Appunti (molto) sparsi sulla Pasqua 2001

In attesa di riordino

(25/IV/2001; piccole correzioni 26/IV) Tanto per cambiare, questa è una pagina 'in divenire' con gli appunti e le riflessioni della Settimana Santa 2001... probabilmente verrà spezzettata e inserita ordinatamente nel progetto SettimanaSanta attraverso la liturgia per la prossima Pasqua. Il desiderio di condivisione mi spinge a presentarla comunque nella speranza di suscitare qualche parere o commento con cui integrarla, e magari stimolare un po' di curiosità. Ne approfitto per ringraziare alcuni miei amici da cui a mia volta sono stato stimolato: ognuno di essi potrà facilmente riconoscere il proprio contributo!
Versione in codifica standard (senza caratteri ebraici o greci).

Ancora sull'esegesi liturgica

Vedi anche >>Raccontare una Storia

A volte la ciclicità della liturgia provoca il perpetuarsi di luoghi comuni invece di aiutarci a trarre ogni anno 'dal suo tesoro cose nuove e cose antiche' [Matteo 13,52]. Non a caso Gesù aveva appena chiesto 'Avete capito tutte queste cose?'. La domanda è una delle forme preferite da Gesù per dialogare con i suoi interlocutori e per richiamarli a guardare oltre l'apparenza delle cose di questo mondo [Matteo 18,12 e 21,28 'Che ve ne pare?' significativamente posto in apertura di una parabola; Matteo 22,42; Luca 10,36; Matteo 16,8ss]. Uno dei momenti più belli della cena pasquale ebraica è quello in cui, all'inizio del Magghid, un bambino rivolge al capofamiglia la quadruplice domanda 'Perché è diversa questa notte da tutte le altre?' (ebr. מַה נִּשְׁתַּנָּה 'ma nishtanà'). Per inciso, l'Exultet della veglia pasquale è in pratica la risposta cristiana a questa domanda. 'Mà nishtanà': questa è la domanda che mi sono posto mentre vivevo le straordinarie liturgie del triduo pasquale, cercando di parteciparvi con la curiosità, la freschezza e la semplicità dei bambini [Luca 10,21].

Esercizio: prova a seguire con attenzione e concentrazione di volta in volta una parte specifica della messa. Lasciati provocare e stimolare da ogni gesto che non capisci, da ogni parola di cui non cogli il nesso con il resto del contesto. Alcune indicazioni:

Giovedì santo

Se io chiedessi 'qual'è il tema centrale della celebrazione vespertina di giovedì santo?', penso che molti risponderebbero qualcosa a scelta fra: l'istituzione dell'Eucarestia, l'istituzione del sacerdozio, la rievocazione dell'ultima cena, la lavanda dei piedi, la carità fraterna. Tutto vero, ma la liturgia, essendo per natura un atto pubblico rivolto a tutti i fedeli, si preoccupa soprattutto di mettere in relazione tutto questo con il nostro vissuto quotidiano: nella liturgia possiamo trovare anche la risposta alla domanda 'ma a me, di tutto questo, cosa importa? cosa incide sulla mia vita?'. Proviamo allora a rispondere alla domanda iniziale senza usare una risposta preconfezionata ma cercando di farci guidare dalla liturgia. Abbozzo semplicemente un percorso sul quale bisognerà camminare ancora parecchio!

Ecco qualche indizio:

Secondo me, la liturgia mette al centro, in una sola parola un po' imprecisa, il memoriale di Gesù. Purtroppo non trovo in italiano la parola giusta per esprimere il concetto dell'aramaico דוּכרָן dukran [Payne Smith J., A Compendious Syriac Dictionary pag. 92; corrispondente all'ebraico זִכָּרוֹן zikkaron di Esodo 12,14; vedi anche 7 pagg. 140ss] che la Peshitta, versione aramaica del nuovo testamento, usa in corrispondenza del greco αναμνησις ἀνάμνησις anàmnesis 'memoriale' nelle parole tradotte dalla CEI 'fate questo in memoria di me' [Luca 22,19]. Sostanzialmente è il fare in memoria e, ancora meglio, sull'esempio di Gesù. Cito Pia Compagnoni: "L'espressione ebraica «in mia אַזכָּרָה azkarah» [NdR: vedi BDB pag. 272; sostantivo derivato (se non sbaglio) dalla forma hifil (causativa: 'far ricordare') del verbo זכר zkr 'ricordare' (BDB pag. 270); usato in Levitico (ad esempio Levitico 2,2) e Numeri] è molto più forte. Significa lasciare il segno, l'impronta, il sigillo [NdR: ovvero l'autorizzazione] e si potrebbe tradurre: «per essere presente». P. Xavier Leon-Dufour [...] collega il «memoriale» con il zikkaron ebraico: mette in rilievo la memoria del passato, ma proietta nel futuro «fino a quando egli verrà» (1Corinzi 11,26)" [6 pag. 59].

Che differenza c'è fra 'memoria' e 'memoriale' (non tanto in italiano, quanto in ebraico)? Giro la domanda: che differenza c'è (se c'è) fra la celebrazione vespertina del giovedì santo e la festa della liberazione? Alcuni suggerimenti: innanzitutto sono ambedue delle rievocazioni, cioè il ricordo di un evento particolare; non solo, gli effetti di questo evento sono validi tuttora (l'Italia è uno stato libero e indipendente). Allora qual'è la differenza ('mà nishtanà?')?

Non importa tanto ricordare che Gesù ha istituito l'Eucarestia: per il credente si tratta di un evento storico, di un dato ormai acquisito. Importa capire quali sono oggi e per noi gli effetti di questo evento e, quindi, riviverlo oggi. E' una grande gioia per me pensare che, nel momento stesso in cui ogni giorno il sacerdote si prepara ad alzare il calice e ripete le parole di Gesù 'fate questo in memoria di me', proprio in quel momento noi adempiamo al comando di Gesù che oggi si rende presente in mezzo a noi. Rivivere, rifare, rendere di nuovo presente, riattualizzare: non una semplice memoria ma qualcosa che acquista oggi nuovo valore a seconda delle persone che lo fanno, dell'ambiente, delle circostanze e della propria storia personale (ad esempio, l'anno scorso ero disoccupato, quest'anno ho trovato lavoro: ho prospettive, speranze e preghiere diverse). La salvezza universale si è realizzata con la risurrezione di Gesù, la salvezza personale (resa possibile da quella universale) avviene in me oggi che vivo giorno per giorno la morte e risurrezione di Gesù nell'Eucarestia e nella mia vita. Gesù non mi ha salvato nel passato quando non ero ancora nato! Solo per questo varrebbe la pena di esser cristiani. Concludo ricollegandomi al Magghid che, sul finire, ricorda ai commensali:

Generazione dopo generazione, spetta ad ogni uomo considerare se stesso come uno che è uscito dall'Egitto, secondo quanto sta scritto: "In quel giorno tu istruirai tuo figlio: E' a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall'Egitto". Poiché il Santo, benedetto sia il suo Nome, non solo riscattò i nostri padri, ma anche noi con loro. [da 12 pag. 96; testo più letterale in 3 pagg. 84s]

Veglia pasquale

Riprendo il discorso avviato in >>Dopo la Pasqua

Chi riesce a seguire con attenzione la Veglia pasquale non può fare a meno di notare come si parli più del battesimo e dei battezzati come nuovo popolo di Dio che della risurrezione di Gesù.

Alcune suggestioni che richiamano l'acqua e il battesimo: [Baruc 3,12, sesta lettura] 'tu hai abbandonato la fonte della sapienza'; [Isaia 55,1, quinta lettura] 'O voi tutti assetati, venite all'acqua'; [ritornello del cantico dopo la quinta lettura; confronta anche l'orazione] 'Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza'; [ritornello del salmo dopo la settima lettura] 'Ha sete di te, Signore, l'anima mia'.
Il diluvio che prefigura il battesimo: [Isaia 54,9, quarta lettura] 'Ora è per me come ai giorni di Noè'; vedi soprattutto 1Pietro 3,21.
La sepoltura di Gesù come figura del battesimo: se l'orazione dei vespri di sabato santo ('O Dio eterno e onnipotente, che ci concedi di celebrare il mistero del Figlio tuo Unigenito, disceso nelle viscere della terra, fà che sepolti con lui nel battesimo, risorgiamo con lui nella gloria della risurrezione') ha incuriosito anche voi, date un'occhiata soprattutto all'epistola [Romani 6,3-11; in particolare BJ nota a Romani 6,4] e Colossesi 2,12.

Le letture dalla quarta alla settima più che riportare avvenimenti specifici della storia della salvezza (come le prime tre) mostrano un Dio sempre alla ricerca del suo popolo, sempre pronto a venire incontro [Isaia 55,6, quinta lettura], a perdonare e a riprovare ricominciando da capo [Isaia 54,6, quarta lettura: come in una storia d'amore (la sposa è la città santa di Gerusalemme, poi la Chiesa); Ezechiele 36,16-28, settima lettura], supplicando il suo popolo di ascoltarlo [Isaia 55,3, quinta lettura; Baruc 3,9 e 4,2, sesta lettura] così da poterlo salvare.

Alcune suggestioni sull'adesione al popolo di Dio e Dio che cerca il suo popolo: [Baruc 3,34-35, sesta lettura] 'Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; egli le chiama e rispondono: «Eccoci [come Abramo nella terza lettura]!» e brillano di gioia per colui che le ha create' desiderose di essere a disposizione del proprio creatore; [Baruc 4,3-4] '[Giacobbe cioè il popolo di Israele] non dare ad altri la tua gloria, nè i tuoi privilegi a gente straniera. Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato'; [orazione alla sesta lettura] 'O Dio, che accresci sempre la tua Chiesa chiamando nuovi figli da tutte le genti, custodisci nella tua protezione coloro che fai rinascere dall'acqua del battesimo' e [orazione alla quarta lettura] 'O Dio, [...] aumenta il numero dei tuoi figli'; [Ezechiele 36,28, settima lettura] 'voi sarete il mio popolo'.

Ciò non toglie che quelle stesse letture siano state scritte in situazioni particolarmente significative della storia di Israele. Per questa indagine bisogna inserire le singole letture in un contesto più ampio. Ad esempio, la quarta e la quinta (che sono quasi consequenziali: vengono omessi solo 3 versetti) sono la parte conclusiva del cosidetto deuteroisaia (secondo Isaia), cioè il profeta che annunciava agli Ebrei esiliati a Babilonia l'avvicinarsi del ritorno in patria. Il suo operato è collocato infatti verso il 550 a.C., quando c'era sentore dell'imminente conquista (realizzatasi poi nel 539 a.C.) del persiano Ciro.

Partecipazione e attenzione dei fedeli nella Veglia Pasquale

Nella veglia pasquale la dinamica degli atteggiamenti da tenere (seduti, in piedi) e degli spostamenti (dal fuoco esterno al fonte battesimale), l'alternarsi delle parti fra celebrante, lettore, coro e assemblea, i gesti compiuti dall'assemblea (le candele) o sull'assemblea (l'aspersione al termine della liturgia battesimale) sono estremamente funzionali a mantener viva l'attenzione dei fedeli nonostante la tarda ora e la lunga durata. Prendiamo ad esempio la liturgia della parola: alla proclamazione di ciascuna lettura il popolo risponde attivamente cantando il ritornello del salmo, quindi si alza brevemente in piedi per l'orazione per poi tornare seduto ad ascoltare con rinnovata attenzione la lettura successiva.

Le letture della sacra Scrittura [...] descrivono gli avvenimenti culminanti della storia della salvezza [NdR: questa è una semplificazione in quanto non tutte le letture riguardano avvenimenti specifici], che i fedeli devono poter serenamente meditare nel loro animo attraverso il canto del salmo responsoriale, il silenzio e l'orazione del celebrante [8; da Preparazione e celebrazione delle feste pasquali 85]
Il significato tipologico dei testi dell'Antico Testamento si fonda nel Nuovo, e si rende manifesto con l'orazione pronunciata dal sacerdote celebrante dopo le singole letture; gioverà anche introdurre i fedeli, con una breve monizione, a comprenderne il significato. [...] Dopo la lettura segue il canto del salmo con la risposta data dal popolo [NdR: non a caso si chiama salmo responsoriale dal verbo 'rispondere']. In questo ripetersi delle parti si conservi un ritmo, che possa favorire la partecipazione e la devozione dei fedeli. [8; da Preparazione e celebrazione delle feste pasquali 86]

La fretta pasquale, il lievito vecchio e il tabernacolo vuoto

Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. E' la Pasqua [cioè 'il passaggio'] del Signore! [Esodo 12,11, prima lettura di giovedì santo]

Il Magghid della cena pasquale ebraica si apre recitando la frase 'precipitosamente uscimmo dall'Egitto' (ebr. בִּבְהִילוּ יָצָאנוּ מִמִּצְרָיִם 'bivhìllu yatzànu mimmitzràyim'). La cena dell'Esodo è infatti una cena raffazzonata, fatta con 'i fianchi cinti' (cioè con i lembi della veste tirati su e infilati nella cintura per non intralciare il movimento delle gambe), pronti a partire per un lungo viaggio. Il pane non ebbe tempo di lievitare e si mangiò pane azzimo (dal greco α-ζυμη ἀ-ζύμηa-zume 'senza-lievito').

Hametz [12 pagg. 45-47 con varie omissioni; vedi anche 3 pag. 12]
La parola חָמֵץ hametz è usata per designare il pane fatto con il lievito (ossia, il pane che si mangia abitualmente), in opposizione a מַצָּה matzah, nome del pane non fermentato o pane azzimo. La proibizione di mangiare e conservare hametz durante Pesah è un precetto che troviamo nella Torah: 'Nel primo mese, il giorno 14 del mese, alla sera, voi mangerete azzimi fino al 21 del mese, alla sera. Per sette giorni non si troverà lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà del lievito, sarà eliminato dalla comunità di Israele, forestiero o nativo del paese' [Esodo 12,18-19]. Perché si proibisce il pane fermentato? Cos'è hametz?
Nel sistema sacrificale del tempio, l'immolazione degli animali era accompagnata, nella maggioranza dei casi da oblazioni o riti complementari consistenti nella libagione di vino, נֶסֶך nesek, e in un'offerta vegetale, מִנְחָה minhà (una torta fatta di fior di farina impastata con olio). Dato che il lievito cambia il carattere naturale dell'oblazione -o, il che è lo stesso, la profana- tutte le offerte dovevano essere assolutamente pure; il fermentato (e la farina, se si inumidisce può fermentare) era considerato impuro, poiché risultava acido e hametz significa 'acido'.
Hametz e matzah sono lavorati con la stessa farina e con la stessa acqua e sono anche cotti nello stesso forno, ma esiste tra essi una minima differenza che li separa: il riposo. Hametz deve riposare. Dicono i cabalisti che, come la pasta si gonfia di aria e cresce e prende il sapore acido del fermento, anche l'uomo si gonfia di vuota vanità e adotta l'atteggiamento acido dello sciocco. Più appetitoso e gradevole della matzah, il hametz rappresenta l'istinto cattivo [NdR: nel nuovo testamento oltre al lievito dei farisei e sadducei (Matteo 16,5-12) c'è comunque anche un lievito buono: il regno dei cieli (Matteo 13,33 e paralleli)].
Tutti i saggi di Israele che hanno commentato gli avvenimenti dell'esodo concordano nel mettere in rilievo l'importanza della fretta nell'uscita dall'Egitto [NdR: che significato ha questa fretta pasquale per i cristiani?]; fu infatti a causa della fretta che il pane non ebbe il tempo di lievitare poiché, dice uno dei commentatori, "se la pasta avesse lievitato, i nostri padri sarebbero stati sommersi dall'impurità dell'Egitto e il Signore non avrebbe potuto riscattarli". E perché la fretta? Perché era Pesah del Signore. Dio passava, e il passaggio di Dio mette sempre in movimento [NdR: dopo la risurrezione, Maria la Maddalena corre da Pietro; Pietro e Giovanni corrono insieme al sepolcro (Giovanni 20,2.4, dal vangelo di Pasqua)], provoca una tensione creatrice e apre vie di vita e speranza. Pesah, il passaggio del Signore, è la dinamica dell'eternità che entra nel tempo perché ogni cosa recuperi il suo senso; specialmente l'uomo che, già da Adamo, fu libero di rompere con Dio. Per questo, sullo sfondo della proibizione di hametz appare l'alleanza, perché attraverso essa Dio riscatta l'uomo (tanto individualmente quanto collettivamente) come sua proprietà.

Che questo discorso sia valido anche per i cristiani ce lo dice chiaramente san Paolo:

6bnon sapete che un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta? 7Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi.
Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!
8Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, nè con lievito di malizia e perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità. [1Corinzi 5,6b-8, seconda lettura alternativa della domenica di Pasqua; attenzione al contesto della lettera, comunque!]

Il lievito infatti stabilisce una continuità tra il pane di oggi e quello di ieri, perché il lievito naturale è preso dalla pasta fermentata del giorno precedente. Il pane azzimo segna un nuovo inizio! [7 pag. 32]

La scoperta del pane lievitato [...] Il pane lievitato è forse nato quando ci si accorse che la farina e l'acqua o il latte mescolati insieme e dimenticati per delle ore inacidivano e "crescevano" (fermentavano) acquistando una consistenza morbida, ma poiché la farina era costosa non la si buttò via, ma la si rimpastò, scoprendo poi con meraviglia e soddisfazione che il suo pane era migliore e più leggero di quello che si era sempre fatto.
La fermentazione è un processo dovuto all'attività di enzimi prodotti da microorganismi costanti nella pasta acida, che provocano la formazione di gas. Le bollicine di gas rendono la pasta più elastica e ovviamente più leggera e più facile da masticare.
Ripensando a quello che era avvenuto, questo antico "panettiere" probabilmente comprese che il sistema migliore per fare il pane lievitato era di conservare un pezzetto della pasta acida, che quando serviva veniva unito a farina e acqua, lasciando poi l'impasto a lievitare per alcune ore, in modo che i fermenti agissero. [...] [9 pag. 77; ricetta a pag. 79]

Poco prima dell'inizio della messa vespertina di giovedì santo, un ministrante (Francesco, non a caso uno dei più piccoli) mi prendeva alla sprovvista chiedendomi 'perché il tabernacolo è vuoto?' ('mà nishtanà?'!). Infatti non si fa la genuflessione entrando in chiesa e lo sportello del tabernacolo è lasciato volutamente spalancato. Sono andato a vedere cosa diceva il messale: purtroppo il messale prescrive spesso ma motiva molto poco! Premesso che la domanda andrebbe inquadrata in un discorso generale sulla custodia eucaristica nel triduo (ad esempio: perché le ostie consacrate giovedì non sono tenute nel tabernacolo?), mi sono venute in mente alcune possibili suggestioni.

Innanzitutto c'è il piano della rievocazione storica dell'istituzione dell'eucarestia: non può esserci pane consacrato se Gesù doveva ancora consacrarlo! Poi non dimentichiamo che la festa di Pasqua era una festa agricola (almeno per metà, l'altra metà era pastorale e prevedeva l'immolazione a scopo propiziatorio di un agnello giovane -che non ne muoiano altri!- prima di partire con le greggi dopo la pausa invernale) [7 pag. 32]: alla vigilia del nuovo raccolto di grano (che in Palestina coincideva con la primavera essendo più mite l'inverno), quando i granai con le provviste dell'anno precedente (ormai marcite) erano quasi vuoti, si ringraziava il Signore offrendogli il primo pane preparato con la primizia della farina.

La ricerca del hamètz Poiché la Mishnà prescrive che si realizzi una ricerca cerimoniale, c'è l'uso che la padrona di casa collochi piccoli pezzi di pane in diversi posti della casa per avere la certezza di trovare hametz, poiché la benedizione con la quale inizia il rito non può essere formulata invano. Si distribuiscono di solito dieci pezzi, che rappresentano il concetto cabalistico delle sefirot (manifestazioni di Dio), e si collocano in luoghi precedentemente stabiliti e conosciuti dal capofamiglia, per evitare di dimenticarne qualcuno.
Nella notte del 14 nisan [la notte prima di Pesah] si spengono tutte le luci della casa e il capofamiglia, accompagnato dai figli [si noti che i bambini hanno sempre uno specifico ruolo cerimoniale nei riti degli Ebrei], accende una candela e, alla sua luce, inizia la bedikàt ['ricerca']. [12 pag. 48]

La testimonianza delle pie donne

I capitoli III e IV di Messori, Dicono che è risorto [11] sottolineano il ruolo delle donne sotto la croce e poi al sepolcro. L'annuncio della risurrezione viene portato dalle donne, ovvero da testimoni non validi secondo la mentalità ebraica. Questo fatto crea un certo imbarazzo agli evangelisti, che furono costretti a riportarlo in quanto innegabilmente vero! San Paolo, ignorando i vangeli che erano ancora in fase di formazione e non essendo stato presente, dice semplicemente che Gesù 'apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta' [vedi 1Corinzi 15,3-8]. San Paolo ricorre ad uno scontato ordine gerarchico e all'uso del maschile 'fratelli', ben lontano dal meno prevedibile ma reale svolgimento dei fatti.

I calici

Se ci pensate bene, frasi come 'Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore' [Salmo 116,13 di giovedì santo] o 'il Signore è mia parte di eredità e mio calice' [Salmi 16,5, dopo la seconda lettura della veglia] si capiscono solo alla luce di Gesù nell'ultima cena ma non in se stesse. Non è che ci sfugge qualcosa che vale la pena recuperare? In greco questo 'calice' è ποτηριον ποτήριον potèrion e, prima sorpresa, in Matteo 10,42 è un poterion anche il bicchiere d'acqua fresca dato ad uno dei piccoli. Quindi, come ricorda anche il film 'Indiana Jones e l'ultima crociata', il calice era da un punto di vista funzionale un semplice bicchiere. Probabilmente si poteva tradurre semplicemente come 'tazza', al massimo 'coppa' ('calice' in italiano deriva da lat. calix e gr. kylix; solo oggi implica un oggetto di lusso... forse in conseguenza dei preziosi calici usati nella liturgia???).

In ebraico 'calice' è כּוֹס kôs. Ecco la lista di tutte le occorrenze (forse a volte è tradotto con 'coppa') copiata direttamente da Bibleworks: Genesi 40,11 / 40,13 / 40,21; 2Samuele 12,3 / 1Re 7,26 / 2Cronache 4,5 / Salmi 11,6 / 16,5 / 23,5 / 75,9 / 116,13; Proverbi 23,31; Isaia 51,17 / 51,22; Geremia 16,7 / 25,15 / 25,17 / 25,28 / 35,5 / 49,12 / 51,7; Lamentazioni 4,21; Ezechiele 23,31 / 23,32 / 23,33; Abacuc 2,16. Vediamone qualcuna [da una mia nota del 02/IV/1997]: [2Samuele 12,3] 'bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno' indica dipendenza da qualcuno per il proprio sostentamento [Gillièron Bernard, Lessico dei termini biblici (ed. Elle Di Ci, £ 22'000) pag. 56]; [Salmo 23,5] 'il mio calice trabocca'; [Isaia 51,17] 'Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice [ebr. kôs] della sua ira; la coppa [ebr. kôs; i traduttori CEI non hanno tollerato la ripetizione] della vertigine hai bevuto, l'hai vuotata'; [Isaia 51,22] 'Ecco io ti tolgo di mano il calice della vertigine, la coppa della mia ira; tu non lo berrai più. Lo metterò in mano ai tuoi torturatori'; [Geremia 49,12] 'Ecco, coloro che non erano obbligati a bere il calice lo devono bere e tu pretendi di rimanere impunito?'; [Salmo 11,6] 'vento bruciante toccherà loro in sorte', letteralmente 'vento [=spirito, ebr. ruah] (è) la sorte del loro calice'. A questo punto mi fermo: mi sembra ci sia un 'calice che tocca in sorte' (che può essere 'il calice dell'ira') che diventa metafora del destino e dell'esistenza di una persona o di un popolo. Non ho trovato commenti su questo tema e le note di BJ e TOB mi sembrano particolarmente elusive. Il 'calice dell'ira' sarà colmo di vino puro (nell'antichità si beveva sempre annacquato) che dà la vertigine (l'ubriacatura, vedi Noè dopo il diluvio [Genesi 9,20ss]).

Ci sono poi altri 'calici': il 'calice della salvezza' [Salmo 116,13] è una coppa di ringraziamento (come Gesù nell'ultima cena); il 'calice di consolazione' [Geremia 16,7] si riferisce al costume del pasto funebre in onore di un genitore defunto [confronta se vuoi anche Proverbi 31,6]; il 'calice della benedizione' [1Corinzi 10,16] è opposto a quello dei 'demòni' [1Corinzi 10,21]; in Apocalisse 17,4 una donna 'teneva in mano una coppa (gr. poterion) d'oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. [da Easton's Bible Dictionary]

Galilea delle genti

La sera di lunedì dopo Pasqua, Fulvio Mariani faceva notare ad Andrea Fiorini il significato spirituale di Galilea [Matteo 28,10, il vangelo del giorno]. Terra di deportazioni e deportati (in particolare ad opera degli Assiri [2Re 15,29 nel 732 a.C.]; quindi con una popolazione mista) ancora più a nord della Samaria (al confine con genti non ebree), per un Giudeo di Gerusalemme corrispondeva ad un territorio praticamente pagano. Non a caso Matteo 4,15 riporta che Gesù si ritirò a Cafarnao (sulla riva nord del lago di Tiberiade) perché si adempisse quanto fu annunciato dal profeta Isaia (Isaia 8,23—9,1 ma con significative variazioni):

Terra di Zabulon e terra di Nèftali [le due tribù di Israele derivate dagli omonimi figli di Giacobbe/Israele], sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti [gr. ethne, lat. gentes 'le genti, le nazioni' in senso di separazione rispetto al popolo ebreo, quindi etimologicamente 'i gentili' che, proprio per questo motivo, vale per 'i pagani']!

Il disprezzo per la Galilea si coglie anche in Giovanni 7,41 ('Il Cristo [cioè il Messia] viene forse dalla Galilea?') e 7,52 ('Studia [investiga a fondo] e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea'). Ritornando a Fulvio, Gesù risorto non va cercato a Gerusalemme, nella città santa, ma in Galilea, ovvero in una terra piena di compromessi, a contatto con l'umanità più povera, in una parola nel mondo con tutte le sue contraddizioni.

Dalle liturgie della parola...

Veglia pasquale
Domenica di Pasqua
Lunedì dopo Pasqua
Giovedì nell'ottava di Pasqua
Domenica dopo Pasqua

La sequenza pasquale

Il Victimae paschali laudes ('i Cristiani immolino [ovvero innalzino] lodi alla vittima pasquale' se non sbaglio) viene attribuito a Wipo (circa 990-1050 d.C.), cappellano di corte degli imperatori tedeschi Corrado II e Enrico III. E' composto di otto strofe con assonanze e rime. [...] La prima parte è una esortazione a lodare l'Agnello pasquale; la seconda è un dialogo tra gli apostoli e Maria Maddalena; la sequenza termina con un grido di giubilo e di gioia per la risurrezione di Cristo e con una preghiera di misericordia rivolta al Signore risorto. [10 pag. 245]

Le sequenze sono un fenomeno tipicamente medioevale [10 pag. 240]. Oggi, delle tante, ne sono rimaste in uso solo quattro: Victimae paschali laudes per Pasqua, Veni Sancte Spiritus per Pentecoste, Lauda Sion per il Corpus Domini e Stabat Mater per l'Addolorata. Solo quelle di Pasqua e Pentecoste sono prescritte, le altre sono facoltative come facoltativa è la sequenza pasquale nell'ottava di Pasqua [10 pag. 244; Principi e Norme del Messale Romano 40].

Chi deve cantare la sequenza? I Principi e Norme del Messale Romano non danno grandi indicazioni: della sequenza si parla nel paragrafo 'I canti tra le letture' e si può pensare che valga quanto detto più esplicitamente per il salmo responsoriale. Don Giovanni Bonfiglioli sostiene che la sequenza spetta particolarmente al celebrante o ad una parte del coro, richiamandosi alle norme del graduale romano (se non ricordo male; il graduale è il libro che raccoglie le melodie per le varie parti della messa). E' indubbio che la sequenza vada preferibilmente cantata, anche se, sottolinea don Giovanni, è praticamente impossibile che l'assemblea possa cantarla, essendo eseguita una sola volta all'anno.


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Durante la stesura di questa pagina mi hanno dato per disperso fra i cumuli di libri e fogli della mia scrivania per un paio di giorni. In realtà ero impegnato in alcune complesse operazioni di stratigrafia bibliografica al fine di estrarre i libri finiti in fondo alla pila senza essere coinvolto in qualche crollo! Alla fine, per fortuna, mi hanno ritrovato a pochi passi dal computer... GPB