Quale carità?

Liturgia, catechesi, oratorio

di Gian Pietro Basello, Bologna e san Giovanni in Persiceto 11-18/IX/1999

Quale giubileo? Questo giubileo ci sta confondendo e distraendo. E' l'ennesimo compromesso con il mondo fatto di apparire e denaro. E' l'estremo tentativo più o meno consapevole per nascondere uno dei momenti più bui della nostra amata chiesa cattolica. Una chiesa che, lungi dal cogliere i segni di un tempo che si evolve certo troppo rapidamente, è soffocata dal peso di una bimillenaria tradizione che dovrebbe invece vivificarla.

La carità è il problema che vivo quotidianamente come obiettore della Caritas di Bologna in servizio presso due centri davvero particolari, la mensa dei senzafissadimora e l'ospedale psichiatrico, benché provenga principalmente da un'attività parrocchiale di oratorio e amore per la liturgia come ministrante.

Quello della carità è uno dei più grandi imbrogli della Conferenza Episcopale Italiana, complice sicuramente la tradizione latina: san Paolo in 1Corinzi 13 non parla mai di carità, termine che nell'italiano di oggi può far pensare in molti all'elemosina e a qualche cristiano più illuminato alle opere di carità in generale. San Paolo parla invece di amore (come mettono in rilievo altre traduzioni in lingue moderne) e non di carità. Ed ecco un primo equivoco: la carità come esperienza particolare più o meno intensa e non, invece, come stile di vita. La carità la fai dedicando più o meno tempo della tua giornata agli ultimi, l'amore si dà sempre.

Allora dico no ad una carità che pretende sempre di migliorare e redimere il prossimo invece di accettarlo per quello che è; ad una carità cui dà fastidio che ci sia tra noi il povero e che, non volendolo eliminare, vuole tirarlo dalla propria parte credendo sia la migliore; alla carità degli assistenti sociali che pretendono di curare il proprio orticello senza collaborare fra loro anche di fronte alle sempre più frequenti patologie multiple; no ad una carità che salva i primi degli ultimi e abbandona gli altri; no ad una carità programmata che rifiuta di aiutare una persona che si sente male davanti alla propria porta (il prossimo cioè etimologicamente il più vicino) perché "non è di propria competenza"; no ad una carità organizzata dall'alto perché è "doveroso" che la chiesa aiuti i poveri, una carità fatta di alti ideali morali ed etici ma lontana dalle realtà delle situazioni concrete e delle varie esigenze. Partiamo per grandi missioni lontane e non abbiamo il coraggio e la concretezza di correggerle o convertirle di fronte a bisogni più reali o immediati nel tempo e nello spazio.

Purtroppo questa carità è l'ordine del giorno a Bologna. Una carità che, grazie a Dio, salva l'ultimo anello della catena: il volontario o l'obiettore in prima linea, a contatto con le situazioni più incredibili e le persone più povere e sole, al quale è il meraviglioso privilegio di dare tanto anche solo con un semplice sorriso. Mi piace allora pensare in un vicino futuro a centri di ascolto per persone ricche e benestanti, per aiutarci a recuperare un po' di "povertà evangelica".

Altro che giubileo e straordinarietà. Qui bisogna ripartire da capo, dalla quotidianità, dalla "scuola" di don Milani, dallo studio. Abbiamo due strumenti: la liturgia (messa) che già comprende la Parola (Bibbia).

A pochi anni dal Concilio (1963) che ci ha donato la messa così com'è oggi attingendo a secoli di esperienza, la liturgia si è già fossilizzata. Pochi usano le formule alternative (ad esempio nella liturgia penitenziale o nell'anamnesi cioè il mistero della fede) o le collette domenicali proprie del ciclo o la preghiera eucaristica I (per non parlare della IV che io ho sentito solo una volta o quelle per bambini). Nessuno fa sentire le pause o dà risalto ai gesti, riducendo così la liturgia ad un copione scritto recitato d'un fiato; a fatica sopravvive un minimo di dialogo con l'assemblea (ma l'agnello di Dio deve essere sempre avviato dal celebrante). I bambini crescono abituati ad una messa monoblocco, formata da parti indistinguibili, sempre uguali a se stesse. In una parola: noiosa. Nel frattempo la comunità ebraica italiana produce bellissimi commenti ai propri riti (ad esempio Sìyach Yitzchàk - Libro di Preghiere delle edizioni DLI 1998), in cui, a fianco del testo, compaiono note e paralleli biblici. I cattolici saranno tanti di più, ma non credo esista un ordine della messa commentato in maniera simile, con appendici sul significato di oggetti e gesti liturgici (ad esempio il turibolo e l'incensare): o sono libri di centinaia di pagine o sono banali manuali del chierichetto. Pochi sanno cosa sia il prefazio e vivono consapevolmente la bellissima richiesta di adesione e comunione con il celebrante che lo precede. Per questo dico basta a veglie e paraliturgie preparate in mezz'ora, accozzaglie senza senso di canti, segni e letture eterogenee: meglio una buona messa e meglio capire prima la messa. Forse potrebbero essere interessanti paraliturgie fatte per spiegare singole parti della messa.

Sul canto liturgico invece è più facile sentir polemiche e lamentele: si discute aspramente sull'opportunità di certi testi, musiche o strumenti quando la stessa scrittura dice cantate al Signore un canto nuovo (Salmi 149,1) mentre un altro salmo (Salmi 150) invita a suonare tutti gli strumenti possibili per lodare il proprio Dio (lodatelo sui cembali sonori e sui cembali squillanti, lodatelo sulle corde e sui flauti). Ci preoccupiamo del fine (vocazione) per cui è stato creato uno strumento quando la provvidenza è il più fulgido esempio di cose e persone partite con uno scopo e giunte a ben altro. Dovremmo buttar via ogni singolo libro dell'antico testamento se volessimo leggerlo esclusivamente secondo il fine per cui è stato scritto. E' lo stesso equivoco di carità e amore: conta l'amore con cui si fa una cosa.

Per quel che riguarda le omelie, io le sospenderei per tutto il giubileo. Si trasformano spesso in accorati richiami morali, in luoghi comuni contro guerre e povertà mentre la gente ignora cosa sia il ventilabro, il moggio, il talento o come sia fatto un seme di senapa. Ovviamente esagero; tuttavia dobbiamo ripartire dalla Parola, dobbiamo spiegarne i termini difficili e dobbiamo chiarirne i passi chiari nell'originale e contorti nella traduzione. Più semplicemente dobbiamo rendere presente il tempo di Gesù con i suoi ritmi e le sue distanze. In realtà non sarebbe per niente difficile: siamo noi che in questi anni ci siamo rovinati la vita cercando nei vangeli le risposte che volevamo noi senza lasciare che fosse il testo a dirci quel che ha da dire. Leggiamo il vangelo come non ci azzarderemmo mai a leggere un qualsiasi altro libro, perdendo di vista la vicenda globale di Gesù.

Colpa anche di una certa esegesi pedante, specialistica, troppo dotta e lontana dalla fondamentale semplicità del testo evangelico. Vorrei proporre allora un'esegesi liturgica che, partendo dalla liturgia quotidiana o domenicale, commenti le letture alla luce di tutto il rito analizzato nei suoi continui richiami biblici, facendo ricorso alla tradizione ebraica e dei padri della chiesa (vedi i commenti ai salmi di Daniel Lifschitz, ad esempio E' tempo di cantare delle Edizioni Dehoniane Bologna), senza dimenticare di recuperare le origini bibliche della gestualità liturgica.

Parliamo ormai di vera e propria catechesi. La catechesi di oggi fallisce nettamente i suoi obiettivi pastorali visto che ogni anno i bambini e poi i ragazzi che la frequentano si dimezzano. Una catechesi ferma ad uno spazio troppo istituzionale (aule con i banchi di scuola) anche dopo le esperienze di don Milani. Una catechesi che non sa trovare i mezzi adeguati per esprimersi. Una volta la fede si esprimeva e si trasmetteva attraverso, ad esempio, i quadri, gli affreschi e le sculture nelle chiese o per le vie. La stessa architettura di una chiesa trasmetteva qualcosa ai fedeli (lo slancio verticale del gotico, il raccoglimento di una cripta, la luce delle vetrate...). Oggi, proprio quando la tecnologia ha reso possibile cose impensabili allora, non siamo più in grado di esprimere concretamente la nostra fede: non ci riusciamo né nell'architettura delle chiese né nella liturgia; ci riusciamo forse nei libri visto che le librerie cattoliche ne sono piene. Dobbiamo liberarci dal peso della tradizione (che in realtà in passato è stata spesso molto innovativa e creativa; si pensi ai rotoli di exultet figurati alla rovescia) e trovare nuovi modi di espressione. Penso al computer e a internet ma non solo, perché tutto deve essere rielaborato e reinventato: certo possono essere uno degli ingredienti della ricetta.

Arrivo così all'oratorio fondendo i pensieri di don Bosco (Le memorie dell'oratorio) e quelli apparentemente inconciliabili di don Milani (vedi La ricreazione in Esperienze pastorali ma anche varie lettere). L'oratorio è un ambiente aperto dove è lasciato largo spazio ai singoli e ai laici. Vedo nell'oratorio lo strumento ideale per creare nei ragazzi quegli spunti e quegli stimoli necessari a vincere l'indifferenza, per potersi così interessare non dico alla fede ma alla vita in generale. Un oratorio quindi che, accanto ai giochi spontanei, sappia creare momenti di crescita nel gioco guidato e organizzato, nell'incontro e nel confronto, in invenzioni estemporanee per commentare e spiegare fatti di attualità o le conquiste della tecnica, curiosità sul passato e sul presente. Ricreare nei ragazzi quella voglia di appassionarsi che spesso gli è tolta dal grigiore conformistico della scuola. Unire alla preparazione la multimedialità dell'esposizione, arricchita dal dinamismo del confronto e sfruttando tutte le risorse specifiche dell'ambiente e del momento. Se riesco a creare nei ragazzi l'entusiasmo (etimologicamente essere ispirato in dio) cioè I care di don Milani per tutto quello che ci circonda, allora saranno pronti per la catechesi. Ecco perché credo nell'oratorio, nei giovani di oggi che saranno adulti domani e daranno inizio ad un nuovo ciclo, mentre abbandono gli adulti ai carismi degli altri e più in generale al diretto intervento della grazia divina.

Nonostante l'impostazione volutamente critica e pessimistica di queste poche righe, non mancano oggi esempi di parrocchie aperte, accoglienti, vive, vere membra della chiesa universale in cui la fede è libertà e gioia nel Signore.

Collegamenti postumi...

Rileggendo oggi (26/V/2001) questo vecchia pagina, scritta dalla trincea sul fronte 'eroico' del mio servizio civile, mi sono stupito di come vi fossero già sbozzati alcuni temi sviluppati poi autonomamente e, spero, un po' più organicamente. I seguenti riferimenti sono più che altro un promemoria per me. GPB


©2000-2003 Copyright by Gian Pietro Basello
for ElamIT.net <www.elamit.net> (http://digilander.libero.it/elam)
Write to <elam@elamit.net>
Thanks to Digiland <http://digiland.libero.it> for free hosting!

san Giovanni in Persiceto, 03/VIII/2000 (foglio di stile 26/V/2001)