Fattori congeniti predisponenti a patologie non esonerano da responsabilità chi lede il diritto alla salute

 

Trib. Alba, 9 agosto 2004 – G.U. Pasi – De Santis Francesco (avv.ti Ambrosio R. e Coppa P.) c. Cipriani Franco (avv. Ponzio R.) – Poste Italiane S.p.A. (avv. Cataldi R.).

 

Falso in atto pubblico – Danno non patrimoniale – Danno psichico - Predisposizione della vittima – Danno morale – Danno esistenziale – Prova Valutazione equitativa.

 

La predisposizione della vittima ad una sofferenza mentale non esclude la sussistenza del nesso di causalità tra fatto illecito e danno psichico (1).

Il danno esistenziale, ricompreso nella categoria del danno non patrimoniale, è risarcibile distintamente dal danno morale e dal danno biologico (2).

 

(1-2) FATTO ILLECITO DOLOSO, DANNO PSICHICO, DANNO ESISTENZIALE

 

SOMMARIO 1. Il fatto – 2. Le questioni – 3. Danno psichico e nesso causale – 4. Interrogativi - 5. Rilevanza del dolo sotto il profilo causale – 6. Le conseguenze volute non sono mai troppo lontane - 7. Dolo generico e specifico – 8. Danni non patrimoniali - 9. Comprensioni ragionevoli – 10. Fraus omnia corrumpit - 11. Indicazioni positive - 12. Falsi postali - 13. Difetto di benemerenze sociali - 14. La prova del nesso causale – 15. Il giudice e lo statuto probatorio – 16. Sostanza e processo – 17. Post hoc ergo propter hoc – 18. Prevedibilità del danno: un falso problema – 19. Il giudizio di adeguatezza - 20 La consulenza tecnica – 21. La predisposizione della vittima – 22. Danno psichico e danno esistenziale – 23. La quantificazione .

 

1. Il fatto – Un plico raccomandato torna indietro nello studio legale del mittente: evenienza capitata almeno una volta (c’è da credere) a chiunque eserciti la professione legale.

Insolita, a fronte del mancato successo della notificazione a mezzo posta di un decreto ingiuntivo, la reazione dell’avvocato. Il legale prende fra le sue mani il plico, su cui a chiare lettere era scritto che il destinatario si era trasferito altrove, e lo riporta all’Ufficio postale. Ottiene qui, complice il Direttore, che venga alterato il registro delle corrispondenze raccomandate in arrivo, e che, in luogo della dicitura “trasferito - rispedito al mittente”, sia apposta quella “al mittente per compiuta giacenza”.

Scopo della falsificazione, com’è intuibile, è (creare le premesse per poter) dare inizio alla fase esecutiva contro l’ignaro bersaglio dell’ordine giudiziale di pagamento - soggetto che diverrà poi, a sua volta, attore nel processo destinato a concludersi con la sentenza qui in esame.

Il signor De Santis - questo il nome dell’oggetto della congiura - non tarda a essere informato del decreto; propone allora giudizio di opposizione, ottenendo senza difficoltà, una volta dimostrata l’avvenuta falsificazione del registro, la remissione nei termini.

E’ un’iniziativa destinata a rivelarsi quantomai felice: al posto di 20 milioni circa di vecchie lire, sarà accertato a carico della vittima del falso un debito di appena 200.000 lire - il che ha l’effetto comunque (ecco il risvolto spiacevole) di esporre il De Santis alle noie di una lunga e complessa trafila giudiziale.

 Dalla vicenda scaturiscono, in particolare: (a) un processo penale per falso in atto pubblico, che si chiuderà con un patteggiamento; nonché appunto (b) un estenuante procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo. Risultato di tutto ciò è che il già fragile equilibrio mentale della vittima rimane incrinato, poi addirittura sconvolto - tanto che la stessa verrà sviluppando un sempre più acuto “disturbo ossessivo-compulsivo”.

Di qui la scelta del De Santis di rivolgersi, nel 2002, ancora una volta alla giustizia, chiedendo il ristoro di ogni danno patrimoniale e non patrimoniale (psichico, morale ed esistenziale) conseguente all’illecito - non solo civile, ma anche penale – che era stato commesso dal Direttore dell’Ufficio postale.

 

2. Le questioni – Più d’una, sotto il profilo della responsabilità civile, le direzioni lungo cui la vicenda sottoposta al Tribunale di Alba sollecita il lettore a un approfondimento. Si tratta in particolare di chiarire:

- se, tra il comportamento da addebitarsi al convenuto (falsificazione dei registri postali) e l’evento lamentato dalla vittima (sofferenze di tipo anancastico) corra o meno, nell’ipotesi in esame, un nesso giuridico di causalità;

- se, in secondo luogo, l’eventuale presenza di concause preesistenti all’azione illecita (e rappresentate da una latente disposizione a turbe mentali, in capo alla vittima) andrà o no tenuta in conto, dal giudice, ai fini della riconduzione/esclusione della patologia in esame entro il carico risarcitorio del defendant;

- se, infine, il dato di quelle alterazioni psichiche sarà da apprezzare (risvolti patrimoniali a parte) anche sotto il profilo del danno morale e del danno esistenziale - così come mostra di fare la decisione qui commentata.

 

3. Danno psichico e nesso causale – Due i tratti che colpiscono a prima vista, nella sentenza di Alba:

(i) sotto il profilo statistico: ci troviamo di fronte ad uno dei non molti esempi di condanna riparatoria, emessa da un tribunale italiano, per il torto di “inflizione di un danno psichico” (nessun paragone, da questo punto di vista, con la frequenza di episodi analoghi presso altri sistemi, ad es. quelli di common law) [1].

(ii) dal punto di vista disciplinare: basta scorrere il provvedimento in questione, tenendo presenti alcune fra le più recenti sentenze nostrane, per accorgersi quanto spesso la riluttanza delle parti lese in Italia - e degli stessi avvocati - ad agire in giudizio per ottenere il risarcimento di (danni derivanti da) una compromissione della salute mentale, costituisca un atteggiamento ingiustificato.

   Non che il settore di cui si sta parlando, beninteso, si presenti sulla carta privo di ostacoli - sul terreno concettuale, disciplinare, processuale. Ed è indicativo il raffronto con l’area, tanto meno delicata dal punto di vista eziologico, delle lesioni di tipo biologico/fisico.

   Proprio la decisione di Alba attesta tuttavia come, una volta che i principi della responsabilità vengano applicati correttamente, non sia impossibile giungere ad esiti persuasivi - nel senso di una pienezza di tutela per la vittima - anche sul terreno qui in esame.

E’ noto, in particolare, quanto spesso il partito di coloro i quali avversano la possibilità di condanne ex lege Aquilia, nell’area dei disturbi mentali, faccia leva su considerazioni di ordine causalistico [2]. Come pensare di imputare le turbe psichiche accusate da A - realtà così liquide, inconsuete per il diritto privato - al comportamento (pur) antigiuridico di B?

Orbene, la sentenza in esame rivela trattarsi di obiezioni (magari rispettabili in astratto, ma) tutt’altro che insuperabili nella law in action.

     Non sono poche in effetti, stando a quanto i repertori giurisprudenziali suggeriscono (anche se non sempre segue poi la condanna al risarcimento), le ipotesi in cui un offuscamento della volontà e/o dell’intelletto del plaintiff apparirà riconducibile, in merito a questo o a quel settore di casi - incidenti stradali, infortuni sul lavoro, malpratice medica, violazioni di diritti della persona, etc. - a qualche fattore scatenante ben preciso, appartenente alla “zona di rischio” propria del convenuto.

 

4. Interrogativi - I problemi della causalità nel diritto, di cui alla vicenda in commento, possono per semplicità ripartirsi lungo due filoni:

   (i) un primo interrogativo è se - e fino a che punto - sia plausibile che azioni biasimevoli come quelle compiute dal defendant nell’area qui considerata (falsificazioni, scaltrezze) figurino, in circostanze particolari, all’origine di ricadute quali quelle lamentate dalla vittima (disturbi anancastici);

   (ii) una seconda domanda è se, a fini probatori di un legame siffatto, basterà che dall’attore venga allegata/dimostrata (niente più che) la sussistenza di “fatti commissivi” e di “esiti patologici” come quelli sopra menzionati (restando a carico dell’agente la controprova di passaggi tali da rovesciare l’evidenza di quel nesso); o se, in casi del genere, non dovrebbe invece richiedersi al danneggiato - a fini di piena evidenza di quel rapporto - la dimostrazione di elementi ulteriori, più loquaci e stringenti dei primi.

 

5. Rilevanza del dolo sotto il profilo causale – Merita subito rilevare come la soluzione a entrambi i quesiti non possa, in via di principio, prescindere dal riscontro per una variabile significativa del comportamento - quella inerente alle modalità soggettive. In particolare, dalla considerazione per l’eventuale malignità/intenzionalità del torto posto in essere dal convenuto.

   Restiamo ai fatti di causa.

Scontato, nella vicenda di Alba, che non di semplice negligenza o imprudenza si trattasse.

Pacifico, in particolare, il tratto della malafede quanto alla falsificazione dei registri delle corrispondenze raccomandate ed assicurate - ad opera del direttore delle poste.

   Sottolinea al riguardo il tribunale, in un passaggio della motivazione, come il direttore «ed il restante personale del piccolo ufficio postale erano perfettamente a conoscenza del fatto che il De Santis si era trasferito a Revigliasco e manteneva a Bandissero la mera formale residenza anagrafica; tant’è che l’attore aveva espressamente richiesto che la corrispondenza raccomandata gli fosse recapitata a Revigliasco. La circostanza, sostenuta nelle difese del De Santis e mai contestata dai convenuti, trova piena conferma nel fatto che la raccomandata contenente il decreto ingiuntivo era stata restituita all’ufficiale giudiziario di Bra, che aveva richiesto la notifica, non soltanto con la dizione “trasferito”, bensì con l’espressa menzione dell’indirizzo di Revigliasco, dunque ben noto al personale dell’ufficio postale».

 

6. Le conseguenze volute non sono mai troppo lontane - Sul terreno generale, allora .

Non v’è dubbio circa il pieno vigore - anche per il nostro sistema - del criterio eziologico che suole esprimersi, nei paesi di common law, con la formula intended consequences never too remote: le conseguenze volute non sono mai troppo lontane.

Il momento in gioco è, come si vede, proprio quello causale.

E il tenore pratico della regola appare quanto mai semplice da illustrare: di fronte a iniziative che si presentino contrassegnate da frode, sorpresa, malevolenza, animus nocendi, premeditazione, etc., il raggio d’insieme della causalità - il conteggio degli eventi ricollegabili al gesto di partenza - sarà destinato ad allargarsi, di tanto o di poco, rispetto a quanto avverrebbe dinanzi a una condotta meramente colposa [3].

   Nel senso che anche accadimenti di per sé anomali (lontani dall’azione del defendant, bizzarri, frutto del combinarsi con circostanze sopravvenute, statisticamente improbabili, dovuti in larga misura al fortuito, etc.) vedranno aumentare, in misura più o meno sensibile, il loro coefficiente di riferibilità rispetto alla sfera del convenuto.

 

7. Dolo generico e specifico - Si tratta (aggiungiamo) di linee da prospettare in giudizio, sia pure con diverse graduazioni operative, quale che sia il tipo di malizia che venga in rilievo – ossia tanto al cospetto di un dolo “generico”, quanto in presenza di un dolo “specifico”.

   La catena dei passaggi imputabili potrà allungarsi cioè, in confronto alla norma, sulla base di questo o quel sub-meccanismo, laddove:

    (i) ci si trovi dinanzi a una volontà primigenia (dell’agente) polarizzata proprio sulla causazione di quel certo accadimento, più o meno sofisticato o distante rispetto agli anelli di base;

   (ii) nel piano iniziale del defendant rientri null’altro che il verificarsi dell’evento primo; senza calcoli/desideri aggiuntivi, relativi all’elemento del danno arrecato o ad alcune quote/sfumature dello stesso: e senza prefigurazioni (collegate magari a sentimenti di “indifferenza”) in ordine a questa o quella conseguenza di rimbalzo.

 

8. Danni non patrimoniali - Sotto il profilo funzionale, allora.

   Le chiavi del maggior “risalto attrattivo” del dolo, all’interno della fattispecie, sono evidenti là dove la componente interessata risulti quella del (differente ammontare del) danno inflitto all’offeso: allorché emerga cioè come taluni contraccolpi, a fronte di un’azione (che fosse stata) sgombra da ogni viltà/cattiveria, non si sarebbero affatto prodotti - o avrebbero comunque avuto un minor peso.

E’ quanto capiterà, di regola, allorché si versi sul terreno del danno esistenziale, e ancor più quando le poste in gioco siano quelle del danno morale.

Non è infrequente che il dato dell’altrui malvagità o perversità abbia l’effetto di provocare, qui, sentimenti aggiuntivi di collera, di umiliazione presso il destinatario; oppure turbe depressive, malinconie, coazioni ossessive a ripetere, magari un più accentuato impoverirsi nella qualità della vita, uno scadimento nel livello di rapporti con gli altri.

Ripercussioni - peculiari, ulteriori - che mancherebbero nel conto finale del plaintiff, verosimilmente, in ipotesi di aggressioni meramente colpose.

Si paga (si è chiamati a risarcire) per la protervia dimostrata verso chi ci stava intorno - senza la quale alcuni degli inconvenienti, per quest’ultimo, sarebbero stati meno seri e duraturi.

 

9. Comprensioni ragionevoli – Non c’è solo questa eventualità disciplinare da cogliere, ad ogni modo, sul terreno eziologico.

A risultati analoghi occorrerà giungere, talvolta, pur al di fuori dell’area del danno non patrimoniale - in particolare, a fronte di conseguenze pregiudizievoli:

(i) tali da farsi avvertire in misura sostanzialmente uguale, stanti le loro caratteristiche di esteriorità/oggettività, dinanzi a iniziative dolose come di fronte ad azioni colpose;

(ii) meritevoli tuttavia - in forza di qualche opportunità di natura sanzionatoria, radicata nell’universo della responsabilità - di una differenza di trattamento secondo il tipo di colpevolezza ravvisabile.

Le ragioni di ciò sono ben note.

Vi è alla base del nostro sistema del torto (contrattuale ed extracontrattuale) un criterio di generale indulgenza verso i danneggianti malaccorti, poco fortunati. E il primo spettro da dileguare a monte, con appropriate soluzioni, è per il legislatore proprio quello di (futuri) esborsi risarcitori ingiustificati nell’an e/o spropositati nel quantum.

   Troppo spesso il defendant potenziale si asterrebbe altrimenti dall’entrare in azione, dall’assumere iniziative di sorta – salvo quelle completamente insignificanti.

   Si tratta, politicamente, di un motivo cui mostrano di esser sensibili un po’ tutti gli ordinamenti moderni. E nessun interprete ha mai dubitato che il settore dell’illecito sia fra quelli in cui la libertà di manovra dei cittadini dev’essere, punto per punto, salvaguardata con maggior vigore.

    Tocca alla “vittima designata” prendere a suo carico, entro questa fascia dei riflessi più inusuali, il fatto di vivere all’interno di una società complessa, ricca di sorprese e di boomerang - adottando lei (semmai) le misure utili a impedire che le frange meno ovvie del danno, o certi eventi più lontani e capricciosi, possano venire ad esistenza.

 

10. Fraus omnia corrumpit - Tutto questo però (e si arriva così al nocciolo del discorso) nei limiti del presupposto soggettivo che è stato sopra indicato: a condizione che vi fosse cioè, alla base del danneggiamento in questione, niente più che un errore di condotta.

È palese come, modificandosi lo scenario della colpevolezza (qualora emerga, in particolare, che la libertà in questione è stata impiegata dal defendant per far del male di proposito), la soluzione non potrà restare la medesima:

(x) ciò non soltanto, come spesso si sottolinea, in forza di un imperativo morale che appare vivo in tutti gli ordinamenti, di ieri e di oggi – e che invita a “non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi”;

(y) né unicamente alla stregua di un canone, etico/politico, improntato al motivo della solidarietà tra gli esseri umani - che non manca di comparire, sotto questa o quella veste, in nessuna fra le dichiarazioni costituzionali dei nostri tempi;

(z) e neppur solo (altro crinale significativo per il tortman) nel nome delle valenze preventive e ammonitrici della responsabilità civile - messe in causa, più che mai, dal grado di pericolosità che è tipico delle azioni dolose: appunto perché architettate a monte, da un tortfeasor in grado di immaginare gli scogli futuri e di aggirarli scaltramente, uno per uno, le conseguenze volute hanno la quasi certezza di realizzarsi per davvero.

 

11. Indicazioni positive - Anche il nostro ordinamento privatistico (ecco il passaggio da aggiungere) appare schierato expressis verbis in quel senso.

   Basta pensare alle soluzioni che figurano accolte, rispettivamente, in materia di danno imprevedibile da inadempimento (art. 1225 c.c.), di concorso di colpa del creditore (artt. 1227 e 2056 c.c.), di ripartizione del carico risarcitorio fra corresponsabili (art. 2055 c.c.), di quantificazione del danno ambientale (art. 18 l. 349/1986).

   Senza contare, poi, l’elenco delle ipotesi in cui la presenza del dolo o della colpa grave è richiesta, dal legislatore, come presupposto per la nascita dell’obbligazione riparatoria in quanto tale: atti emulativi, denuncia penale infondata, responsabilità del professionista o del giudice, atti di disposizione di cose altrui, e così di seguito.

   Di queste tracce positive il suggello sul terreno generale della causalità non costituisce, a ben vedere, che una sorta di razionalizzazione. Una sintesi a 360 gradi, però, collocata nel cuore stesso del giudizio di responsabilità - in grado di orientare la decisione per un numero illimitato di controversie.

In nessun caso il Leitmotiv dell’iniziativa privata da difendere, del traffico giuridico da incoraggiare, sarà elevabile (ecco la conclusione) a scudo dietro cui nascondere l’intento del convenuto di nuocere agli altri. Soltanto nei confronti di chi versi in semplice stato colpa lieve può aver senso alleggerire, sino a un certo punto, il carico pecuniario per le conseguenze “remote” del fatto - estranee ad ogni rischio personale o di impresa (artt. 1218 e 1223 c.c.).

 

12. Falsi postali - Sono tutte indicazioni, osserviamo, che nella vicenda in commento mostrano di calzare a pennello.

   Nessun dubbio che le vittime di una falsificazione postale vadano incontro, frequentemente, a brutte sorprese. Non è detto che l’imbroglio venga scoperto in tempo utile; e riuscire a porvi rimedio può essere, talvolta, assai difficile - con inconvenienti che minacciano (nelle pieghe di una burocrazia sempre più intricata, qual è quella odierna) di attingere soglie quanto mai spiacevoli.

     Ciò non soltanto sotto il profilo economico; s’è visto come i risvolti del danno alla persona, anche quelli di natura non patrimoniale, possano riuscire tutt’altro che irrisori.

   Quanto poi ai nodi specifici della causalità, la sentenza di Alba parla (con riferimento alla situazione del De Santis) di un soggetto il quale “avendo maturato una vera e propria fobia da contaminazione, ad esempio impiega ore e ore a vestirsi e a svestirsi, non cambia per lungo tempo gli indumenti per timore di contaminarsi, impedisce l’accesso alla sua stanza a chiunque compresi i più stretti familiari».

E’ palese anche un motivo ulteriore, allora - di non poca importanza ai fini del giudizio. E il riferimento è ai tratti di specularità/uniformità che si evidenziano, nella vicenda considerata, fra il tipo di dolo posto in essere dal convenuto e il tipo di evento subito alfine dalla parte lesa.

Tanto maggiori (tenuto conto dell’odiosità della macchinazione: un vero e proprio complotto tra avvocato e funzionario delle Poste, idoneo a scatenare nel destinatario fantasmi quanto mai sottili, insidiosi) erano le probabilità che si determinasse, prima o poi, un disturbo ossessivo/compulsivo quale quello lamentato dal De Santis.

    Tanto più forti le ragioni di principio per non lasciare quest’ultimo, sul terreno aquiliano, completamente abbandonato a se stesso.

 

13. Difetto di benemerenze sociali - C’è al mondo chi (dopo aver scelto, poniamo, di usurpare un brevetto, commettere abusi edilizi, calpestare questo o quello standard relativo alle immissioni) può invocare a proprio discapito, talvolta, una serie di ricadute positive: l’aver comunque favorito l’occupazione circostante, incrementato l’indotto produttivo - dato vita a forme inedite di ricchezza.

    Nulla del genere nel caso delle falsificazioni postali. Gli unici ad avvantaggiarsene saranno, qui, gli impiegati che le pongono in essere - al più con i loro complici esterni. Impossibile accampare medaglie sottostanti di tipo socio-economico.

Così a maggior ragione in vicende come quella di Alba. Il pregiudizio non si esauriva, in questo caso, nella circostanza della corrispondenza violata e artefatta; dietro la manomissione della scritta, all’interno della busta, vi era un atto giudiziario vero e proprio.

Si trattava, più precisamente, della notifica di un decreto ingiuntivo - modalità necessaria per permettere al soggetto, cui il plico cartaceo era diretto, di esercitare il proprio diritto di difesa con una citazione formale in opposizione.

   Il tramite per la realizzazione, insomma, di un adempimento prescritto in maniera esplicita dal codice di rito.

Nessun risvolto di tipo collettivo, come si vede, capace di far pendere il piatto della bilancia a favore dell’agente - in una sorta di compensatio lucri cum damno. Quello affidato dall’ufficio postale era non già un ruolo strumentale al soddisfacimento di interessi connessi alla comunicazione, sul terreno privatistico; costituiva un passaggio legato, in senso stretto, all’attività elementare di amministrazione della giustizia.

 

14. La prova del nesso causale – Anche in merito alle questioni probatorie, va preso atto come il collegio piemontese si sia pronunciato, chiaramente, a favore della vittima.

  Due in particolare - tenendo presenti gli interrogativi nei quali riassumevamo, poco sopra, il thema decidendum - le conclusioni cui la sentenza mostra di essere approdata:

   (i) piena idoneità delle iniziative di un falsificatore postale a farsi leggere, in determinate circostanze, quali fonti (verosimili) di ripercussioni interne quali quelle accusate dalla vittima di Alba, ossia disturbi di tipo anancastico;

   (ii) piena sufficienza, a fini di prova del nesso causale, dell’evidenza di “fatti commissivi” e di “esiti patologici” come quelli appena detti (ed emersi in effetti nello scenario piemontese); non necessità di dimostrazione da parte dell’attore di circostanze ulteriori, più loquaci e stringenti delle prime.

    Si tratta – occorre dire - di conclusioni da approvare senza riserve, su entrambi i piani.

Ed è facile accorgersi della loro piena rispondenza ai principi che governano la materia.

 

15. Il giudice e lo statuto probatorio – Cominciamo dal ruolo che gioca abitualmente il momento processuale, in vista della definizione dello statuto inter partes - quale operante rispetto a una determinata controversia.

Inutile sottolineare, a tale proposito, come non sempre il compito di predeterminare chi, fra attore e convenuto, dovrà ritrovarsi svantaggiato/castigato in sede di decisione finale (non essendo riuscito a provare-controprovare questa o quella circostanza), possa venire assolto dal legislatore.

Spetta alle corti nella maggioranza dei casi, anche in sede di responsabilità civile, provvedere in via suppletiva alle rifiniture necessarie [4]4.

    E gli spazi di integrazione saranno – occorre dire - tanto più significativi quanto più l’emersione di tratti inconsueti, nel contesto specifico, sarà venuta esaltando la pertinenza e lo smalto “politico” di alcuni valori di fondo (presenti comunque nelle gerarchie del legislatore).

Ad es. – come si è avuto già occasione di indicare - il presidio dovuto ai beni fondamentali della persona, la tutela da accordare ai c.d. soggetti deboli, la repressione del dolo o della colpa grave; oppure lo sfavore verso le attività illecite o immorali, la necessità che il profitto ingiusto venga riversato all’esterno, la comprensione per le eventuali goffaggini degli altruisti: magari la protezione per le attività di collaborazione con la giustizia, l’incoraggiamento verso le imprese artistiche e scientifiche, una ragionevole severità verso il c.d. best avoider. E così di seguito.

 

16. Sostanza e processo – Volta per volta si tratterà, dunque, di stabilire quale sia, nella distribuzione dei pesi fra i vari contendenti, la soluzione più sensata preferibile.

(I) Il diritto alla salute, per esempio. E’ palese come, quanto più energicamente ci si orienti a proteggere quel bene, tanto più il carico di colui il quale agisca come portatore di una sofferenza fisica o psichica, patita a seguito del torto altrui, andrà in partenza alleggerito [5].

   Ciò a maggior ragione con riguardo a quelle sfumature, nella lite, che presentino note di spiccata abnormità/misteriosità - aumentando presso il giudice l’incertezza circa l’effettiva meccanica degli avvenimenti.

   (II) Oppure le modalità soggettive della condotta. Qualora l’obiettivo sia, principalmente, quello di una repressione efficace degli imbrogli e delle premeditazioni, si tratterà di facilitare quanto più possibile - nel cammino processuale dell’offeso, una volta assodata la sussistenza dell’animus nocendi - la dimostrazione dei restanti elementi.

   Così, in particolare, per quanto attenga alle componenti del torto (rientranti ex art. 2697 c.c. fra gli oneri propri del plaintiff e) sulla cui gestione più intensamente il dolo mostra di poter incidere. Il che in concreto significherà:

- puntare, hic et nunc, su un assetto in cui ci si accontenti poco più che della dimostrazione di quella malignità, dal lato dell’attore; introducendo per tutto il resto delle presunzioni più o meno robuste di fatto (beninteso relative);

- caricare sul fardello del “cattivo”, specularmente, il pacchetto d’insieme delle controprove residue (con riferimento, ad es., a certe voci semi-automatiche del danno, a qualche anello fattuale della causalità, ad alcuni passaggi storici rilevanti sul terreno dell’ingiustizia, eventualmente dell’imputabilità).

(III) Così ancora in ordine agli altri obiettivi, di natura strategica, da presidiare con maggior premura sul terreno dell’illecito.

In nessun caso mancheranno passaggi rimessi ai doveri e/o all’intraprendenza dell’attore. Ed è indubbia, però, l’opportunità di misurare con prudenza la loro somma, come anche il nitore delle evidenze da fornire volta a volta - nella consapevolezza che ogni eccesso di purismo (ogni “accanimento probatorio”) incrinerebbe, sul terreno pratico, il significato dei vessilli agitati a monte.

 

17. Post hoc ergo propter hoc – Inutile ricordare quali fossero, nel caso di Alba, i valori essenziali da salvaguardare: (a) la tutela della salute psichica, di cui s’è appena parlato; (b) la repressione del dolo, sulla quale torneremo subito; (c) il presidio del buon funzionamento dell’amministrazione postale; (d) la salvaguardia della corretta amministrazione della giustizia.

    In che modo orientarsi nella distribuzione degli oneri, fra attore e convenuto? Sul dato dell’avvenuta falsificazione nessun dubbio, s’è visto, era emerso in giudizio. Rispetto ad altri passaggi della vicenda più di un dettaglio appariva, invece, controverso.

Di qui per il giudice l’opportunità di procedere nel modo suindicato: affidandosi, sul piano statutario, alle risorse (più che salomoniche) di una sorta di meccanismo causalistico post hoc ergo propter hoc :

- rinunciando a fare, cioè, di una serie di particolari fattuali l’oggetto di qualche prova specifica, messa sulle spalle dell’attore;

- chiamando il convenuto a svolgere lui, piuttosto, adeguate controdeduzioni al riguardo (ad es., far valere  il dato dell'avvenuta aggressione di un terzo, nei confronti del De Santis, tale da generare per se stesso l’evento di quei disturbi anancastici);

- in mancanza di un risultato del genere concludendo, come ha fatto appunto il collegio di Alba, a favore del plaintiff.

 

18. Prevedibilità del danno: un falso problema – Meno felici, bisogna dire, i passaggi in cui la sentenza si inoltra lungo i meandri disciplinari della prevedibilità - chiedendosi se il direttore della posta potesse, in particolare, immaginare che fatti come quelli da lui commessi avrebbero scatenato, presso l’offeso, conseguenze lesive quali quelle prodottesi.

   Un’impostazione del genere, plasmata verosimilmente sull’approccio difensivo della controparte, rischia di apparire fuorviante.

Salvo casi particolari è meglio, in effetti, se le locuzioni ufficiali del diritto vengono impiegate - dall’interprete - nel significato prevalente che esse hanno avuto sul terreno della dogmatica e della storia; tanto più ove si tratti della medesima accezione tenuta presente, in via diretta, dal nostro legislatore.

     Se questa è la premessa, la conclusione non potrà che essere nel senso di una ben circoscritta (anzi esclusiva) riconducibilità della nozione di prevedibilità alle questioni peculiari della colpa: negligenza, imprudenza, imperizia e così via..

   Vale a dire: allorché ci si domandi se un certo comportamento posto in essere da A, e pregiudizievole nei confronti di B, sia da qualificare o meno colposo, uno fra i parametri ex post utilizzabili (per la verità, sempre meno impiegato dagli studiosi recenti) sarà quello di chiedersi se e fino a che punto - al momento di entrare in azione - A poteva/doveva prevedere che alla sua iniziativa avrebbe fatto seguito quel certo accadimento negativo [6].

 

19. Il giudizio di adeguatezza - Nel caso di Alba il richiamo al motivo della prevedibilità - occorre aggiungere - risulta comunque improprio nella sostanza, sotto l’angolatura di una colpa stricto sensu intesa. Sappiamo di trovarci di fronte, in questa vicenda, a un comportamento dei falsificatori (che era) mosso da autentica intenzione di nuocere.

   Rimarrebbe da prendere in considerazione, è pur vero, il versante del rapporto di causalità - rispetto al quale la soluzione in giudizio appare però influenzata (come sopra rilevato) dal dato dell’intenzionalità della condotta.

Merita precisare, in ogni caso, come i richiami allo standard della prevedibilità - quand’anche nella vicenda in esame ci si fosse trovati di fronte a una manomissione colposa del plico (dovuta a mera negligenza) - sarebbero stato ugualmente poco corretti.

A contare formalmente sul terreno causalistico, in effetti, è non tanto il parametro soggettivo della prevedibilità, quanto quello oggettivo della mediatezza/immediatezza.

Il problema è in altre parole stabilire - rispetto a una controversia quale quella in commento - se tra l’evento “falsificazione” e la conseguenza “alterazione psichica” corra, o meno, un rapporto di causalità adeguata. E quelli destinati a guidare l’inchiesta saranno, per l’appunto, criteri prettamente oggettivi, indifferenti alle conoscenze o ai calcoli propri del convenuto.

   Per decidere se una determinata causa debba, in sostanza, ritenersi o no adeguata rispetto ad un certo evento/conseguenza, occorrerà verificare se la circostanza dell’aver posto in essere quel dato fattore – entro la cerchia storico/geografica che viene in risalto - abbia “innalzato oggettivamente il rischio” che si producesse quello specifico riflesso lesivo.

   Un computo al quale restano tendenzialmente estranee, ripetiamo, considerazioni relative al mondo interno/speculativo del danneggiante, e in cui sono destinati a rientrare piuttosto rilievi di tipo statistico, meccanico, biologico, fisico, medico - eventualmente con spazi per riferimenti di equità e giustizia come quelli sopra accennati (chi è cattivo dovrà pagare di più).

 

20 La consulenza tecnica – Resta da aggiungere come, nella CTU su cui il tribunale di Alba si è basato, compaia un’indicazione di piena verosimiglianza: il tranello di una falsificazione si pone, sulla carta, come una causa senz’altro adeguata di scompensi psichici per chi la subisce.

   Tanto basta per concludere circa una piena sussistenza degli estremi richiesti dall’art. 1223 c.c.

 

21. La predisposizione della vittimaAltro interrogativo è quello destinato a sorgere, abbiamo detto, sul terreno delle concause - in particolare, con riguardo all’evento “lesione alla salute psichica” di cui la vittima si lamenti.

   La conclusione del tribunale di Alba suona, al riguardo, ancora una volta persuasiva.

   Va tenuto presente, in generale, come tutti i sistemi non arcaici di responsabilità civile - al di fuori dei casi davvero limite (allorché la predisposizione della vittima abbia svolto un ruolo assorbente nella meccanica dell’accadimento) – appaiano fedeli, di regola, a un taglio di massima attenzione per la posizione e gli interessi della vittima.

Con riferimento all’interrogativo che qui interessa, varrà quindi abitualmente il canone take your plaitinff as you find him (prendi la tua vittima come la trovi). Più precisamente: colui il quale - virtuale convenuto - attraversi illecitamente la strada di terzi, violi gli altrui diritti, invada la sfera del suo prossimo, non può pretendere che il soggetto che gli si para dinanzi sia, naturalisticamente, quello che lui avrebbe preferito: ossia un individuo perfettamente disinvolto, perspicace, maturo, ben strutturato e con alti coefficienti di prontezza[7].

Dovrà “prendere la sua vittima così come la trova”; e, tanto più in caso di iniziative dolose o gravemente colpose, rimarrà a suo carico, tendenzialmente, il combinarsi e l’aggravarsi di quegli impulsi patogeni che figurino innescati da situazioni di morbosità/latenza preesistenti [8].

    La ratio del criterio è evidente. Chiunque al mondo - vittima potenziale - sapesse di avere una, pur minima, disposizione agli anancasmi, alle micro-ossessioni, alle coazioni a ripetere, dovrebbe evitare, già a monte, di intrattenere rapporti di sorta con gli uffici postali, con gli avvocati e forse anche con le strade, con i negozi, con il telefono, con la televisione (e via di questo passo).

    Facendo il conto dei soggetti non proprio erculei o sfolgoranti che esistono oggi in Italia, si arriva a cifre consistenti.

 

22. Danno psichico e danno esistenziale – Quanto poi al riscontro delle voci lesive (che figurano essere state) tenute presenti dal collegio di Alba, due appaiono - sul terreno del danno non patrimoniale - le osservazioni da effettuare.

   Un primo rilievo: la sentenza in commento mostra di risarcire una determinata cifra, di base, a titolo di danno biologico e un altro cespite, distinto e ulteriore, sub specie di danno esistenziale.

   Orbene, va detto subito come duplicazioni del genere appaiano assai poco in linea con le nozioni che si tratterebbe – a rigor di logica - di applicare.

   Sempre il danno biologico si atteggia, a ben vedere, come un quid rapportabile alle attività realizzatrici il cui svolgimento figura essere stato compromesso, a discapito della vittima. Nessun dubbio che quelle “eventistiche” siano, nell’ambito del danno alla persona, letture tutte quante da respingere – anche ove suffragate dalle definizioni estemporanee di un distratto, maldestro legislatore.

   Meglio esprimersi in altri termini. La perdita della salute psichica da parte del De Santis costituisce (entro la fattispecie) una circostanza appartenente non già al polo formale del danno, bensì a quello dell’evento. Siamo di fronte, insomma, a un tramite che si annuncia idoneo a provocare una pluralità di ripercussioni, nella sfera del plaintiff – stante la possibilità di una contemporanea incidenza sul terreno patrimoniale (danno emergente e lucro cessante), sul terreno morale (sofferenze interne), sul terreno biologico (attività realizzatrici compromesse) [9].

    Per questo l’ <<ortodossia esistenzialista>> preferisce far capo – profili del danno morale a parte - a uno scenario entro cui risulti attiva un’unica grande nicchia non patrimoniale, denominata danno esistenziale.

E all’interno della stessa andranno tratteggiate, si continua, due mega-provincie sottostanti - quella cioè del “danno esistenziale biologico” (là dove la prerogativa colpita inerisca all’universo dell’integrità psicofisica e della salute) e quella del “danno esistenziale non biologico” (violazione di posizioni familiari, processuali, ambientali, diritti della persona, posizioni rispetto alla p.a., situazioni lavorative, etc.)[10].

   Il fatto che sia viva, secondo molti autori, l’esigenza di gestire con strumenti di tipo tabellare o assicurativo una parte del danno biologico/esistenziale, potrà indurre taluno a prediligere una ripartizione del quantum articolantesi, in questo settore, lungo due passaggi separati: (i) quello amministrabile secondo indicazioni precostituite, scalari : (ii) quello di rifinitura specifica, rimesso alla valutazione equitativa del giudice e inerente ai - più o meno pregnanti - momenti di carattere personale/idiosincratico della vittima.

    Il primo corrisponderebbe (in quest’ottica) al danno biologico statico, il secondo al danno biologico dinamico - per utilizzare una terminologia non poco diffusa in giurisprudenza e in dottrina.

    La scelta di chiamare il primo danno biologico e il secondo danno esistenziale non preannuncia, s’intende, catastrofi descrittive. Trattasi però di una dicitura alquanto infedele rispetto alle chiavi di partenza - anche se è palese l’ispirazione dell’orientamento: alzare il tasso di difendibilità della seconda partita, dandole un diverso nome di primo grado, scandendo con ciò il fatto che si tratta di ripercussioni le quali, sotto la prima voce, non sarebbero magari contemplate e risarcite.

    Ecco allora il danno biologico “differenziale” in materia di infortuni sul lavoro; ecco, benché l’opzione abbia qui un po’ meno significato, la duplicazione terminologica cui si fa capo - talora - parlando di incidenti stradali o nei casi di malpractice medica.

    L’importante è che sia chiaro di cosa si sta, esattamente, parlando.

 

23. La quantificazione – Secondo rilievo quello inerente alla commisurazione del danno esistenziale.

A tale riguardo la sentenza finisce per ammettere - dopo essersi intrattenuta sulle difficoltà relazionali intervenute, a carico del De Santis, “nei rapporti sia familiari che extrafamiliari” (difficoltà che in altri passaggi della sentenza appaiono descritte ancor più analiticamente) - un quantum uguale a quello riconosciuto per il danno morale.

     Ebbene, il punto è proprio questo.

    Non che le sofferenze della vittima non meritassero, nell’ipotesi in esame, un congruo riconoscimento; si ha l’impressione però che le conclusioni del tribunale avrebbero dovuto, in proposito, essere alquanto diverse. E indicativi appaiono in tale senso tutta una serie di passaggi svolti dal CTU Pirfo.

Gli spaesamenti interni della vittima figurano descritti, da quest’ultimo (affermato psichiatra dei Servizi torinesi), con un linguaggio sostanzialmente esistenzialista. Ed è facile accorgersi come si tratti del medesimo taglio semantico che utilizza, a livello sia teorico che pratico, gran parte della psichiatria moderna.

Ciò cui si guarda – da parte di tanti studiosi - è una definizione dei disturbi mentali svolgentesi in larga misura attraverso l’analisi delle compromissioni relazionali che a ciascun malessere, via via, si rapportano.

Ecco perchè c’era da attendersi che il quantum per il danno esistenziale sopravanzasse, nella pronuncia di Alba, il livello fissato per il danno morale. La costrizione, l’anancasmo partono (è pur vero) da “dentro”. Sono realtà destinate tuttavia ad incidere soprattutto sul “fuori” - peggiorando sotto vari aspetti la qualità della vita della vittima, contaminando un po’ tutti i suoi rapporti affettivo-sociali: imponendo, in definitiva, un fare e un non fare diversi da prima.

A queste voci il risarcimento avrebbe dovuto soprattutto riferirsi.

 

Paolo Cendon , Ordinario di diritto privato Università di Trieste

Francesco Bilotta, Ricercatore  di diritto privato Università di Udine

 

 


N.B. - Laddove nelle note si indica "in questa Rivista", si deve leggere "in Resp. civ.".

[1] Per una panoramica delle questioni legate al disagio psichico v. CENDON e CITARELLA, Anime Folli, Venezia, 1997. Più di recente sul tema si vedano i contributi di CENDON, VENCHIARUTTI, GAUDINO, CITARELLA, in Persona e danno, (a cura di) CENDON, con la collaborazione di PASQUINELLI, Vol. II, Milano, 2004. Sulla diversa rilevanza della categoria in parola in Italia e nei Paesi di common law v. TOPPETTI, Il danno psichico nell’ordinamento italiano e nell’esperienza dei paesi di common law, in questa Rivista, 1998, 1591.

Sotto il profilo giurisprudenziale, in Italia, il danno psichico ha avuto un riconoscimento per così dire “improprio”. I giudici, infatti, hanno utilizzato – fino ad un certo punto – questa categoria al di fuori dei parametri nosografici della scienza psichiatrica. Di questo passo si è finito per assimilare il perturbamento dell’animo, le sofferenze psicologiche alla malattia mentale vera e propria. Il fenomeno si è verificato soprattutto con riferimento al c.d. danno da lutto, risarcito al di fuori della categoria del danno morale e ricondotto appunto alla categoria del danno psichico, considerata idonea ad aggirare la limitazione risarcitoria del 2059 c.c., almeno nella interpretazione che di esso si dava prima del 2003: cfr. PALISI, Il danno biologico, in BORDON e PALISI, Il danno da morte, Milano, 2002, 73-102; PELLECCHIA, «Lutto e malinconia»: ovvero, della controversa risarcibilità del danno psichico cagionato dalla morte di un congiunto (Nota a Trib. Milano, 2 settembre 1993, Bolignano c. La Verde), in Giur. it., 1994, I, 2, 885. Esempi di tale corso giurisprudenziale sono innumerevoli: Cass., sez. III, 14 luglio 2003, n. 11007; Trib. Firenze 23 luglio 2001, in Foro toscano, 2001, 256, con nota di SALERNI; Trib. Torino 15 febbraio 2001, in Giur. it., 2002, 952, con nota di BONA; Cass., sez. III, 30 novembre 2000, n. 15330; Trib. Milano 14 maggio 1998, in questa Rivista, 1998, 1623, con nota di MAGLIONA e in questa Rivista, 1999, 487, con nota di GORGONI; Trib. Orvieto 7 novembre 1997, in Giur. merito, 1998, 214; Pret. Milano 14 dicembre 1995, in Lavoro giur., 1996, 385, con nota di D'AVOSSA; Trib. Piacenza 11 maggio 1989, in Arch. circolaz., 1989, 1054; Cass. 6 novembre 1986, n. 6512; Trib. Napoli 28 maggio 1980, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 1980, 979.

Sulla distinzione tra danno morale e psichico v. in dottrina D’AMICO, Sui criteri distintivi tra danno psichico e danno morale, in Rass. dir. civ., 2002, 473.

Non è mancata in giurisprudenza, però, la convinzione che il danno psichico, la sofferenza psichica, o il trauma psichico fossero situazioni completamente diverse, da non equiparare sotto il profilo della trattamento giuridico in ambito aquiliano. Spesso è stato affermato che per far luogo al risarcimento del danno in questione ci fosse bisogno di un’evidenza medica della sua esistenza, anche attraverso il ricorso ad una CTU. In questo senso: Trib. Lecce 5 ottobre 2001, in questa Rivista, 2002, 1146, con nota di PEDRAZZI; Trib. Lecce 19 febbraio 2001, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 2001, 450, con nota di VAGLIO; Cass., sez. III, 12 ottobre 1998, n. 10085, in questa Rivista, 1999, 752, con nota di ZIVIZ; Trib. Trento 19 maggio 1995, in Lavoro giur., 1996, 931, con nota di FEVERATI; Trib. Firenze 9 novembre 1995, in Toscana giur., 1996, 38; Trib. Ascoli Piceno 27 gennaio 1995, in Dir. lav. Marche, 1995, 32; App. Milano 5 luglio 1994, in Giur. it. , 1995, I, 2, 426, con nota di MONTARULI; Pret. Bologna 22 febbraio 1982, in Giur. merito, 1984, 66. Sulla nozione di danno psichico in dottrina v. CHINDEMI, Il danno biologico psichico, in Dir. ed economia assicuraz., 2000, 781; MARASCO, Danno psichico: oltre la malattia mentale?, Contratto e impr., 2000, 321; CATALDI, Il danno psichico tra medicina legale e diritto, in Giur. merito, 1997, 641; DE MARZO, Brevi note sulla nozione di danno psichico (Nota a Corte cost., [ord.], 22 luglio 1996, n. 293, Luzzi c. Piredda), in Foro it., 1996, I, 2963; Vi è, poi, un precedente, in cui quello che evidentemente è un danno esistenziale, viene definito “danno biologico latamente inteso”. E’ chiara nel giudice la distinzione tra sofferenza morale e danno psichico, quale malattia medicalmente rilevabile. E proprio tale chiarezza gli impedisce di affermare l’esistenza nel caso di specie di un danno biologico/psichico. La mancanza di un’altra categoria come il danno esiste nziale, allora lo induce a far leva su una nozione “allargata” di danno biologico: « Il danno biologico, inteso in senso lato, afferisce non soltanto alle lesioni dell'integrità psico-fisica, ma riguarda tutte quelle menomazioni della persona che ne impedi scono il libero sviluppo, come singolo o nelle formazioni sociali in cui necessariamente o volontariamente si svolge la sua personalità; va perciò risarcita, quale danno biologico, latamente inteso, la perdita del figlio, la quale determina un oggettivo pregiudizio per la personalità dei genitori, a prescindere dall'esistenza di lesioni a livello psichico in capo agli stessi », così Trib. Monza 7 giugno1995, in questa Rivista, 1996, 389, con nota di TOSCANO.

[2] I problemi legati alla prova del nesso causale, in casi di risarcimento del danno psichico, sono stati attentamente considerati sia sotto il profilo giuridico sia sotto il profilo medico legale. Si rinvia per un approfondimento sul punto a SUPPA, Le lesioni alla salute mentale, in Trattato breve dei nuovi danni. Il risarcimento del danno esistenziale, (a cura di) CENDON, Vol. I, Padova, 2001, 357-359; CASTIGLIONI, Il problema del nesso di causalità materiale, in Danno psichico,(a cura di) BRONDOLO e MARIGLIANO, Milano, 1996; PONTI G., Danno psichico e attuale percezione psichiatrica del disturbo mentale, in Riv. it. med. legale, 1992, 527; RUBINI TARIZZO, Nesso di causalità e danno psichico (Nota a Trib. Milano, 13 luglio 1989, Ronzio c. Zambonati), in Giur. it., 1991, I, 2, 53.

[3] Sulla relazione tra dolo e nesso causale v. CENDON, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, Torino, 1974, 44, 106 e 358.

[4] A tal proposito, si è avuto modo di precisare, con dovizia di riferimenti bibliografici: «Quasi ogni vicenda umana è destinata, stante la presenza di questo o quel dettaglio, a non collimare esattamente rispetto al paradigma legislativo. Due casi identici al mondo non esistono. Spesso, è pur vero, si tratta di differenze trascurabili, comunque prive di rilievo per il diritto. Altre volte non è così. Ci si trova dinanzi a peculiarità tali da impedire un’applicazione, pura e semplice, della falsariga probatoria che era stata immaginata in astratto: il risultato sarebbe eccessivamente disarmonico, penalizzante per una delle parti. L’incertezza dev’essere gestita altrimenti, proprio sul terreno del gioco processuale. Per l’interprete si tratta allora di modulare, in considerazione di quelle circostanze, una sub-regola del caso, cioè un’altra combinazione giudiziale: ritoccando le indicazioni codicistiche secondo alcuni criteri di opportunità. E sono criteri (anticipiamo) che andranno desunti, più o meno direttamente, dai principi generali dell’ordinamento: con un peso significativo attribuito, via via, ai dettami della morale, all’economia, alla considerazione circa l’appartenenza dei fatti alla sfera dell’uno piuttosto che dell’altro contendente, a esigenze di prevenzione, a motivi di convenienza scientifica, all’efficienza, all’opportunità di non scoraggiare attività indispensabili e così di seguito», così CENDON, Circostanze incerte e responsabilità civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, 1243-1244.

[5] Rispetto alle questioni di carattere probatorio che sorgono in presenza di un danno psichico v. GIUSBERTI, Accertamento e prova del danno psichico nella più recente giurisprudenza di legittimità e di merito, in Studium iuris, 2001, 794.

[6] In generale, sulla prevedibilità nella responsabilità civile v. TURCO, Brevi considerazioni sul principio di prevedibilità del danno come profilo distintivo fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Riv. critica dir. privato, 1987, 93. In particolare, sulla prevedibilità nel risarcimento del danno psichico v. MARINI, Emotional distress, nervous shock e prevedibilità del danno, in Danno e resp., 1999, 502.

[7] E’ stata proposta una mediazione tra quanti affermano la rilevanza, nel giudizio di responsabilità, dei tratti idiosincratici della vittima e quanti, invece, pensano che essi siano del tutto irrilevanti, cfr. GAUDINO, Brevi appunti in tema di suicidio post-traumatico, in Danno e Resp., 1999, 1076 e ss. Secondo gli uni, quindi, alla luce del principio di autoresponsabilità, il convenuto sarebbe sollevato da qualsiasi obbligazione risarcitoria, mentre secondo gli altri risponderebbe sempre del danno arrecato. La composizione delle due insanabili opzioni ermeneutiche proposta dall’A. citato è la seguente: «nel caso di una predisposizione psicofisica della vittima che incide sulla sua vulnerabilità: 1) ove questa fosse – al momento dell’illecito – impegnata in normali attività, non v’è ragione per sollevare il responsabile dalle conseguenze del proprio atto, fosse o meno la vittima a conoscenza del proprio stato di salute; 2) nel caso invece in cui la vittima, consapevole della propria condizione, si sia volontariamente impegnata in attività tali da aumentare significativamente la soglia di rischio, varrà la regola del badare a se stessi».

[8] Cfr. Cass., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5539, in questa Rivista, 2003, 1074, con nota di DE FAZIO; Cass., sez. III, 16 febbraio 2001, n. 2335, in questa Rivista, 2001, 580, con nota di GUERINONI, si segnala Cons. Stato, sez. VI, 6 marzo 2002, n. 1341, in Foro amm. , 2002, 74. La questione della rilevanza o meno delle concause naturali nella pronuncia di responsabilità, non è assolutamente pacifica in dottrina e in giurisprudenza come puntualmente ricorda ALLEVA, L’irrilevanza delle cause naturali ai fini dell’accertamento del nesso di causalità materiale nella responsabilità da fatto illecito, in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 665-670. E’ interessante ai nostri fini anche la pronuncia da cui origina il contributo dottrinale appena ricordato: Cass. civ., sez. lav., 5 novembre 1999, n. 12339, in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 661.

[9] In merito alle ripercussioni esistenziali de l danno psichico v. Danno psichico e danno esistenziale - Con commento giurisprudenziale (atti del convegno, Milano, 26 ottobre 2001), a cura di MARIOTTI e TOSCANO, Milano, 2003.

[10] Sul rapporto tra le categorie di danno in questione v. ZIVIZ e BILOTTA, Danno esistenziale: forma e sostanza, in questa Rivista, 2004, 1299 e ss.

 

L'intrinseca debolezza o predisposizione del soggetto non esclude automaticamente la malattia professionale.

 

Stress lavorativo.

Cassazione civile Sentenza, Sez. lav., 11/09/2006, n. 19434

 

Una lavoratrice assunta alle dipendenze di una casa editrice ricorreva al giudice del lavoro chiedendo la condanna dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro al pagamento delle prestazioni assistenziali ad ella negate in sede amministrativa. Deduceva -la ricorrente- la sussistenza di una condizione di stress legata alle condizioni di lavoro, che le aveva procurato una grave sindrome depressiva con invalidità assoluta temporanea ed inabilità permanente del 75%. La stessa ricorrente riferiva, eziologicamente, tale situazione di stress al continuo aumento dei propri compiti lavorativi, non solo in seno all’azienda dalla quale era stata assunta, ma anche nell’ambito di altre imprese ad essa estranee, a causa della carenza o della riduzione del personale di ciascuna di esse. I giudici del merito respingevano la domanda presentata dalla lavoratrice, osservando, in particolare, che ella si era trovata, nel corso della vita, ad affrontare situazioni difficili o traumatiche -alcune non collegate all’attività lavorativa- fino ad arrivare ad una eccessiva drammatizzazione di quello che era un normale rapporto di lavoro, con i suoi carichi e le sue responsabilità. Gli stessi giudici non ritenevano opportuno assumere, in corso di causa, una consulenza tecnica d’ufficio e, disattendendo la relazione medica di parte, negavano la sussistenza di un nesso causale tra l’attività lavorativa e la lamentata sindrome depressiva.

La questione veniva, quindi, sottoposta all’esame della Corte di Cassazione.

E’ noto che, nell’ambito del nostro ordinamento, la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore assume un’importanza preminente, trovando regolamentazione normativa sia sul piano dei principi costituzionali che della legislazione speciale ed ordinaria. Sul versante costituzionale, è stato autorevolmente rilevato come l’art. 32 Cost., oltre che ascrivere alla collettività generale la tutela promozionale della salute dell’uomo, configuri il relativo diritto come diritto fondamentale dell’individuo e lo protegga in via primaria, incondizionata ed assoluta come modo d’essere della persona umana. Il collegamento con l’art. 2 Cost. attribuisce, inoltre, al diritto alla salute un contenuto di socialità e di sicurezza (Cass. Civ., Sez. Un., n. 5172/1979). Numerose e dettagliate sono, poi, le disposizioni normative speciali che, anche in attuazione di direttive comunitarie, hanno definito il sistema generale di prevenzione e sicurezza sul posto di lavoro. Accanto a queste, in funzione di norma di chiusura del predetto sistema, l’art. 2087 c.c. demanda al datore di lavoro l’adozione di tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare non solo l’integrità fisica, ma anche la personalità morale del prestatore di lavoro.

La forte attenzione legislativa per la sfera dell’integrità psico-fisica della persona ha trovato l’avallo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la quale ha avuto modo di sottolineare come il “valore uomo” non si esaurisca nella sola attitudine a produrre un reddito, ma sia espressione di tutte le funzioni naturali afferenti al soggetto nell’integrazione delle sue dimensioni biologiche, psicologiche e sociali (Cass. Civ. n. 8827/2003; Cass. Civ. 8828/2003; Corte Cost. n. 233/2003). E’ breve il passo che da qui conduce alla definizione di danno biologico come lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito (da ultimo: art. 138, co. 2, lett. a), D. Lgs. N. 209/2005). Tale definizione racchiude, all’evidenza, la categoria del danno psichico, posto che la sofferenza psichica incide sulla globalità della persona, direttamente sul versante biologico.

La migliore psicologia ha avuto modo di rilevare come il danno psichico sia un danno legato al peggioramento della qualità della vita della persona che lo ha subito, conseguente ad una compromissione dell’efficienza, dell’adattamento e dell’equilibrio personale insorta a seguito dell’evento scatenante. Esso non può essere considerato in termini puramente soggettivi, in quanto non è riconducibile -in via esclusiva- alle emozioni provate, ma si riconosce in un vero e proprio danno, capace di alterare le condizioni di vita della persona. Appare, tuttavia, evidente l’impossibilità di prestabilire dei modelli paradigmatici astratti in ordine a tale tipologia di danno, rendendosi, viceversa, necessario un adeguamento al caso concreto dell’indagine di fatto, nella piena consapevolezza che un medesimo evento può produrre risposte molto diverse da individuo a individuo. La corretta valutazione del danno psichico deve affrontare -di necessità- la questione relativa all’individuazione del criterio metodologico atto a stabilire se un evento (e la personale reazione allo stesso) possa o meno costituire pregiudizio per l’equilibrio psichico del soggetto. Detta valutazione, che ha lo scopo di raccogliere informazioni sulla presenza di un disturbo mentale attribuibile in termini di causalità all’evento lesivo, non può, per altro, essere integralmente riportata ad una diagnosi di natura descrittiva, essendo del tutto imprescindibile la ricerca dei significati che la singola persona attribuisce all’esperienza vissuta. Una risposta patologica, infatti, dipende da numerosi fattori, tra i quali sono certamente ricompresi il significato personale che il soggetto attribuisce all’evento, il modo intimo di spiegarsi l’evento all’interno della propria biografia e, non ultimo, le condizioni psichiche della persona al momento del verificarsi dell’evento.

Fondamentale appare, quindi, la valutazione relativa al nesso causale chiamato a correlare, necessariamente, l’insorta patologia e l’evento che si assume a cagione della patologia stessa.

Il principio della causalità, regolato dal codice penale, è stato ritenuto applicabile, in campo civile, sul rilievo che è comune ad entrambe le discipline l’esistenza di un nesso eziologico tra azione (o omissione) ed evento, argomentando -pur nella apparente diversità di formulazione- dalla sostanziale identità degli artt. 40 c.p. e 2043 c.c.. Trova soluzione, in tal maniera, il problema del concorso delle cause, reputandosi legittimo il richiamo al disposto di cui all’art. 41 c.p., secondo cui, in presenza di una pluralità di fatti diversamente imputabili, a ciascuno di essi deve riconoscersi un’efficacia causativa ove abbia determinato una situazione tale che, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato. Con ciò facendosi salva l’ipotesi in cui la causa più prossima sia stata da sola sufficiente a determinare l’evento, nel qual caso soltanto essa può assurgere a causa efficiente esclusiva, poiché, inserendosi nella successione dei fatti, viene a spezzare ogni legame tra le cause remote e l’evento stesso (Cass. Civ. 1237/1992).

Pur con gli opportuni adattamenti, tali regole trovano applicazione anche nel settore delle malattie professionali, dovendosi riconoscere, sul piano normativo, una sostanziale identità dei principi ispiratori. Si è affermato, quindi, che nell’ipotesi di concorso di cause, la prestazione previdenziale o assicurativa non può essere ridotta nella misura percentuale corrispondente all’entità patologica esplicata dalla sola malattia professionale, ma, al contrario, essa spetta per l’intero, poiché per la teoria della equivalenza causale non è dato distinguere tra cause primarie che hanno operato in via diretta e cause che hanno avuto influenza soltanto indiretta e remota, incidendo in misura modesta nella produzione dell’evento (Cass. Civ. n. 10448/2004).

Circa il grado di certezza del nesso causale, stante la centralità della valutazione scientifica, valgono in ogni caso le acquisizioni della giurisprudenza di legittimità in punto di rilevanza del giudizio probabilistico, inteso nel senso della semplice compatibilità tra causa ed effetto, con esclusione della mera possibilità (Cass. Civ. n. 87/2003; Cass. Civ. n. 6592/2000). Esclusa, in altre parole, la mera possibilità dell’eziopatogenesi professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante o ragionevole grado di probabilità, per accertare il quale il giudice deve non solo consentire al lavoratore l’esperimento dei mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale (da ultimo: Cass. Civ. n. 19047/2006). Da rilevare, per altro, che il nesso causale non è escluso dalla predisposizione morbosa del lavoratore (come, invece, si è assunto nei gradi di merito della vicenda di specie), con la conseguenza che un ruolo di concausa ai sensi dell’art. 41 c.p. va attribuito anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia, salvo che questa sia sopravvenuta in modo del tutto indipendente dallo stress subito nell’esecuzione della prestazione lavorativa (Cass. Civ. n. 13928/2004). Detta predisposizione esclude, quindi, il nesso causale nell’ipotesi in cui essa, di per sé sola, abbia un’efficacia assorbente e totalizzante rispetto all’evento verificatosi.

Emerge, di logica, la necessità di accertare la sussistenza e l’entità della patologia denunciata, con particolare riferimento alle circostanze evidenziate nel caso concreto. Al riguardo si osserva che, in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, nelle controversie relative a domande di prestazioni previdenziali o assistenziali richiedenti accertamenti tecnici, l’art. 445 c.p.c. chiama il giudice alla nomina di uno o più consulenti tecnici scelti in appositi albi. E’ stato autorevolmente rilevato, sul punto, che in tema di infortuni e malattie professionali, la valutazione del grado di riduzione dell’attitudine lavorativa importa una questione non già di natura giuridica, riservata al giudice, ma un giudizio di ordine sanitario da demandare, in quanto tale, a un consulente tecnico (Cass. Civ. n. 12910/2000; Cass. Civ. n. 4927/2004). Deve, altresì, considerarsi che la consulenza tecnica, specialmente in tema di accertamento di malattia professionale, non è soltanto uno strumento di valutazione tecnica, ma è anche un sistema di accertamento e di ricostruzione dei fatti storici prospettati dalle parti, senza, per altro, essere un mezzo costitutivo (o sostitutivo) dell’onere della prova gravante su ciascuna di esse. All’ausiliare del giudice, entro i limiti del principio dispositivo, è, inoltre, consentito assumere informazioni ed esaminare documenti non prodotti in causa, anche di sua iniziativa e senza l’espressa autorizzazione del giudice, pur spettando a quest’ultimo, quale peritus peritorum, la valutazione di utilità della iniziativa condotta. Nel rito del lavoro, dove, per la particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo va contemperato con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo, non può, per altro, farsi meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma occorre che il giudice -ove reputi insufficienti le prove già acquisite- provveda d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione (Cass. Civ. n. 310/1998). Il mancato esercizio di tale potere-dovere può tradursi in un vizio di illogicità della decisione, in particolare quando questa si fondi su un elemento probatorio offerto da una delle parti (ma contrastato dall’altra) e, di per sé, non dotato di sicura affidabilità.

Nel caso di specie, i giudici del merito, pur in presenza di una relazione medica di parte, hanno espresso la convinzione -non confortata da alcun accertamento medico legale sulle condizioni psichiche della lavoratrice - che l’attività lavorativa era stata mera occasione di stress, anziché una causa o una concausa scatenante. Il mancato espletamento della consulenza tecnica d’ufficio è stata, quindi, considerata dalla Suprema Corte, in linea con i precedenti di legittimità in materia, quale grave carenza nell’accertamento dei fatti, atta a risolversi in un vizio di motivazione della sentenza.

 

Nadir Plasenzotti, avvocato in Udine

 

Si veda anche sul tema: Meucci - Responsabilità integrale aziendale per danni alla salute (nota a Cass. n.5539-03)

nonchè  Stress lavorativo, nesso causale, concause e c.t.u. in appello.

 

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