ESISTEVA IN FORMA DI DIO
ERA DI NATURA DIVINA












FILIPPESI 2,6





 

ESISTEVA IN FORMA DI DIO (FILIPPESI 2,6)

 

 

 

Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi ubbidiente fino alla morte ed ala morte di croce (Filippesi 2,6-8).

 

 

Traduzione letterale

In forma di Dio +  uguale a Dio  

Cosa da afferrare o cosa da trattenere?

Varie traduzioni possibili

 

  

  

TRADUZIONE LETTERALE

 

Che  in   forma   di Dio esistente   non    tesoro    reputò     lo  essere   egualmente a  Dio

Qui cum in forma Dei    esset        non    rapinam     arbitratus est  esse  se  aequalem Deo

Ος   εν   μορφή  θεου υπαρχων ουχ      αρπαγμον      ηγησατο      το ειναι       ισα   θεω

 

 

 

IN FORMA DI DIO (εν  μορφή  θεου) +  UGUALE(MENTE) A DIO  (ισα   θεω)

 

Nel Nuovo Testamento il termine μορφή è usato solo due volte (Filippesi 2,6 e Marco 16,12), mentre nell'Antico Testamento compare varie volte nella Settanta (ad esempio: Giudici 8,18; Giobbe 4,16; Isaia 44,13; Daniele 3,19; Daniele 5,6; Tobia 1,13; Sapienza 18,1; 4 Maccabei 15,4) con il senso di "aspetto, immagine, portamento, sembiante, espressione, apparenza, forma visibile, condizione, stato".[1]

 

Si noti che Filippesi 2,6 usa μορφή in senso di "condizione", "stato", "rango", "natura, "essenza", anche se per "natura" o "essenza" ci si sarebbero aspettati i termini greci ουσια (ousia) e φυσισ (fusis). Occorre tener conto che, molto probabilmente, Paolo non intese ripercorrere le dotte categorie di "forma e materia" o di "forma e sostanza" elaborate da Platone e da Aristotele all'interno del pensiero filosofico greco. Il termine "morfé fu invece qui impiegato per evidenziare ed enfatizzare la cosiddetta "kenosis", cioè il passaggio di Gesù Cristo dalla condizione di Dio (morphé theou) alla condizione di servo (morphé doulou). Il fatto che μορφή non indichi solo la forma esteriore ma anche lo stato, la condizione e la sostanza sembra a molti chiaramente confermato da Colossesi 2,9, dove l'apostolo Paolo ribadì che in Gesù Cristo "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità". Che Paolo si riferisse, invece, solo all'aspetto esteriore, alle sembianze e alle apparenze, senza voler per forza affrontare un discorso sulla natura ed sull'essenza del Logos, pare ad altri evidentemente dimostrato dal fatto che il termine morfé fu usato da Marco per dire che, dopo una prima apparizione successiva alla resurrezione, "Gesù apparve ai discepoli sotto altro aspetto" (Marco 16,12), senza peraltro subire una evidente metamorfosi interiore né tantomeno un reale cambiamento ontologico.


A tutto ciò va aggiunto il fatto che alcuni classici greci usarono il termine μορφή anche nel senso di "gloria, bellezza, splendore e leggiadria". Hanno pertanto interpretato il termine "morfé" come "condizione, stato, rango, posizione" e, in via subordinata, pure come "natura, essenza e sostanza" anche non pochi Padri della Chiesa come Basilio, Gregorio di Nissa, Cirillo Alessandrino, Giovanni Crisostomo e Giovanni Damasceno. A tal proposito, emblematico è quanto scrisse Basilio di Cesarea già verso la metà del IV secolo: "L'espressione essendo in forma di Dio ha lo stesso valore di essere in sostanza di Dio. Come infatti le parole aver preso forma di servo significano che nostro Signore fu generato nella sostanza di uomo, così, dicendo essere in forma di Dio, l'Apostolo presenta proprio la peculiarità della sostanza divina" (Basilio, Contro Eunomio, I, 18).

 

Negli ultimi due secoli moltissimi studiosi hanno condiviso l’idea che μορφή altro non fosse che "il modo con cui un essere manifesta esteriormente la sua natura" (Robertson, Scofield, Strong, Thayer, Vine, Wesley). Negli ultimi decenni, alcuni ricercatori sono però ritornati a traduzioni meno condizionate dalla teologia, rendendo “morfé” con condizione (Benoit, Bonnard, Dupont, Feuillet, Kennedy, Heriban, Milligan, Tillman), con status (Schnackenburg), con fattezza (Grelot e Zedda), con modo d’esistere (Gnilka e Kaseman) e con forma (Ballarini e Martin). Al momento, la traduzione che raccoglie maggiori consensi, nel contesto dell’inno paolino, è “condizione", termine che meglio di altri rende l’opposizione ed il parallelismo tra la “morfé theou” di Filippesi 2,6 e la “morfé doulou” di Filippesi 2,7, cioè tra la condizione di Dio e la condizione di servo.[2]

 

Nel Nuovo Testamento ισον  θεω si trova poi in Giovanni 5,18 dove è detto che "Gesù chiamava Dio suo Padre facendosi uguale a Dio": il termine ισον indica infatti inequivocabilmente uguaglianza ed equivalenza. La traduzione letterale di ισα potrebbe essere "ugualmente". Viene infatti qui usata la costruzione avverbiale neutra ισα invece di ισον per dare maggiore enfasi alla frase e per sottolineare l’uguaglianza del Figlio con Padre (per natura, rango, trattamento  ed attributi). Come in Luca 6,34 e in Apocalisse 21,16 ισα non ha alcuna valenza riduttiva e può legittimamente tradursi con “uguale”.[3]

 

 

 

 

COSA DA AFFERRARE O COSA DA TRATTENERE?

HARPAGMON (αρπαγμον) = res rapienda o res retinenda

 

Entrambe le traduzioni sono grammaticalmente possibili. Alcuni interpretano αρπαγμον come res retinenda, cioè come tesoro da trattenere gelosamente, mentre altri traducono αρπαγμον come res rapienda, cioè come bottino o preda da afferrare con violenza.).

     

A favore della seconda traduzione gioca il fatto che il verbo αρπαζω (harpazo) da cui deriva αρπαγμον (harpagmon) significa "derubare con violenza, ghermire, sottrarre velocemente, rapire, portar via" e che nel Nuovo Testamento è sempre usato in questo senso (Matteo 11:12; Matteo 12:29; Matteo 13:19; Giovanni 6:15; Giovanni 10:12; Giovanni 10:28; Giovanni 10:29; Atti 8:39; Atti 23:10; 1 Tessalonicesi 4:17; Ebrei 10:34; Giuda 23; Apocalisse 12:5).

 

A favore della prima traduzione sta il fatto che la Parola di Dio, essendo già in forma di Dio, non avrebbe potuto voler afferrare e rapinare ciò che era già suo. Di fatto, il punto di vista anti-trinitario loda Cristo perché rimase entro i limiti di un essere creato. A ben guardare però non sembra esserci molto da lodare in una creatura divina o angelica che rinunci ad un colpo di mano per spodestare Dio e per prenderne il  posto. Se Cristo si fosse limitato a non tentar di divenire uguale a Dio, non saremmo di fronte ad un caso di umiltà ma ad un semplice esempio di onestà intellettuale, di equilibrio mentale e di senso della misura. Vero esempio di umiltà (giustamente lodato da Paolo) sembra invece il fatto che realmente Cristo, pur essendo Dio, si sia spogliato delle proprie prerogative divine per assumere forma di servo e natura umana, il tutto ....al solo fine di salvarci. Un paragone tra il Logos e Satana il Diavolo è inoltre logicamente improponibile: un assalto al trono di Dio da parte degli angeli ribelli non è infatti biblicamente provato né sembra credibile alla luce della grande intelligenza dei puri spiriti. Probabile è invece un paragone con Adamo: il padre di tutti i viventi, pur essendo stato fatto solo ad immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,24), fu realmente tentato dalla prospettiva demenziale e titanica di diventare come Dio, peccando così di grave disobbedienza, di smisurata superbia e di evidente follia.


L’interpretazione di “harpagmos” in senso negativo (cioè di cosa da rubare, da rapinare, da afferrare con violenza) non va comunque rigettata a priori. Il testo di Filippesi 2,5 -11 lascia infatti spazio ad un accettabile subordinazionismo posizionale e funzionale all’interno della divinità, subordinazionismo peraltro valido anche nella piena ortodossa trinitaria. Anche se il Padre e il Figlio sono “uno” nella loro essenza (cioè entrambi esistono nella forma di Dio), si sono evidentemente distinti nelle loro persone, nei loro ruoli e nelle loro funzioni. Questo rapporto intra-trinitario rende possibile la redenzione. Secondo un piano programmato, il Padre manda il Figlio nel mondo come un rappresentante, come un uomo e come un servo. Il Figlio non cerca di abbandonare il suo ruolo afferrando e trattenendo a tutti i costi una innaturale parità funzionale con il Padre. Al contrario, il Figlio obbedisce al Padre ed entra nella storia. È sottomesso al Padre non solo nella sua incarnazione, nel rifiuto di cedere alle lusinghe di Satana e nella morte in croce ma ubbidisce ed ha obbedito al Padre da tutta l'eternità. Se si accetta la possibilità che in Cristo convivessero due nature, non si può rigettare a priori la possibilità che le interpretazioni del termine "harpagmos" si completino a vicenda. Di fatto Gesù-Uomo non seguì l'esempio negativo di Adamo ed evitò di esercitare dalla propria carne un ruolo divino antagonista al Padre, mentre Gesù-Dio non conservò gelosamente le proprie prerogative celesti ma accettò di spogliarsi totalmente e di assumere la condizione di servo.[4].

 

Alcuni studi filologici hanno comunque mostrato come αρπαγμα = αρπαγμον perda il connotato violento di res rapta e di res rapienda (cioè cosa rubata, preda, ruberia, furto, rapina, cosa da afferrare, cosa da ghermire) se usato (come in Filippesi 2,6) con verbi come ηγεισθαι (ritenere), ποιεισθαι (supporre) e τιθεσθαι (credere) ed assuma invece il significato di res retinenda (cioè di guadagno, colpo di fortuna, tesoro, vantaggio, cosa da trattenere, cosa da usare a proprio vantaggio, cosa da sfruttare per il proprio tornaconto). Tale uso sarebbe testimoniato da moltissimi autorevoli scrittori greci come Dionigi di Alicarnasso, Eliodoro, Galeno, Herondas, Lisia, Luciano, Plutarco, Senofonte e Tucidide [5] [6] [7].

 

 

 

VARIE TRADUZIONI DI FILIPPESI 2,6

(bibbie cattoliche sottolineate)

 

·         Qui, cum in forma Dei  esset, non rapinam  arbitratus est esse se aequalem Deo (Vulgata IV secolo)

·         Il quale, essendo in forma di Dio, non reputò rapina l'essere uguale a Dio (Diodati 1607)

·         Who, being in the form of God, thought it not robbery to be equal with God (King James Version 1611)

·         Who being in the form of God, thought it not robbery to be equal with God (Douay-Rheims Bible 1899)

·         Who, being in the form of God, thought [it] not robbery to be equal to God (Young's Literal Translation, Revised Edition 1898)

·         Who, existing in the form of God, counted not the being on an equality with God a thing to be grasped (American Standard Version 1901)

·         Who, subsisting in the form of God, did not esteem it an object of rapine to be on an equality with God (Darby Holy Bible 1923)

·         Il quale, essendo in forma di Dio, non reputò rapina l'essere uguale a Dio (Riveduta Luzzi 1924)

·         Egli che, essendo divino per natura, non reputò l'uguaglianza con Dio esser cosa da ritenere con avidita (Bibbia Luzzi, Fides et Amor, 1927)

·         Who, though he was in the form of God, did not count equality with God a thing to be grasped (Revised Standard Version 1952)

·         Lui, di natura divina, non tenne per se gelosamente l'essere pari a Dio (Bibbia Utet 1963)

·         Who, although being essentially one with God and in the form of God [possessing the fullness of the attributes which make God God], did not think this equality with God was a thing to be eagerly grasped or retained (Amplified Bible 1965)

·         For the divine nature was his from the first; yet he did not think to snatch at the equality with God (New English Bible 1970).

·         Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio (Bibbia CEI 1974)

·         Who, although He existed in the form of God, did not regard equality with God a thing to be grasped (New American Standard Bible 1971).

·         Who, being in very nature God, did not consider equality with God something to be grasped (New International Version 1978)

·         Egli, essendo per natura Dio, non stimò un bene irrinunciabile l'essere uguale a Dio (Nuovissima Versione Paoline 1984).

·         Egli era come Dio ma non conservò gelosamente il suo essere uguale a Dio (Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente 1985)

·         Who, though he was in the form of God, did not regard equality with God something to be grasped (New American Bible 1987)

·         Il quale, benché esistesse nella forma di Dio, non prese in considerazione una rapina, cioè che dovesse essere uguale a Dio (Traduzione Nuovo Mondo 1984-1987).

·         Who, though he was in the form of God, did not regard equality with God as something to be exploited (New Revised Standard Version 1989)

·         Who, being in the form of God, did not consider it robbery to be equal to God (New King James Version 1990).

·         Il quale, essendo in forma di Dio, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l'essere uguale a Dio (Nuova Diodati 1991).

·         Il quale, pur essendo in forma di Dio, non reputò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente (Nuova Riveduta 1994)

·         Though he was God, he did not demand and cling to his rights as God (New Living Translation 1996)

·         Though he was in the form of God, did not count equality with God a thing to be grasped (English Standard Version 2001).

·         Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio (Nuova Cei 2008)

 

 



[1] Giudici 8:18 Poi disse a Zebah e a Tsalmunna: “Com'erano gli uomini che avete uccisi al Tabor? Quelli risposero: 'Eran come te; ognun d'essi avea l'aspetto (morfé LXX) d'un figlio di re”. Giobbe 4:16 Si fermò, ma non riconobbi il suo sembiante (morfé LXX); una figura mi stava davanti agli occhi e udii una voce sommessa che diceva.Isaia 44:13 Il falegname stende la sua corda, disegna l'idolo con la matita, lo lavora con lo scalpello, lo misura col compasso, e ne fa una figura umana, una bella forma (morfé LXX) d'uomo, perché abiti una casa. Daniele 3:19 Allora Nebucadnetsar fu ripieno di furore, e l'aspetto (morfé LXX) del suo viso fu mutato verso Shadrac, Meshac e Abed-nego. Egli riprese la parola, e ordinò che si accendesse la fornace sette volte più di quello che s'era pensato di fare. Daniele 5:6 Allora il re cambiò d'aspetto (morfé Teodozione). Sapienza 18:1 Per i tuoi santi risplendeva una luce vivissima; essi invece, sentendone le voci, senza vederne l'aspetto (morfé LXX) li proclamavan beati, ché non avevan come loro sofferto Tobia 1:13 l'Altissimo mi fece trovare grazia e stato di dignità (morfé LXX) al cospetto di Salmanàssar, del quale presi a trattare gli affari. 4 Maccabei 15,4 Noi imprimiano sopra il carattere di un piccolo bimbo una meravigliosa somiglianza di psiche e di forma (morfé LXX). Isaia 52:14  Come molti, vedendolo, son rimasti sbigottiti, tanto era disfatto il suo sembiante sì da non parer più un uomo, e il suo aspetto (morfé Bibbia di Aquila) sì da non parer più un figliuol d'uomo. Deuteronomio 4,12 Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna forma (morfé Simmaco); vi era soltanto una voce.

 

[2] Una bibliografia ricca, articolata ed interessante è presente nell’opera monumentale di N. Capizzi, L’uso di Filippesi 2,6-11 nella cristologia contemporanea, Roma, 1997, pp. 41-43. L'autore ricorda, tra l'altro, come la traduzione che oggi raccoglie i maggiori consensi (condizione di Dio) sia realmente libera da condizionamenti filosofici e teologici sulle nature di Cristo (paradossalmente, secondo un'esegesi molto letterale ma ragionevole, Gesù dovrebbe possedere sia la sostanziale natura di Dio che l'intrinseca natura di servo), mentre in un passato neppur troppo remoto anche alcuni autorevoli studiosi (Behem, Heriban, Lamarche, Lighfoot, Martin, Murphy-O'Connor) hanno talora risentito di alcune suggestioni filologiche sulla presunta equivalenza dei termini morfé (forma), doxa (gloria) e eikon (immagine).

 

[3]E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto (= ισα)” (Luca 6,34).  La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L'angelo misurò la città con la canna: misura dodici mila stadi; la lunghezza, la larghezza e l'altezza sono eguali (= ισα)” (Apocalisse 21,16). Per un'analisi dell'uso avverbiale di ισα nel greco classico, vedasi, ad esempio, G.B. Winer, A Treatise on the Grammar of New Testament Greek, 1870, pag. 221.

 

[4] Molti studiosi hanno a lungo pensato che i termini “in forma di Dio” e “l’essere uguale a Dio” fossero legati ed equivalenti, basandosi sull’erronea assunzione di un ipotetico uso anaforico di un infinito preceduto da articolo (το ειναι ισο θεο). Alcuni recenti studi hanno dimostrato come tale legame presenti fondamenti piuttosto fragili, permettendo di scartare ipotesi grammaticali poco fondate e di recuperare un ortodosso subordinazionismo posizionale e funzionale del Logos nei confronti del Padre. A tal proposito vedasi, ad esempio, Denny Burk, On The Articular Infinitive in Philippian 2,6: A grammatical note with christological implications, in Tyndale Bullettin, LV, 2, 2004, pp. 253-274. Secondo Daniel Wallace, Filippesi 2,6 sarebbe un chiaro esempio di costruzione "oggetto-complemento con doppio accusativo": un accusativo sarebbe il diretto oggetto del verbo, mentre un altro accusativo funzionerebbe da complemento predicativo. La presenza dell'articolo permetterebbe di distinguere i due accusativi, evitando di invertire l'ordine ed il senso della frase. L'articolo marcherebbe così in modo indelebile la frase contenente l'infinito accusativo (l’essere uguale a Dio) come accusativo diretto del verbo finito (reputare), distinguendola dall'accusativo indiretto, cioè dal complemento predicativo dell'oggetto (rapina). Di fatto, in mancanza di un articolo davanti al verbo essere, la frase potrebbe essere legittimamente interpretata in almeno due modi: a) "non considerò [una certa] rapina tanto [importante)] quanto essere uguale a Dio"; b) "non considerò l'essere uguale a Dio una rapina (cioè una cosa da rapinare o da trattenere gelosamente)". Vedasi, a tal proposito, Daniel B. Wallace, Greek Grammar Beyond The Basic, 1996, pag. 187 e 221.

 

[5] Vedasi, a tal proposito, W. W. Jaeger, Eine Stilgeschichtliche Studie Zum Philipperbrief, Hermes 50, pp. 537-53, 1915 ed il più recente R. W. Hoover, The Harpagmos Enigma: A Philological Solution, The Harvard Theological Review, Vol. 64, n. 1, 1971.

 

[6] Si noti come αρπαγμον (presente solo in Filippesi 2,6) costituisca una rara forma di αρπαγμα (presente invece in vari punti della LXX come, ad esempio, Salmo 61,11; Isaia 61,8; Ezechiele 33,15; Siracide 16,14). L’analisi di alcuni scritti di Eusebio di Cesarea testimonia comunque la perfetta equivalenza tra le due forme: lo scrittore utilizzò infatti la prima forma per chiarire come “Pietro considerava la morte in croce come un guadagno (αρπαγμον) rispetto alle speranze di salvezza” (Eusebio, Commentario su Luca, 6) e la seconda forma per spiegare come “molti cristiani consideravano la morte come una cosa da usare a proprio vantaggio (αρπαγμα) per sfuggire alla depravazione degli empi  (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VIII, 12, 2). Un caso simile ad αρπαγμον- αρπαγμα è dato da βαπτισμα (Matteo 3,7; Romani 6,4; Efesini 4,5) e βαπτισμος (Colossesi 2,12): in entrambi i casi si parla di battesimo ed entrambi i termini sono indifferentemente usati nel Nuovo Testamento.

 

[7] L’uso di αρπαγμα, nel senso di guadagno, colpo di fortuna, tesoro, vantaggio, cosa da trattenere, da usare a proprio vantaggio, da sfruttare per il proprio tornaconto, non è certamente frutto di pregiudizi trinitari, in quanto diffuso nella letteratura greca già alcuni secoli prima della venuta di Cristo. A tal proposito vedansi: Tucidide, La guerra del Peloponneso, III, 33; Lisia, Frammento XIX; Eliodoro, Etiopiche, VII, 20; VIII, 7; Xenofonte, Memorabili, I; Plutarco, De Alexandri magna fortuna aut virtute, I, 8; Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, II, 41; Luciano di Samosata, Ermotino, 52; Galeno, De Semine, IV e De Simpl. Medicam., XII.