Relazione di fine servizio

di Gian Pietro Basello
obiettore dal 19 aprile 1999 al 18 febbraio 2000

E' la versione "breve" della mia doppia relazione di fine servizio civile pubblicata nel 2000 su La voce della comunità, periodico di Comunità Speranza, l'eroico gruppo di volontariato in ambito psichiatrico guidato da padre Ermanno Serafini.

Padre Ermanno -come altro potrei cominciare questa relazione?-, padre Ermanno, visto il mio incipiente stato depressivo dopo le prime settimane di obiezione, mi rifilò un pacco di vecchie copie della "Voce della Comunità" consigliandomene caldamente l’istruttiva lettura. Avvenne così che, in una mite serata di fine primavera, lessi le alterne vicende della mitica "Turrineide". Non volendo privare Comunità Speranza di una seconda opera epica, mi accingo quindi a scrivere la "Baselliade", ovvero la mia personale odissea nel vasto e tempestoso mare dell’obiezione di coscienza presso la Caritas bolognese; e spero che la rievocazione di fatti ormai lontani possa essere pacata e serena.

Perché un racconto? a chi può interessare? Non volevo scrivere solo una serie di impressioni ed emozioni, sia perché queste si sono modificate nel tempo, sia perché in gran parte le ho rivissute così come sono riportate nelle vecchie relazioni di fine servizio, che rappresentano una sorta di coscienza collettiva degli obiettori della Comunità. Perché allora? Credo che la peculiarità della mia esperienza sia stato il "metà tempo": un "metà tempo" emblematico e forse unico (fra un ospedale psichiatrico e una mensa per senzafissadimora curiosamente situati a pochi passi l’uno dall’altra), sintomatico e "profetico" (successivamente, al disagio provato come "metà tempo" ho sommato quello di fare obiezione con altri "metà tempo").

Primavera ed estate

I primi 2 mesi di servizio all’ospedale furono abbastanza duri. Ricordo che non vedevo l’ora che arrivassero le 17 e la pausa pranzo era un bene agognato. Arrivato a casa continuavo involontariamente a pensare alle persone incontrate e la cosa mi inquietava. Solo quando mi si prospettavano i due giorni consecutivi di servizio al Centro riacquistavo fiducia e vigore. Con l’inizio dell’estate le cose erano però destinate a cambiare. Ci fu un periodo in cui ero quasi sempre all’ospedale per coprire le assenze (giustificate!) di Marco, e fu un bene perché acquistai un po’ più di sicurezza e capacità nello stare e dialogare con i pazienti. Soprattutto guadagnai in tranquillità, fino ad annullare quella sensazione dei primi mesi per cui quando ero con un paziente sentivo di rapportarmi in modo diverso da una persona "normale": non era un fatto di comportamento o visibile dal di fuori; era la conseguenza della rigida suddivisione in categorie che credevo separasse inevitabilmente (biologicamente, scientificamente, secondo il senso comune) me da loro. E’ chiaro che con certi pazienti devi assumere a volte un linguaggio diverso o categorie "mentali" diverse, ma allora era comunque un "abbassarsi" al livello dell’altro paziente, oggi è -con tante difficoltà- un confrontarsi con l’altro persona. Ho poi capito che questo non vale solo all’ospedale psichiatrico (malati e sani), ma vale anche al Centro san Petronio (poveri e ricchi, italiani e stranieri) e, in ultima analisi, ovunque. In settembre il mio pensiero (ovvero il mio continuo tentativo di razionalizzare ciò che mi stava succedendo) era questo: stavo volentieri in reparto e mi piaceva molto rimanere in giardino a chiacchierare, giocare o commentare il giornale con i pazienti, tuttavia era chiaro (anche se lascio volentieri alla provvidenza il compito di smentirmi per il futuro) che non ero tagliato per quel servizio; e lo si vedeva bene nel confronto con la sensibilità e semplicità di Marco nello stare con i pazienti. Tra parentesi, ricordo che ho sempre preferito l’attività interna ai giri esterni: standomene seduto nel soggiorno o sulla panchina, mi piaceva cercare di trasmettere quella sensazione di disponibilità che -mi si perdoni l’irriverente e impreciso paragone- mostra un padre Ermanno standosene seduto sul banchetto lungo la navata laterale di san Francesco.

Poi ci fu il bellissimo campo Caritas con padre Ermanno al passo dei Mandrioli che rappresentò una piacevole pausa di riflessione e confronto con obiettori di altri centri (vedi l’articolo allegato). Quindi fu la volta del campo di Longiano, che ricordo come un forte momento di condivisione segnato da una gran voglia di fare e programmare. Stando in Comunità, avevo sempre invidiato il coinvolgimento, l’intraprendenza e l’entusiasmo dei tanti volontari del Centro, con cui trascorrevo ogni giorno più di due ore di servizio. A Longiano respirammo quel clima anche in Comunità: non mi sentivo più un obiettore solo, abbandonato nel reparto, ma avevo alle spalle tante persone che condividevano il mio operato. Penso al confronto fra obiettori e tirocinanti, ai discorsi di padre Ermanno e Nerio, alle discussioni con i volontari di lunga esperienza, al bellissimo incontro con il dottor Ghedini e, perché no, al tempo trascorso insieme giocando, passeggiando e mangiando.

Autunno

Nel frattempo il Centro era in piena crisi obiettori: dopo la faticosa estate (in cui si finiva di pulire alle 21 perché molti volontari erano in vacanza) ci ritrovammo in novembre ad essere grosso modo in 2 obiettori, di cui uno (io) a metà servizio. Non fu certo per bravura ma per necessità che le ore di straordinario al Centro si dilatarono a dismisura. Dall’alto è facile dire "rinunciate a fare certe cose, a offrire certi servizi"; stando in prima linea vedi le necessità impellenti di questa gente e dici: "proviamo a fare anche questo". Sapevo bene di non poter trovare casa ad un senzafissadimora o trovare lavoro ad uno dei tanti ospiti disoccupati. Però vedevo che si poteva far tanto lavorando sulle piccole cose (un panino, un mandarino, una lametta da barba, due chiacchiere, una chitarra) e vedevo che quelle che sono piccole cose per noi sono spesso cose grandi per gli ospiti.

Sono convinto che allora abbiamo fatto troppo e probabilmente sbagliammo a darci tanto da fare di fronte a tanta indifferenza: ma allora eravamo "lanciati", non eravamo mai stanchi ma sempre pieni di entusiasmo. Fummo costretti a ripensare e riorganizzare il servizio, soprattutto perché non volevamo che il "super-lavoro" condizionasse il nostro rapporto con gli ospiti, ovvero ci costringesse ad essere scortesi o meno disponibili con loro. I volontari ci aiutarono spontaneamente tantissimo: non c’era una divisione fra obiettori e volontari ma tutti lavoravamo insieme per qualcosa che ci stava a cuore. E a sera inoltrata magari si cucinava qualcosa e ci si fermava per fare qualche lavoretto particolare o, semplicemente, per discutere e chiacchierare fino a tardi.

Verso la fine

Gli ultimi mesi di servizio sono stati i più belli sia da una parte che dall’altra. L’esperienza maturata in un centro (soprattutto in reparto) mi aiutava nel servizio presso l’altro e ormai potevo spingermi sempre più in là nell’approfondire il mio rapporto con gli ospiti, sapendo un po’ fin dove potevo arrivare io e dove voleva arrivare l’altro (specie al Centro, si sovrappone alla relazione -diciamo- di "amicizia", una relazione d’interesse da parte dell’ospite che ha tanti bisogni).

Con grande dispiacere quindi registro la mia quasi continua assenza dal reparto nell’ultimo mese e mezzo di servizio, soprattutto nei confronti dei nuovi obiettori, il cui arrivo a partire da fine dicembre ha dato un nuovo vigore alla Comunità. E’ stato un altro momento molto bello, forse ancora di più perché lo vivevo riflesso nella vita di appartamento, portato dall’entusiasmo di Manuele e Marco (e del volontario Andrea!) alla sera tardi, quando ci ritrovavamo e ci raccontavamo, io del Centro e loro dei vari reparti. Ricordo una bellissima mattina fuori servizio in cui Manu mi accompagnò su in clinica II per fare gli auguri di buon anno ai pazienti: fuori c’era un sole luminoso ed era un piacere indugiare con le vecchie conoscenze dell’Ottonello nella bella sala dalle grandi finestre.

Secondo me

Alcune cose vorrei comunque "tramandare" ai nuovi obiettori. Innanzitutto l’importanza di sentirsi al servizio dei malati psichiatrici prima ancora di una singola struttura ospedaliera. Essere quindi obiettore "a tempo pieno": bisogna avere il coraggio di lasciarsi coinvolgere dall’ambiente, dai tanti incontri e dalle tante necessità, senza fiscalizzarsi troppo sull’orario. Nel mio servizio questo è avvenuto provvidenzialmente e gradualmente (nei primi mesi non si può "strafare"!), mi sono solo limitato a prendere al volo le occasioni che man mano si sono presentate... ci ho guadagnato più io degli altri, ho fatto dei bei "numeri" che ricorderò e la temuta fatica alla fine non si è fatta sentire, anzi!

Credo vada mantenuto il reciproco aiuto e parziale scambio degli obiettori nei reparti intrapreso a inizio anno grazie all’entusiasmo dei nuovi obiettori sotto la guida dell’esperto Marco. Serve anche per formare un buon gruppo. A questo proposito potrebbe essere una buona idea mangiare tutti alla mensa dell’ospedale un giorno fisso alla settimana.

Un punto su cui si può lavorare molto è il servizio domenicale, visto che la messa è un irrinunciabile momento di incontro con i volontari. Prima e dopo si potrebbe andare nei singoli reparti con i volontari, soffermandosi anche con i pazienti che magari non possono uscire o che non gradiscono partecipare alla messa.

Consiglierei infine di leggersi subito un semplice manualetto di psichiatria (ad esempio Muscatello C.F., Argomenti di psichiatria, neanche 100 pagine di piccolo formato) così che la realtà psichiatrica appaia un po’ meno nebulosa di quello che inevitabilmente è. E se allo staff sentite parlare di un paziente sbandato e senzafissadimora, datevi da fare per far dialogare gli assistenti sociali della Caritas con quelli dell’ospedale. Oggi infatti si parla di patologie multiple, cioè malato psichiatrico ma anche drogato o alcoolista e senzafissadimora... Se non basta un assistente sociale ad aiutare un senzafissadimora, figuriamoci se ne basta uno per aiutare un senzafissadimora con problemi psichiatrici! E le due cose vanno spesso a braccetto, non so quale la causa o la conseguenza.

Grazie...

Concludo inevitabilmente con i ringraziamenti. E tralasciando padre Ermanno, i colleghi obiettori, i compagni di appartamento e i volontari, il personale medico (in particolare i dottori Franzoni, Giordani e Petio e lo specializzando Esposito per le spiegazioni e gli staff) e infermieristico (in particolare Davide, Vincenzo, Claudio, Mirko, Lara, Filippo e Massimo), mi piacerebbe ringraziare soprattutto non dico i pazienti, ma le persone che ho conosciuto all’ospedale: Giovanna, Claudio, Andrea, Roberto, Giorgia, Massimo, Lucio, Mario, Paola, Romano, Cecilia, Stefania, Daniela, Antonio, Mario, Mauro, Maurizio, Rino, Luca, ... (e non sono semplici nomi)


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Bologna e san Giovanni in Persiceto, febbraio 2000; versione HTML Napoli, 24/IX/2002