili alla fraseologia di sinistra. Trotski era senza dubbio una personalità di rilievo: era stato, nel 1922, membro dell'ufficio politico, commissario del popolo alla difesa e alla marina militare, presidente del consiglio militare rivoluzionario della Repubblica. Il partito lo aveva anche incaricato di svolgere diverse funzioni nell'ambito dell'economia nazionale, anche se - come dice Lenin nel Testamento - "la sua eccessiva sicurezza e infatuazione per l'aspetto puramente amministrativo degli affari" rischiava di condurre "troppo lontano". Lenin sapeva bene che a Trotski mancavano alcune qualità politiche fondamentali, quali per esempio, la duttilità con gli uomini, il gusto della tattica, la capacità di manovra eccetera. Probabilmente Lenin si rendeva conto che nessun leader, da solo, era in grado di sostituirlo e, forse proprio per questo, sperava che, allargando la partecipazione agli organi di direzione politica, l'esigenza di avere un leader con altissime capacità sarebbe venuta meno. Sottoponendo tutti i leader a un maggiore controllo e facendo ruotare le cariche, il problema della successione sarebbe stato meno gravoso. Non a caso nelle note del 27-28-29 dicembre, riferendosi alla lettera del 28 dicembre sul carattere legislativo delle decisioni del Gosplan, Lenin disse ch'era difficile trovare in una sola persona la combinazione di queste qualità: solida preparazione scientifica in uno dei rami dell'economia e della tecnologia, visione d'insieme della realtà, forte ascendente sulle persone, capacità organizzative e amministrative. Ma forse -diceva ancora Lenin- se si fossero rispettate le sue condizioni, non ci sarebbe stato bisogno di cercare una persona del genere. D'altra parte egli si rifiutò di designare un proprio successore alla guida del partito. Nel Testamento Lenin cita altri due leader, Bucharin e Piatakov. Del primo esprime due giudizi apparentemente contraddittori. Da un lato infatti afferma che "non è soltanto il maggiore e il più prezioso teorico del partito, è anche, a ragione, il compagno più benvoluto"; dall'altro però sostiene ch'egli non ha mai ben compreso la "dialettica" e che le sue concezioni del marxismo sono un po' "scolastiche". In effetti, la posizione assunta da Bucharin durante la conclusione della pace di Brest-Litovsk con la Germania (egli, insistendo sul rifiuto delle condizioni di pace tedesche, rischiò di portare la repubblica allo sfascio), era una testimonianza esplicita della sua carente dialettica: ciò che riconobbe, d'altra parte, lo stesso Bucharin. Non solo, ma Lenin aveva giudicato "scolastica ed eclettica" l'analisi dei fenomeni sociali che Bucharin aveva condotto in alcuni capitoli del suo libro "L'economia del periodo di transizione". Quanto a Piatakov, Lenin gli riconosceva "volontà e capacità notevoli", ma anche la stessa tendenza di Trotski ad accentuare l'aspetto amministrativo (autoritario) delle cose, per cui non si poteva "contare su di lui su una seria questione politica". Tuttavia, sia per questo caso che per quello precedente, Lenin sperava che i difetti avrebbero potuto, col tempo, essere superati: in fondo Bucharin aveva solo 34 anni e Piatakov 32; si poteva quindi pensare che i due, col tempo, avrebbero potuto costituire un tandem vincente, benché al momento i leader più importanti fossero Trotski e Stalin. Che cosa accadde dopo che la Krupskaia presentò alla commissione del CC il Testamento di Lenin? La commissione era composta da Stalin, Kamenev, Zinoviev e altri ancora. Il plenum del CC del 21 maggio 1924 adottò la risoluzione, dopo aver ascoltato il rapporto di Kamenev, di divulgare il contenuto della "Lettera" non alla seduta dello stesso congresso, ma separatamente, alle riunioni delle varie delegazioni. Si precisò anche che i documenti di Lenin non sarebbero stati riprodotti, e per questa ragione non vennero pubblicati. I rapporti sulla "Lettera" vennero fatti alle delegazioni da Kamenev, Zinoviev e Stalin. Stando alla loro interpretazione, Lenin, riferendosi alla rimozione di Stalin dalla funzione di segretario generale, la considerava come un'ipotesi di cui tener conto, non come una necessità. In fondo Lenin non aveva trovato niente di preciso, di oggettivo, da rimproverare a Stalin: la sua riserva verteva su questioni di carattere soggettivo (anche se, ma questo non fu mai sottolineato, egli le riteneva particolarmente gravi, avendo intuito che si stavano trasformando in un problema politico). Kamenev comunque espose il contenuto della "Lettera" in modo da far credere che soltanto i tratti personali del carattere di Stalin erano stati messi in discussione e non anche il fatto ch'egli aveva concentrato su di sé un enorme potere. Dal canto suo, Stalin giurò di tener conto delle osservazioni critiche mossegli da Lenin. Alcuni storici hanno sostenuto che non si provvide a sostituire Stalin perché si temeva che il suo posto l'avrebbe preso Trotski, il quale, non meno di Stalin, aspirava a una leadership maggiore in seno al partito e in più era di tendenza "menscevica". Ma questa versione dei fatti contrasta proprio con l'affermazione di Lenin secondo cui Trotski era caratterizzato dal suo "non-bolscevismo": il che doveva escludere a priori la proposta di una sua candidatura a un posto così importante. Questo Testamento avrebbe sicuramente meritato una più attenta discussione, ma non essendo stato riprodotto, nessun delegato ebbe mai modo di leggerlo personalmente. In sostanza, il dibattito venne indirizzato unicamente sulle proposte di Lenin riguardanti la struttura organizzativa degli organi dirigenti del partito. Trotski s'era allora risolutamente opposto all'idea di ampliare il CC agli operai. Formalmente però la proposta di Lenin venne accettata. Il XII congresso del partito (1923) fece passare il numero dei membri del CC da 27 a 40; il XIII congresso (1924) li portò a 53. Tuttavia, il progetto di Lenin di associare gli operai e i contadini alla direzione del partito non si realizzò. Nel 1927, il XV congresso adottò la risoluzione di pubblicare la "Lettera" di Lenin in una Raccolta delle sue opere, ma poi il testo venne pubblicato solo in un "bollettino segreto". Nell'ottobre dello stesso anno, al plenum del CC, Stalin parzialmente citò e commentò nel suo discorso la "Lettera" di Lenin. Il discorso venne poi inserito nelle Opere di Stalin in maniera sintetica: totalmente esclusi furono i passaggi relativi alla proposta della sua rimozione. Durante il periodo della dittatura staliniana il Testamento fu addirittura considerato inesistente, benché nel 1927 fosse apparso all'estero per opera di alcuni simpatizzanti trotzkisti. Sarà solo nel 1956 che la rivista Kommunist pubblicherà integralmente questo testamento politico, che ora si trova anche nella Va edizione delle Opere complete di Lenin (in lingua russa).Nel 1957 e nel 1963 apparvero altre due importanti testimonianze a favore dell'autenticità del documento, di una delle segretarie di Lenin, L.A. Fotieva: Ricordi su Lenin e Diario delle segretarie di turno di Lenin.

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