Ringrazio Massimo Papotti (e chi ha deciso di proporre questo libro nei gruppi del vangelo) per avermi fatto rileggere il libro di Giona in questo tempo di quaresima 2004. La prima cosa che mi ha colpito è la centralità della teshuvà, termine estremamente pregno di significati che potremmo tradurre 'ritorno, risposta, pentimento, conversione'; deriva dal verbo shuv, frequentissimo in sacra scrittura, ad indicare le azioni del 'ritornare' (riferito anche all'esodo) e del 'cambiare (idea)'. Nel libro di Giona compare esplicitamente in 1,13 e 3,8-10 (due volte nel v. 9) dove viene tradotto dalla CEI rispettivamente come 'tornare (a terra)', 'convertire', 'cambiare' e 'deporre (lo sdegno)', 'convertire'.
Il libro fa riferimento al profeta Giona (anche se al contrario degli altri libri profetici non riporta estesamente le parole del profeta), vissuto nell'VIII secolo a.C., quando la potenza assira era al suo culmine (e minacciava lo stato di Israele) e Ninive, una delle principali città assire, una fra le più grandi città del mondo. Si ritiene però che la redazione sia molto posteriore, sicuramente successiva all'esilio babilonese, probabilmente fra il 400 e il 200 a.C. L'idea centrale sarebbe la consacrazione dell'ebraismo come religione universale, il cui messaggio cioè si apre anche ai popoli pagani.
L'esegesi rabbinica ha spiegato il rifiuto di Giona alla luce delle tendenze nazionalistiche ebraiche, che faticavano a vedere in un nemico concreto (ai tempi in cui il libro è stato ambientato) come gli assiri l'oggetto della misericordia divina. Giona non può rifiutare un comando divino quindi fugge. Sapeva che Dio avrebbe perdonato Ninive e la sua collera si sarebbe quindi rivolta verso gli ebrei i quali invece si ostinavano nel loro peccato. Inoltre temeva che il perdono di Dio avrebbe di fatto reso vana la sua profezia.
Personalmente il comportamento di Giona non mi stupisce. Ad un livello individuale, la sua fuga era la reazione più ovvia: chi si sentirebbe, poniamo, di andare a predicare agli abitanti di New York di convertirsi? Ciò che deve stupire, a mio avviso nelle intenzioni del redattore, è che i niniviti si convertano, fatto che deve essere attribuito alla misericordia di Dio, che si dimostra ben più potente nel 'permettere' la conversione che nel perdonare poi chi si converte.
Da un punto di vista storico, i documenti cuneiformi testimoniano la grande attenzione rivolta dai re assiri alle superstizioni connesse agli astri e ai fenomeni meteorologici. In caso di previsioni nefaste sappiamo che veniva addirittura intronizzato un re fantoccio il quale, passato il pericolo predetto, veniva ucciso rendendo comunque effettiva la previsione.
Un moderno commento ebraico nota come ogni capitolo del libro sia connesso con un determinato elemento nel seguente ordine: aria (il vento che sconvolge le acque), acqua, terra, fuoco (Dio chiede a Giona: "ti sembra bene infiammarti per...?"; il verbo indica ovviamente l'adirarsi, l'infiammarsi a causa dell'ira; poi c'è il sole bruciante). Al termine di ogni capitolo viene introdotto l'elemento del capitolo successivo, così che il vento orientale soffocante di 4,8 si riconnette con il primo, proponendo una lettura ciclica e circolare, come continuamente dobbiamo pentirci e ogni anno si ripete per gli ebrei il giorno dell'espiazione (in cui viene letto interamente il libro di Giona).
Davvero il libro termina in un modo sorprendente, con la domanda in sospeso di Dio che ricorda la pedagogia di Gesù nei confronti dei suoi discepoli (e nelle sue parabole), intesa sempre a interrogare in prima persona ogni uomo (ad esempio, 'che ve ne pare?' in Matteo 18,12; 21,28; 26,66; Marco 14,64).
C'è infine il 'segno di Giona', richiamato da Gesù più volte (Matteo 12,39 e 16,4, Luca 11,29-30) che, per noi cristiani, connette questo libro con la Pasqua. Per mera connessione di immagini, mi viene in mente quella stupenda miniatura allegorica dell'Hortus deliciarum (fine XII sec. d.C.) in cui Gesù sulla croce rappresenta l'amo con cui Dio cattura il Leviatan simbolo del male. Preciso però subito che nel libro di Giona si parla solo di 'grande pesce'. Sull'ambone del duomo di Ravello è splendidamente raffigurato a mosaico sulla sinistra Giona che viene inghiottito (a testa in giù di cui si vedono le gambe), quindi sulla destra Giona che viene rigettato fuori (con la testa che esce dalla bocca), ricordandoci anche la rilevanza della Parola, della predicazione e dell'ascolto.
Vi propongo alcuni spunti sicuramente non ineccepibili. Casomai aiutatemi voi a migliorarli.
Ai primi vespri di domenica scorsa (seconda domenica di quaresima), mi colpiva questa antifona:
Mosè ed Elia parlavano dell'esodo pasquale
che il Signore doveva compiere in Gerusalemme.
Non si tratta di un'interpretazione spirituale da parte del redattore dell'antifona, bensì di una versione 'letteristica' dei seguenti versetti tratti dal vangelo domenicale:
Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. [Luca 9,30-31]
Infatti in greco 'dipartita' è èxodos cioè innanzitutto 'uscita', poi anche 'esito, conclusione', quindi l'atto finale di una vita. La parola greca è composta da ex- indicante moto da luogo e odòs 'via, cammino' (ad esempio in "Io sono la via, la verità e la vita" [Giovanni 14,6]); si confrontino le parole italiane 'met-odo, peri-odo, sin-odo'. Un'altra parola che mi ronza in testa in questi giorni è 'accolito' da kèleuthos 'via' che preceduto da a- indica 'colui che fa la stessa via' quindi 'seguace'. Che differenza c'è fra odòs e kèleuthos? Bella domanda: sembrano perfettamente intercambiabili, avendo sia il significato di 'via, strada' che 'viaggio, cammino' e, in senso metaforico, 'stile di vita, modo di comportarsi'; bisogna dire però che kèleuthos non è mai usato in Sacra Scrittura.
Già che ci sono ricordo che per 'strada' nel senso di 'via, vicolo' di una città nel nuovo testamento viene usato rùme:
E il Signore a lui: "Su, và sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso". [Atti 9,11]
Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: "Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi". [Luca 14,21]
"Parole, parole" direte voi, pensando magari che i fatti sono più importanti della filologia. Effettivamente una parola è un modo deviato di riferirsi ad un oggetto senza doverlo necessariamente indicare, o di richiamare un concetto astratto senza doverlo definire di volta in volta. Certe cose 'esistono' dal momento in cui c'è una parola per richiamarle mentre anche quando pensiamo dobbiamo ricorrere alle parole.
Qualche tempo fa, davanti ad una pizza, si finì non so come per parlare di parabole. 'Para-bola', da para 'a fianco' (confronta it. 'parafrasi, parallela' etc.) e ballo (da cui it. 'balistica, simbolo' etc.), significa in greco 'mettere in parallelo', in senso anche geometrico "mettere (un piano) in parallelo (col piano di una generatrice)", quindi 'mettere vicino, confrontare'. Diventa un sinonimo di 'metafora' che in greco significa 'trasformazione' ma diciamo che è più specializzato, implica cioè quel 'come' che è proprio dell'apertura di molte parabole evangeliche "il regno dei cieli è simile/come un...". In ebraico corrisponde a mashal, tradotto spesso come 'proverbio' (ad es. nel titolo dell'omonimo libro biblico). Comunque basta scorrere il libro dei proverbi per rendersi conto che non sono proverbi come li intendiamo noi. E' un termine ben conosciuto anche nelle posteriori discussioni rabbiniche dove acquista un senso tecnico: nel Talmùd si dice in modo formulare che i rabbi si riunirono per discutere e "proverbiarono un proverbio" (qui nel senso di 'sentenza'). Fino a questo punto ci siamo più o meno tutti. Può però sfuggire che 'parola' derivi proprio da 'parabola'. Ogni 'parola' è infatti inevitabilmente 'parabola' rispetto a ciò che indica.
Si ritiene solitamente che una parabola sia una storiella inventata. Non è necessariamente così. Ciò che contraddistingue le parabole di Gesù è piuttosto il fatto di essere qualcosa che ci interroga in prima persona, ponendo noi al centro del problema. E' fatta in modo da metterci simpateticamente nei panni del protagonista, e Gesù le accompagna a volte dalla domanda: "che ve ne pare?" [Matteo 18,12; 21,28]. La parabola ci fa capire che siamo noi i primi ad aver bisogno di cambiare (e di continuare a cambiare), e che questa conversione non può essere rimandata neppure di un secondo, prima che sia troppo tardi.
Nel vangelo di oggi (terza domenica di quaresima), dopo aver riportato dei fatti di cronaca, Gesù dice una parabola. Nella formula di passaggio fra i due discorsi il traduttore italiano (ma anche in altre lingue) si è sentito in dovere di aggiungere un 'anche': "(Gesù) disse anche questa parabola: un tale aveva un fico..." [Luca 13,6; ovviamente in greco (lo dico per chi ha fatto il classico) c'è un dè]. Suggerimento prezioso: effettivamente l'uso che Gesù fa dei due fatti di cronaca è parabolico. [Questi spunti sulle parabole sono tratti da Roland Meynet, Vedi questa Donna?, Milano: Paoline 2000, un libro divulgativo che propone un percorso molto stimolante attraverso le parabole evangeliche]
Non è facile sottrarsi alla suggestione di collegare il vangelo di questa domenica di quaresima con gli attentati in Spagna. Chissà quanti sacerdoti l'hanno fatto oggi durante l'omelia (a Napoli sicuramente molti). Perché tutti questi morti, perché tanta cattiveria? 'Libero arbitrio' risponderebbe Al Pacino [vedi il dialogo finale del film "L'avvocato del diavolo"]. Ma la domanda rimane e l'abbiamo sentita in televisione travestita in questi o simili modi: 'perché proprio mio figlio?', 'perché proprio mia moglie?'. Qualcun'altro invece ha potuto dire: 'intorno a me sono morti tutti ma io sto bene'.
In questi casi, in ambiti di fede, si tira in ballo la volontà di Dio: come per scacciare una mosca fastidiosa, e rimanere appagati dall'ineluttabilità di un disegno misterioso. Il perché va chiesto agli uomini (e se volete alle leggi della fisica il 'come' uno possa essersi salvato e l'altro no, indeterminazione inclusa [vedi <http://scuolaworld.provincia.padova.it/ipazia/materiali/MetodiScienza/Caso.htm>, 2.III]). Il fine invece dobbiamo chiederlo a Dio, ma questa è un po' una fregatura, se Dio ha avuto bisogno di incarnarsi nell'uomo per salvarci. Hetty Hillesum scriveva nel campo di concentramento (cito a memoria): "Voglio vivere perché Dio ha bisogno di me viva. Dio ha bisogno degli uomini: non è Dio che deve aiutare noi ma noi che dobbiamo aiutare Lui". E davvero Dio aveva bisogno dell'eccomi di Mosè per liberare il suo popolo dall'Egitto [prima lettura, Esodo 3,1-15].
Chi ha la libertà di scegliere il male, chi con la stessa libertà è capace di trasformare quello stesso male in bene. Che, oltre al tanto male che già hanno causato, le conseguenze di questi attentati siano occasione di bene sta a noi. Bush o chi per lui scelse di trasformare il male dell'11 settembre 2001 in ulteriore male. Gli attentati in Spagna (così come tanti altri eventi che vediamo quotidianamente nei telegiornali) sono un colossale e reiterato invito alla conversione, affinché ciascuno di noi si renda conto di quanto vale la vita, e ponga in atto tutto ciò che può trasformare il male in bene (e ci sono molti modi per farlo, a partire da noi e da chi ci sta vicino, fino ad arrivare ai temi affrontati da padre Zanottelli). Chi sa che il figlio di Dio è dovuto morire sotto gli occhi di tutti su una croce al fine di poterci salvare, non si scandalizzerà certo per le atrocità di questi giorni. O, meglio, si 'scandalizzerà' dell'una (la croce, vedi 1Corinzi 1,23-24) come delle altre.
(Luca 13,1) In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. (2) Prendendo la parola, Gesù rispose: "Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? (3) No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. (4) O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? (5) No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo".
(6) Disse anche questa parabola: "Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. (7) Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? (8) Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime (9) e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai".
(16/III/2004 00:07) Quando scrivo di liturgia, sacra scrittura, vita di fede, mi chiedo sempre quanto sia "giusto" (ortodosso) ciò che dico, deducendolo per lo più da come leggo la sacra scrittura, vivo la liturgia e la mia vita. Pur confidando nelle correzioni fraterne di amici e sacerdoti cui indirizzo i miei scritti, a volte mi prendo poi la briga di tirar fuori il Catechismo. Non potevo farlo prima? No, perché preferisco ragionare con la mia testa (e fare un mio percorso)... ma mi conforta molto scoprire poi che non ho detto assolutamente niente di nuovo!
309 Se Dio Padre onnipotente, Creatore del mondo ordinato e buono, si prende cura di tutte le sue creature, perché esiste il male? A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna rapida risposta potrà bastare. E' l'insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione: la bontà della creazione, il dramma del peccato, l'amore paziente di Dio che viene incontro all'uomo con le sue Alleanze, con l'Incarnazione redentrice del suo Figlio, con il dono dello Spirito, con il radunare la Chiesa, con la forza dei sacramenti, con la vocazione ad una vita felice, alla quale le creature libere sono invitate a dare il loro consenso, ma alla quale, per un mistero terribile, possono anche sottrarsi. Non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema del male.
310 Ma perché Dio non ha creato un mondo a tal punto perfetto da non potervi essere alcun male? Nella sua infinita potenza, Dio potrebbe sempre creare qualcosa di migliore [Cf San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I, 25, 6]. Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo “in stato di via” verso la sua perfezione ultima. Questo divenire, nel disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura anche le distruzioni. Quindi, insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione [Cf San Tommaso d'Aquino, Summa contra gentiles, 3, 71].
311 Gli angeli e gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza. Essi possono, quindi, deviare. In realtà, hanno peccato. E' così che nel mondo è entrato il male morale, incommensurabilmente più grave del male fisico. Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale [Cf Sant'Agostino, De libero arbitrio, 1, 1, 1: PL 32, 1221-1223; San Tommaso d'Aquino, Summa teologiae, I-II, 79, 1]. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene:
Infatti Dio onnipotente. . ., essendo supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene [Sant'Agostino, Enchiridion de fide, spe et caritate, 11, 3].
312 Così, col tempo, si può scoprire che Dio, nella sua Provvidenza onnipotente, può trarre un bene dalle conseguenze di un male, anche morale, causato dalle sue creature: “Non siete stati voi”, dice Giuseppe ai suoi fratelli, “a mandarmi qui, ma Dio; . . . se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene. . . per far vivere un popolo numeroso” ( Gen 45,8 Gen 50,20 ) [Cf Tb 2,12-18 vulg]. Dal più grande male morale che mai sia stato commesso, il rifiuto e l'uccisione del Figlio di Dio, causata dal peccato di tutti gli uomini, Dio, con la sovrabbondanza della sua grazia, [Cf Rm 5,20 ] ha tratto i più grandi beni: la glorificazione di Cristo e la nostra Redenzione. Con ciò, però, il male non diventa un bene.
313 “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” ( Rm 8,28 ). La testimonianza dei santi non cessa di confermare questa verità:
Così santa Caterina da Siena dice a “coloro che si scandalizzano e si ribellano davanti a ciò che loro capita”: “Tutto viene dall'amore, tutto è ordinato alla salvezza dell'uomo, Dio non fa niente se non a questo fine” [Santa Caterina da Siena, Dialoghi, 4, 138].
E san Tommaso Moro, poco prima del martirio, consola la figlia: “Nulla accade che Dio non voglia, e io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio” [San Tommaso More, Lettera ad Alice Alington di Margaret Roper sul colloquio avuto in carcere con il padre, cf Liturgia delle Ore, III, Ufficio delle letture del 22 giugno].
E Giuliana di Norwich: “Imparai dalla grazia di Dio che dovevo rimanere fermamente nella fede, e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere che tutto sarebbe finito in bene. . . : “Tu stessa vedrai che ogni specie di cosa sarà per il bene ” [Giuliana di Norwich, Rivelazioni dell'amore divino, 32].
314 Noi crediamo fermamente che Dio è Signore del mondo e della storia. Ma le vie della sua Provvidenza spesso ci rimangono sconosciute. Solo alla fine, quando avrà termine la nostra conoscenza imperfetta e vedremo Dio “a faccia a faccia” ( 1Cor 13,12 ), conosceremo pienamente le vie, lungo le quali, anche attraverso i drammi del male e del peccato, Dio avrà condotto la sua creazione fino al riposo di quel Sabato [Cf Gen 2,2 ] definitivo, in vista del quale ha creato il cielo e la terra.
II domenica del tempo ordinario C
"ATTENZIONE! Prendi un pezzo di carta e rispondi alle seguenti domande. Non passare alla domanda successiva se non hai risposto alla precedente"
Hai avuto nella tua vita dei momenti di vera gioia?
Su circa 110 persone, qui hanno risposto di sì in 12 (la gioia pare merce rara).
Se sì, per quale motivo?
"Mentre servivo degli ammalati, c'è stato un momento in cui abbiamo pianto insieme, ma pianto di gioia, perché loro mi danno sempre tanto" (una ragazza); "nella preghiera e nei momenti di ritiro, nelle esperienze forti con Gesù" (un adulto sposato); "i figli, quando ti nasce un figlio" (un anziano); "sarò paranoico, ma a me proprio quando non ho nessun motivo di essere felice mi vien voglia di essere felice" (un giovane single); "io sinceramente quasi tutte le mattine quando mi alzo" (una giovane); "anch'io, ma solo dopo aver preso 'na tazzulella 'e caffè!" (il moroso della precedente giovane); "se mi guardo intorno... [indicando gli amici, ridendo], trovo sempre dei buoni motivi per essere felice" (un giovane).
Ma bisogna davvero andare all'ospedale per provare gioia? Bisogna aspettare quei due o tre ritiri che si fanno in un anno? E chi non ha figli? E chi li ha, solo una, due, tre, massimo quattro volte nella vita è stato felice?
Il vangelo di oggi [Giovanni 2,1-12] si concludeva così:
Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui. [Giovanni 2,11]
Ma l'evangelista non parla di 'inizio dei miracoli' bensì di 'principio dei segni', semèion in greco, da cui it. 'semantica' o, più comunemente, 'semaforo'. L'inizio insomma dei 'segnali' lanciati da Gesù agli uomini.
Mi faceva notare qualcuno che aveva partecipato alla beatificazione di Madre Teresa da Calcutta, che l'immagine scelta per il santino commemorativo è quella di una Madre Teresa sorridente, con i denti poco plausibilmente bianchi bene in vista. Non, quindi, un sorriso serafico e beato (a labbra chiuse) o un volto serio e corrucciato al pensiero dei peccati dell'umanità.
Secondo te, Gesù rideva? Tutto "Il nome della rosa" di Umberto Eco ruota su tale questione.
Mi immagino Gesù, tradizionalmente trentenne, che si pone il problema concreto di iniziare la sua attività pubblica di predicatore e leader carismatico. Chissà quanto tempo avrà perso aspettando l'occasione giusta. Avrà cercato di rimandare il più possibile ("Padre... allontana da me questo calice" dirà poi [Luca 22,42]) e di godersela finché era il garzone di un carpentiere. Avrà vagato per tutta la Galilea alla ricerca di un miracolo serio da compiere, con cui fare una figura eclatante e cominciare bene la carriera. "Per redimere tutta l'umanità c'è ancora un po' di tempo", si sarà detto, "ma ci fosse almeno un attentato kamikaze da sventare". "Ma tanto non ci stanno ancora la televisione e i giornali a parlarne... mannaggia, fra 2000 anni sarebbe stato tutto più semplice", avrebbe concluso. Invece, e se volete datene la colpa a Maria, con tutte le malattie e cattiverie che ci stanno al mondo, si è ritrovato a trasformare dell'acqua in vino, a sprecare il primo miracolo per degli ubriaconi. Dalla camera di Fabio, sento Bonolis in televisione che si chiede se l'acqua sia un diritto o un bisogno dell'umanità. Beh, per Gesù pare fosse più importante il vino.
Mi sembra che la prima cosa che Gesù ha voluto mettere in chiaro, è che i suoi amici vivano nella gioia. E per questo fu pronto a trasformare l'acqua in vino "che allieta il cuore dell'uomo" [Salmi 103,15]. Ma non mi sembra possibile essere felice da solo. Al massimo da solo posso essere soddisfatto di ciò che ho fatto o di come mi sono comportato (se ho fatto cose belle o mi sono comportato bene). Per essere felice io ho bisogno di essere almeno in due. Non tutti necessariamente felici, ma almeno uno felice che per simpatia diventi motivo agli altri di felicità, se non altro per partecipazione alla tua felicità, alla felicità di un amico.
If more of us valued food and cheer and song above hoarded gold, it would be a merrier world. [J.R.R. Tolkien, The Hobbit, p. 266 (detto dal nano Thorin Oakenshield 'Scudodiquercia' in punto di morte]
Se più persone fra di noi valutassero il cibo e i brindisi e i canti al di sopra dell'ammassare oro, il mondo sarebbe più allegro.
La gioia si trova dunque nel condividerla, nello stare insieme, in compagnia. E la miglior espressione dello stare insieme è lo stare seduti attorno alla stessa tavola, in agape fraterna, come si dice da noi. E fra tutti i banchetti, il più gioioso è il banchetto nuziale, in cui si celebra un uomo e una donna che non saranno più soli ("nessuno ti chiamerà più Abbandonata" [Isaia 62,4; prima lettura]). Quella del banchetto nuziale è un'immagine molto cara a Gesù, perché l'amore tra sposo e sposa è la realtà terrena che più si approssima all'amore di Dio per l'uomo: "Per amore di Sion non mi terrò in silenzio", "Sì come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo creatore; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te" [Isaia 62,1 e 5; prima lettura]. Un'unione, quella fra Dio e l'uomo, che possiamo celebrare tutti i giorni nella comunione eucaristica... anche se non ci accorgiamo più che l'altare è una mensa e raramente beviamo vino alla comunione.
If more of us valued food and cheer and song above hoarded gold, it would be a merrier world. [J.R.R. Tolkien, The Hobbit, p. 266 (detto dal nano Thorin Oakenshield 'Scudodiquercia' in punto di morte]
Se più persone fra di noi valutassero il cibo e i brindisi e i canti al di sopra dell'ammassare oro, il mondo sarebbe più allegro.
Un'obiezione alla frase di Thorin potrebbe essere che la nostra società -specie a ridosso del periodo natalizio- gode "consumisticamente" del cibo e del bere. E’ poi vero che uno accaparra oro proprio per potersi permettere cibo e altri piaceri. Ma il vero senso della frase di Tolkien è che la cosa più importante è mangiare, bere e cantare. Dal momento che uno ha i mezzi per soddisfare questi bisogni fondamentali e irrinunciabili (almeno mangiare e bere) non ha bisogno d’altro.
Il cantare mi sembra quindi rappresentare tutto ciò che, pur non fisiologicamente necessario al corpo, ci serve per essere felici. Mi sembra rappresenti anche l’arte in genere, il canto e la musica ma anche la letteratura, in quanto i canti in Tolkien raccontano storie. Tra l'altro Tolkien precisa, prima di trascrivere un canto:
And this is like a fragment of their song, if it can be like their song without their music. [J.R.R. Tolkien, The Hobbit, p. 14]
E questo è all'incirca un frammento del loro canto, se può essere all'incirca il loro canto senza la loro musica. [io intendo qui 'musica' nel senso di melodia, anche se i nani suonavano nel contempo strumenti musicali]
Chi abita da solo credo sappia quanto può essere piacevole cantare ad alta voce mentre si sbriga qualche lavoro in casa, o ascoltare musica registrata. Tanto che credo facciano più bene agli altri (e fra l'altro più a lungo nel tempo, nella libera iterazione di una registrazione e anche una volta morti) i Radiohead che un medico chirurgo che salva fisicamente vite umane.
Avrete già notato che una buona liturgia soddisfa tutti e tre gli 'auspici' tolkeniani.
Ne "L'hobbit" Tolkien racconta una grande avventura, un lungo viaggio, in cui Bilbo Baggins acquista sempre più coscienza delle sue capacità nell'affrontare le situazioni più difficili e riuscire a cavarsela. Bilbo è fortunato ma riesce sempre a sfruttare con intelligenza e prontezza i colpi di fortuna che gli si presentano. I suoi compagni di viaggio non sapranno fare altrettanto. Alla fine, la buona riuscita dell'avventura porta pace e prosperità a tutta la regione. L’ultima parola, nel libro, spetta a Gandalf, il saggio, che conclude:
"Ma non penserai che tutte le tue avventure siano riuscite solo a tuo beneficio. Caro signor Baggins, tu sei una persona davvero speciale e io sono molto orgoglioso di te, ma sei solo un piccoletto in un mondo vastissimo, dopo tutto!".
Tutto il bene che ci capita, anche se siamo noi i primi a goderne, ci capita perché noi possiamo rifletterlo sugli altri. Tanto per fare un esempio riduttivo e banale, se ho una salute di ferro è chiaro che sono io a goderne, però questa salute va sfruttata, dandomi la possibilità di aiutare chi invece si ammala. Lo stesso vale per il dolore: come si dice, la gioia si moltiplica comunicandola, il dolore si divide (forse non viene esattamente dimezzato, ma un peso portato da soli e portato da più persone diventa sicuramente più leggero). Ma la frase di Gandalf è più profonda, nel senso che il bene si irradia comunque, e noi pure assorbiamo quello delle persone che ci circondano (altro esempio banale: nascere in una buona famiglia).
You don’t really suppose, do you, that all your adventures and escapes were managed by mere luck, just for your sole benefit? You are a very fine person, Mr Baggins, and I am very fond of you; but you are only quite a little fellow in a wide world after all!”.
“Thank goodness!” said Bilbo laughing... [fine del libro, p.280]
La fortuna ha un ruolo fondamentale nelle avventure di Bilbo e, abituato a ragionare per meriti (esperienza peraltro ben contrastata dalla realtà delle cose), questa centralità mi ha fatto riflettere. Come d'altronde il ruolo di Gandalf, che arriva sempre inaspettatamente al momento opportuno e risolve la situazione quando gli sforzi di tutti erano stati vani. Uno degli espedienti narrativi più fini, è sicuramente il momento in cui i nani si attardano incoscientemente nella grotta, chiedendosi come riuscire nella disperata impresa di uccidere il drago Smaug/Smog, nello stesso momento in cui in realtà Smaug giaceva già morto nelle acque del lago, e come il merito di tale uccisione spetti in parti uguali alla freccia di Bard, al tramite del corvo, e, inconsapevolmente, alla stessa spavalderia del drago (che mostra il suo punto debole, p. 211 dell'edizione inglese) e all'intelligenza di Bilbo; come a dire che il bene deriva da un gesto fisico (armato), da un provvidenziale aiuto esterno, dall'abilità nelle parole e dal male stesso.
In Tolkien l'avventura non termina mai quando tutto si risolve. E non termina neppure, per così dire, pochi minuti dopo come nei film (basta guardare il numero dei capitoli che seguono la fine dell'anello nel vulcano). Ogni avventura deve terminare là dove è incominciata ("There and back again" è il sottotitolo de "L'Hobbit"), e precisamente deve essere percorso a ritroso tutto il lento e anche faticoso cammino che riconduce a casa e all'ordinarietà. Il capitolo dedicato alla 'battuta della Contea', precisa Tolkien nella prefazione (che mi pare sia sostituita nell'edizione italiana da quel ridicolo saggio di Zolla), era concepito fin da principio come conclusione de "Il signore degli anelli" e non aveva nulla a che fare (se non nell'intuizione e preveggenza di Tolkien) con la seconda guerra mondiale e con quel terribile strascico di ogni guerra che fu l'epurazione di nazisti e fascisti in Germania e Italia. Per non parlare delle appendici che riportano gli ulteriori avvenimenti concernenti i membri della compagnia dell'anello (appendice B), con lo stesso Sam che raggiunge gli 'ormeggi grigi' ('Grey Havens' in inglese, non 'oscuri', l'idea è connessa con l'invecchiamento credo), avendo anch'egli portato, seppur per un giorno solo, l'anello (quando credette morto Frodo dopo lo scontro con Shelob). Anche tenendo presente questo evento successivo, vale la pena rileggere la conclusione de "Il Signore degli anelli", dove alcuni particolari (la cena pronta e la precisazione che c'era qualcuno ad aspettarlo, il ruolo della moglie che lo fa entrare e accomodare sulla sua sedia, la bambino in grembo) mi pare siano delle precise chiavi di lettura di tutto il libro (dove protagonisti come Bilbo e Frodo non hanno invece legami famigliari):
And he went on, and there was yellow light, and fire within; and the evening meal was ready, and he was expected. And Rose drew him in, and set him in his chair, and put little Elanor upon his lap.
He drew a deep breath. 'Well, I'm back', he said.
Appunti sparsi tutti da rivedere, omogeneizzare e strutturare (manca la conclusione).
Davvero la nuova versione della Conferenza Episcopale Italiana traduce questo passo del prologo di Giovanni [1,14] come "il Verbo si è fatto uomo". Io tradurrei invece senza esitazioni: "e colui che è la parola divenne carne". Sarx (al genitivo sarkòs) in greco è senza dubbio carne; si noti che il greco usa kreas per indicare la carne da mangiare. E' chiaro che 'carne' si oppone allo spirito rappresentando tutto il mondo della corporeità, sottolineandone in particolare la caducità. La carne infatti è destinata a marcire. La traduzione NCEI mi lascia molto perplesso: tradurre uomo è riduttivo, proprio per sottolineare la dimensione della caducità umana era più corretta la traduzione carne. Gioverà qui ricordare come noi diciamo "io ho un corpo" mentre gli ebrei dicono "io sono un corpo". La separazione della capacità intellettiva dal resto del corpo è abbastanza naturale, se consideriamo che non siamo assolutamente in grado di comandare coscientemente certe funzioni del nostro corpo (ad es. non controlliamo coscientemente il cuore) come se effettivamente ci fossero cose in noi che sfuggono al nostro controllo (e pensiamo anche a certe emozioni e sensazioni). 'La parola che si fa carne' è una frase efficacissima, cogliamo tutta la concretezza umana della incarnazione della parola incorporea, ma ne cogliamo allo stesso tempo anche la temporaneità e caducità rispetto alla dimensione eterna (come non pensare alla parola creatrice di Genesi 1) da cui proviene. La cosa che stupisce è che si tolleri, non dico l'astrusità (che se fosse astruso comunque evocherebbe la necessità di approfondire), ma la doppiezza di un termine come 'verbo' mentre dia fastidio la parola 'carne'. Forse che dava fastidio l'accostamento con carnalità, carnale, amore carnale etc.? Ma è un fastidio sbagliato: è vero che Giovanni qui non voleva riferirsi a questo aspetto, Gesù si fa carne nel senso di carne, ossa e cervello (quindi uomo)...
Egregio sig. Basello,
sono uno studente di filosofia di Trieste, che sta per dare a breve un esame sulle concezioni dell'anima nella filosofia greca classica e tarda.
Rileggendo il nuovo testamento in greco, mi sono reso conto dell'ovvio, cioè che, malgrado la lingua, si tratta di un altro pianeta. Spirito e anima, pneyma e psykhé, non riescono in nessun modo a coincidere con l'anima greca; la svalutazione del corpo- il corpo è una tomba- non è concepita.
Saprebbe darmi qualche delucidazione sulla "antropologia" biblica? in particolare, quali solo le caratteristiche delle due entità naphesh e ruakh?
Per essere più specifico: la frase del Getzemani "Lo spirito è pieno di ardore, ma la carne è debole", se non sottintende una visione scissa dell'uomo (ma dubito..), come va letta?
Oppure, nel vecchio testamento, che significa la richiesta di Eliseo a Elia di ricevere una "porzione doppia" del suo spirito? parla del carisma profetico?
Siccome sono un ebraista dilettante alle prime, primissime armi, qualche riferimento bibliografico, che tenga conto della mia impacciatezza, mi sarebbe molto utile.
La ringrazio molto, cordialissimi saluti,
Marco B.
Premesso che lei, come filosofo, è più addentro di me a queste questioni e che fare generalizzazioni è sempre pericoloso, le tratteggio uno schema mentale di base. L'uomo ha tre componenti: lo spirito (gr. pneuma), l'anima (gr. psyche) e il corpo (gr. usa 'carne' 'ossa' 'ventre' intese come sineddoche, una parte per indicare il tutto). Lo spirito è infuso da dio e, per così dire, rimane proprietà divina nell'uomo; l'anima invece appartiene all'uomo ed è molto meno 'separata' dal corpo di quanto possiamo pensare: l'anima rappresenta la parte vitale dell'uomo, la sede dei pensieri, dell'emozioni e della volontà (
passivities is indicated. Thus we read of `a hungry soul' (Ps 107:9), `a weary soul' (Jer 31:25), `a loathing soul' (Lev 26:11), `a thirsty soul' (Ps 42:2), `a grieved soul' (Job 30:25), `a loving soul' (Song 1:7), and many), in una parola il respiro, il soffio vitale, ciò che rende vivo un corpo. Quando il salmista dice non abbandonerai la mia anima dallo Sheol (Salmi 16,10) io mi immagino tutto l'uomo, non che il recupero dell'anima implica il recupero del corpo che anzi deve essere abbandonato in quanto mortale, ma mi immagino comunque l'anima rivestita da un corpo, da sembianze anche se non si tratta del corpo mortale, come se l'anima fosse un corpo a guida del corpo mortale ma appunto immortale. Il corpo, le ossa, la carne etc., rappresentano l'uomo nella sua dimensione temporale, destinata a diventare cosa morta una volta privata dello spirito vitale, l'anima.
Diciamo che l'anima è il nostro soffio, mentre in noi c'è anche un soffio divino, lo spirito, da cui peraltro ha preso avvio il nostro soffio nel senso che è il soffio divino ad averci dato il nostro soffio, ovvero la nostra vita autonoma da lui.
In questo senso l'anima ebraica assomiglia molto al nous greco, cioè alle capacità intelletive e volitive.
Nel Nuovo Testamento si possono avere delle per così dire semplificazioni, opposizioni fra corpo e spiritro, fra vita secondo la carne e secondo lo spirito, che poi volendo non sono semplificazioni in quanto l'anima è il soggetto volente, che decide coscientemente di propendere verso una delle due dimensioni cui appartiene. Comunque Gesù rende al padre lo spirito mentre dona l'anima per il suo gregge, la quale mi distinzione mi sembra precisa. Non che gli evangelisti fossero pignoli, è chiaro che per loro nel loro contesto sociale culturale era spontanea questa distinzione.
Ravasi dice che i semiti dicono 'io sono un corpo' non perché l'anima sia un tutt'uno con il corpo ma perché si percepisce da subito la natura caduca dell'anima, lo spirito vitale, che muore assieme al corpo, come se non fosse il corpo a morire ma l'anima che muore, e un corpo senz'anima cioè senza spirito vitale è morto. "Io ho un corpo" implica che io sono l'anima e ho un corpo, e possedendolo ne sono separato, e il corpo muore e l'anima non si sa.
Quando Giovanni dice che il verbo si è fatto carne, intende dire che la parola ha dato vita ad un corpo. La nuova traduzione CEI preferisce tradurre 'uomo' perché si dice Giovanni in quella frase voleva indicare tutta la dimensione umana, quindi non solo la carne ma anche le emozioni e le passioni, le impazienze e sofferenze dell'animo. Solo che per l'evangelista era chiaro che non si poteva assumere un corpo senza assumerne anche la dimensione dell'anima e in fondo anche per noi, e infatti la nuova traduzione CEI è sbagliata. Allo stesso tempo Giovanni con carne sottolinea la caducità di cui si è fatto carico Gesù, nel senso che Gesù conobbe la morte. Gesù, spirito, prese corpo e anima.
Questo passo ci fa capire bene che il corpo / carne non è un qualcosa di negativo, fa parte dell'uomo quanto l'anima, un anima senza corpo non può agire in questo mondo, Gesù per così dire non avrebbe potuto dare esempio. Tuttavia l'anima deve stare attenta a non farsi distrarre troppo da ciò che è carnale, ovvero che marcisce, terreno, che passa, destinato a morire, come i piaceri della carne, del sesso, del cibo, ricordando sempre la propria dimensione spirituale.
Lo spirito è pronto ma la carne è debole significa che l'animo ha preso la sua decisione, ma l'attuarla concretamente nel tempo implica delle difficoltà, un continuo rimettersi in gioco, e la possibilità di cadere...
Un conto è la carne, che abbiamo e basta, un conto l'uso che ne facciamo, ma è l'animo che decide quindi 'carnale' non giudica la carne ma l'animo che si rivolge solo alle cose della carne.
La liturgia (a partire dai giorni precedenti il Natale, quelli delle antifone 'O', per non dire dagli ultimi giorni del tempo ordinario) ci propone un percorso che spesso preferiamo abbandonare accontentandoci dei luoghi comuni. Ad esempio, Natale = venuta di Gesù sulla terra. La liturgia invece si preoccupa sempre di attualizzare quello che per i credenti è un evento storico, proiettandolo nel nostro presente e dandoci uno scopo per il futuro. La seconda lettura della notte di Natale precisa infatti:
E' apparsa la grazia di Dio [evento storico], apportatrice di salveza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vicere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo [presente], nell'attesa della beata speranza* e della manifestazione della gloria [futuro] del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. [Tito 2,11-13]
* Questo passo è citato nel formulario posto a chiusura della recita del Padre Nostro all'interno della messa (cui si risponde "Tuo è il regno...").
La seconda lettura si conclude sottolineando la finalità del sacrificio di Gesù, "formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone" [Tito 2,14]. Questo "zelante" in greco è zhlwth*n e fa riferimento all'ardore, al bollore, al desiderio impetuoso ("zelo di religione", "zelatrici") di compiere qualcosa. Anche la prima lettura della notte si conclude parlando dello zelo, ma questa volta è lo zelo non del popolo dei fedeli, bensì del Signore: qui si parla di un regno, e ancora una volta del diritto e della giustizia. La parola ebraica è qin'ah e significa precisamente "gelosia, invidia". Il Signore ama ed è 'geloso' del suo popolo. Questo tema è ben sviluppato nella messa vespertina della vigilia, dove, sempre secondo il profeta Isaia, il Signore sposa Gerusalemme, la sua terra e il suo popolo concludendo "come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te".
Il tema della gioia. E' una gioia concreta, non dell'intimo, come emerge dai paragoni. Se nella prima lettura della vigilia è Dio che gioisce, nella prima lettura della notte è il popolo che deve gioire. "Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda". Poi si aggiunge: "poiché un bambino è nato per noi". E' quindi propriamente la gioia di una nascita, di una gravidanza portata a termine, di una nuova bocca da sfamare che si trasformerà, con un po' di pazienza, in nuova forza lavoro, nuova fonte d'entrata per la famiglia e poi sostegno nella vecchiaia per i genitori (salmo : i figli come colonne... chi aprirà la porta frecce all'arco).
I vantaggi della nascita di questo bambino però non saranno semplicemente per i suoi genitori, ma per noi: "Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio" [Isaia 9,5]. Il vangelo della notte riprende: "oggi vi è nato (aoristo passivo di tikto) nella città di Davide un slavatore, che è il Cristo Signore" [Luca 2,11]. Quel 'vi' poco chiaro forse in italiano, in greco è chiaramente un 'per voi'. E' nato dunque il Cristo, che in greco significo 'l'unto' come in ebraico il termine Messia. Il Messia è una figura regale (non a caso si sottolinea che è nato nella città del re Davide), un leader carismatico, un liberatore, "come al tempo di Madian [vedi Numeri 31], hai spezzato il giogo che l'opprimeva, la sbarra sulle sue spalle e il bastone dell'aguzzino".
"Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele" [Isaia 7,14]. "Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia" [Luca 2,12].
Questo il quesito: Genesi 3,15
Nova vulgata
Inimicitias ponam inter te et mulierem
et semen tuum et semen illius;
ipsum conteret caput tuum,
et tu conteres calcaneum eius
Vulgata
ipsa conteret caput tuum
Come sono i testi greco ed ebraico?
La Nova vulgata retifica un errore di traduzione dei tempi passati?
Certo che quell'errore (se di questo si tratta) ha influenzato negativamente ad es. l'iconografia mariana che la vede schiacciare il serpente. Senza poi considerare le conseguenze teologiche.
Grazie
Andrea
Caro Andrea,
siccome mi dispiaceva tardare tanto a risponderti, ti invio queste note approssimative e sconclusionate riproponendomi di riordinare il tutto nel weekend e rispedirtele (molto interessanti anche i problemi sollevati dal verbo "schiacciare").
...come sempre non ti sfugge nulla! Ovviamente io non ci avevo mai fatto caso.
IN REALTA' TUTTO E' NATO DA UN SITO CHE MI HA SEGNALATO D. GIOVANNI NEL CUI LOGO CAMPEGGIAVA: IPSA CONTERET. NON RIUSCENDO A TRADURRE HO FATTO UNA RICERCA IN INTERNET ED HO TROVATO UNA SEGNALAZIONE DEL PROBELMA OLTRE A CAPIRE CHE SI TRATTAVA DEL CELEBRE PASSO DELLA GENESI. QUINDI IL MERITO E' DI D. GIOVANNI E DI INTERNET!!!
Effettivamente l'ebraico usa un pronome di terza persona maschile, quindi sicuramente il seme (maschile in ebraico che comunque non conosce il neutro e usa il pronome maschile anche per le cose) della donna e non la donna, così pure le altre traduzioni più o meno moderne. La Settanta usa sperma (che è neutro) ma poi il richiamo è con "egli", per cui non ho spiegazioni se non un costrutto a senso, comunque certo non riferito alla donna.
Da un punto di vista teologico, l'"egli" della Settanta sembra prefigurare la vittoria di un uomo specifico, probabilmente il Messia, Gesù per noi cristiani.
Fatta questa associazione mentale, e pensando alle discussioni mariologiche contemporanee alla traduzione della Vulgata, non mi stupisco che sia stata tirata in ballo Maria, visto che tutto il passo gioca sulla donna e sulla sua discendenza che diventano in un certo senso l'una trasposizione dell'altra.
Arrivato a questo punto trovo conforto in una nota dalla bibbia TOB:
La tradizione cristiana, alla luce degli altri libri biblici, ha spesso visto in questo testo il «Protovangelo», l'annunzio cioè della vittoria che riporterà il Messia, nato da una donna. E' quanto suggeriva già la versione greca traducendo il pronome femminile del testo ebraico con quello maschile; vale a dire, riferendo il passo ad un determinato personaggio. La tradizione cattolica ha riconosciuto qui un dato molto importante intorno al ruolo della madre del Messia, da cui la traduzione della Volgata".
Devo rileggere per accorgermene, ma conforto fino ad un certo punto: "pronome femminile dell'ebraico"??? Ovviamente è una svista grossolana, o meglio una semplificazione, una sintesi con qualche passaggio saltato. Per scrupolo controllo il pronome maschile sul dizionario di ebraico e mi ricordo che nel Pentateuco vale regolarmente (oltre che per le cose) anche per il femminile, tanto che il pronome femminile specifico è usato infatti solo 11 volte (sempre nel Pentateuco, altrove l'uso è regolare).
Nessuna nota lo dice, ma direi che la morale è che il traduttore latino si prese la libertà di interpretare al femminile essendo ben conscio di questa particolarità grammaticale del Pentateuco. Nel dubbio è forse la traduzione meno logica, ma non certo errata grammaticalmente. Trovo comunque che san Girolamo era a conoscenza del fatto che la traduzione corretta sarebbe stata ipse.
PERCHE' IPSE? INTENDI DIRE SE DALL'EBRAICO AVESSE VOLUTO TRADURRE IN LATINO IL PRONOME MASCHILE? IO CREDO CHE NON AVENDO, SE HO CAPITO BENE, IN EBRAICO IL NEUTRO ANCHE L'EQUIVALENTE EBRAICO DI 'SEMEN' SARA' STATO MASCHILE, MA IN LATINO VOLENDO RIFERIRSI A SEMEN (NEUTRO) E' CORRETTO IPSUM. [l'obiezione di Andrea è ovviamente giusta, dovevo dire 'ipsum']
La traduzione della CEI, secondo me volutamente (si saranno anche detti di aver avuto una pensata elegante), una certa ambiguità grazie al fatto che 'la stirpe' è femminile come la donna. 'questa' dovrebbe riferirsi a 'stirpe' solo perché più vicina della donna. In un primo momento ho pensato che la traduzione CEI rendesse un pessimo servizio al lettore italiano, però effettivamente ha semplicemente mantenuto acriticamente un'ambiguità presente nel testo originario. Immagino infine che se si fossero voluti riferire alla donna avrebbero usato "ella". Rimango comunque dell'idea che una traduzione ha il dovere (e deve averne l'umiltà) di ricorrere in certi casi (rari) a note ufficiali, perché il lettore non deve essere "ingannato".
Curioso come bastino 5 minuti e i pochi mezzi (=libri) che ho a disposizione qui a casa a Napoli per scoprire un sacco di cose. Certo nessuno nelle omelie ce l'ha mai spiegata 'sta storia!
ciao,
Gian Pietro
Napoli, 28/ott/2003 08:33
Carissimi,
scusate anche questa mia strumentalizzazione della croce di Gesù e leggete se vi va.
Vi giro per conoscenza una lettera aperta di don Paolo Farinella. Stavolta però ci tengo a dirvi esplicitamente che condivido pienamente la prima mezza facciata, don Milani compreso. Per il resto ho qualche dubbio, ad esempio quello della reciprocità (che poi ci sono cristiani e chiese in molti paesi musulmani, e molte sfumature di tolleranza) che non è affar nostro di cristiani laici ma da diplomazia vaticana, o del programma di acculturazione (che io non vorrei mai mi imponessero dovessi andare per qualche tempo in un paese islamico). E purtroppo ha ragione il provocatore Adel Smith (che comunque non rappresenta i musulmani in Italia ma una delle associazioni di musulmani italiani) quando ricorda che è nato qui, non immigrato, ed è cittadino italiano quanto me e voi.
Ho appena sentito su "Porta a Porta", mons. Rino Fisichella dire testualmente, ma sicuramente devo aver capito male, "il problema è che il crocefisso non è un simbolo religioso ma un simbolo CULTURALE". Insomma dobbiamo aggrapparci al passato, alle radici cristiane (vedi la petizione via e-mail del "totus tuus network"), all'eredità CULTURALE del cristianesimo. Gesù, quando tornerà sulla terra non troverà la fede bensì, sorpresona, l'eredità culturale del cristianesimo. Ne sarà felice, si dirà che si era preoccupato per niente.
Il primo dubbio che ho riguarda il bisogno, innato dell'uomo, di identificarsi con qualcosa. Di appendere la bandiera della Ferrari fuori dalla finestra. Di portare la maglietta della Juventus o dei Radiohead. Di identificarsi e di farsi identificare (quando incontro per strada uno con la maglietta dei Radiohead penso subito che quello è uno che di musica se ne intende; e se si intende di musica, sarà sicuramente una persona in gamba, altroché). Don Camillo portando il pesante crocefisso sull'argine diceva a Gesù: "voglio tenerti bene in alto perché tu sei la mia bandiera" (taffio o processione???).
Il secondo dubbio riguarda cosa rappresenta oggettivamente il crocefisso. Dimentichiamoci di duemila anni di cristianesimo. Entriamo a casa di un conoscente e troviamo la figurina di un uomo (nudo per di più) inchiodato a due assi di legno. Roba da vodoo o da Quentin Tarantino. Di pessimo gusto. Ed effettivamente la croce è "scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani". "eh, sapesse, che croce che devo portare": l'avete mai sentito dire? Come appendere il modellino di una sedia elettrica: buono per la polizia, sarà sicuramente un maniaco.
Il terzo dubbio, caro monsignore Fisichella, non è culturale, mi dispiace. E' cosa rappresenta il crocefisso singolarmente per lei e per me, cristiani, non cosa pensiamo possa o debba rappresentare per gli altri.
Che ci piaccia o no, Adel Smith è furbo e italiano. Nell'Europa (s)cristianizzata si presenteranno sempre più gli stessi problemi che ci sono fra israeliani e palestinesi, e in tal caso penso che molti di voi sarebbero molto più cauti nel dar ragione agli israeliani e prendersela con i musulmani (che poi molti palestinesi sono cristiani). La selezione del card. Biffi o il periodo di acculturazione mi sembrano utopie, che verranno travolte dal normale corso della storia. Sapete qual è l'unico vero rimedio: che i cristiani, forti delle loro radici cristiane, si mettano a fare un sacco di figli.
Non sono sicuro, ma più ci penso e come vorrei che la voce ufficiale della chiesa italiana, la Conferenza Episcopale Italiana, facesse come i bambini dispettosi, e per ripicca dicesse "ma fate quel che vi pare" "toglieteli pure questi crocefissi", che a noi non ce ne frega niente delle radici culturali dell'Europa, che a noi basta che Gesù ritorni ad essere appeso, crocefisso, alle pareti dei nostri cuori. Che ci sono rinuncie ben più grandi che la chiesa dovrebbe fare sulla soglia del terzo millennio.
Statemi bene,
Gian Pietro
Scherzavo ovviamente, volevo dirti che ho letto tutto con piacere perchè è bello sapere cosa ne pensate di questi problemi.
Io francamente non mi sono mai accorto della presenza o meno di un crocifisso in un posto, non mi ha mai dato fastidio e non ho mai pensato di metterne uno dove non c'era.
Io credo che sia importante non la sua presenza su un muro, ma la presenza degli insegnamenti di amore che vorrebbe simboleggiare nel cuore delle persone.
Ma questo ovviamente è solo il misero pensiero.
Ciao ciao
PS per Piero: non sono proprio d'accordo sulla parte dei "fanatici assertori del nulla". Ma ne parleremo.
Ri-ciao
JJ Basel Ho letto e leggiucchato e ascoltato un po deivertito quello che si è detto in questi giorni e ti fornisco alcuni pensieri che mi hanno colpito: '... come mussulmano e leader delle comunità islamiche sono contrario alla rimozione del crocefisso nelle aule non solo per ragioni pragmatiche, ossia non conviene a noi mussulmani perchè ci mette in cattiva luce e ostacola il dialogo e l'integrazione, ma anche perchè è funzionale ad un concetto ed ad una visione laicista dello stato che noi non possiamo condividere. E' lo stesso pensiero che ha ispirato il preside di quelle scuole in Francia dove sono state espulse 2 ragazzine perchè rifiutavano di levare il velo. L'ateismo di stato, l'agnosticismo, l'indifferenza religiosa e l'ugualitarismo solo apparentemente genera uguali diritti a tutte le religioni, in realtà è una eguale sottrazione di diritti, un livellamento al basso al minimo che non può vederci d'accordo... La pretesa laicista è sicuramente il male più grosso, molto più grosso di qualsiasi prevaricazione di una religione sulle altre..' H Piccardo (segretario unione comunità islamiche italiane, associazione che pare copra circa l'80% dei mussulmani in Italia. L'associazione del sig Smith contava fino a poche giorni fa poco più di 200 iscritti.) '.. il Sig Smith non è che un maldestro provocatore, senza alcuna visibilità fino a pochi mesi fa, senza soprattutto alcuna rappresentatività di chichesia, un leader senza gruppo, un generale senza esercito. Questo signore non ha fatto altro che sfruttare le possibilità che i media offrono, sempre a caccia di personaggi che facciano scapore, come al processo di Biscardi. .. il vantaggio che insegue è radicalizzare lo scontro culturale, fare leva sul disorientamento culturale dei mussulmani frastornati dall'impatto con la cultura occidentale, svegliarne un maldestro orgoglio e diventarne il punto di riferimento, il portavoce, il leader e giocare un ruolo di peso con le altre associazioni mussulmane anche in vista del futuro tavolo che si aprirà tra stato italiano e islam in Italia..' (L. Tornari, redazione Rtl-news) ndr Il tavolo di intesa tra Isalm e Stato non è ancora stato aperto perchè ancora non si è trovato il modo di avere una rappresentanza effettiva ed il più possibile rappresentativa dei mussulmani in Italia, non essendoci gerarchia nell'islam la cosa si presenta lunga e delicata. '.. ho sempre guardato il crocefisso della mia aula non come un violenza e come una prevaricazione culturale, ma come un occasione per un pensiero, una domanda un dubbio, un occasione per dialogare con preti e compagni..' Massimo Cacciari ndr: le parole riportate tra virgolette in realtà sono un sunto di quello che ricordavo, non una fedelissima trasposizione Per quello che mi riguarda se ti pare leggi: - io credo che si esageri un po da tutte le parti. Per un verso è lo stesso dibattito al centro della Costituzione europea sull'opportunità di inserire l'esplicito sia pur vago richiamo alle comuni radici cristiane dell'Europa. Per un verso non è sicuramente attraverso l'accolgimento nella carta dell'espresso richiamo a Cristo che l'Europa si salverà della secolarizzazione. Personalmente rinuncerei molto volentieri a questa menzione in cambio di un più completo accoglimento in essa della sostanza evangelica: amore per il prossimo, solidarietà, carità, attenzione per l'ultimo, decisa lotta contro la povertà nel continente e nel mondo. Dall'altro però si pretende di negare un'evidenza storica enorme, incontrovertibile. La paura di sembrare un po meno di laici e un po meno che liberali mette davvero il prosciutto sugli occhi. Come si fa a negare che probabilmente l'unica cosa che unisce tutte le città ed i villaggi dell'Europa , fosse anche solo da un punto di vista architettonico o topografico, è una chiesa nella piazza princiaple? Come si fa a negare che in tutte le più belle cime delle nostre splendide montagne, genti diverse, per lingua, razza, tradizioni, che hanno fatto lunghissime guerre fratricide, non hanno avuto dubbi su quale simbolo porre sulla vetta, senza che nessun accordo, nessuna convenzione li costringesse. Forse non ci viene in mente che per tutti, cristiani o no, quello è un simbolo ormai universale, diffusamente accettato, sicuramente il più rappresentativo. Sicuramente mi fanno paura coloro che si attaccano ai simboli come agli slogan per dividere il mondo tra buoni e cattivi, per semplificare la propria esistenza ed in fondo per pensare un po meno, per smettere di cercare. Per questo poi mi conforta il fatto che la croce di per sè prima o poi mette in crisi le certezze, quando si cessa di blandirla come spada e ci si ferma a guardarla, a conoscerla è essa stessa occasione di domande e dubbi. Per contro mi fanno molta paura anche coloro che dai simboli vogliono rifulgere in ogni modo, signori di se stessi e di una religione della assoluta indipendenza, assoluti e fanatici assertori di una sorta di religione del nulla, che saluta con eguale rispetto e deferenza qualsiasi manifestazione di appartenenza religiosa o affiliazione spirituale, ne rivendica dignità e uguale rispetto, ma sotto i baffi se la ride come di fronte ad una svendita della propria originale essenza di super individuo libero, inattaccabile, non incastrabile in nessuno schema o pensiero o appartenenza. Per certi versi credo davvero che questa sia diventata per molti una vera e propia religione portata avanti con foga anche superiore ai talebani. In fondo sono sempre più convinto che la vera domanda dell'uomo non è tanto 'se Dio esiste', ma ' qual'è il tuo dio', chi veneri nella tua esistenza, chi adori, chi o cosa ami. In un certo senso sarebbe grottesco che un domani ci si ponesse di fronte al dubbio che le croci delle chiese delle nostre piazze possano essere oggetto di scandalo o piuttosto quelle sulle vette e ci proponesse di rimuoverle in un caso o di nasconderle o incartarle nell'altro, in nome di una assolutamente encomiabile attenzione alla sensibilità dell'altro. Perchè potrà succedere che prima o poi qualcuno lo chieda, ma credetemi non sarà mai un uomo di autentica fede, un uomo che ama Dio o Allah. Sarà sempre un furbetto in cerca di notorietà che sa bene come fare a farsi pubblicità sfuttando quella solita paura di apparire di parte, di sembrare prevaricatori, illiberali nel nome di quell'assoluta indistainta ugualianza nel nulla che non serve a nessuno, una sorta di cultura omologa, un medesimo standard di pensiero plastificato nel quale le buone intenzioni finiscono per portare in un deserto del cuore. Sul piano della reciprocità di al tuo don che si sbaglia, o che fa un po di confusione, o forse ha una ragione che non trovo. Come si fa a pretendere la reciprocità altrui se non si è pronti a darla per primo, ovvero di peggio, come si può subordinare l'altrui esercizio di diritti fondamentali al fatto che altri abbiano già concesso i medesimi a noi? E' un po come dire ad una donna io ti amo solo e a condizione che tu mi ami con lo stesso amore che io ho per te, che poi lei non sa micca ancora quanto è il mio amore e allora non sa micca se quello che parla la ama per davvero o la prende in giro. Ho paura che come dichiarazione non sia un gran chè. Io credo che la nostra cultura, il nostro mondo possa fare ormai uno sforzo per finalmente superare il concetto di reciprocità e possa trarne le energie necessarie proprio dalla lettera del Vangelo: '.. se amate il volstro amico quale merito avete? Io vi dico amate il vostro nemico..' . Credo di non dire una bestemmia culturale affermando che forse un bel regalo che la cristianità ha fatto al pensiero laico sia prorpio questo. Nel 1948 l'ONU ha approvato la carta dei diritti dell'uomo. Senza soffermarmi su questi, che comunque sono un gran viaggio (ma anche si stà male al vederli così calpestati) ti consiglio di leggere, mi interessava farti sapere che quando si studiano le loro caratteristiche ci si sofferma in particolare sul fatto che essi sono INALIENABILI, che non possono essere toccati da nessuno, nemmeno dall'individuo che li detiene. Il legislatore del singolo stato può decidere se RICONOSCERLI o meno, ma egli non può assolutamente decidere se concederli o meno, non sono a sua disposizione. Sono una specie di codice genetico giuridico dell'uomo in quanto tale, in quanto abitante il pianeta terra. Forse non è questo un altro modo di affermare che ogni 'uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio? Per questo credo che oggi possiamo cominciare davvero a ragionare anche oltre il concetto di reciprocità. Questa infatti non è altro che un curioso modo per nascondere il più consueto modo di operare un vero e prorpio PRE-GIUDIZIO: prima di darti quello che chiedi, quello di cui hai bisogno, prima di dirti quello che sono voglio sapere che sei, cosa fai per me, cosa sei disposto a concedere, fin dove vuoi arrivare. La conoscenza dell'altro precede la mia apertura. Non solo, ma quello che io sono disposto a fare per l'altro è preceduto e misurato a quello che l'altro è disposto a concedrmi. Potrà anche essere prassi umana questa, ma credo che sia proprio insito nel Vangelo la prospettiva del superamento di noi stessi, la capacità di concederci liberamente e gratutitamente, ad immagine dell'amore di Dio che è di per se stesso gratuito e libero. Ma i paralleli tra questo pensiero ed il Vangelo sono talmente tanti ed evidenti che mi fermo qui. Sul piano strettamente politico e giuridico come possiamo asserirci seguaci fedeli dei diritti fondamentali dell'uomo, diritti inalienabili, qualcosa prossimo ad una sorta di laica sacralità, sei poi nella prassi li subordiniamo e condizioniamo all'altrui riconoscimento? Allora sono poi così fondamentali? Come possiamo proporli poi come modello universale ai popoli se noi stessi li limitiamo? E' utopia? Non credo.Di sicuro è una cosa difficile, di più forse anche non naturale, il piano inclinato del mondo ci porta lontano da questo concetto, il mondo c.d. occidentale che ha elaborato questo concetto di cittadinanza universale se ne allontana sempre più. Provate solo ad immaginare che un paese moderno ha addirittura partorito il concetto di 'guerra preventiva' che vuol dire che io mi sento nel diritto di venirti ad ammazzare se ho anche il sospetto o il dubbio che tu un domani mi possa causare dei problemi, procurarmi difficoltà: il max della reciprocità. Le guerre, soprattutto le ultime, non sono altro che la fedele applicazione del principio e la strenua difesa di uno stile di vita che ha nella difesa dall'altro e l'accaparramento dell'altrui risorsa l'unico vero collante e non è che sia gran chè. Superando la reciprocità sicuramente si va incontro a delle sconfitte, aprirsi costa, costa anche confrontarsi, costa anche quello che sicuramente ci toccherà fare: concedere(o meglio riconoscere) restituire e chiedere scusa, cose sicuramente contro natura.. Ci vuole anche tanta pazienza, sapere aspettere, sapere vedere in prospettiva, in fondo credire nella assoluta bontà di quello che ofrriamo, che è davvero il modo migliore di vivere. Ma forse non è questo un altro modo di chiamare la sequela di Cristo? Porpio sul piano dei diritti che si stava muovendo qualcosa con la prorposta al voto agli immigrati, un diritto che caro mio non si tratta di concedere, ma bada ben di RICONOSCERE. Per questo l'ameno, austero, asfittico dibattito sulla croce non serve a nessuno. A te che sei un vecchio (si fa per dire) leone che crede e spera che questa sia ancora una battaglia che vale la pena di fare ti mando in allegato il mio MLKing. Forse te l'ho già mandato ma vale sempre la pena di rileggerlo. Anche come regalo se ha resistito al mio sproloquio (un delirio dirai) e sei arrivato a leggere fino a qui. Attendo tue news e repliche. Saluti Piero [Righi] ps: dopo aver fatto tutta stà fatica ho deciso di mandarlo anche ad altri, soprattutto anche dopo l'affranta mail di Balba che saluto. Un saluto anche a voi, ovviamente.
Mercoledì 29 ottobre 2003
Ciao Basel!
Mi hanno girato la tua mail sul crocifisso! condivido molto di più quello che hai scritto tu di quello che ha scritto quel prete (d.Farinella) ... penso (toh?! lo faccio ancora ogni tanto! Pensavo di essermi giocato ormai tutti i neuroni!!!) che più che la strada della reciprocità (cosa in cui tra l'altro crediamo solo noi, a loro non gliene frega niente!) quella dei cristiani dovrebbe essere la strada della testimonianza, dell'accoglienza, del rispetto, di una vita nuova che prendendo forza dal Vangelo sa irradiare tutta l'esistenza di un individuo e di chi lo circonda!
Anche a me fanno un po' male certe riflessioni di nostri pastori (cfr. Biffi, Fisichella) che si arroccano su certi privilegi (diciamolo: perché abbiamo un governo di centro-destra!) spacciandoli per valori cristiani! Certo, la fede cristiana ha portato alla nascita di una civiltà molto grande, umanamente e culturalmente parlando, ma negli ultimi 4 secoli proprio la gente di questa Europa-Italia-Bologna si è sempre più allontanata dalla sorgente di questa civiltà!
Forse perché ormai la sorgente era così lontana dal cuore della gente che non si sapeva nemmeno più che ci fosse! è come dire che uno dovesse apprezzare la purezza delle acque del Po guardando quel che arriva alla foce!! è un po' dura!
allora il lavoro da fare è quello di un Charles de Foucauld, di una madre Teresa, di un Henry Tessier (attuale vescovo di Algeri ... spettacolare: io l'ho conosciuto ad un convegno missionario ed è stata una testimonianza strepitosa di apertura e di dialogo!). Certo, queste persone ti fanno capire quanto siamo rinchiusi nei nostri ombelichi, sempre pronti ad avanzar pretese (diritti, si chiamano; radici ...) senza mai chiederci realmente se viviamo il Vangelo!
Spero che certi siti (tipo totus tuus e affini derivati dai ciellini) muoiano al più presto! Certo che è molto più comodo arroccarsi, gridare, condannare che dimostrare un cuore di padre, una fede che sa ragionare, sa apprezzare ciò che di bello c'è nel fratello, chiunque esso sia! Proprio stasera, nelle preghiere dei fedeli, c'era l'ennesima censura di d.Giovanni: su cosa? Su una preghiera dove si diceva che la Chiesa (aveva anche la C maiuscola) ascoltando gli uomini della altre religioni sappia arricchirsi da questo incontro e così trovare sempre più la strada dell'autenticità! La chiesa deve imparare qualcosa da questi senza Dio di appartenenti ad altre religioni???? Non sia mai! Nei concili del passato si diceva: anatema sit! Però è quello che pensa d.Giovanni insieme a tanti nostri parrocchiani ben pensanti, insieme ad una fetta grossa della nostra chiesa di Bologna e della chiesa universale!
Ma allora hanno ragione loro e siamo nel torto noi???
Beh, c'è stato un Concilio (il Vaticano II; alcuni secondo me vorrebbero non fosse mai esistito ma ... ahimè lo Spirito Santo ha soffiato anche dopo il Vaticano I, e forse molto di più!!) e un Papa che incessantemente ci ricordano questo dato della nostra fede!
Vedi non ce l'ho con d.Giovanni, ma mi dispiace che un prete così giovane sia così chiuso e arroccato (stasera sta parola me suona bene!) o che cerchi queste forme di non-pensiero che propone CL, il Timone, Bollettino Ceciliano, Totus tuus ... davanti alla complessità è molto facile rinchiudersi in quei 4 schemi mentali che dominavano nella Chiesa del pre-concilio!
Vabbè! Ti ho tirato una pezza inverosimile!
Stammi bene e a presto!
d.ale
Lettera comunitaria mai finita e mai spedita, nell'occasione dell'esaltazione della santa croce.
Napoli, 14/set/2003 17:08
Eppure non è certo questo l'effetto che ci fa la festa dell'esaltazione della croce. Come non ci fa ribrezzo tenere in bella vista sulle pareti delle nostre case la figura di un uomo mezzo nudo (il crocifisso) attaccato ad una croce. "Quando il Figlio dell'uomo ritornerà troverà la fede sulla terra?". Chissà che viaggi mentali si farebbero ritrovandone uno degli archeologi del quinto millennio, se nel frattempo si fosse persa memoria dell'esperienza cristiana!
Eppure quando se un nostro amico ci dice "ho una croce" facciamo tutti un passo indietro, pensiamo subito ad una sofferenza ineludibile, ad una malattia inguaribile.
Evidentemente l'uso linguistico non ha tenuto il passo dello svuotamento di significato legato all'abitudine e alla frequentazione passiva della chiesa.
Diceva padre Paolo Gamberini che Gesù è morto in croce per mostrarci fin dove arrivava il suo amore, che qualcuno poteva arrivare a tanto per amore. Zaccheo, l'adultera e tanti altri che erano stati toccati da Gesù sapevano bene che Gesù moriva per loro, moriva per il suo comportamento anticonformista, moriva anche per l'atteggiamento che aveva avuto nei loro confronti mentre gli altri li ignoravano o condannavano.
E concludeva che anche noi siamo stati toccati da Gesù, nell'eucarestia.
Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo [Gv 3,13, dal vangelo].
Ma a voi suona bene questa frase? Ovviamente no, non ha senso. Colpa di Gesù? Colpa dell'evangelista? Colpa del traduttore.
In greco letteralmente suona così:
e nessuno è mai salito verso il cielo se non colui che ne è disceso, il figlio dell'uomo.
(Napoli, 1/V/2003 23:16) Volevo condividere con voi alcuni "modi" in cui si recita il rosario a Napoli. I primi tempi ho fatto fatica ad adattarmi ma, pensandoci bene, mi sembra che non snaturino minimamente la preghiera e siano anzi pienamente in linea con lo spirito della lettera apostolica del papa. Premesso che dovreste provare per rendervene davvero conto (ci tengo a sottolineare che la recitazione rimane sempre fluida, velocissima e serrata, senza pause fra lettore, sacerdote, fedeli), vedete se la cosa può interessarvi.
Anche qui ci sono i due cori del sacerdote e del popolo, però l'ave maria è divisa in quattro parti anziché in due, di modo che ogni coro prende la parola due volte nella stessa ave maria:
Dopo "...del tuo seno Gesù", legandosi a Gesù come soggetto, viene aggiunta una frasetta desunta dal mistero. Il sacerdote la enuncia all'inizio del mistero, tutti la ripetono, quindi il coro a cui spetta "...del tuo seno Gesù" la aggiunge in ogni ave maria del mistero.
Le frasette sono tutte molto sintetiche e intelligenti, però non me le ricordo. Comunque, tanto per darvi l'idea, se fosse il mistero della luce con la trasfigurazione: "...del tuo seno, Gesù che si è trasfigurato davanti agli apostoli".
Il brano evangelico corrispondente al mistero enunciato viene spezzettato in 10 parti ciascuna delle quali viene proclamata in sequenza da un lettore prima di ogni ave maria di quel mistero. Siccome generalmente ogni parte corrisponde a uno o al massimo due versetti, il ritmo rimane molto agile introducendo però una terza voce (il lettore) che, trasformando il ritmo da alternato a ternario, invita i fedeli a non recitare a macchinetta e a meditare nel contempo su quel pezzetto di mistero rappresentato dal versetto nel recitare la seguente ave maria.
Mi sembra di intuire che don Ettore qui abbia uno schema molto sofisticato per alternare i brani dei sinottici a seconda dei giorni della settimana, per cui lo stesso gruppo di misteri viene letto un giorno prendendo da un solo evangelista, l'altro da un altro.
VI domenica del tempo ordinario, anno B (16/II/2003).
Giusto un'annotazione sul primo versetto del vangelo di domenica scorsa [Marco 1,40-45] che mi sembrava ingiusto tacere.
La versione CEI, unica fra le diverse traduzioni in lingue moderne che ho sottomano in questo momento, così traduce la supplica del lebbroso:
«Se vuoi, puoi guarirmi!».
In greco è senza dubbio "puoi purificarmi", dal verbo katharizo (da cui it. "catarsi"), come conferma anche la Vulgata latina con potes me mundare. E' la stessa liturgia che ci invita a confrontare il grido di questo lebbroso con quello della prima lettura [Levitico 13,1-2.45-46]:
Il lebbroso colpito dalla lebbra [...] andrà gridando: Immondo! Immondo!
Questo grido "muove a compassione" Gesù. Difficile tradurre questo verbo greco, splanchnìzomai, che ritroviamo anche in Luca 1,78 nel sostantivo splànchnon. La versione CEI non ci aiuta molto perché parafrasa il testo greco traducendo:
grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge.
La Vulgata latina si sforza di rimanere più letterale:
per viscera misericordiae Dei nostri in quibus visitavit nos oriens ex alto
lasciandoci però inevitabilmente l'interrogativo: ma cosa sono queste "viscere della misericordia di Dio"? Questa espressione corrisponde parola per parola al testo greco splànchna elèus theù. Splànchnon è l'intestino, inteso come la parte più interna e profonda del nostro corpo, sede delle emozioni. Anche in italiano si è conservata un'espressione derivata da questa concezione e che forse potrebbe essere una buona traduzione per questo passo:
grazie all'amore viscerale di Dio, ...
La seconda parte del versetto non fa esplicitamente riferimento al sole, ma a qualcosa che sorge in generale. Si capisce alla luce di Isaia 60,19:
Il sole non sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più il chiarore della luna. Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore. [confronta anche la lettura breve della compieta domenicale]
"Sorgere dall'alto", un fenomeno astronomicamente impossibile, significa quindi non essere sottoposto ai ritmi del tempo e non avere quindi alcun tramonto. Si tratta di una profezia messianica, vedi ad esempio l'oracolo di Balaam [Numeri 24,17], ripresa anche nell'antifona maggiore del 21 dicembre "O Astro che sorgi" (o oriens in latino; vedi http://digilander.libero.it/elam/bibbia/appunti_liturgici.htm#oantifone).
Gesù, messia e salvatore, non scappa ma tocca il lebbroso diventando così, secondo la legge, impuro a sua volta [vedi anche Lamentazioni 4,15; confronta anche l'incontro di san Francesco d'Assisi con il lebbroso nella Vita Prima di Tommaso da Celano, 348-349 http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20001103_tom-da-celano_it.html]. Fattosi carico dell'impurità del lebbroso, sembra ereditarne anche le sorte:
e immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento. [Levitico 13,46]
ma se ne stava fuori, in luoghi deserti... [Marco 1,45]
Ma la lebbra che Gesù poi portaterà sulla croce attirava anziché respingere la gente:
...e venivano a lui da ogni parte. [Marco 1,45]
II domenica del tempo ordinario, anno B (19/I/2003).
Alcune annotazioni esegetiche sul vangelo (Giovanni 1,35-42).
La prima lettura (1Samuele 3,3-10.19) è strettamente collegata al vangelo: il primo incontro con Dio avviene sempre tramite la mediazione di qualcuno, Eli (non so come sia sul lezionario, comunque l'accento giusto è "Elì" che però nella mia parrocchia napoletana è stato ripetutamente scandito "è lì!", quindi se proprio volete accentare all'ebraica calcate poco sull'"e" iniziale) nella prima lettura, Giovanni il Battista (cioè "l'immersore", solo successivamente il verbo greco per "battezzare" -baptizo, pensate a "batiscafo"- è diventato un termine tecnico cristiano) e Andrea nel vangelo, oggi la Chiesa come corpo mistico formato dai singoli credenti. Si noti anche come Eli e Giovanni una volta combinato l'incontro con il Signore si siano messi da parte. Bella anche l'immagine del Signore che chiama Samuele standogli accanto (v.10). Vi consiglierei anche di leggere i versetti omessi (11-18). L'"eccomi" di Samuele è lo stesso di Genesi 22,1.7.11 (il sacrificio di Isacco) e ci ricorda anche l'"ecco" di Maria (Luca 1,38, idù in greco con cui la LXX traduce hinnèni di Abramo).
San Paolo ci ricorda anche che questo incontro con Dio è poi mediato dal nostro stesso corpo, sia nel senso che abbiamo bisogno dei sensi per ascoltare e conoscere, sia in relazione alla comunione eucaristica.
Concludo riportando la colletta specifica per l'anno B:
O Dio, che riveli i segni della tua presenza nella Chiesa, nella liturgia e nei fratelli, fa' che non lasciamo cadere a vuoto nessuna tua parola, per riconoscere il tuo progetto di salvezza e divenire apostoli e profeti del tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Dal 17 al 24 dicembre, le antifone maggiori dell’Avvento delineano gradualmente un percorso che ci porta dritto al cuore dell’imminente celebrazione del Natale. Solennemente cantate fin dall’VIII sec., sono chiamate “O” dall’esclamazione iniziale che esprime lo stupore commosso della Chiesa di fronte alla contemplazione del mistero della venuta di Cristo, invocato con titoli desunti dal libro del profeta Isaia: Sapienza, Guida della casa d’Israele, Germoglio di Iesse, Chiave di Davide, Astro che sorgi, Re delle genti, Emmanuele. Ogni antifona si chiude con un’invocazione carica di speranza cristiana. Il momento scelto per far ascoltare questo sublime appello alla carità del Figlio di Dio è l’ora dei vespri, perché è durante la notte che arriverà il Messia. Si cantano prima e dopo il Magnificat (Luca 1,46-55), per denotare che il Salvatore che aspettiamo ci verrà da Maria. Il Magnificat diventa quindi una risposta piena di gratitudine per la meravigliosa rivelazione dell’antifona. Entriamo nello Spirito della Chiesa e riceviamole per unirci, con tutta l’effusione del nostro cuore, alla stessa santa Chiesa, allorché fa sentire al suo Sposo questi ultimi e teneri inviti ai quali egli infine si arrende.
Adattato da Augusto Bergamini, L’anno liturgico. Cristo festa della Chiesa. Storia, celebrazione, teologia, spiritualità, pastorale, p. 135-136, Cinisello Balsamo: san Paolo 2002.
Il commento è tratto dagli scritti di Dom Prosper Guérager O.S.B, Abate di Solesmes (1805-1875) [L’anno liturgico, vol. I, pp. 359-75, Alba 1956].
Da <http://www.totustuus.org/Liturgia/antif_Avv.htm>.
La Parola di Dio crea e vivifica il mondo
O sapienza, che esci dalla bocca dell’Altissimo, ti estendi ai confini del mondo, e tutto disponi con soavità e con forza: vieni, insegnaci la via della saggezza. |
O Sapientia, quae ex ore Altissimi prodiisti, attingens a fine usque ad finem fortiter, suaviterque disponens omnia: veni ad docendum nos viam prudentiae. |
Proverbi 1,20 La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la voce.
Salmo 18,2-5 I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola.
Isaia 11,2-3 Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore.
Isaia 28,29 Egli si mostra mirabile nel consiglio, grande nella sapienza.
1Corinzi 1,20-25 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
1Corinzi 1,30 Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione.
O Sapienza increata che presto ti renderai visibile al mondo, come si vede bene in questo momento che tu disponi tutte le cose! Ecco che, con il tuo divino permesso, è stato emanato un editto dell’imperatore Augusto per fare il censimento dell’universo. Ognuno dei cittadini dell’Impero deve farsi registrare nella sua città d’origine. Il principe crede nel suo orgoglio di aver mosso a suo vantaggio tutto il genere umano. Gli uomini si agitano a milioni sul globo, e attraversano in ogni senso l’immenso mondo romano; pensano di obbedire a un uomo, e obbediscono invece a Dio. Tutto quel grande movimento non ha che uno scopo: di condurre cioè a Betlemme un uomo e una donna che hanno la loro umile dimora in Nazareth di Galilea, perché quella donna sconosciuta dagli uomini e amata dal cielo, giunta al termine del nono mese dalla. concezione del suo figliuolo, dia alla luce a Betlemme il figlio di cui il Profeta ha detto: “La sua origine è fin dai giorni dell’eternità; o Betlemme, tu non sei affatto la più piccola fra le mille città di Giuda, poiché da te appunto egli uscirà”. O sapienza divina, quanto sei forte, per giungere così ai tuoi fini in un modo insuperabile per quanto nascosto agli uomini! Quanto sei dolce, per non fare tuttavia alcuna violenza alla loro libertà! Ma quanto sei anche paterna nella tua premura per i nostri bisogni i Tu scegli Betlemme per nascervi, perché Betlemme significa la Casa del Pane. Ci mostri con ciò che tu vuoi essere il nostro Pane, il nostro nutrimento, il nostro alimento di vita. Nutriti d’un Dio, d’ora in poi non morremo più. O Sapienza del Padre, Pane vivo disceso dal cielo vieni presto in noi, affinché ci accostiamo a te, e siamo illuminati dal tuo splendore; e dacci quella prudenza che conduce alla salvezza.
Dio dona la legge al popolo di Israele
O Signore, guida della casa d’Israele, che sei apparso a Mosè nel fuoco del roveto, e sul monte Sinai gli hai dato la legge: vieni a liberarci con braccio potente. |
O Adonai, et dux domus Israël, qui Moyse in igne flammae rubi apparuisti, et ei in Sina legem dedisti: veni ad redimendum nos in brachio extento. |
Michea 5,1 E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti.
Esodo 3,7-8 Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele”.
Isaia 33,21-22 Poiché se là c’è un potente, noi abbiamo il Signore. Poiché il Signore è nostro giudice, il Signore è nostro legislatore, il Signore è nostro re; egli ci salverà.
Isaia 11,4-5 Giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese. La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio. Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà.
Luca 1,51 Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore.
O Supremo Signore, Adonai, vieni a riscattarci, non più nella tua potenza, ma nella tua umiltà. Una volta ti sei manifestato a Mosè, tuo servo, in mezzo ad una divina fiamma; hai dato la Legge al tuo popolo tra fulmini e lampi. Ora non è più tempo di spaventare, ma di salvare. Per questo la tua purissima Madre Maria, conosciuto, al pari dello sposo Giuseppe, l’editto dell’Imperatore che li obbligherà ad intraprendere il viaggio di Betlemme, si occupa dei preparativi della tua prossima nascita. Dispone per te, o divino Sole, gli umili panni che copriranno la tua nudità, e ti ripareranno dal freddo in questo mondo che tu hai fatto, nell’ora in cui apparirai nel profondo della notte e del silenzio. Così ci libererai dalla servitù dei nostro orgoglio, e il tuo braccio si farà sentire più potente quando sembrerà più debole e più immobile agli occhi degli uomini. Tutto è pronto, o Gesù! I tuoi panni ti attendono. Parti dunque presto e vieni a Betlemme, a riscattarci dalle mani del nostro nemico.
Cristo della stirpe di Davide è innalzato sulla croce
O Radice di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli: tacciono davanti a te i re della terra, e le nazioni t’invocano: vieni a liberarci, non tardare. |
O Radix Jesse, qui stas in signum populorum, super quem continebunt reges os suum, quem gentes deprecabuntur: veni ad liberandum nos, jam noli tardare |
1Samuele 16,17-19 Saul rispose ai ministri: “Ebbene cercatemi un uomo che suoni bene e fatelo venire da me”. Rispose uno dei giovani: “Ecco, ho visto il figlio di Iesse il Betlemmita: egli sa suonare ed è forte e coraggioso, abile nelle armi, saggio di parole, di bell’aspetto e il Signore è con lui”. Saul mandò messaggeri a Iesse con quest’invito: “Mandami Davide tuo figlio, quello che sta con il gregge”.
Isaia 11,1.10-12 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici.
In quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli, le genti la cercheranno con ansia, la sua dimora sarà gloriosa. In quel giorno il Signore stenderà di nuovo la mano per riscattare il resto del suo popolo. Egli alzerà un vessillo per le nazioni e raccoglierà gli espulsi di Israele; radunerà i dispersi di Giuda dai quattro angoli della terra.
Romani 15,12 E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a giudicare le nazioni: in lui le nazioni spereranno.
Apocalisse 5,5 Uno dei vegliardi mi disse: “Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”.
Eccoti dunque in cammino, o Figlio di Iesse, verso la città dei tuoi avi. L’Arca del Signore s’è levata ed avanza, con il Signore che è in essa, verso il luogo del suo riposo. “Quanto sono belli i tuoi passi, o Figlia del Re, nello splendore dei tuoi calzari” (Cantico 7,1), quando vieni a portare la salvezza alle città di Giuda! Gli Angeli ti scortano, il tuo fedele Sposo ti circonda di tutta la sua tenerezza, il cielo si compiace in te, e la terra trasalisce sotto il dolce peso del suo Creatore e della sua augusta Regina. Avanza, o Madre di Dio e degli uomini, Propiziatorio onnipotente in cui è racchiusa la divina Manna che preserva l’uomo dalla morte! I nostri cuori ti seguono e ti accompagnano, e al seguito del tuo Regale antenato, giuriamo “di non entrare nella nostra casa, di non salire sul nostro letto, di non chiudere le nostre palpebre e di non concederci riposo fino a quando non abbiamo trovato nei nostri cuori una dimora per il Signore che tu porti, una tenda per il Dio di Giacobbe”. Vieni dunque, così velato sotto i purissimi fianchi dell’Arca santa, o rampollo di Iesse, finché ne uscirai per risplendere agli occhi del popolo, come uno stendardo di vittoria. Allora i re vinti taceranno dinanzi a te, e le genti ti rivolgeranno i loro omaggi. Affrettati, o Messia; vieni a vincere tutti i nostri nemici e liberaci!
Cristo scende agli inferi e libera i prigionieri della morte
O Chiave di Davide, scettro della casa d’Israele, che apri, e nessuno può chiudere, chiudi, e nessuno può aprire: vieni, libera l’uomo prigioniero, che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte. |
O Clavis David, et sceptrum domus Israël, qui aperis, et nemo claudit, claudis, et nemo aperuit: veni, et educ vinctum de domo carceris, sedentem in tenebris, et umbra mortis. |
Isaia 9,5-6 Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
Isaia 22,20-22 In quel giorno chiamerò il mio servo. Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda. Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide; se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire.
Salmo 45,7 Il tuo trono, Dio, dura per sempre; è scettro giusto lo scettro del tuo regno.
Salmo 110,1-2 Oracolo del Signore al mio Signore: “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: “Domina in mezzo ai tuoi nemici.
Matteo 16,18-18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
O figlio di David, erede del suo trono e della sua potenza, tu percorri, nella tua marcia trionfale, una terra sottomessa un tempo al tuo avo, e oggi asservita dai Gentili. Riconosci da ogni parte, sul tuo cammino, tanti luoghi testimoni delle meraviglie della giustizia e della misericordia di Dio tuo Padre verso il suo popolo, nel tempo di quell’antica Alleanza che volge verso la fine. Presto, tolta la virginea nube che ti ricopre, intraprenderai nuovi viaggi su quella stessa terra, vi passerai beneficando e guarendo ogni languore ed ogni infermità, e tuttavia senza avere dove posare il capo. Oggi almeno il seno materno ti offre ancora un asilo dolce e tranquillo, nel quale non ricevi che le testimonianze dell’amore più tenero e più rispettoso. Ma, o Signore, bisogna che tu esca da quel beato ritiro; bisogna che tu, o Luce eterna, risplenda in mezzo alle tenebre, poiché il prigioniero che sei venuto a liberare languisce nella sua prigione. Egli giace nell’ombra della morte, e vi perirà se non vieni prontamente ad aprirne le porte con la tua Chiave onnipotente! Il prigioniero, o Gesù, è il genere umano, schiavo dei suoi errori e dei suoi vizi. Vieni a spezzare il giogo che l’opprime e lo degrada! Il prigioniero è il nostro cuore troppo spesso asservito a tendenze che esso sconfessa. Vieni, o divino Liberatore, a riscattare tutto ciò che ti sei degnato di rendere libero con la tua grazia, e a risollevare in noi la dignità di fratelli tuoi.
Cristo risorge dai morti
O Astro che sorgi, splendore della luce eterna, sole di giustizia: vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte. |
O Oriens, splendor lucis aeternae, et sol justitiae: veni, et illumina sedentes in tenebris, et umbra mortis. |
Malachia 3,19-20 Ecco infatti sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno venendo li incendierà - dice il Signore degli eserciti - in modo da non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi invece, cultori del mio nome, sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici e voi uscirete saltellanti come vitelli di stalla.
Numeri 24,17 Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele.
Isaia 9,1-2 Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia.
Luca 1,76-79 E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.
O divin Sole, o Gesù, tu vieni a strapparci alla notte eterna. sii per sempre benedetto! Ma come provi la nostra fede, prima di risplendere ai nostri occhi in tutta la tua magnificenza! Come ti compiaci di velare i tuoi raggi, fino all’istante segnato dal Padre tuo celeste, nel quale devi effondere tutti i tuoi fuochi! Ecco che attraversi la Giudea, ti avvicini a Gerusalemme, e il viaggio di Maria e Giuseppe volge al termine. Sul cammino, incontri una moltitudine di uomini che vanno in tutte le direzioni, e che si recano ciascuno alla sua città d’origine per soddisfare all’Editto del censimento. Di tutti quegli uomini nessuno pensa che tu gli sia vicino, o divino Oriente! Maria, Madre tua, è ritenuta una donna comune; tutt’al più, se notano la maestà e la modestia incomparabile dell’augusta regina, sentiranno vagamente lo stridente contrasto fra la suprema dignità e l’umile condizione; ma hanno presto dimenticato quel felice incontro. Se guardano con tanta indifferenza la madre, rivolgeranno forse un pensiero al figlio ancora racchiuso nel suo seno? Eppure quel figlio sei tu stesso, o Sole di giustizia! Accresci in noi la Fede, ma accresci anche l’amore. Se quegli uomini ti amassero, o liberatore dell’universo, tu ti faresti sentire ad essi; i loro occhi non ti vedrebbero ancora, ma almeno s’accenderebbe loro il cuore nel petto, ti desidererebbero e solleciterebbero il tuo arrivo con i loro voti e i loro sospiri. O Gesù, che attraversi così quel mondo che tu hai fatto, e che non forzi l’omaggio delle tue creature, noi vogliamo accompagnarti per il resto del tuo viaggio; baciamo sulla terra le orme benedette dei passi di colei che ti porta nel seno, e non vogliamo lasciarti fino a quando non siamo arrivati con te alla dolce Betlemme, a quella Casa del Pane in cui finalmente i nostri occhi ti vedranno, o Splendore eterno, nostro Signore e nostro Dio.
Cristo chiama nella chiesa ebrei e pagani
O Re delle genti, atteso da tutte le nazioni, pietra angolare che riunisci i popoli in uno, vieni, e salva l’uomo che hai formato dalla terra. |
O Rex Gentium, et desideratus earum, lapisque angularis, qui facis utraque unum: veni, et salva hominem, quem de limo formasti. |
Apocalisse 15,3-4 “Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti! Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno davanti a te, perché i tuoi giusti giudizi si sono manifestati”.
Isaia 2,3-5 Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra. Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore.
Isaia 28,16-18 Dice il Signore Dio: “Ecco io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata: chi crede non vacillerà. Io porrò il diritto come misura e la giustizia come una livella. [...] Sarà cancellata la vostra alleanza con la morte; la vostra lega con gli inferi non reggerà.
Salmo 118,21-23 Ti rendo grazie, perché mi hai esaudito, perché sei stato la mia salvezza. La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo; ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi.
Matteo 21,41-43 E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri? Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”.
Atti 4,10-12 La cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati”.
Efesini 2,19-22 Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito.
1Pietro 2,4-8 Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso. Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati.
O Re delle genti! Tu ti avvicini sempre più a quella Betlemme in cui devi nascere. Il viaggio volge al termine, e la tua augusta Madre, che il dolce peso consola e fortifica, conversa senza posa con te lungo il cammino. Adora la tua divina maestà e ringrazia la tua misericordia; si rallegra d’essere stata scelta per la sublime missione di servire da Madre a un Dio. Brama e teme insieme il momento in cui finalmente i suoi occhi ti contempleranno. Come potrà renderti i servigi degni della tua somma grandezza, quando si ritiene l’ultima delle creature? Come ardirà sollevarti fra le braccia, stringerti al cuore, allattarti al suo seno mortale? Eppure, quando pensa che si avvicina l’ora in cui, senza cessare d’essere suo figlio, uscirai da lei ed esigerai tutte le cure della sua tenerezza, il suo cuore vien meno e mentre l’amore materno si confonde con l’amore che porta verso Dio, è sul punto di spirare in quella lotta troppo impari della fragile natura umana contro i più forti e i più potenti di tutti gli affetti riuniti in uno stesso cuore. Ma tu la sostieni, o Desiderato delle genti, perché vuoi che giunga al felice termine che deve dare alla terra il suo Salvatore, e agli uomini la Pietra angolare che li riunirà in una sola famiglia. Sii benedetto nelle meraviglie della tua potenza e della tua bontà, o divino Re, e vieni presto a salvarci, ricordandoti che l’uomo ti è caro poiché l’hai formato con le tue stesse mani. Oh, vieni, poiché l’opera tua è degenerata, è caduta nella perdizione, e la morte l’ha invasa: riprendila nelle tue potenti mani, rifalla, salvala, perché l’ami sempre, e non arrossisci della tua creazione.
Attesa della seconda venuta del Cristo
O Emmanuele, nostro re e legislatori, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio. |
O Emmanuel, Rex et legifer noster, expectatio gentium, et Salvator earum: veni ad salvandum nos, Domine, Deus noster. |
Isaia 7,14-15 Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene.
Matteo 1,20-23 Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi.
O Emmanuele, Re della Pace, tu entri oggi in Gerusalemme, la città da te scelta, perché è là che hai il tuo Tempio. Presto vi avrai la tua Croce e il tuo Sepolcro, e verrà il giorno in cui costituirai presso di essa il tuo terribile tribunale. Ora tu penetri senza rumore e senza splendore in questa città di David e di Salomone. Essa non è che il luogo del tuo passaggio, mentre ti rechi a Betlemme. Tuttavia Maria Madre tua e Giuseppe, suo sposo, non l’attraversano senza salire al Tempio per offrire al Signore i loro voti e i loro omaggi; e si compie allora, per la prima volta, l’oracolo del Profeta Aggeo il quale aveva annunciato che la gloria del secondo Tempio sarebbe stata maggiore di quella del primo. Quel Tempio, infatti, si trova in questo momento in possesso d’un’Arca d’Alleanza molto più preziosa di quella di Mosè, e soprattutto non paragonabile a nessun altro santuario e anche al cielo, per la dignità di Colui che essa racchiude. Vi è il Legislatore stesso, e non più soltanto la tavola di pietra su cui è scritta la Legge. Ma presto l’Arca vivente del Signore discende i gradini del Tempio, e si dispone a partire per Betlemme, dove la chiamano altri oracoli. Noi adoriamo, o Emmanuele, tutti i tuoi passi attraverso questo mondo, e ammiriamo con quanta fedeltà osservi quanto è stato scritto di te, affinché nulla manchi ai caratteri di cui devi essere dotato, o Messia, per essere riconosciuto dal tuo popolo. Ma ricordati che Sta per suonare l’ora, tutto è pronto per la tua Natività, e vieni a salvarci. Vieni, per essere chiamato non più soltanto Emmanuele, ma Gesù, cioè Salvatore.
Le iniziali latine dei sette titoli del Salvatore, lette alla rovescia danno "ERO CRAS" cioè "Domani (ci) sarò".
Se vuoi ascoltare la melodia gregoriana (c’è anche lo spartito):
<http://www.domcentral.org/life/ixlife.htm#advent>
Quando sorgerà il sole, vedrete il Re dei re: come lo sposo dalla stanza nuziale egli viene dal Padre. |
Consideriamo la purissima Maria, sempre accompagnata dal suo fedele sposo Giuseppe, che esce da Gerusalemme e si dirige verso Betlemme. Essi vi giungono dopo alcune ore di cammino e, per obbedire al volere celeste, si recano alla sede del censimento secondo l’editto dell’Imperatore. Sul pubblico registro si nota così il nome dell’artigiano Giuseppe, falegname a Nazareth di Galilea; senza dubbio vi si aggiunge anche il nome della sposa Maria che l’ha accompagnato nel viaggio; forse è stata qualificata anche come donna incinta al nono mese: questo è tutto. O Verbo incarnato, agli occhi degli uomini, tu non sei dunque ancora un uomo? Visiti questa terra e vi sei sconosciuto; tuttavia tutto quel movimento, tutta l’agitazione che porta con sé il censimento dell’impero, non hanno altro scopo che di condurre Maria, Madre tua, a Betlemme per darti alla luce.
O Mistero ineffabile! Quanta grandezza in questa apparente bassezza! Tuttavia il sommo Signore non ha ancora toccato il fondo del suo abbassamento. Ha percorso le dimore degli uomini, e gli uomini non l’hanno ricevuto. Cercherà ora una culla nella stalla degli animali senza ragione: è qui che nell’attesa dei canti angelici, degli omaggi dei pastori e delle adorazioni dei Magi, troverà “il bue che conosce il suo Padrone, e l’asino che vien legato alla mangiatoia del suo Signore”. O Salvatore degli uomini, o Emmanuele, o Gesù, anche noi ci recheremo alla stalla; non lasceremo compiersi solitaria e derelitta la nuova Nascita. A quest’ora, tu vai bussando alle porte di Betlemme, senza che gli uomini vengano ad aprirti, e dici alle anime, con la voce del divino Cantico: “Aprimi o sorella mia, amica mia, poiché il mio capo è pieno di rugiada e i miei capelli imbevuti delle gocce della notte”. Noi non vogliamo che tu abbia a passare oltre la nostra dimora: ti supplichiamo di entrare, e ci teniamo vigilanti alla nostra porta. “Vieni dunque, o Signore Gesù, vieni”.
Da http://www.rockies.net/~spirit/sermons/s-oantiphons.html.
Da http://www.rockies.net/~spirit/sermons/s-oantiphons.html.
La seconda lettura appartiene alla liturgia della II domenica di Avvento, il resto alla festa dell'Immacolata Concezione. Giustamente si è dato dispensa dal dare precedenza alla domenica di avvento, anche perché Maria è una delle figure chiave dell'avvento, un fulgido esempio di come si deve andare incontro al Signore, contrapposto qui ad Eva. La seconda lettura si ricollega al tema dell'attesa delle ultime domeniche del tempo ordinario.
"Ti saluto" è in greco _kaire_, un imperativo, letteralmente "rallegrati", usualmente utilizzato come saluto. Corrispone al latino _ave_ e potremmo dire all'italiano _salve_ nel senso di _salute!_. Tuttavia è un peccato che in italiano si sia perso completamente il senso di "rallegrati". In ebraico direi che fu quasi sicuramente _shalom_, "pace!". Anche perché mi sembra evidente che la prima frase dell'angelo sia una versione sintetica del seguente discorso.
Rallegrati, | Non temere, Maria, |
piena di grazia, | perché hai trovato grazia presso Dio. |
il Signore è con te. | Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo... |
(12/XII/2002) Ascoltando il vangelo delle messe feriali, l'impressione però non è tanto che siamo noi a dover andar incontro al Signore, quanto lui stesso che appunto viene e ci cerca. Ad es. il vangelo della pecora smarrita etc. (confronta l'interpretazione gnostica di questa pericope).
Prima domenica di avvento Il vangelo sintetizza energicamente gli stessi temi che ci hanno accompagnato in queste ultime domeniche del tempo ordinario. Il vegliare delle vergini, l'uomo (letteralmente; CEI: "uno") partito per un viaggio della parabola dei talenti, il momento preciso della seconda lettura di due domeniche fa [1Tessalonicesi 5, 1-6], la dimensione universale della redenzione e del regno etc.
Gesù viene ma noi dobbiamo andarci incontro. La parabola dei talenti ci ricorda infatti che l'attesa non è certo inoperosa, anzi. La prima lettura insiste proprio sulle vie da percorrere per incontrarlo. Il salmista invece grida: "vieni, volgiti verso di noi".
L'immagine dell'argilla è molto evocativa. Si potrebbe dire che le civiltà del Vicino Oriente antico siano civiltà "d'argilla": di mattoni fatti di argilla erano le case e i templi, di argilla le tavolette scritte con i segni cuneiformi, di argilla i vasi, recipienti e contenitori vari e le statue degli dei [Sapienza 15,7ss]. Vedi anche Siracide 33,13 e Geremia 18,1ss.
Nel vangelo, "vigilare" e "vegliare" sono due verbi diversi, il significato è sempre "vegliare, non-dormire".
Mi limito ad alcune osservazioni sul vangelo [Matteo 25,31-46].
La pericope segue immediatamente quella dei talenti di domenica scorsa, come logica conclusione di tutte la serie di parabole collegate alla venuta del signore alla fine dei tempi. Il brano successivo è quello dell'unzione di Betania, con cui si entrerebbe di fatto nell'ambito della settimana santa.
Il testo greco è bellissimo anche da un punto di vista letterario, come pure traspare bene anche dalla traduzione italiana.
Già la prima lettura [Ezechiele 34,11-12.15-17] aveva posto il Signore come pastore; il salmo [Salmo 22] ci dava voce essendo secondo la nostra prospettiva di gregge; la seconda lettura [1Corinzi 15,20-26.28] ha poi introdotto il tema della fine dei tempi e del regno* [v. 24-25]. Il vangelo riassume le due prospettive: il Figlio dell'uomo si siede sul "trono della sua gloria" [v. 31], raduna tutte le genti, separa come il pastore le pecore dai capri, poi si noti che chi parla è qualificato come "re" [v. 34 e 40] mentre i "benedetti dal Padre" sono designati eredi del "regno" [v. 34].
* Sviluppato poi nelle parti fisse della liturgia: "credo... e il suo regno non avrà fine", "padre nostro... venga il tuo regno", "tuo il regno... nei secoli" etc.
Il tema del re come pastore del suo popolo è molto antico e diffuso nel Vicino Oriente antico:
"[...] il re paleo-babilonese (XVIII sec. a.C.) si presenta piuttosto come il «buon pastore» del suo popolo, recependo così non solo e non tanto una certa _imagery_ pastorale cara alle nuove genti amorree, ma anche e soprattutto un atteggiamento di cura e sollecitudine per i bisogni dei settori più sprovvisti della popolazione, vista come un «gregge» che senza la guida e la cura del pastore non sarebbe in grado di sopravvivere". [Mario Liverani, _Antico Oriente. Storia società economia_, p. 337]
Dal codice di leggi di Lipit-Ishtar re di Isin (1934-1924 a.C.): "In quel giorno Lipit-Ishtar, il pastore obbediente, è stato chiamato da Nunamnir, per stabilire nel paese la giustizia, per estirpare per mezzo della 'parola' la corruzione, per spezzare per mezzo della 'forza' la cattiveria e la malevolenza, per (stabilire) il benessere in Sumer e Akkad, (allora) Anu e Enlil hanno chiamato Lipit-Ishtar alla sovranità del paese". [idem, p. 338]
Gesù si spinge però ben al di là di questo re pastore e giudice [v. 32-33 del vangelo], quando afferma "Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore" [Giovanni 10,11]. Non a caso il prefazio (di cui purtroppo non ho sottomano il testo) associava la regalità con il sacerdozio (=pastore nell'accezione ecclesiale moderna), introducendo quindi a sua volta il tema del sacrificio e dell'eucarestia, già accennato comunque nella seconda lettura ("Cristo ... primizia di coloro che sono morti") e soprattutto nel salmo ("davanti a me tu prepari una mensa ... il mio calice trabocca"*).
* Il significato del "calice" (_kus_ "coppa per il vino") nell'antico testamento è particolarmente ricco e non del tutto trasparente a noi moderni (ad es. Isaia 51,17 "il calice dell'ira" o Salmi 16,5 "Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita"). E' sempre associato all'idea di "sorte" o "parte che tocca in sorte", come traspare anche dalle parole di Gesù nell'orto degli ulivi: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!" [Matteo 26,39].
"Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me". [v. 40]
Infatti questa frase si può intendere anche che Gesù, in virtù del suo sacrificio sulla croce rinnovato ogni giorno in quello eucaristico, è presente in ogni persona che soffre, forestiero, nudo, malato, carcerato.
"Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?" [v. 44]
"Assistito" poteva forse essere tradotto "servito". In greco è _diakonèo_ (da cui il nostro "diacono"), che compare anche ad es. in Matteo 20,28: "...come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti*". Viene in mente anche la lavanda dei piedi: "Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi" [Giovanni 13,14-15].
* San Paolo a più riprese nella seconda lettura (ad es. "tutti riceveranno la vita in Cristo" [v. 22]) e il vangelo stesso ("saranno riunite davanti a lui tutte le genti" [v. 32]) insistono invece sul valore universale della venuta di Cristo.
20/XI/2002
Ho recuperato un vecchio appunto sulle frange (in greco _kràspedon_ [Matteo 23,5], _tzitzit_, plur. _tzitziyyot_, in ebraico [Numeri 15,37-41 e Deuteronomio 22,12]) di qualche domenica fa, cucite ai quattro angoli del _thallit_ (_tallèth_ oggi), il mantello (un tempo abito comune) che indossano gli ebrei durante la preghiera. Frange si trovano anche negli abiti liturgici cristiani*, alle estremità della stola e del cingolo (il cordone che cinge la _vita_ di ministranti e sacerdoti), eventualmente nel velo omerale o piviale.
I fili sporgenti indicano i singoli individui come personalità distinte che trovano unione e armonia nella comunità (il cordone) che li tesse insieme, essendo mantenuti in questa condizione dal nodo (la legge, il vincolo dell'amore...) che peraltro è formato da essi stessi. [5/III/1997]
Non ricordo da dove avevo tratto questa interpretazione che può sembrare un po' fantasiosa alla luce di quanto dicono "The Jewish Encyclopedia" e "Encyclopaedia Judaica", secondo cui la funzione originaria (?) delle frange è chiara, essendo spiegata dalla stessa sacra scrittura [Numeri 15,37-41]: mantenere vivo presso di sè il ricordo della legge (precisamente dei 613 comandamenti), al pari dei filatteri. Poi ci sono le varie interpretazioni allegoriche date dai rabbini nel Talmùd. Su questo argomento rimando ad un interessantissimo contributo di Riccardo Di Segni, che evidenzia lo stretto legame fra il significato simbolico delle frange e la liturgia:
www.morasha.it/alefdac/alefdac_09.html.
La necessità di "ricordarsi" (il nodo che tiene i fili come "nodo al fazzoletto") della legge diventa segno di appartenenza (e distinzione) alla comunità che si riconosce soggetta a quella legge.
* Sugli abiti liturgici:
www.diakonia.it/diaconisicilia/la_dalmatica.htm
di Sebastiano Mangano. Come ulteriore suggestione, allego il disegno di un _tallit_ dei _karaiti_, ma si confronti quanto detto riguardo alla stola da Mangano.
"Una donna perfetta chi potrà trovarla?" [Proverbi 31,10, prima lettura].
"Fallace è la grazia e vana è la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare" [v. 30]: dopo gli aspetti più "economici", questa è ovviamente la perfezione da raggiungere, che si prolunga al maschile per pari opportunità nel salmo: "Beato l'uomo che teme il Signore" [dal salmo 127]. Prosegue il salmo: "La tua sposa come vite feconda nell'intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d'ulivo intorno alla tua mensa". Questa donna sembra essere quindi la Chiesa, che raduna i propri figli attorno alla mensa eucaristica. Ma questa sarebbe una lettura riduttiva. La liturgia ci propone infatti anche altri temi, riassunti dalla colletta specifica per l'anno A:
O Padre, che affidi alle mani dell'uomo tutti i beni della creazione e della grazia, fà che la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza; rendici sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo ritorno, nella speranza di sentirci chiamare servi buoni e fedeli, e così entrare nella gioia del tuo regno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Troviamo quindi i talenti, interpretati come capacità e abilità (nella prima lettura erano elencate quelle proprie della donna) da mettere a frutto, ma anche la gioia e la serenità dei figli della luce [1Tessalonicesi 5,5, seconda lettura] così ben raffigurate nel salmo.
Il valore della donna perfetta è superiore a quello di... molti talenti [cfr. Proverbi 31,10]! Quanto valeva un talento? Rimando al seguente indirizzo
http://digilander.libero.it/elam/bibbia/monete.pdf
Il raffronto più interessante ci viene da Flavio Giuseppe, _Antichità giudaiche_, XI 4, secondo cui Giudea, Idumea e Samaria pagavano 600 talenti all'anno all'impero romano, mentre Galilea e Perea 200. Anche senza cercare qualche studio demografico (per sapere quante erano le persone tassabili) ed economico (per farsi un'idea del peso delle tasse) risulta evidente che anche il servo che ricevette un solo talento aveva ricevuto una somma più che consistente, ovvero il padrone aveva comunque tantissima fiducia in lui. Proprio da questa prospettiva vorrei guardare la parabola: l'enorme (e immeritata) fiducia che il Signore ripone in noi.
Una ricerca etimologica sul significato di "talento" in italiano (come pure in altre lingue romanze) è davvero interessante [dal _Dizionario etimologico della lingua italiana_ (DELI)]: in greco indicava in origine il piatto della bilancia, per cui secondo alcuni il significato di "talento" come "dote, abilità" (si pensi anche a locuzioni del mondo dello spettacolo come "talent scout") deriverebbe dal campo semantico di "inclinazione". Tutti gli studiosi sono comunque concordi nell'ammettere che l'uso moderno di "talento" deriva proprio dall'enorme risonanza di questa parabola, oltre che -aggiungo io- da una sua visione riduttiva e un po' semplicistica.
Dagli appunti per l'incontro ministranti del 14/XI/1996.
- Che ve ne pare? Allora secondo voi... cosa voleva dire Gesù nella parabola?
Risposta ovvia che mette d'accordo tutti: ognuno ha certi doni e determinate capacità: chi è bravo a disegnare, chi a suonare etc. e devono essere messe a frutto.
- Va bene, giusto. Però Gesù ci vuol dire anche qualcos'altro. Scorriamo insieme il testo.
- Un uomo parte per un viaggio. Siamo d'accordo che quest'uomo è Gesù. Allora per quale viaggio è partito Gesù? Dov'è andato? Quando è partito?
Diciamo che Gesù è tornato presso il Padre suo ed è partito con l'ascensione.
- Consegnò i suoi beni.
Gesù ci lascia i suoi beni. Quali sono questi beni? Ditelo voi...
Gesù ci ha lasciati soli? No. Chi ha lasciato con noi? Lo... Spirito Santo. Ecco _il_ dono, il grande bene di Gesù. Lo Spirito!
E con lo Spirito ci ha lasciato la Chiesa. Questi sono i talenti che ci ha affidato. Ognuno di noi è chiamato a far qualcosa nella chiesa, a pateciparvi: chi a servire, chi a cantare, chi a pulire. Nella preghiera e nella Fede. Chi servirà la chiesa come sacerdote, chi la servirà amando la propria moglie... chi medicando gli ammalati... Ognuno secondo le proprie capacità.
- Ora se riusciamo a far fruttificare lo Spirito, a farlo lavorare in noi e negli altri, ne riceveremo ancora, riceveremo il doppio e la vita eterna perché a chi ha sarà dato nell'abbondanza.
Ma attenzione: padrone, cosa dicevi ai primi due servi? "Servo (siamo tutti servitori, Gesù per primo che ci ha dato l'esempio) buono (ebr. _tov_, in senso funzionale come nella creazione di Genesi 1, buono in quanto utile, che serve, che adempie lo scopo per cui è tale) e fedele (_pistis_, che ha avuto fede) prendi parte alla mia gioia". Ambedue (anche chi ha avuto due talenti) ricevono il premio del paradiso senza distinzioni.
Allora il raddoppio dei talenti vale quaggiù nella vita normale: ti darò il centuplo quaggiù e (alla fine) la vita eterna! La vita nello Spirito è già ricompensa grande per se stessa (lavorare nella vigna è già il compenso, quasi l'onore, il privilegio di essere stati chiamati). Non è una fregatura. Chi vive nello Spirito (ad es. i santi) ci può testimoniare di avere avuto una vita magari dura e difficile ma gioiosa e felice. [cfr. gli operai della vigna pagati tutti un denaro].
Abbiamo una vita per far fruttare lo Spirito: ma non sappiamo se sarà lunga o breve: diamoci da fare concretamente. La donna perfetta della prima lettura lavora con le dita, lavora davvero. Non sta tanto lì a rimuginare ma agisce nel bene.
- E che dice il padrone all'ultimo servo?
Lo chiama "servo inutile" (_a-chreios_, che solo in senso traslato vale per "fannullone"; è lo stesso termine di Luca 17,10! "Siamo servi inutili..." brano severo!) cioè servo che non ha servito, privo di un'identità e di un senso, servo privo di funzionalità, quasi un aborto.
Passi pure che siamo fannulloni, ma cerchiamo di non essere inutili al Signore e ai nostri fratelli.
(27/XI) Nella New Revised Standard Version è "worthless": senza valore, che è già meglio.
Prima lettura [Proverbi 31,10-13.19-20.30-31]. "perfetta" letteralmente è "forte", precisamente in senso fisico [ad es. Salmi 18,40 e 59,12 ("potenza")], qui evidentemente anche con valore morale. La LXX usa _andrèian_ (confronta il nome proprio Andrea) ovvero letteralmente "virile, maschia", quindi "forte, vigorosa"!
Vangelo "In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi" [Matteo 25,14 nella forma presentata dalla liturgia]. CEI: "11Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. 13Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora. 14Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi...". Letteralmente: "Infatti (è/sarà) come un uomo in procinto di andarsene (_apo-demèo_) chiama i propri servi...". _apo-demèo_: stesso verbo di Matteo 21,33; due forme verbali simili si trovano in 2Corinzi 5,6 (CEI: "finché abitiamo (_en-demèo_) nel corpo siamo-in-esilio-lontano (_ek-demèo_) dal Signore").
Dal verso 19 del vangelo l'"uomo" è precisamente definito come "signore" _kyrios_.
9/XI/2002
Come al solito proviamo a capire la liturgia attraverso la liturgia stessa che, essendo cristocentrica, ci porta inevitabilmente a Gesù.
Per il titolo, vedi <http://digilander.libero.it/elam/bibbia/ravasi1997.htm> [1Corinzi 7,29].
Ci stiamo avviando verso la fine dell'anno liturgico e quindi anche della lettura (semi)continua del vangelo di Matteo. Vale la pena dare un'occhiata ai brani saltati dalla liturgia. Dopo i ripetuti attacchi di erodiani, sadducei e farisei, Gesù si lascia andare ad una dura invettiva [Matteo 23,13ss: "guai a voi..."]. Uscito da Gerusalemme, si volge verso il tempio e profetizza che "non ne resterà qui pietra su pietra" [Matteo 24,2]. Si riferiva alla distruzione ad opera delle armate romane del futuro imperatore Tito nel 70 d.C. ma, come si evince dal prosieguo del discorso, rimarcava soprattutto la provvisorietà delle cose, anche le più sante, solide e maestose. Anche di quella scuola a san Giuliano di Puglia non è rimasta purtroppo pietra su pietra: quella scossa di terremoto, che ha suscitato i soliti dibattiti in televisione (tipo: "come può Dio permettere queste cose?"; confronta il salmo dell'ufficio delle letture di stamane, salmo 107(106)), ci ha ricordato la nostra provvisorietà, la nostra mortalità, che non bastano tutte le nostre precauzioni e il rispetto delle norme (la nostra incolumità dipende anche dal comportamento degli altri) per non morire prima o poi.
Gesù nel vangelo ci invita a vegliare, nel senso di "vigilare, stare in guardia" [confronta 1Pietro 5,8 (lettura della compieta di martedì); il verbo greco è lo stesso], per essere sempre "pronti" [Matteo 24,44, +]. Non sappiamo il giorno e l'ora, quindi è meglio fare subito riserva d'olio mettendo a frutto questo tempo in cui viviamo. Sia il capitolo 24 che il 25 di Matteo insistono martellanti sull'urgenza di questo essere pronti [confronta 1Corinzi 7,29]. Dobbiamo accumulare olio per alimentare quella fiamma che i nostri genitori accesero facendoci battezzare, quella candela che simbolicamente riprendiamo in mano ogni anno nella veglia pasquale.
La prima lettura aveva premesso subito un buon modo per impegnare il nostro tempo, con la garanzia fra l'altro che non sarà sprecato. Se lo sposo arriva a tarda notte, la sapienza va cercata fin dal mattino: "chi si leva per essa di buon mattino... la troverà seduta alla sua porta".
Se qualcuno avesse dei dubbi sulla natura di questa "sapienza", ascolti con attenzione il salmo: "O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco". Si noti come si sviluppino parallelamente anche il tema della veglia ("chi veglia per lei sarà presto senza affanni" e "penso a te nelle veglie notturne... a te che sei stato il mio aiuto", "vegliate dunque perché non sapete nè il giorno nè l'ora") e quello del banchetto festoso ("di te ha sete l'anima mia... mi sazierò come a lauto convito", le nozze, il banchetto eucaristico) per sottolineare la totalità di questa ricerca, in ogni momento e aspetto della giornata, in ogni stagione della nostra vita.
Questa ricerca avrà compimento solo con la morte, quando andremo "incontro al Signore nell'aria". San Paolo dice queste cose, si badi bene, per confortarci.
Qualcuno infatti potrebbe pensare con terrore a questo momento, soprattutto considerando la durezza del signore nei confronti delle vergini stolte. Sì, certo, ma non dimentichiamo che questa venuta è una festa di nozze e chi arriva è lo sposo: si tratta quindi di una circostanza estremamente gioiosa. D'altronde le vergini stolte erano tali perché non avevano cercato la sapienza: se l'avessero cercata l'avrebbero trovata e "riflettere su di essa è perfezione della saggezza" aveva detto la prima lettura.
Si è soliti dire che sul finire dell'anno liturgico la liturgia si sofferma sulla venuta futura del Signore, sulle cose ultime, sull'escatologia. Sì, ma non è che con l'anno liturgico finisca il discorso. Direi invece che prosegue perché proprio l'avvento è il periodo dell'attesa, anche se là la venuta finale si confonde con (cioè viene prefigurata da) la prima venuta, l'incarnazione.
Le parti fisse della liturgia assecondano quelle variabili in un crescendo che va di pari passo fra il tempo condensato della messa e quello espanso e ciclico dell'anno liturgico, fino a racchiudere quello personale della nostra vita e quello universale del creato. Ogni messa riassume infatti tutto l'anno liturgico come pure la vita di Gesù e anche la nostra, suoi imitatori: "credo in Gesù Cristo... e di nuovo verrà nella gloria... e il suo regno non avrà fine", "annunziamo la tua morte... nell'attesa della tua venuta", "padre nostro... venga il tuo regno", "tuo è il regno, la gloria...", poi Gesù viene in noi attraverso la comunione.
Si noti come la parabola esemplifichi perfettamente la dimensione sia comunitaria che personale della salvezza: le vergini attendono insieme (è la chiesa) ma l'olio ognuno deve procurarselo personalmente (nessuno ne può accumulare tanto da farlo bastare per sè e un altro!).
Una lettura pignola rivela che non è importante avere la lampada accesa (le vergini si erano addormentate, significando forse il sonno della morte) ma essere pronti ad accenderla al momento opportuno. "sagge": vedi ad esempio Matteo 10,16 ("prudenti come i serpenti"). "lampade" (_lampàs, lampàdos_): dovrebbe trattarsi di torce [come in Giovanni 18,3] di legno avvolte in cima da uno straccio bagnato di olio. Non escluderei però che si trattasse di lucerne vere e proprie (in greco sarebbe propriamente _lychnos_) come in Atti 20,8. "andategli incontro", letteralmente "venite fuori per l'incontro (con lui)": il termine usato per "incontro" ricorre nel nuovo testamento solo qui e in 1Tessalonicesi 4,17 [seconda lettura], più Atti 28,15. "si destarono": è lo stesso verbo che viene usato in senso traslato per indicare la resurrezione di Gesù dai morti. "prepararono", letteralmente "misero in ordine" (_kosmèo_): è chiaro che era necessaria una certa manutenzione perché la lampada bruciasse efficientemente (del resto poi non avevano certo l'accendino!); significa anche "decorare, adornarsi" (i cosmetici di oggi), detto anche della sposa [Apocalisse 21,2]. "si spengono": la forma verbale greca sottolinea la continuità dell'azione, come se le vergini stolte provassero più volte di accenderle ma invano; sembrerebbe quasi che solo allora (al grido notturno o, se preferite, "alla voce dell'arcangelo" [seconda lettura]) si rendano conto di non aver messo da parte olio; confronta Matteo 12,20 e 1Tessalonicesi 5,19. "la porta fu chiusa": la forma verbale greca sottolinea che la porta fu chiusa una volta per tutte, per rimanere chiusa. Ormai non vale più quanto detto della preghiera in Matteo 7,7: "chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto".
Il simbolismo della luce è inesauribile. Sulle lucerne bizantine trovate in Terra Santa si trova spesso la frase in greco "il Signore è la luce che illumina tutti" [vedi immagine allegata]. L'olio è altrove il tramite della consacrazione a Dio [2Samuele 12,7 (Davide); Salmo 45,8], simbolo tangibile dell'azione dello Spirito Santo (si pensi agli olî sacri). Infatti "messia" in ebraico e "Cristo" in greco significano "l'unto".
Per quel poco che ho potuto vedere, non è chiaro come fosse strutturato il rito del matrimonio al tempo di Gesù. Sempre Gesù ci parla dell'"amico dello sposo" [Giovanni 3,29], dell'abito nuziale [Matteo 22,11-12], mentre qui abbiamo queste "vergini" compagne [confronta ancora Salmo 45,15]. Ad ogni modo il significato in relazione alla parabola è universale: anche oggi attendiamo impazientemente l'arrivo degli sposi sul sagrato della chiesa, gli amici più intimi dello sposo e della sposa hanno sempre un coinvolgimento emotivo e magari rituale (i testimoni) particolare, quindi spesso la festa si prolunga fino a tarda notte. Ricordo infine che nel nuovo testamento ci sono anche le nozze di Cana [Giovanni 2,1ss]
4/XI/2002
XXXI domenica tempo ordinario, anno A
Questa volta vi metto a confronto le omelie del giovane frate di santa Chiara e del "mio" parroco a Montesanto. Il frate mette insieme prima lettura e vangelo, sospira, e inizia a fare un "mea culpa" come sacerdote per tutte le omissioni e mancanze di testimonianza. Mi fa piacere che i sacerdoti facciano autocritica ma "in fondo, a me, laico ormai poco impegnato, che me ne frega?". Leggendo nel mio pensiero, il frate passa sollecitamente ad invitare tutti noi fedeli a pregare per lui e a condividere così il carico delle sue responsabilità. Anche don Ettore farà un "mea culpa" ma sorridendo e dandolo quasi per scontato. La sua omelia infatti è incentrata tutta sulla paternità di Dio.
"Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre?" si domandava il profeta Malachia a nome degli ebrei nella prima lettura.
Nel bellissimo salmo, scopriamo invece che Dio è anche madre: si noti l'incisivo contrappunto fra la seconda strofa ("come bimbo svezzato in braccio a sua madre... è l'anima mia") e la terza brevissima ("speri Israele nel Signore, ora e sempre").
"Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature". [vedi però sotto, Esegesi delle letture"]
San Paolo aggiunge un'altra gradazione nella paternità/maternità di Dio: quella che assumono in certa misura i ministri e i sacerdoti. Infatti la parola della predicazione deve essere accolta "non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio".
Gesù riprende il discorso. "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei" che però, fedeli alla tradizione dei loro padri al tempo di Malachia, marcavano un po' male. Ci richiama quindi alla gradazione più alta e piena della paternità: "voi siete tutti fratelli... uno solo è il Padre vostro, quello del cielo".
Sia la prima lettura (v. 10) sia il vangelo rimarcano quindi che, a corollario del doppio grande comandamento di domenica scorsa, l'avere un solo Padre implica la fratellanza universale.
"Il più grande tra voi sia vostro servo".
Insomma, non ci devono essere padri o maestri ma figli e servi, come Gesù da maestro è diventato servo (fare la volontà del Padre, la lavanda dei piedi, la morte in croce). Quindi con il salmo: "Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo".
Ancora sul padre:
San Paolo lavorava notte e giorno "per non essere di peso ad alcuno" (v. 9) mentre gli scribi "legano pesanti fardelli".
L'inizio della prima lettura si ricollega un po' alla prima lettura su Ciro di due domeniche fa.
"svezzato": qui il salmista ha preferito mettere in primo piano l'idea di tranquillità del bambino, piuttosto che quella del nutrimento. Il bambino svezzato non cerca più affannosamente il latte materno.
"come una madre": letteralmente è "nutrice, balia"; anche nella vulgata è _nutrix_!!!
4 novembre 2002. Rispondo comunitariamente ad alcune lettere ricevute sull'esegesi liturgica. TRACCIA DA MIGLIORARE
Siamo abituati a ragionare sulla sacra scrittura mentre la liturgia ci passa sopra nell'assuefazione totale, per cui un primo passo può essere studiarla. Da qui "esegesi" non più (o solo) biblica ma "liturgica".
Poi inizio a farne un uso un po' improprio: a volte lascio l'"esegesi" (cioé uno studio scientifico) e mi avventuro nel mondo del ragionamento anagogico, cioè trovo associazioni mentali che valgono soprattutto per me, alla luce della mia esperienza personale o dell'ambiente che mi circonda in quel momento.
In questo mi sento tuttavia un po' giustificato perché la liturgia è per sua natura qualcosa che si vive oggi come ogni giorno abbiamo bisogno di mangiare (proprio questo era il punto focale del finto dilemma "taffio" o processione?).
Non a caso queste note le scrivo _dopo_ aver partecipato alla messa, in quanto l'esegesi liturgica nasce lì. Certo, se fosse vera esegesi, dopo bisognerebbe ragionarci e studiarci su, cosa che non ho tempo di fare, se non dare un'occhiata a qualche parola che mi incuriosisce sui testi originali.
Il fine dell'esegesi liturgica non è trovare collegamenti, associazioni o contrapposizioni fra le letture e le altre parti variabili della messa. Innanzitutto di volta in volta le parti variabili mettono in luce aspetti diversi di quelle fisse. Poi la liturgia è un insieme inscindibile di parole e azioni simboliche, quindi non basta avere sotto mano il "foglietto". Prima o dopo la messa può essere un utile esercizio cerchiare parole o frasi simili sul foglietto, ma è nella partecipazione (ovvero nell'attenzione comune rivolta a parole e gesti) che dovrebbero formarsi automaticamente tali associazioni. Quindi l'esegesi liturgica è innanzitutto un invito a non lasciarsi sfuggire nulla di quel tesoro che è Gesù che si dona nella messa. Attenzione comune: cioè sono conscio che non è una faccenda privata fra me e Gesù, ma che sto vivendo un atto pubblico e che Gesù salva i singoli come parte di una popolo (la chiesa oggi, gli ebrei dell'esodo; su questo argomento vedi il commento alla liturgia battesimale della veglia pasquale).
La ricerca di collegamenti e associazioni è solo il primo passo. Se poi mi fermo lì è solo per mancanza di tempo e per lasciare dei percorsi da percorrere.
Del resto, abbandonando del tutto la definizione tecnica di "esegesi liturgica", si potrebbe quasi dire che l'esegesi liturgica è l'applicazione pratica della messa nella nostra vita. La liturgia ci guida a Gesù nella messa, l'esegesi liturgica (=il ragionamento spirituale messo in moto dalla liturgia) continua ad indirizzarci non appena usciamo dalla chiesa. E' quindi la liturgia (=Gesù) che alimenta la nostra vita nella sua globalità.
***
Quindi fine dell'esegesi liturgica non è neppure quello di ricostruire le associazioni mentali di chi ha preparato il messale o il lezionario. Certo, alcune di queste risultano abbastanza chiare. Ma non dobbiamo sottovalutare l'azione dello Spirito nell'inconscio redattore e nel guidare il cammino della tradizione. Senza consultare qualche libro non so dirvi però quanto, ad esempio, degli abbinamenti delle letture sia innovazione post-conciliare o patrimonio della tradizione.
E' vero però che l'esegesi liturgica cerca di spiegare la liturgia alla luce della liturgia stessa, ovvero alla luce di Cristo stesso, secondo il messaggio che essa stessa ci vuol comunicare, senza partire da letture preconfezionate o piegare necessariamente i testi biblici a letture moralistiche.
Ci sarebbero tante altre cose da dire. Mi limito a lasciarvi con questa "provocazione ebraica" di Roberto Di Segni:
Quando un uso diventa abituale, è naturale che non desti più curiosità nel pubblico, e che non ci sia un interesse a capirne le origini e le motivazioni. Nell'ebraismo questa tendenza naturale è vista con diffidenza e ostilità, quando l'uso che non suscita più la curiosità intellettuale, il desiderio di capire, è una norma tradizionale. La regola, anche se messa in pratica, è come se perdesse l'anima, se non c'è un continuo dibattito, uno studio approfondito; diventa una "regola appresa" e basta, non vissuta, secondo un'antica e severa definizione profetica. Si pensa comunemente che le critiche della tradizione si rivolgano a chi osserva senza sentimento, o fede, o entusiasmo; forse è più corretto dire che la critica è invece diretta a chi osserva senza pensare, senza fare attenzione, senza sforzarsi di capire. [www.morasha.it/alefdac/alefdac_09.html]
Se rettamente vissuta, la liturgia è infatti una grande provocazione, uno stimolo che vuole generare una reazione nel nostro presente.
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva ridotto al silenzio i sadducei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi.
In quel tempo, i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: [...]
Quale dei due è l'inizio del vangelo di oggi e quale quello di domenica scorsa? Effettivamente Gesù chiude la bocca ai sadducei nel brano omesso fra i due in esame, ma non precedentemente. Ovviamente non è un errore del vangelo, ma un adattamento alla liturgia un po' eccessivo per il brano evangelico di domenica scorsa (il primo).
"Prossimo": come già scritto, Gesù non dice "gli altri"; non si possono amare gli altri, sarebbero troppi, basta amare il "più vicino" e ci sarà sempre qualcuno che è più vicino a noi.
Luca 10,36: "chi ti sembra sia diventato dei tre prossimo a quello caduto in mano..."
Gesù rovescia la domanda: non chi è il mio prossimo ma di chi sono prossimo. Quindi c'è anche un'idea di movimento (nel senso di avvicinamento), un dinamismo.
E' il termine usato nei 10 comandamenti, ebr. rea' (ayin), ad esempio esodo 20,17.
19/X/2002
XXIX domenica del tempo ordinario A
Solite note sulla liturgia domenicale. Stavolta è venuto un po' lungo... ad ogni modo, se può servire anche solo a uno... altrimenti è comunque servito a me! State bene,
Gian Pietro
"Dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!". [2Cronache 36,23; anche Esdra 1]
Quasi 30 gli anni di regno di Ciro (559-530 a.C.), il fondatore dell'impero achemenide. Dal 550, anno in cui si ribellò al re medo Astiage, è tutto un susseguirsi di conquiste, dalla Lidia (oggi in Turchia) all'Aracosia e al Gandara (oggi in Afghanistan). Nel 539 conquista Babilonia e annette l'Elam. In Babilonia trova un gruppo di Ebrei, deportati dal re Nabucodònosor II in due riprese: 3000 persone nel 597 a.C. [2Re 24,10ss] e 1500 nel 586 [2Re 25,8ss] (i numeri dei deportati sono dati secondo le stime della moderna storiografia). Famoso per la tolleranza e magnanimità, Ciro pone fine alla politica delle grandi deportazioni operate da Assiri e Babilonesi, ripopolando le campagne e le città abbandonate e devastate dalle continue guerre. La sacra Scrittura riporta l'editto con cui sancisce la fine dell'esilio degli Ebrei, con un formulario simile a quello che troviamo anche nelle iscrizioni reali achemenidi.
Ciro non è semplicemente "eletto" ma in ebraico è letteralmente il "messia" (_mashiach_), il _christos_ in greco, quindi semmai in italiano l'"unto" se si vuol evitare di dare del messia ad un re pagano; invece al v. 4 Israele è propriamente "eletto", _bachir_ in ebraico.
La costruzione della primo versetto va rivista: il testo ebraico coordina il "prendere con la destra" con "slacciare i fianchi", il cui soggetto rimane sempre il Signore (YHWH in ebraico). Quindi: "io l'ho preso con la destra per... e ho slacciato i fianchi dei re per...". Questo "io" è importante, perché chi agisce davvero è solo il Signore, Ciro è solo uno strumento, anche le porte sembrano aprirsi da sole al suo passaggio.
"i battenti delle porte": italiano poetico per "porte" di casa o di palazzo. "portone": precisamente la porta di una città (in inglese sarebbe "gates"), ovvero nessuna città potrà resistere al suo assedio (cfr. Salmo 24,7).
"slacciare i fianchi": è l'espressione opposta a quella tradotta poi come "ti renderò spedito nell'agire" [v. 5] che letteralmente è "ti cingerò i fianchi" (ripeto che Ciro è come se non agisse; Vulgata latina: _accinxi_); in pratica è Dio che disarma i re nemici e arma Ciro (le armi erano evidentemente appese alla cintura, come nei film western); vedi 1Samuele 17,39 e 25,13, Salmo 45,4. Il verbo "sciogliere (i fianchi)" e "aprire (le porte)" è lo stesso, ma la traduzione diversa è grammaticalmente giustificata.
[bisogna che guardi se in ebraico c'è differenza con l'espressione "con i fianchi cinti" di Esodo 12,11 (Pasqua in Egitto); poi in greco Efesini 6,14, Luca 12,35, Atti 12,8, Giovanni 21,7 e soprattutto 21,18 (lo scrivo perché ne ho approfittato per cercare i passi che avevo in testa): qui "cingere la _veste_" significa "vestirsi"]
I versi 4 e 5 terminano con il verbo "conoscere" negato, mentre il verbo 6 si apre con il medesimo verbo in positivo (tradotto "sapere" dalla CEI): attraverso Ciro che non lo conosce, il Signore si farà conoscere "dall'oriente fino all'occidente".
Questo tema è ripreso nel salmo 96 (95) "cantate al Signore un canto nuovo" che è tutto un insistere sulla totalità della "terra", dei "popoli", delle "nazioni".
Nell'apertura della seconda lettura, san Paolo prolunga il ritmo gioioso e impetuoso del salmo, ringraziando il Signore per l'elezione [v. 4] dei fratelli di Tessalonica (oggi Salonicco in Grecia).
Si noti l'accostamento di fede, carità, speranza [v. 3].
Nel vangelo, vale la pena ricordare che da quattro domeniche stiamo leggendo brani successivi all'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme [Matteo 21,1ss] e a ridosso ormai all'epilogo cruento della morte in croce, come rivela anche il tono duro delle parole di Gesù.
Gli erodiani [v. 16] erano i sostenitori di Erode, che poteva mantenere il potere solo grazie alla connivenza con i romani. "i propri discepoli": ovviamente i discepoli dei farisei. Spezzo una lancia a favore dei farisei, giustamente criticati da Gesù ma, appunto, non c'è bisogno che ci mettiamo a criticarli anche noi: le loro domande sono stimolanti e danno occasione a Gesù di spiegare il suo "vangelo".
Infine una traduzione letterale della domanda dei farisei: "è lecito dare il tributo a Cesare o no?" [v. 17]. Gesù, nella sua famosa risposta, trasforma quel "dare" (_didomi_ in greco) in "ri-dare" (_apo-didomi_; "rendere" nella traduzione CEI). "Cesare" è il titolo dell'imperatore, in questo caso Tiberio.
A volte leggiamo le letture della domenica dimenticando il loro contesto, che è quello appunto della liturgia. E la liturgia è un insieme ordinato di azioni simboliche e parole. Ordinato: non dobbiamo aspettare il vangelo per capire il senso della prima lettura, ma è la prima lettura che ci prepara al vangelo. La liturgia crea più percorsi con varie tappe ma su un'unica direzione.
Alcuni spunti molto approssimativi di esegesi liturgica alla rinfusa:
Tutti questi percorsi ci portano al sacrificio eucaristico di Gesù (cfr. orazione dopo la presentazione dei doni).
Chiudo con l'orazione conclusiva:
"Signore, questa celebrazione eucaristica che ci ha fatto pregustare le realtà del cielo, ci ottenga i tuoi benefici nella vita presente e ci confermi nella speranza dei beni futuri".
Ciao, Basel,
Grazie del tuo CIRO ED ESEGESI LITURGICA.Certo, mi è arrivato dopo tutte le Messe domenicali di ieri. Ma lo stesso, mi è servito in quanto mi ha consolato perché ho trovato alcune cose in comune con la mia riflessione alla Messa. Avevo guardato in alcuni commentari ma tutti parlavano del solito tema delle tasse. Io non volevo parlare delle tasse questa volta.
Quindi dopo un po' di dura riflessione sono partito con la domanda, quella posta da Gesù: "Di chi è l'immagine e l'iscrizione sulla moneta?" Dopo a metà omelia la seconda domanda l'ho coniata io: "Di chi è Cesare (nel nostro caso "di chi è Ciro")? E qui che vedo molta similtudine tra l'esigesi fornita da te e la mia riflessione. La terza domanda, per concludere la riflessione è stata: "Di chi siete / siamo?"
23/IX/2002
++ domenica del tempo ordinario, anno A
Riguardo al vangelo di ieri [Matteo 20,1-16], siamo davvero tutti d'accordo che il padrone della vigna sia giusto? E' vero che i suoi pensieri non sono i nostri pensieri [Isaia 55,8; dalla prima lettura], ma vi sembra giusto liquidare il "mormoratore" così, cavandosela ribadendo che quella era la cifra pattuita?
Nel caso ieri siate stati distratti durante la messa, la soluzione al problema era anticipata sia nella colletta propria dell'anno A sia nella seconda lettura [precisamente Filippesi 1,22].
Cari saluti a tutti,
Gian Pietro
NB1 Ormai lo saprete a memoria, su questa parabola c'è anche il sussidio Emmaus 1996
http://digilander.libero.it/elam/emmaus
NB2 La libera citazione nell'oggetto della lettera: Matteo 19,29 (occhio al capitolo!!!), parallelo a Luca 18,30 che ha un importante precisazione.
NB3 La Bibbia CEI on-line:
www.bibbiaedu.it/bibbia/versioneCEI_1974/index.html
c'è di meglio quanto a velocità e interfaccia; vedi casomai
http://digilander.libero.it/elam/bibbia/bibliografia.htm#internet
20/IX/2002
Re: «ORATORIO UNA RICCHEZZA CHE SUPERA LE IDEOLOGIE»
Caro Francesco,
stavolta sono io a ringraziarti di cuore per la riflessione e gli articoli!
Spero che la tua lettera e, soprattutto, il vostro continuo impegno in oratorio non passino nell'indifferenza generale, come è stato -mi sembra da qua- per Emmaus, un'attività che per me è sempre stata strettamente connessa all'oratorio, a sua volta naturale e indispensabile complemento alla catechesi.
A scanso di equivoci:
Oratorio = confronta le "Memorie dell'Oratorio" di don Bosco. (non ne ho trovato il testo on-line, vi butto lì solo per darvi un'idea il seguente collegamento
http://www.cnos.org/cspg/npg2002/02-02-29.pdf)
Cari tutti gli altri,
io ormai non ho più sottomano la situazione e parlo più con il cuore che con la testa.
Purtroppo siamo di fronte ad un drastico calo delle nostre energie. Un calo di numeri, certo, ma in fondo le comunità -lo sapevano bene una volta- vivono anche di numeri: un paese di montagna poteva sopravvivere solo se aveva sufficienti risorse per sfamare i suoi abitanti e così via.
Generalmente si attribuisce la colpa di questo fenomeno alla società consumistica e alla denatalità. Qui si inseriscono le sterili discussioni sui "pochi ma buoni" vs. "avvicinare i lontani".
Quando ero un bimbo, i bimbi erano schedati in buoni e cattivi. La maggior parte dei catechisti se la faceva sempre con i buoni, altri invece (ad es. A. Vanelli) fiancheggiavano un po' anche i cattivi. Questo fenomeno esiste tuttora, anche se non so quanti catechisti si interroghino su come ripartiscano il loro tempo fra i ragazzi. Io, essendo nè buono nè cattivo, passavo sostanzialmente inosservato. Però di buona volontà ne avevo. Emmaus è stata la mia occasione. Emmaus era l'occasione soprattutto per i "cattivi": sì, perché i "buoni" non si sentivano di guidare, di sporcarsi le mani, di andare in giro vestiti male. I "buoni" si rifacevano per il resto dell'anno con il catechismo. I "cattivi" giocavano a pallone fra i bidoni e rompevano i vetri della SEDE.
Questa suddivisione (che in questo caso è una semplice costruzione mentale, spesso giustificata in base a pregiudizi sulla famiglia del ragazzo) esiste ovunque: anche fra i barboni la Caritas riesce a distinguere barboni buoni e barboni cattivi, e anche il cappellano del carcere ha carcerati cattivi e carcerati buoni.
A questo punto potrebbe sembrare una questione di priorità e di scelte. Viene prima la catechesi o l'oratorio? L'uovo o la gallina? Educare i giovani o educare gli adulti ad educare i giovani? Sopperire prima alle mancanze della scuola e della società (=don Milani) o educare solo nella fede?
Io credo che, come per i buoni e i cattivi, non si tratti di alternative ma di scelte dalle mille sfumature intermedie. Conta infatti soprattutto lo spirito e l'entusiasmo con cui facciamo quel poco che decidiamo di fare, cercando di dare sempre e comunque una possibilità a tutti e accettando con gratitudine quel poco anche imperfetto che ogni singolo ragazzo si sente di darci, a costo di tapparci un po' il nostro aristocratico naso. Di una cosa sono certo: mi stanno sempre a cuore di più quei ragazzi che a catechismo fanno solo confusione, per non dire quelli che non spiccicano neppure una parola, o che in oratorio entrano timidamente e se ne stanno in un angolo a guardare, salvo magari gettarsi nella mischia del pallone a costo di essere presi in giro da tutti gli altri ad ogni palla toccata.
Ad ogni modo, il miglior punto di partenza per queste riflessioni è sempre la preghiera, magari comunitaria, e mi sembra che in parrocchia non manchino le occasioni.
Statemi bene,
Gian Pietro
NB Alcuni di questi temi sono già stati sviluppati nei sussidi di Emmaus (reperibili all'indirizzo <http://digilander.libero.it/elam/emmaus>) e negli ultimi dossier di Arcobaleno (<www.arcobaleno???.it> quando A. Brandolini si deciderà a darmi il permesso di metterli on-line).
16/IX/2002
Avevo scritto queste righe, ma non ho il tempo di sistemarle come vorrei per diffonderle. Giusto per non averle scritte per niente, te le invio. Vedi tu se hai voglia di darci un'occhiata. E' tutto molto farraginoso e il finale -che sarebbe la parte più importante a cui vorrei mirare, l'assuefazione alla liturgia e le semplici attenzioni da impiegare per evitarla- è da rifare e sviluppare in maniera più appropriata con esempi più calzanti.
GP
Faccio seguito ad un veloce scambio di battute avuto con Fiore nel breve spazio fra la fine della novena ("ottavario" in questo senso suona male) agli Angeli e la sua dipartita verso il letto.
Il libretto che il Mons. ha sfruttato durante le omelie conteneva qualche veniale imprecisione sul saluto dell'angelo alla Madonna.
In greco, la lingua in cui è scritto il nuovo testamento, troviamo _kàire_ che è la forma imperativa del verbo "rallegrare" quindi "rallegrati". Detto questo bisogna precisare subito che ai tempi di Gesù si trattava di una usuale forma di saluto. (Mi viene un po' da pensare all'inglese, dove "Yours sincerely" corrisponde al nostro "cordiali saluti" e quando io insistevo per scrivere qualcosa tipo "warm greetings" mi ridevano dietro anche se a me non fregava niente della sincerità (la davo per scontata) e preferivo salutare calorosamente.)
In latino è stato tradotto con il tipico saluto _Ave_, forse di origine punica, il cui significato letterale non è chiaro, probabilmente "vivi!" nel senso di "salute, stai bene" (altro imperativo). Famoso il saluto dei gladiatori: "ave Caesare, morituri te salutant". La traduzione italiana della CEI, lo sappiamo a memoria, ha preferito aggirare il problema (come nell'inusuale "Verbo" di Giovanni 1,1 etc.) lasciando la responsabilità al traduttore latino.
Il libretto del Mons. ribadiva più volto che è impossibile conoscere come si rivolse l'angelo a Maria. Beh, io credo invece sia molto semplice. L'equivalente ebraico di _kàire_ e _ave_ è sicuramente _shalòm_, allo stesso tempo "pace" e saluto, probabilmente tradotta altre volte nel greco del nuovo testamento come "pace (a voi)" [Luca 24,36; Giovanni 20,26 etc.]. Per la precisione, poiché l'angelo doveva parlare in aramaico (che non è, si badi, un dialetto ebraico ma una lingua autonoma che aveva soppiantato l'ebraico anche in Israele al tempo di Gesù), la forma aramaica è _shlàm_.
Da tutto ciò, sottolineo due considerazioni:
Adesso, come tradurreste in italiano? Chi fa catechismo, chieda ai suoi catechizzandi cosa intendono con "ave". Se le loro risposte si sovrappongono più o meno a quanto detto sopra, possiamo rassicurarci sulla bontà della traduzione CEI.
Francamente non so dirvi quanto siano formali i suddetti saluti. Certo non tradurrei mai in italiano con "ciao". Allo stesso tempo non è vero che "ciao" non significhi niente se non significa nulla per noi. Deriva infatti dalla forma dialettale veneziana di "schiavo": in pratica uno salutava dicendosi "servo" dell'altro, come a volte si sente dire in certi film storici "servo suo".
Divertitevi voi a trovare l'origine dell'inglese "hello" o "hi". "Hello" si diffonde soprattutto con l'invenzione del telefono, come parola convenzionale con cui aprire la risposta.
Rimarcando come fosse vero che "ciao" non ci dice più niente, Fiore pensava a come ci si saluta qui a Napoli, dove fra uomo e donna (ma anche all'interno dello stesso sesso) con una certa famigliarità ci si saluta sempre con un bacio simmetrico sulla guancia, a costo di baciarsi due tre volte se ci si rincontra più tardi. Non è certo l'unico paese in cui ci si saluta così (ad es. il bacio dei russi). Qui è tanto importante che anche se uno arriva a messa in ritardo si avvicina al suo "clan" e si mette a baciare tutti, per la "gioia" di don Ettore.
Un altro uso tipicamente napoletano è chiedere appena arrivati "che si dice", domanda a cui è inutile rispondere spiegando ciò di cui si stava parlando, magari eri pure lì da solo e non parlavi con nessuno.
Infine volevo ricordarvi come i "saluti" devono il loro nome proprio all'augurare una buona salute agli altri. Anche in un SMS, ci tengo sempre ad aggiungere un saluto: non sono caratteri sprecati perché credo che l'aggiunta anche di una banale "ciao" segnali attenzione e cura verso il destinatario.
Insomma ci sono tanti usi consolidati, e l'uso porta a farci dimenticare la sua origine ovvero (anche se non è esattamente la stessa cosa) il suo significato. Ad es., l'origine di tutte le cose la conosciamo bene, è scritta in Genesi 1: "in principio..." letteralmente "in capo" (un uso figurato del temine "testa"). Tutta la creazione infatti acquista significato in quanto appunto creazione di Dio che assolve positivamente al ruolo per cui è stata creata. Questo vale anche per la messa, le processioni, le crescenti etc. dove non riusciamo più a cogliere il vero significato (per la liturgia parliamo di simbolismo) delle azioni che facciamo. Allora diventiamo "ritualisti" cioè ci scandalizziamo se qualcuno passa davanti ai ministranti nel fare la comunione, se non si fa più l'esposizione dopo il rosario che la si è sempre fatta etc.
sabato 29/VI/2002
Avete ascoltato le letture domenicali? Volevo invitarvi a leggere tutta la storia della donna di Sunem, al di là della scelta operata nella prima lettura. Siccome so che non tirereste mai fuori la Bibbia, ve lo incollo in fondo. 8-) Mi sembra infatti che anche il resto del brano si inserisca bene nel contesto della liturgia di questa domenica.
Sul vangelo. Un brano che potrebbe anche "scandalizzare". Mi colpiva però il fatto che i legami che l'amore per Gesù deve superare sono tutti legami d'amore istintivo, naturale. Cioè non dice "chi ama la propria moglie più di me etc. etc.". Quello che Gesù vuole dire è che l'amore nei suoi confronti comporta una scelta, una presa di posizione netta per lui. "Chi non è con me, è contro di me" [Luca 11,23] "ma io ho scelto voi" [Giovanni 15,16].
Vedete un po' se la versione integrale della storia della donna di Sunem vi dice qualcos'altro.
8Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c'era una donna facoltosa, che l'invitò con insistenza a tavola. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei. 9Essa disse al marito: "Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. 10Prepariamogli una piccola camera al piano di sopra, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada, sì che, venendo da noi, vi si possa ritirare". 11Recatosi egli un giorno là, si ritirò nella camera e vi si coricò. 12Egli disse a Ghecazi suo servo: "Chiama questa Sunammita". La chiamò ed essa si presentò a lui. 13Eliseo disse al suo servo: "Dille tu: Ecco hai avuto per noi tutta questa premura; che cosa possiamo fare per te? C'è forse bisogno di intervenire in tuo favore presso il re oppure presso il capo dell'esercito?". Essa rispose: "Io sto in mezzo al mio popolo". 14Eliseo replicò: "Che cosa si può fare per lei?". Ghecazi disse: "Purtroppo essa non ha figli e suo marito è vecchio". 15Eliseo disse: "Chiamala!". La chiamò; essa si fermò sulla porta. 16Allora disse: "L'anno prossimo, in questa stessa stagione, tu terrai in braccio un figlio". Essa rispose: "No, mio signore, uomo di Dio, non mentire con la tua serva". 17Ora la donna rimase incinta e partorì un figlio, proprio alla data indicata da Eliseo.
18Il bambino crebbe e un giorno uscì per andare dal padre fra i mietitori. 19Egli disse al padre: "La mia testa, la mia testa!". Il padre ordinò a un servo: "Portalo dalla mamma". 20Questi lo prese e lo portò da sua madre. Il bambino stette sulle ginocchia di costei fino a mezzogiorno, poi morì. 21Essa salì a stenderlo sul letto dell'uomo di Dio; chiuse la porta e uscì. 22Chiamò il marito e gli disse: "Su, mandami uno dei servi e un'asina; voglio correre dall'uomo di Dio; tornerò subito". 23Quegli domandò: "Perché vuoi andare oggi? Non è il novilunio né sabato". Ma essa rispose: "Addio". 24Fece sellare l'asina e disse al proprio servo: "Conducimi, cammina, non fermarmi durante il tragitto, a meno che non te l'ordini io". 25Si incamminò; giunse dall'uomo di Dio sul monte Carmelo. Quando l'uomo di Dio la vide da lontano, disse a Ghecazi suo servo: "Ecco la Sunammita! 26Su, corrile incontro e domandale: Stai bene? Tuo marito sta bene? E tuo figlio sta bene?". Quella rispose: "Bene!". 27Giunta presso l'uomo di Dio sul monte, gli afferrò le ginocchia. Ghecazi si avvicinò per tirarla indietro, ma l'uomo di Dio disse: "Lasciala stare, perché la sua anima è amareggiata e il Signore me ne ha nascosto il motivo; non me l'ha rivelato". 28Essa disse: "Avevo forse domandato io un figlio al mio signore? Non ti dissi forse: Non mi ingannare?".
29Eliseo disse a Ghecazi: "Cingi i tuoi fianchi, prendi il mio bastone e parti. Se incontrerai qualcuno, non salutarlo; se qualcuno ti saluta, non rispondergli. Metterai il mio bastone sulla faccia del ragazzo". 30La madre del ragazzo disse: "Per la vita del Signore e per la tua vita, non ti lascerò". Allora quegli si alzò e la seguì. 31Ghecazi li aveva preceduti; aveva posto il bastone sulla faccia del ragazzo, ma non c'era stato un gemito né altro segno di vita. Egli tornò verso Eliseo e gli riferì: "Il ragazzo non si è svegliato". 32Eliseo entrò in casa. Il ragazzo era morto, steso sul letto. 33Egli entrò, chiuse la porta dietro a loro due e pregò il Signore. 34Quindi salì, si distese sul ragazzo; pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani nelle mani di lui e si curvò su di lui. Il corpo del bambino riprese calore. 35Quindi si alzò e girò qua e là per la casa; tornò a curvarsi su di lui; il ragazzo starnutì sette volte, poi aprì gli occhi. 36Eliseo chiamò Ghecazi e gli disse: "Chiama questa Sunammita!". La chiamò e, quando essa gli giunse vicino, le disse: "Prendi tuo figlio!". 37Quella entrò, cadde ai piedi di lui, gli si prostrò davanti, prese il figlio e uscì.
4/VI/2002
Secondo i miei conteggi, al luculliano rinfresco offerto dalla Frimm per gli Addobbi sono intervenute ben 44 persone (padroni di casa e bambini esclusi). Di questi, meno del 22% (contando anche il Mons.) aveva partecipato anche solo in parte alla processione. Gli anni scorsi un simile dato sarebbe stato giustificato da considerazioni tipo "è troppo lunga" o "fa troppo caldo".
L'impatto numerico di questa semplice considerazione statistica mi spinge a proporvi un nuovo dilemma estivo: "TAFFIO" o PROCESSIONE?
Non voglio entrare nel merito delle singole più o meno valide motivazioni per cui uno è andato oppure no (io per esempio ero in processione ma ho pensato ad altro per tutto il tragitto). Non voglio ASSOLUTAMENTE criticare o elogiare nessuno ma SOLO riflettere un po' insieme a voi (se vi va).
Mi sono chiesto: ma perché una volta facevano tante processioni? Che senso ha fare una processione oggi? Sembra quasi che vogliamo metterci in mostra e conquistare un po' di spazio davanti agli occhi degli altri, salvo poi mostrarci come gregge piccolo, sparpagliato, stonato e disorganizzato (per poco non mi ammazzavo incespicando contro la bici che una signora spingeva in mezzo alla folla). No, la domanda giusta è: che cosa mi aveva spinto a partecipare? Inevitabilmente ho svicolato pensando agli "altri": si saranno posti il problema di partecipare? O avevano dato per scontato che "ci vediamo dopo da Piero"? Così io camminavo pigramente chiacchierando con Andrea B., fantasticando sulle lettere V. P. poste ai lati di un tappeto rosso ("Viva la Processione" o marca di piastrelle??), guardando la poesia dei lumini sui balconi, cercando di intravvedere i pensieri celati dietro le facce inespressive degli adulti assiepati ai bordi della strada o della schiera di giovanissimi della SEDE allineati lungo un muretto. Se passavo davanti ad un'auto bloccata, mi chinavo leggermente per cogliere qualche segno di disappunto sul volto in penombra dell'autista. Certo la processione della Madonna del Poggio è più sentita. Povero Gesù, che gusto essere sbattuto in qua e in là così. Beh, abituato ormai al look urbano napoletano, mi sono sorpreso a pensare: in fondo però quante belle case, quanta gente ci vive, segno tangibile della forte immigrazione nel territorio persicetano.
Intanto la processione era finita, sfiorando appena il popoloso quartiere nel breve spazio di una mezz'oretta. Con poca convinzione cerco di convincere Elena a non andarsene subito a casa perché "bisogna andare a festeggiare Gesù che va incontro alla gente anche nei luoghi in cui vive". Dove finisce la tradizione e inizia il nostro tradimento. Mi viene da pensare alla ritualità laica del mondo del pallone (la Gazzetta del sabato mattina, il tifo allo stadio, la partita della nazionale da vedere insieme). O alle cerimonie inscenate dagli americani al Ground Zero. E alla nostra festa della liberazione: una liberazione avvenuta una volta, più di 50 anni fa, ma dei cui effetti dovremmo beneficiare tuttora, altrimenti c'è il 25 aprile a ricordarcelo. Gesù tutti i giorni (specialmente la domenica) si fa trovare nell'eucarestia, cioè in un pezzo di pane e un bicchiere di vino. Soddisfando simbolicamente una necessità fisiologica di tutti i giorni, rende effettiva per noi oggi (sì perché oggi respiriamo, oggi dobbiamo mangiare) la salvezza ottenuta un tempo mediante il sacrificio della croce.
Nonostante tutto anche l'altra sera, più o meno consapevolmente, eravamo lì riuniti per festeggiare. L'ultimo anello (ma solo per poco) di una lunghissima catena di eventi, cominciati con Gesù che spezza il pane per darne un po' ai discepoli, mediati dalla Chiesa e da una tradizione millenaria generalmente vivace e creativa, se a qualcuno secoli addietro era venuta la buffa idea di portare a spasso un'ostia per le vie del paese, rinnovata con più o meno entusiasmo ogni anno per secoli da persone ora morte, ma allora vive come noi ora. Fosse mancato anche un solo anello di questa catena oggi arrugginita, l'altra sera sarebbe stato il solito noioso morigerato sabato sera da giovane trentenne della SEDE. Non sappiamo più cosa come chi festeggiare, ma ogni tanto ci fa ancora piacere avere una scusa per ritrovarsi insieme, magari attorno ad una mensa (o buffet) ben apparecchiata. Forse Elena era l'unica che sapeva, ma non è venuta a dircelo.
Vedi anche:
http://digilander.iol.it/elam/emmaus/emmaus2000.htm#mermat
(in che modo i numeri possono servire alla pastorale e i dati dell'immigrazione a Persiceto);
http://digilander.iol.it/elam/emmaus/emmaus2000.htm#giopom
(la processione -cfr. un corteo ad es. sindacale, politico, noglobal- come segno di distinzione ed espressione pubblica)
Cari saluti a tutti!
Gian Pietro
4/VI/2002
Quale dilemma e quale conclusione? Io non ho tirato alcuna conclusione... e il dilemma è palesemente un finto dilemma (come lo era "canyon o Gesù"): bisognerebbe partecipare ad ambedue o perlomeno aver la consapevolezza che partecipando solo all'uno o all'altra ci si è persi comunque qualcosa. Come se il testimone dello sposo andasse al matrimonio e fuggisse il pranzo o andasse al pranzo saltando il matrimonio: ambedue le cose sono mutile, proprio perché il testimone è tale in virtù della vita già condivisa con lo sposo. Ambedue le dimensioni sono necessarie e se ci pensi non troverai grandi differenze con la parabola del figliol prodigo se la guardi dall'altra prospettiva del figliolo buono (che certo avrebbe preferito non partecipare alla festa), oppure con gli operai della prima ora che non avevano capito che il loro "di più" era il piacere di aver lavorato più tempo nella vigna del Signore. Le due parabole sono complementari. E il lavoro è un'ottima metafora per esprimere l'azione sacramentale, che trasforma e sublima il nostro lavoro attraverso l'intervento (cioè il lavoro, l'azione) di Dio (ad es. il pane seminato, raccolto, impastato dall'uomo che diventa corpo di Gesù... c'è anche in un canto d'offertorio) in una meravigliosa simbiosi che nel Cantico dei Cantici assume spontaneamente toni amorosi.
Si tratta quindi essenzialmente di una catechesi sulla messa e soprattutto sulla liturgia (vedi http://digilander.iol.it/elam/bibbia/pasqua2001.htm), cioè su come un insieme di parole e azioni (il rito, messa o processione che sia) diventa funzionale alla celebrazione memoriale di un fatto storico cioè ad esprimere l'impatto di quel fatto sulla nostra vita per noi oggi. Non a caso nella messa è tutta la nostra vita, tutti i nostri sensi, tutto il nostro corpo che dovrebbe essere coinvolto... e dovremmo portarci tutte le nostre preoccupazioni e sofferenze per esserne alleviati grazie al contatto con Gesù insieme agli altri fedeli e al celebrante.
Per un ateo la messa sarà un insieme di gesti e parole senza senso, un ridicolo teatrino. Il mio laicissimo professore mi faceva invece notare, esprimendomi tra l'altro ammirazione, come invidiasse la ritualità cattolica. Ed effettivamente, forse inconsapevolmente, esiste una ritualità laica fortissima: pensa all'esercito (le uniformi, il cambio della guardia) o al galateo. O più semplicemente ad un corteo, al tifo da stadio, al ballare in discoteca allo stesso ritmo, a guardare la partita insieme, alla gazzetta del sabato mattina o al festival di Sanremo. Tutti piccoli riti, se vuoi non codificati ma che comunque facciamo meccanicamente per esprime il bisogno di credere insieme (non a caso Dio cerca un popolo da salvare, la salvezza avviene prima in Israele poi nella Chiesa, non viene salvato il singolo ma il popolo; vedi ancora http://digilander.libero.it/elam/bibbia/pasqua2001.htm) in qualcosa, di fare insieme le cose.
Diciamo o sentiamo dire: "non ha più senso fare oggi la processione" senza chiederci cosa significhi veramente una processione, cosa si voleva un tempo esprimere e cosa vorremmo oggi esprimere noi della nostra fede e dell'impatto della nostra fede (del vangelo) nella nostra vita. Si scoprirà che non è non facendo più le cose che se ne recupera il senso (come non lo si recupera continuando a fare le cose "come sempre" fino ad arrivare all'esaurimento). Come non è chiudendo il Centro san Petronio che si recupera una dimensione più umana della carità: infatti nessuno si fa più vedere ai centri di ascolto. Che c'entra la mensa? C'entra eccome, perché sempre di pane parliamo: lì il pane (una necessità fisiologica immediata e irrinunciabile) era l'aggancio per avviare i famosi percorsi di recupero (così voleva don Giovanni N., io mi accontentavo anche di due chiacchiere e un po' di reciproca conoscenza comprensione). Togliere il pane per concentrarsi sui percorsi di recupero a lungo termine ha solo contribuito a svuotare i Centri di Ascolto (e adesso dovranno andarseli a cercare per strada i barboni, perché non li puoi più trovare neppure alla mensa). Allo stesso modo (e torniamo alla liturgia) Gesù ha pensato bene di rinnovare per noi il suo sacrificio della croce passandocelo ogni giorno attraverso il pane e il vino. Non bastava morire in croce per salvarci? Che bisogno c'era di inventarsi l'ultima cena? Quasi lo vedo Gesù che si arrovella per trovare un modo efficace per perpetuare il suo sacrificio. E infatti, come in un matrimonio e negli addobbi o in una semplice cena fra amici, mangiare insieme è un simbolo estremamente efficace. In India uomini di classi diverse non possono condividere la stessa tavola. Se un professore passa per strada mentre tu stai mangiando un panino ti senti per un attimo un po' a disagio. E quante e quanto dolorose le malattie legate al cibo, a ciò che ingeriamo, che prendiamo dentro di noi. Molte religioni accompagnano il pranzo con azioni rituali: mangiare è una necessità ma una volta non doveva essere troppo difficile mangiare cibi avariati o contrarre malattie. Proprio Gesù, prima di rivestire di nuovi significati il mangiare insieme aveva detto: "non è ciò che entra nell'uomo a contaminarlo ma ciò che esce, le cattive parole, le azioni malvagie" rovesciando abilmente la prospettiva.
Non mi interessa chi è andato e chi non è andato in processione, anzi mi interesserebbe di più sapere perché uno ci è andato (se uno toglie la dimensione della fede, è stato uno spettacolo davvero misero, un corteo sindacale è molto più bello, c'è gente che ci crede di più) che perché non ci è andato.
Non volevo certo distinguere, separare i buoni dai cattivi, i cattolici dai cattolici non praticanti (che sarà anche una contraddizione in termini, ma quanti si riconoscono in questa categoria), i catechisti dai non catechisti. Purtroppo non è così: chi va spesso non è necessariamente migliore di chi non va (e chi era in Francia ha potuto rendersene conto, non certo chi ha giudicato l'episodio da casa) e infatti chi andò a messa ci andò prima di tutto per evitare il confronto con il canyon, per paura, per non far figure. Sia chi era andato al canyon, sia chi era andato in chiesa si era perso qualcosa. Io ne ero ben conscio. Nessuno però l'ha detto. La provocante lettera del don non ha fatto altro che rinforzare i "buoni" indurendoli nell'erronea consapevolezza di essere i buoni, dando ulteriore motivo di scandalo ai "cattivi". Io volevo solo dire: se solo il 21.67% partecipa sia alla processione che al rinfresco c'è qualcosa che non va, è normale che qualcuno non ci vada, ma se sono così tanti è un campanello d'allarme che riguarda tutti, perché anche i "buoni" forse non hanno capito nulla se non riescono ad attirare qualcuno di più.
Beh, anche Eco ha spiegato il Nome della Rosa...
Gian Pietro
Questa è la "risposta" di Elena Bencivenni (che ringrazio per avermi fotocopiato questa bella pagina) agli interrogativi da me suscitati...
La più grande gioia del Salvatore sta nel rimanere in compagnia degli uomini, ed egli ha promesso di essere con noi sino alla fine del mondo. Ha reso vera questa sua promessa con la sua promessa sacramentale sugli altari. Qui ci si attende; parrebbe dunque evidente che gli uomini debbano sentire l'impulso di accorrere a frotte ai luoghi consacrati. La schietta semplicità di questa verità di fede vorrebbe che noi lì avessimo dimora, che ce ne allontanassimo solo quel tanto che i nostri compiti richiedono, e che questi nostri compiti noi li si ricevese ogni giorno dalle mani del Salvatore eucaristico, rimettendo poi nelle sue mani ogni giorno l'opera compiuta.
Il Salvatore è morto per noi sul Calvario, ma non gli è bastato di aver compiuto una volta per tutte per noi il sacrificio di redenzione colla sua morte. Egli ha voluto recare di person ad ognuno singolarmente i frutti del suo gesto. PEr questa ragione eli rinnova ogni iorno il Santo Sacrificio all'altare, e chiunque vi partecipi on cuore fedele, viene purificato dal lvacro del sanue dell'Anello e rinnocato nel'anima. OGni Santo Sacrificio della MEssa è fatto per offrire questa pienezza di grazia agli uomini che può raggiungere, cioè a coloro che consentono a presenziari e a farlo essere fecondo per se stessi e per gli altri. Chi tuttavia potrebbe presenziarvi e non lo fa, passa davanti alla Croce del Signore con cuore indurito, freddo e ne disprezza la grazia. Il Salvatore non si limita a deporre i frutti della grazia solo sull'altare, per noi. Vuole venire per tutti e per ognuno; nutrirci, come fa una madre con la sua creatura, del suo sanue e della sua carne, penetrare in noi, così che noi penetriamo completamente in lui, membra del suo corpo, cresciute in lui. Quanto più spesso l'unione ha luogo, tanto più forte e intima essa diviene. Si può mai comprendere che vi sia chi si sottrae a questa, che delle prove dell'amore di Dio è la più forte, che vi sia chi si accosta allla mensa del Signore anche solo una volta di meno di quanto gli sarebbe di fatto possibile? Giacché ecco cos'è che il senso delle verità eucaristiche richiede da parte nostra, se davvero sappiamo comprenderlo: che noi visitiamo il Signore nel Tabernacolo quanto più spesso possiamo, che noi partecipiamo al Santo Sacrificio quanto più spesso possiamo, che noi riceviamo la Santa Comunione quanto più spesso possiamo.
E ancora ci chiediamo: cosa ci dona il Salvatore nella vita eucaristica? Egli ci attende per prendere su di sé tutti i nostri pesi, per consolarci, per consigliarci, per aiutarci, amico sempre fedele, che mai non muta. Al tempo stesso egli ci fa partecipare alla sua vita, soprattutto quando aderiamo alla liturgia e sperimentiamo insieme con lui e con i fratelli la sua vita, la sua sofferenza e la sua morte, la sua risurrezione e la sua ascesa al cielo, il divenire e il crescere della sua Chiesa. Allora siamo tratti fuori dagli angusti confini del nostro essere e innalzati agli spazi sconfinati del Regno di Dio; le sue cose divengono le nostre, siamo legati sempre più profondamente al Signore e vincolati, in lui, a tutti i suoi. Ogni solitudine cessa di esistere, e noi siamo irrevocabilmente tratti in salvo nella Tenda del Re, trasfigurati nella sua luce.
Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein), Educazione eucaristica, pp. 124-125.
11/IV/2002
Visto che vi avevo disturbato prima, mi sembra doveroso chiudere il discorso tracciando un breve bilancio di cosa poi si è riusciti a fare. Leggete se avete letto l'altra lettera.
Mi sono trovato con i ministranti giovedì alle 15.30 e venerdì e sabato alle 10.30.
Giovedì c'erano 7 ministranti, quasi tutti delle elementari. Visto che non era stato fatto alcun tipo di "pubblicità" (nemmeno un avviso sulla bacheca dove si vestono i ministranti), direi che non sono pochi e bisogna ringraziare suor Benvenuta che si è occupata di spargere la voce il più possibile. Il giorno seguente eravamo in una dozzina. Un po' meno sabato (i ministranti delle elementari non partecipano alla veglia perché troppo piccoli, anche se io li avrei chiamati lo stesso all'incontro), in compenso c'erano più ministranti grandi (superiori).
Gli incontri sono stati così strutturati: breve preghiera iniziale, meditazione su un particolare aspetto della liturgia (15m), struttura commentata della celebrazione (10m), prove pratiche in chiesa (15m).
Non è stato possibile organizzare un po' di animazione in oratorio.
Essendo un po' stanco, sono stato molto "essenziale": non ho usato il computer come mi ero ripromesso (pur essendo già pronto tutto), nè musica, nè distribuito fotocopie; non ho neppure chiesto a un sacerdote di presiedere la preghiera di apertura.
Giovedì mi sono arrangiato io. Venerdì mi ero accordato con Andrea Cesari che ha esposto la struttura della celebrazione e con Giorgio Sassoli che ha diretto le prove pratiche. Sabato è intervenuto Alberto Ghibellini per dare una dimensione più spirituale alla mia meditazione, poi sempre Giorgio per le prove.
Devo dire che con Andrea, Giorgio e Alberto ci siamo completati a vicenda molto bene.
L'incontro di sabato è durato un po' di più perché i ragazzi stessi mi hanno chiesto di soffermarmi ancora sulle letture della veglia e di leggerne e commentarne una (la IV) insieme. Direi che è un supplemento di incontro che potremmo mantenere nei prossimi anni, dedicandoci man mano ad altre letture e invitando anche i ministri.
Devo dire che abbiamo dei ragazzi molto in gamba: i piccoli in particolare mi hanno stupito per preparazione e attenzione (tenete conto che alcuni li ho conosciuti giovedì per la prima volta e mi hanno dato subito fiducia!).
Negli ultimi anni le prove pratiche hanno impegnato sempre meno tempo (ai tempi di Vanelli rappresentavano la totalità dell'incontro) e sicuramente si vede. D'altronde ha poco senso provare processioni e ingressi con 2 ragazzi per fila e bisognerebbe provare sempre più di una volta, anche se i ragazzi dicono di aver capito subito. Abbiamo volutamente affidato incarichi anche ai ministranti più piccoli (anche di coordinamento interno, come ad es. al bravissimo "Giovannino" Negrini) e diversificato i compiti (ad es. il ragazzo che porta la navicella, ben sapendo che il navicellista di oggi sarà il turiferario di domani) al fine di responsabilizzare più ragazzi possibile.
La mia preoccupazione non è quella di svolgere funzioni impeccabili, ma di spingere i ragazzi a farsi provocare dalla liturgia (il rito non è costruito a caso ma ci conduce verso Cristo [confronta Catechismo Chiesa Cattolica 1075 su Catechesi e Liturgia]) invece di parteciparvi con meccanica indifferenza. L'errore o la svista mi danno fastidio solo se creano occasione di disturbo e di distrazione _o, soprattutto, se sviliscono la portata simbolica dell'azione liturgica!_ Anche noi più grandi a volte finiamo per preoccuparci troppo della mera esecuzione lasciandoci così distrarre dal vero centro della liturgia.
Come gruppo ministranti, abbiamo offerto a tutti un piccolo spunto di meditazione quotidiana attraverso l'immagine esposta sul leggio all'ingresso della sagrestia. Se qualcuno è rimasto colpito dalle immagini posso spedirgliele assieme ai commenti (purtroppo il mio spazio internet è pieno e non posso rimandarvi lì come vorrei).
Come ogni anno mi sono segnato le cose che potevamo fare meglio così da tenerne conto l'anno prossimo. Se avete "annotato" anche voi qualcosa, fatemelo sapere.
Alcuni di voi me l'avevano chiesto, per cui segnalo che, oltre alle indicazioni riportate nel Messale Romano, sul triduo c'è una Lettera circolare della Congregazione per il culto intitolata Preparazione e celebrazione delle feste pasquali. Internet è una miniera: stampatevela prima che cambi indirizzo
http://web.tiscali.it/celebrare/documenti/feste_pasquali.htm
Ne approfitto per ringraziare ufficialmente chi ha partecipato e collaborato agli incontri più Massimo Pap. e Andrea Br. per il sostegno e i suggerimenti!
Carissimi saluti. Scusate se mi sono dilungato... grazie per l'attenzione! A risentirci...
Gian Pietro
Spunti tratti dall'omelia del parroco di santa Maria di Montesanto, Napoli
Il parroco si muoveva su e giù per la navata, interpellando i vari fedeli per nome, chiamandoli in causa e sollecitando la loro attenzione con riferimenti (sempre appropriati) all'attualità mondiale e locale, tirandosi dietro il microfono usandone l'asta a mo' di bastone, quindi indicando la Galilea su una mappa geografica, ricreando oggi i dialoghi di Gesù con gli apostoli, l'atmosfera, gli sguardi. Mi sembrava di essere sul lago di Tiberiade e non mi sarei per nulla meravigliato se Gesù fosse apparso in carne ed ossa in mezzo al presbiterio.
Note sparse, per lo più derivate dalla Bibbia di Gerusalemme
Rallegratevi sempre nel Signore:
ve lo ripeto, rallegratevi,
il Signore è vicino.
Rivolto da san Paolo ai Filippesi (Filippesi 4, 4.5b; Filippi era una città dell'antica Macedonia, oggi in Grecia settentrionale), questo accorato invito in latino suona così (ho inserito anche il versetto 5a omesso dalla liturgia):
Gaudete in Domino semper
iterum dico gaudete
modestia vestra nota sit omnibus hominibus
Dominus prope.
La prima parola dell'antifona (che è difficile sentire nelle messe solenni della Collegiata perché dovrebbe essere proclamata dal celebrante in assenza di canto di ingresso prima del segno della croce) dà il nome a questa domenica d'avvento, tradizionalmente detta Gaudete in parallelo alla IV domenica di quaresima Laetare (un altro invito, stavolta al singolare: "Rallegrati Gerusalemme" [Isaia 66,10 o Sofonia 3,14 ?? ), in cui è consentito l'uso del rosa come colore liturgico.
L'imperativo latino gaudete traduce il greco kàirete che, nella forma singolare kàire, oltre a significare "gioisci" è anche una tipica forma di saluto, tanto che nell'Ave Maria è tradizionalmente tradotto appunto con Ave, classico saluto romano. Proprio l'Ave dell'angelo all'annunciazione suggella l'inizio di questo "rallegrarsi" che, come nota san Paolo, ora vale sempre.
La modestia latina è tradotta dalla CEI come "affabilità", eliminando il senso di umiltà insito nel termine latino. Secondo il mio dizionario elettronico Sabatino-Coletti, l'affabilità è "bonarietà e gentilezza di modi". Vediamo come la CEI traduce le altre occorrenze del corrispondente termine greco:
1Timoteo 3,2-3 | 2Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, 3non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. |
Tito 3,1-2 | 1Ricorda loro di esser sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; 2di non parlar male di nessuno, di evitare le contese, di esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini. |
Giacomo 3,17 | 17La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. |
1Pietro 2,18 | 18Domestici, state soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili. |
Abbiamo così messo in evidenza uno dei principali problemi della versione CEI: la non uniformità di traduzione di uno stesso termine anche in contesti comparabili.
Possibile che Giovanni, dopo la folgorante scena del battesimo di Gesù [Matteo 3,13ss e paralleli], avesse ancora dei dubbi su chi fosse il Messia? Qui a santa Maria di Montesanto il celebrante ci ha spiegato quale fosse la "pietra" su cui inciampava il battezzatore: il dubbio di Giovanni riguardava infatti l'operato di Gesù. Infatti, già dal tono del suo discorso riportato in Matteo 3,10-12 si evince quale idea molto personale avesse del Messia [BJ nota a Matteo 11,3]:
10Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. 11Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. 12Egli ha in mano il ventilabro [il ventilabro è una pala con cui lanciare in alto il grano lasciando che sia il vento a soffiare via la pula che è più leggera], pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”.
Gesù invece con le sue parole e le sue azioni si preoccupa di adempiere solo gli aspetti positivi annunziati dai profeti al riguardo alla sua venuta [BJ nota a 11,5].
Per quel che riguarda la "canna sbattuta dal vento", si noti come cambi la prospettiva se il vento in questione fosse lo Spirito Santo e la canna rappresentasse la docilità e la mitezza (l'affabilità di Filippesi 4,5 secondo la CEI) di Giovanni Battista nei suoi confronti. Questa immagine si attaglia benissimo alle vicende umane di ogni profeta dell'antico testamento. Comunque in greco si tratta proprio di "vento", non di "soffio" pneuma.
Un'ultima nota sul versetto 12, escluso per un pelo e certo non a caso dalla pericope evangelica di oggi:
Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono.
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Napoli, 15/XII/2001 e 10/II/2002, 25/VI/2002