Stress lavorativo, nesso causale, concause e c.t.u. in appello

 

Sommario: 1. - Lo svolgimento del processo. — 2. - Lo stress lavorativo come malattia professionale. — 3. - Il nesso causale ed il principio di equivalenza delle cause. — 4. - La c.t.u. in appello. — 5. - Osservazioni finali.

 

1. - Lo svolgimento del processo. — La pronuncia della Suprema Corte di Cassazione dell’11 settembre 2006, n. 19434 prende avvio dal ricorso depositato, in primo grado, da una lavoratrice assunta presso una casa editrice.

La ricorrente sosteneva che le condizioni di lavoro alle quali aveva prestato la propria attività professionale sin dal 1991 le avevano procurato una grave sindrome depressiva, con invalidità assoluta temporanea e inabilità permanente del 75%.

Conseguentemente, la ricorrente chiedeva di accertarsi che tra lo stress lavorativo subito e l’insorgenza della malattia sussisteva un nesso di causalità, tale da legittimare la conseguente condanna dell’Inail al pagamento delle relative prestazioni, per contro negate in sede amministrativa.

Diversamente l’Inail, costituitasi in giudizio, negava la sussistenza e la configurabilità di alcun nesso causale tra l’attività lavorativa e la sindrome depressiva, che deduceva come del tutto precedente all’effettuazione della prestazione.

Sia in primo grado, che in grado d’appello il ricorso della lavoratrice veniva rigettato. In secondo grado, in particolare, i giudici osservavano che la ricorrente si era trovata, nel corso della propria vita, ad affrontare delle situazioni difficili e traumatiche, svincolate dall’attività lavorativa svolta, le quali avevano condotto la medesima «ad una eccessiva drammatizzazione di quello che era un normale rapporto di lavoro con i suoi carichi e le sue responsabilità». Contro tale decisione, la lavoratrice è ricorsa in Cassazione, formulando tre differenti motivi di censura.

Con il primo motivo di ricorso, la medesima ha denunciato la violazione dell’art. 445 c.p.c., rubricato «Consulente tecnico», ed un vizio di motivazione, atteso che la Corte di appello aveva del tutto disatteso e ignorato la domanda e la relazione medica di parte, prodotta in primo grado, e non aveva disposto una consulenza tecnica di tipo medico-legale in ordine alla malattia denunciata e alle considerazioni del medico psichiatra.

Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente denunciava vizio di motivazione su di un punto decisivo del-la controversia, in quanto il giudice di appello non aveva tenuto conto delle testimonianze assunte in primo grado, dalle quali era emerso un continuo aumento dei compiti lavorativi della ricorrente, non in relazione all’azienda dalla quale era stata assunta, bensì in relazione ad altre imprese ad essa estranee, a seguito di carenza o di riduzione di personale di ciascuna di esse.

Infine, con il terzo motivo di ricorso, la lavoratrice denunciava la violazione dell’art. 41 c.p., nonché un vizio di motivazione, in ragione del fatto che i giudici di appello avevano violato il c.d. principio di equivalenza delle cause, applicabile anche alle malattie professionali, in quanto, non avendo disposto la consulenza medico legale, avevano immotivatamente escluso ogni concorso causale delle condizioni di lavoro nella genesi della malattia psichica.

 

2. - Lo stress lavorativo come malattia professionale. — Il nocciolo del la pronuncia in commento è, senza dubbio, costituito dal secondo e dal terzo motivo di ricorso, ossia dall’invocata sussistenza di una malattia professionale [1] in dipendenza di c.d. stress lavorativo.

In via preliminare, non si può non ricordare l’operazione di interpretazione evolutiva che la giurisprudenza di legittimità ha recentemente effettuato sull’art. 2087 c.c. in materia di obbligo di sicurezza [2].

La Suprema Corte ha ritenuto che l’obbligo previsto dalla norma citata in capo al datore di lavoro, di adottare le misure prevenzionistiche necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro [3] trovi applicazione anche a fronte di un eccessivo impegno lavorativo da parte del lavoratore, in quanto potenzialmente idoneo a causare un danno alla salute del medesimo[4].

Secondo l’orientamento citato, in particolare, lo stress lavorativo si viene a registrare sia nell’ipotesi in cui l’eccesso di prestazione discendada un’oggettiva inadeguatezza organizzativa (intesa come insufficienza di organico, distribuzione irrazionale dei carichi di lavoro, ecc.), sia qualora derivi da eccessi volontari del lavoratore a fronte dei quali il datore di lavoro acconsenta tacitamente.

Venendo più nello specifico ad affrontare la problematica oggetto del-la pronuncia che qui si commenta, occorre chiarire se ed in quale misura lo stress lavorativo — che, come si è poc’anzi ribadito, alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità può qualificarsi in termini di violazione da parte del datore di lavoro del generale obbligo sul medesimo incombente di garantire un ambiente di lavoro quanto più possibile salubre e sicuro — possa qualificar-si in termini di causa produttiva di malattia professionale.

Com’è noto, le malattie professionali si distinguono in tabellate ai sensi del d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 e non tabellate [5].

In relazione alle prime, il lavoratore si giova della presunzione legale di nesso eziologico tra l’attività lavorativa svolta e l’agente patogeno cui è stato esposto.

Diversamente, invece, nel secondo caso il lavoratore ha l’obbligo di fornire la prova dell’esistenza della malattia, della causa di lavoro, nonché del rapporto eziologico esistente tra quest’ultima e la tecnopatia [6].

In particolare, in relazione alla causa di lavoro il lavoratore avrà l’onere di dimostrare le caratteristiche morbigene della lavorazione svolta e che le particolari condizioni dell’attività e dell’organizzazione del lavoro hanno favorito l’insorgenza della malattia.

Ciò posto, poiché lo stress lavorativo invocato nel caso in esame non rientra nell’elenco delle malattie professionali fissato dalla legge, era onere della lavoratrice ricorrente fornire le prove necessarie a configurarlo in termini di malattia professionale in relazione alla concretezza del caso considerato.

In particolare, ai sensi degli artt. 3 e 211 del d.p.r. n. 1124 del 1965, affinché una malattia professionale possa essere indennizzata da parte dell’Inail occorre che si verifichino le seguenti condizioni: che la malattia sia stata contratta nell’esercizio di un’attività a tal fine assicurata; che essa sia stata determinata da una causa lenta ovvero da una graduale e progressiva azione lesiva di determinati fattori morbigeni sull’organismo (a differenza di quanto avviene, invece, per l’infortunio sul lavoro che richiede una causa violenta); nonché, infine, che la patologia contratta sia eziologicamente riferibile alle mansioni lavorative espletate.

Sia in primo che in secondo grado il ricorso era stato rigettato sul presupposto della mancata sussistenza proprio del nesso causale tra l’insorgenza della malattia, da un lato, e le mansioni svolte ed i ritmi di lavoro seguiti, dall’altro.

 

3. - Il nesso causale ed il principio di equivalenza delle cause. — In particolare, con il terzo motivo di ricorso la lavoratrice denunciava la violazione del c.d. principio di equivalenza delle cause, espresso e sancito dall’art. 41 c.p.

I giudici di appello, infatti, avevano escluso la ricorrenza del nesso causale tra la malattia professionale e i ritmi di lavoro seguiti, in ragione del fatto che la ricorrente si fosse trovata, durante la sua vita, ad affrontare delle situazioni personali difficili e traumatiche, non collegate all’attività lavorativa svolta [7].

Prima di esaminare la pronuncia in esame non può non osservarsi come in dottrina esistano diverse definizioni di nesso di causalità, tra le quali, in via di esemplificazione, è possibile enucleare almeno tre teorie. La prima, ossia la teoria della condicio sine qua non, ritiene che nel sistema risarcitorio civilistico un evento dannoso possa considerarsi causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo. La seconda teoria è quella della c.d. regolarità causale o causalità adeguata, la quale afferma che per determinare una causalità giuridicamente rilevante è necessario avere riguardo alle serie causali che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiono del tutto invero-simili.

Infine, occorre ricordare la c.d. teoria della causalità efficiente, mutuata dalla teoria penale del concorso di cause, in virtù della quale le concause sopravvenute, ma anche preesistenti e simultanee, presentano una pari valenza causale nella produzione dell’evento, salvo che non sia intervenuta una causa la quale, da sola, abbia interrotto il predetto nesso causale, venendo ad acquisire un ruolo esclusivo nella causazione dell’evento.

La pronuncia in esame fa espressa applicazione proprio dell’ultima teoria esposta in tema di nesso di causalità. Essa, infatti, si allinea ad un ormai consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in tema di verifica dei criteri di governo dell’accertamento del rapporto di causalità, il quale riconosce un valore risolutivo al c.d. principio di equivalenza delle concause lavorative.

Com’è noto, la giurisprudenza è pacificamente orientata a ritenere che il principio dell’equivalenza delle cause di cui all’art. 41 c.p. sia applicabile anche alla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali [8]. La questione che la causa pone verte, tuttavia, sulla portata del principio dell’equivalenza causale e, precisamente, sul rapporto esistente tra la concausa e l’evento.

In generale, il tema delle concause applicato al territorio delle malattie professionali fa riferimento a quelle condizioni morbose, preesistenti o indipendenti da cause collegate al lavoro, che hanno l’effetto di produrre una patologia che, su di un piano anatomo-funzionale, si pone in misura diversa e più grave di quella che la lesione conseguente a malattia professionale avrebbe normalmente prodotto [9].

In applicazione del principio dell’equivalenza delle condizioni, la concausa è causa per intero dell’evento anche se sono presenti altre concause. In altre parole, a fronte di una malattia professionale derivata da una causa sia lavorativa che extralavorativa - aventi entrambe natura efficiente e causale - deve necessariamente trovare applicazione il principio espresso dall’art. 41 c.p. in tema di equivalenza causale, in base al quale «il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione, l’omissione e l’evento».

In applicazione della teoria della par condicio causale, pertanto, qualsivoglia comportamento che si ponga come precedente o concomitante o sopravveniente nella verificazione della seriazione di accadimenti concludentesi poi con la produzione dell’evento, oggetto dell’addebito, deve ritenersi concausa, in senso giuridico, dello stesso.

Conformemente alla suddetta teoria, pertanto, il nesso causale non verrà escluso da una precedente predisposizione morbigena del lavoratore e dal concorso di altre cause, anche eventualmente aventi origine extra-lavorativa[10].

Ciò che conta è che sia stato posto in essere anche uno solo degli antecedenti necessari dell’evento[11].La conseguenza è che la prestazione assicurativa spettante al lavoratore non potrà essere ridotta nella misura percentuale corrispondente all’entità patologica esplicata dalla sola malattia professionale, ma dovrà essere riconosciuta per l’intero, non essendo possibile distinguere tra cause professionali e cause non professionali in applicazione del principio dell’equivalenza delle cause[12].

Il ragionamento si fa, invece, diverso qualora, a norma dell’art. 41, co. 2, c.p. si verifichi una causa autonoma, la quale, ponendosi nella seriazione causale in modo eccezionale, atipico e imprevedibile, sia da sola sufficiente a produrre l’evento.

Ciò, infatti, viene ad escludere in toto il nesso eziologico tra l’evento e la causa antecedente, facendola considerare tamquam non esset e scadere al rango di mera occasione [13].

 

4. - La c.t.u. in appello. — Con il primo motivo di ricorso, invece, la difesa della ricorrente lamentava una violazione dell’art. 445 c.p.c. in materia di consulente tecnico e, in particolare, il fatto che la Corte di appello avesse disatteso la domanda e la relazione medica di parte prodotta in primo grado, non avendo disposto la necessaria consulenza tecnica medico-legale, non disposta neppure in primo grado. A detta della ricorrente lo svolgimento di una c.t.u. risultava, per contro, necessario in relazione alla malattia denunciata e alle considerazioni riportate nella consulenza di parte resa dal medico psichiatra.

Infatti, per poter provare il nesso causale nei termini sopra descritti ed effettuare una valutazione di idoneità delle concause a produrre l’evento dannoso e, pertanto, la malattia professionale, nella maggioranza dei casi risulta del tutto indispensabile l’effettuazione di una consulenza tecnica d’ufficio[14].

In particolare, a fronte di patologie ad eziologia multifattoriale, ossia prodotte e derivanti da una molteplicità di concause, il nesso di causalità tra l’attività di lavoro e l’evento non può essere presunto in via ipotetica ed astratta, bensì esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro, alla durata e all’intensità dell’esposizione a rischio[15].

A tal fine, senza dubbio utile si rivela, pertanto, l’espletamento di una c.t.u.

Com’è noto, la consulenza tecnica non costituisce un vero e proprio mezzo di prova, bensì rappresenta uno strumento ausiliario di assistenza del giudice durante il giudizio, rientrante nei poteri discrezionali del giudice di merito, cui è rimessa la valutazione circa l’opportunità o la necessità dell’ammissione di esso[16].

In riferimento alle malattie professionali, si osserva che allo scopo di accertare l’esistenza, il grado invalidante, la causa e le eventuali concause di una malattia professionale, il consulente tecnico può acquisire, ai sensi dell’art. 194 c.p.c. in tema di chiarimenti provenienti dalle parti e informazioni richieste a soggetti terzi, circostanze di fatto relative alle cause, professionali e non, della malattia denunciata [17].

Se normalmente, come si è detto, l’ammissione della consulenza tecnica viene rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria la consulenza tecnica, normalmente facoltativa in grado di appello, diviene obbligatoria nel secondo grado di giudizio a fronte di un’omissione in tal senso posta in essere dal giudice di primo grado [18].

Dalle pronunce della Suprema Corte emerge, pertanto, come il mancato svolgimento della consulenza, nel caso in cui essa non sia stata espletata neppure in primo grado, costituisca una grave carenza nell’accertamento dei fatti, il quale si risolve in un vizio di motivazione della sentenza[19].

Diversamente bisogna concludere qualora i giudici di appello decidano disattendendo, in modo motivato, i risultati contenuti nella consulenza tecnica d’ufficio, il ché, invece, è perfettamente lecito ed, anzi, costituisce una facoltà riconosciuta al giudice di merito.

Nel caso di specie, per contro, il giudizio espresso dai giudici della Corte di appello non risulta fondato, né in alcun modo confortato - anche eventualmente in termini negativi alla luce di un’adeguata motivazione - da un accertamento medico-legale sulle condizioni psichiche dell’assicurata.

Qualora, invece, fosse intervenuta una consulenza tecnica, i giudici di secondo grado avrebbero potuto legittimamente configurare l’attività di lavoro come mera occasione di stress, anziché in termini di vera e propria causa o concausa scatenante la malattia.

Dal momento che una valutazione medico legale in tal senso non vi è stata, la Suprema Corte, nella pronuncia che qui si commenta, ha pertanto ritenuto che le conclusioni espresse dalla Corte di Appello nella sentenza impugnata vadano cassate, con conseguente rinvio della questione, per un nuovo esame, ad un nuovo giudice di pari grado, affinché giudichi sull’appello della lavoratrice previo necessario espletamento di una c.t.u. in merito

 

5. - Osservazioni finali. — La pronuncia in esame si allinea, in conclusione, all’orientamento dominante in sede di giurisprudenza di legittimità in materia di malattie professionali, con specifico riguardo al tema dell’equivalenza delle concause nella causazione dell’evento.

In questo senso, la Suprema Corte ha ritenuto non decisiva l’opposizione sollevata dall’Inail in ordine ad una pregressa situazione personale particolarmente delicata della ricorrente, ritenendo più opportuno rinviare la decisione ad un altro giudice di appello, previo espletamento di una consulenza medico-legale volta ad accertare l’esistenza, il grado invalidante, la causa e le eventuali concause dell’invocata malattia in rapporto alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro, alla durata ed all’intensità dell’esposizione a rischio.

Così statuendo, pertanto, la Corte si è venuta altresì ad allineare a quel filone giurisprudenziale secondo il quale il rischio di malattia professionale da naturale predisposizione non vale ad escludere del tutto quello di origine professionale, in quanto il ruolo di concausa va attribuito anche ad una minima accelerazione evolutiva e di aggravamento di una pregressa o attuale patologia, ove se ne riconosca l’incidenza negativa [20].

In conclusione, il nesso causale non solo non è escluso da una predisposizione morbosa del lavoratore, quale può essere una situazione personale di particolare delicatezza, ma addirittura una situazione di stress lavorativo può giungere a determinare una rottura di un già precario equilibrio organico, dando luogo proprio a conseguenze invalidanti, con il conseguente obbligo in capo all’Inail di risarcirle.

Ove si vengano, poi, a traslare le considerazioni sin qui svolte sul piano del generale obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro ai sensi e per gli effetti dell’art. 2087 c.c., occorre in primis rifuggire da ogni apriorismo volto a interpretare la responsabilità giuridica da tale disposizione scaturente in termini di responsabilità oggettiva [21].

Piuttosto, il lavoratore che lamenti di avere subito un danno alla salute avrà l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività delle condizioni di lavoro e, infine, il nesso causale che li unisce, in tal caso anche giovandosi della teoria dell’equivalenza delle concause.

Infatti, il nesso causale rilevante ex art. 2087 c.c. non attribuisce valore esclusivamente agli eventi che costituiscono una conseguenza necessitata della condotta datoriale, secondo un giudizio prognostico ex ante, bensì si estende a tutti gli eventi possibili[22], anche eventualmente frutto dell’intervento di concause preesistenti, concomitanti o successive, con la conseguenza che anche una situazione lavorativa stressante può costituire fonte di responsabilità per il datore di lavoro e dare diritto al lavoratore che la subisce di ottenere una prestazione assicurativa in proprio favore da parte dell’Inail.

 

Caterina Timellini

Dottore di ricerca in diritto sindacale e del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia

(fonte: Mass. giur. lav. n. 12/2006, p. 998)


 

[1] Per un’ampia  e approfondita ricostruzione del tema delle malattie professionali, cfr. De Simone, voce Malattie professionali e infortuni sul lavoro, in Dig. disc. priv. Sez. comm., Torino 2006, IX, 216 e ss. e tutta la dottrina e giurisprudenza ivi citata.

[2] Cfr., BONA, Danno biologico da superlavoro: la nuova dimensione dell’art. 2087 c.c., in «Danno resp.» 2001, 388 e ss.; GAETA, La duttilità applicativa dell’art. 2087 c.c., in «Riv. giur. lav.» 2003, 207; LANOTTE, Profili evolutivi dell’obbligo di sicurezza nell’elaborazione giurisprudenziale, in «Dir. rel. ind.» 2002, 1, 133 e ss.; CIANCARELLA, Basta provare il superlavoro per far scattare il danno biologico, in «Diritto e giust.» 2000, 5, 6; RICCI, Risarcibile il danno biologico derivante da demansionamento e da superlavoro, in «Guida lav.» 2000, 11, 28 e ss. Cfr., inoltre, FRIGENTI, Un anno di giurisprudenza penale in materia di infortuni sul lavoro, malattie professionali e norme sulla sicurezza sul lavoro, in «Riv. inf. mal. profess.» 2000, I, 165.

[3] Il datore di lavoro, in base all’art. 2087 c.c., è tenuto ad adottare e a mantenere non solo le misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione dell’integrità anzidetta nell’ambiente di lavoro, con riferimento allo specifico tipo di attività esercitata, ma anche tutte le misure in concreto necessarie per la tutela della sicurezza del lavoro, in ragione della particolarità dell’attività lavorativa, dell’esperienza e della tecnica.

[4] V. Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307, in «Lav. giur.» 2001, 385, in cui la Corte afferma che un danno alla salute del lavoratore può essere messo in relazione all’eccessivo impegno lavorativo ed alla non efficiente organizzazione del luogo di lavoro - da intendersi quale spazio operativo all’interno del quale si esplica la prestazione di lavoro, comprensivo di qualsiasi spostamento, trasferta o missione compiuta dal lavoratore in ragione delle mansioni a cui è preposto -, con la conseguenza che al dipendente malato od infortunato sarà sufficiente fornire la prova di una carenza di misure di protezione per vedersi riconosciuto il diritto alla liquidazione del danno biologico. V., inoltre, Trib. Torino, 1° agosto 2002, in «Dir. prat. lav.» 2002, 2742, con nota di RAUSEI, Persecuzioni psicologiche e stress da lavoro: l’infarto come lesione da mobbing.

[5] L’art. 10, co. 4, del d.lgs. n. 38 del 2000 dichiara che sono considerate malattie professionali anche quelle che non risultano comprese nelle tabelle del t.u. del 1965, per le quali tuttavia il lavoratore dimostri l’origine lavorativa. Si tratta del riconoscimento di quanto già sancito dalla Corte cost. 18 febbraio 1988, n. 179, in «Foro it.» 1988, c. 1031, con nota di ROSSI, I nuovi rischi per la salute dei lavoratori, tutela previdenziale e tutela preventiva nella più recente giurisprudenza, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, del t.u. n. 1124 del 1965 per violazione dell’art. 38, co. 2, Cost., nella parte in cui non consentiva la tutela di malattie professionali diverse da quelle elencate al testo unico e nelle relative tabelle, e con la quale si è segnato il superamento di un sistema tabellare chiuso e il passaggio ad un sistema di garanzia misto a liste aperte.

[6] Cfr. GUARINIELLO, Malattie professionali e nesso causale, in «Dir. prat. lav.» 2002, 1710. Inoltre, si rinvia a LANOTTE, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, Torino 1999.

[7] Sul tema, in dottrina, cfr. SGROI, Il nesso di causalità nelle malattie professionali, in «Riv. inf. mal. prof.» 2001, 1013.

[8] V., in proposito, Cass. 16 ottobre 1987, n. 7679, in «Ass. soc.» 1988, II, 82; Cass. 5 febbraio 1992, n. 1237, «Riv. infort. mal. profess.» 1992,II, 113; Cass. 6 novembre 1995, n. 11559, in «Lav. giur.» 1996,423; Cass. 21 gennaio 1998, n. 535, in «Giur. it.-Mass.» 1998; Cass. 5 febbraio 1998, n. 1196, ibidem 1998; Cass. 5 dicembre 1999, n. 13453, ibidem 1999; Cass. 30 maggio 2000, n. 7228, ibidem 2000; Cass. 16 giugno 2001, n. 8165, ibidem 2001.

[9] Cfr. GARLATTI, In principio dell’equivalenza causale nell’accertamento del rapporto eziologico nelle malattie professionali indennizzabili dall’Inail, in «Riv. crit. dir. lav.» 2004, 698.

[10] V., recentemente, Cass. 29 maggio 2004, n. 10448, in «Riv. crit. dir. lav.» 2004, 698 e ss.

[11] V., ex plurimis, Cass. 9 maggio 1991, n. 5196, in «Riv. giur sarda» 1993, 5.

[12] In dottrina, cfr. MARINUCCI, DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte Generale,Milano 2004, 121 e ss.; ROMANO, Commentario sistematico al Codice Penale sub art. 41 c.p., Milano 2002.

[13] V. Cass. 5 febbraio 1992, n. 1237, cit., 113.

[14] V. Cass. 13 settembre 2000, n. 12103, in «Giur. it.-Mass.» 2000.

[15] V. Cass. 25 maggio 2004, n. 10042, in «Ragiusan» 2005, 249, in cui si afferma che in ipotesi di malattia professionale non tabellata la prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza. Pertanto, esclusa la mera possibilità di eziopatogenesi professionale, la malattia professionale può essere ravvisata in presenza di un elevato grado di probabilità, attraverso c.t.u. espletate dal giudice di merito.

[16] V. Cass. 4 giugno 2003, n. 8884, in «Arch. civ.» 2004, 527.

[17] Tali elementi, ove non contestati nella prima difesa utile, costituiscono fatti accessori, validamente acquisiti al processo, che possono essere posti a base della decisione del giudice unitamente ai fatti principali. V. Cass. 17 aprile 2003, n. 6195, in «Gius.» 2003, 2026.

[18] V. Cass. 27 marzo 1986, n. 2187, in «Riv. infort. mal. profess.» 1986, II, 184; Cass. 5 dicembre 1998, n. 12354, in «Giur. it.-Mass.» 1998; Cass. 11 giugno 1999, n. 5794, ibidem 1999; Cass. 10 marzo 2004, n. 4927, in «Gius.» 2004, 3010.

[19] V. Cass. 10 marzo 2004, n. 4927, cit., 3010.

[20] V. Cass. 21 gennaio 1998, n. 535, cit.

[21] V. Cass. 29 marzo 1995, n. 3740, in questa rivista 1995, 358; Cass. 3 aprile 1999, n. 3234, in «Foro it. - Mass.» 1999; Cass. 25 ago-sto 2003, n. 12467, in «Gius.» 2004, 548.

[22] V. Cass. 2 gennaio 2002, n. 5, in «Danno resp.» 2002, 846, con nota GIORGI, «Stress lavorativo»: nuove prospettive della nozione di nesso di causalità.

 

Cass. 29 maggio 2004 n. 10448 - Responsabilità Inail per intero in presenza di concause preesistenti

 

Cass., sez. lav., 29 maggio 2004 n.10448 -  Pres. Mileo - Est. Lupi - G.C. (avv. Rinaldi) c. Inail (avv. Catania, De Ferra, Favata).

Previdenza - Rendita per inabilità - Broncopatia di origine lavorativa - Tabagismo - Concorso di cause - Corrispondente diminuzione della rendita a carico Inail - Esclusione - Pagamento dell'inabilità totale malgrado la concausa extralavorativa -Sussistenza.

 

Nell'ipotesi di malattia professionale, il nesso causale tra malattia e causa lavorativa non è escluso da una precedente predisposizione morbosa del lavoratore e quindi dal concorso di altre cause aventi origine extralavorativa. Ne consegue che la prestazione assicurativa spettante al lavoratore non può essere ridotta nella misura percentuale corrispondente all'entità patologica esplicata dalla sola malattia professionale, ma debba essere riconosciuta per l'intero, non essendo possibile distinguere tra cause professionali e cause non professionali, in forza del principio di equivalenza causale.

 

(...) Con l'unico motivo il G.C. denunziando la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 del TU 1124/65 e 41 c.p., lamenta la violazione del principio dell'equivalenza delle cause e che in conseguenza, avendo la concausa lavorativa natura efficiente e determinante, non sia stato posto a carico dell'Inail l'indennizzo dell'intera inabilità. La difesa dell'Inali contesta l'operatività di detto principio, che atterrebbe al momento causativo, invocando la decisione delle Sezioni unite 6848/92. che valutando un'otopatia ha scisso ai fini dell’indennizzabilità gli effetti lavorativi da quelli extralavorativi e la lettera degli artt. 2 e 3 che collegano il danno risarcibile alla causa o occasione da lavoro. Rimarca come l'attribuzione dell'indennizzo alla sola quota di effetti derivante dall'attività lavorativa, sia confermato dall'art. 145 delTU. come modificato dall'art.4 della L. 780/75, che prescrìve in caso di silicosi e asbestosi l'indennizzo di tutte le connesse malattie all'apparato respiratorio e cardiocircolatorio. La norma, secondo l'Inail, introduce in via eccezionale il principio dell'equivalenza causale e non avrebbe senso se operasse in via generale il principio generale dell'equivalenza causale.

Il ricorso è fondato.

Non è contestato il fatto che la malattia polmonare da cui è affetto il G.C. derivi in pari misura da causa lavorativa ed extralavorativa e che ciascuna di esse abbia natura efficiente e determinante. La questione che la causa pone è sulla portata del principio dell'equivalenza causale di cui all'art. 41 c.p., ritenuto applicabile alla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali dalla costante giurisprudenza di que4r556sta Corte: cfr. Cass. 7679/87; 1237/92; 11559/95; 535 e 1196/98; 13453/99; 7228/2000; 8165/01; 8633/02. La sentenza delle Sez. unite 6846/92, citata dalla difesa dell'Inail, non affronta il principio dell'equivalenza di cause, ma quello della correttezza del metodo R. nella valutazione del grado di otopàtia professionale. Il metodo, che prevede lo scorporo della presbiacusia dalla misura della complessiva otopàtia accertata, risolve il diverso problema della misura della inabilità, che determina in riferimento alle condizioni medie di soggetti della medesima età.

La tesi dell’Inail, secondo la quale il principio opererebbe solo sul momento causativo, oblitera il senso dell'art. 41 c.p. L'art. 40 c.p. stabilisce il principio che la responsabilità deriva dal fatto che l'evento dannoso sia effetto di una azione od omissione del soggetto. L'articolo successivo al 1° comma recita: «Il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l'azione od omissione e l'evento». L'articolo regola il rapporto tra la concausa e l'evento, stabilendo che la prima è causa per intero del secondo, anche se sono presenti concause.

Chiarito il senso del principio di equivalenza causale, va osservato che gli artt. 2 e 3 del TU 1124/65 non pongono una deroga a detto principio, in quanto si limitano ad affermare la necessità di un rapporto causale tra lavoro e infortunio, o malattia professionale, ma nulla dicono su eventuali concause. Né dalla natura di assicurazione dell'attività dell'Inail è dato escludere l'applicabilità di detto principio che risponde all'esigenza, costituzionalmente garantita (art. 38 Cost.) di assicurare ai lavoratori mezzi adeguati di vita in caso di malattie comunque conseguenti all'attività lavorativa. L'art. 145 del TU regola diversa materia. L'art. 133 del DPR 1124/65 stabilisce il principio che l'assicurazione «non comprende le conseguenze non direttamente connesse alle malattie stesse». L'art. 145, lett. b, come modificato dall'art. 4 della L. 780/78, che prevede in caso di asbestosi o silicosi che siano indennizzati anche gli eventi derivanti da altre forme morbose dell'apparato respiratorio e cardiocircolatorio, introduce una deroga all'art. 133, che limita l'area del danno indennizzabile, non afferma una deroga al principio di equivalenza causale.

Si deve concludere che la sentenza impugnata, che ha violato l'art. 3 del DPR 1124/65 è l'art. 41 c.p., ritenendo che l'inabilità accertata non derivasse per intero dall'attività lavorativa e limitando la rendita alla metà di essa, va cassata.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa può essere decisa nel merito condannando l'Inail a corrispondere una rendita per malattia professionale nella misura del 70% dalla data della domanda amministrativa.

Le spese dei giudizi di merito seguono per intero la soccombenza e si conferma la li­quidazione fatta dalla sentenza di appello; si liquidano nel dispositivo per il giudizio di legittimità. (...)

 

******

P.S. - In senso conforme: Cass., sez. lav. 24 luglio 2004, n. 13928 la quale ha stabilito - esaminando il caso di un lavoratore colpito da infarto miocardico  mentre svolgeva la propria attività lavorativa in una situazione di affaticamento fisico ed in condizioni climatiche sfavorevoli, - che il ruolo causale non è escluso da una precedente condizione patologica del lavoratore.  La pregressa malattia può infatti addirittura rendere più gravose e rischiose attività solitamente considerabili non pericolose e quindi può giustificare il nesso tra l’ attività lavorativa e l'infortunio.

 

Nota

 

IL PRINCIPIO DELL'EQUIVALENZA CAUSALE NELL'ACCERTAMENTO DEL RAPPORTO EZIOLOGICO NELLE MALATTIE PROFESSIONALI INDENNIZZABILI DALL'INAIL

 

La pronuncia in epigrafe della Suprema Corte, si allinea a un consolidato orientamento di legittimità in tema di verifica dei criteri di governo dell'accertamento del rapporto di causalità e in particolare del principio di equivalenza delle cosiddette «concause extralavorative».

II Giudice di legittimità ha ribadito il principio di diritto per il quale, nell'ipotesi di malattia professionale derivata da causa lavorativa e da causa extralavorativa - aventi entrambe natura efficiente e causale - si applicano le disposizioni previste dall'art. 41 c.p., ovvero quelle dell'equivalenza causale per « il concorso di cause preesistenti, simultanee e sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l'azione, l'omissione e l'evento».

Il principio è dunque quello per il quale il nesso causale non è escluso da una precedente predisposizione morbosa (cfr. Cass. sez. lav. 2369/90) e quindi dal concorso di altre cause aventi origine extralavorativa.

Nel caso in esame la Corte ha accertato la violazione dell'art. 3 del DPR 1124/65 e dell'art. 41 c.p. per non aver ritenuto che la patologia contratta dal lavoratore assicurato - broncopenumopatia ostruttiva enfisematosa - fosse per l'intero eziologicamente ascrivibile all'attività lavorativa e in particolare all'inalazione di fumi di materiale plastico.

Il giudice dell'Appello, per contro, aveva argomentato erroneamente che il complessivo grado di inabilità accertato nella misura del 70%, fosse ascrivibile nella misura del 50% a cause extralavorative (tabagismo), e poneva conseguentemente a carico dell'Inail la costituzione della rendita nella misura del 35%.

 

I presupposti per il riconoscimento e l'indennizzabilità delia malattia professionale

Gli arri. 3 e 211 del DPR 30/6/65 n. 1124 prevedono quali condizioni per l'indennizzabilità della «malattia professionale» contratta dal lavoratore assicurato:

a) che la svessa sia stata contratta nell'esercizio di attività assicurate contro gli infortuni sul lavoro;

b) che sia stata determinata da causa lenta ovvero da graduale e progressiva azione lesiva di determinati fattori morbigeni sull'organismo, differentemente dalla cosiddetta «causa violenta», concentrata nel tempo, tipica dell'infortunio sul lavoro;

c) che la patologia contratta sia eziologicamente riferibile alle mansioni lavorative espletate.

Ciò che qualifica la malattia professionale non è dunque la patogenesi, considerata tanto sotto l'aspetto della qualità della causa (lavoro), quanto sotto quello del suo modo di azione (lento ).

 

Dal principio di tassatività del sistema tabellare al sistema misto a linee aperte. L'intervento della Corte Costituzionale

Come noto, il regime assicurativo Inail prevede all'art.3, 1° comma del DPR 1124/65 e all'allegata tabella, il cosiddetto sistema tabellare, ovvero l'indicazione e l'elenco delle patologie contratte in conseguenza delle lavorazioni ivi specificate e i periodi massimi di indennìzzabilità, a decorrere dalla cessazione del lavoro morbigeno (cfr. tabella 4 allegata).

Se la patologia contratta rientra nelle ipotesi contemplate dalla suddetta tabella, il lavoratore assicurato può avvalersi della cosiddetta presunzione legale di indennìzzabilità, incombendo per contro all'Inail dimostrare la sussistenza di una causa extralavorativa quale causa della malattia.

Tuttavia occorre ribadire che, anche nell'ipotesi di patologia tabellata, incombe sul lavoratore assicurato dimostrare sia che la malattia denunciata all'Istituto rientra tra le specifiche tecnopatie previste dalle tabelle per le malattie professionali, quanto l'avvenuta esposizione al rischio, nonché le caratteristiche peculiari della malattia professionale tali per le quali essa si distingue da quella di tipo comune.

L'elencazione tabellare è stata nel tempo oggetto di modifiche e integrazioni da parte del DPR n. 482 del 9/6/75.

La Corte Costituzionale è significativamente intervenuta con la sentenza n. 179 del 10-18/2/88 (in G. U. 1a serie speciale n. 8 del 24/2/88 ) dichiarando rillegittimità dell' art. 3, 1° comma, e dell'art. 211, 1° comma, del DPR 30/6/65 n. 1124, nella parte in cui non prevedono che l'assicurazione contro le malattie professionali nell'industria e nell'agricoltura sia obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa professionale o di lavoro.

Ciò vale non solo per quel che riguarda l'individuazione di nuove malattie, ma anche per quel che concerne gli ostacoli die possono derivare dalla distanza temporale tra causa patologica e manifestazione morbosa.

L'intervento del Giudice delle Leggi ha di fatto comportato l'abbandono del sistema tabellare chiuso a favore dell'adozione di un sistema misto e il conseguente diritto per il lavoratore assicurato di ottenere l'indennizzo assicurativo, una volta che si sia fornita prova della eziologia professionale. (cfr. Cass. sez. lav. 6808/90; Cass. sez. lav. 5641/88).

Tuttavia, contrariamente alla raccomandazione della Cee del 23/7/62 e alla pronuncia della Corte Costituzionale che invitavano Governo e Parlamento all'adozione di una soluzione legislativa mista che consentisse a tutti i lavoratori di provare l'eziologia professionale di una malattia non compresa nella tabella, il nostro legislatore ha continuato ad avvalersi del sistema della «lista chiusa», sostituendo alle Tabelle allegate ai nn. 4 e 5 del TU 1124/65, altre tabelle e limitandosi ad aumentare il numero delle tecnopatie protette e ad ampliare l'indicazione delle lavorazioni che espongono ai rischi derivanti da sostanze organiche e da agenti chimici e fisici.

 

L'accertamento del nesso causale e il principio di equivalenza delle concause ex art. 41 cp.

Alla tematica della causalità efficiente è connessa quella della concausalità, intendendosi in generale per concausa, che può essere preesistente o successiva, solo quella condizione senza la quale l'evento dannoso non si sarebbe verificato o il danno giuridicamente significativo non avrebbe assunto quella particolare gravità. Con specifico riguardo al territorio delle malattie professionali, il termine concausa si riferisce alle condizioni morbose preesistenti e indipendenti da cause collegate al lavoro che hanno l'effetto di produrre un effetto patologico unico con conseguenze, sul piano anatomo-funzionale, diverse e più gravi di quelle che la lesione conseguente a malattia professionale avrebbe prodotto.

In materia di assicurazione Inail. ci si pone pertanto il problema di individuare quale sia la regola applicabile ai casi in cui l'evento sia stato determinato da altra o da altre malattie non protette dall'assicurazione stessa e, in concorso necessario con esse, dalla malattia professionale. Si pensi a esempio, come nella fattispecie in commento, alla concorrente rilevanza di concause quali l'abitudine tabagìca dell'assicurato e la sua esposizione professionale ad agenti inquinanti presenti nell'ambiente di lavoro nel determinismo causale delle broncopneumopatie cronico ostruttive. Ci si riferisce in questi casi alla possibile rilevanza delle concause di lesione ovvero a quelle ipotesi in cui il nesso causale viene interrotto dalla sopravvenienza di un fattore da sé solo sufficiente a produrre l'evento, ontologicamente distinte dalle concause di invalidità per le quali trova applicazione l'art. 79 del T.U. 1124/65.

La costante giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto applicabile alla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, il principio della equivalenza causale contenuto nell'art 41 cp.

È opinione largamente diffusa che l'art 41, n. 1 c.p., nello stabilire che il concorso di cause preesistenti, simultanee e sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione dell'agente, non esclude il rapporto di causalità, non abbia altra funzione che quella di confermare la vigenza nel nostro ordinamento del principio della equivalenza delle condizioni.

In definitiva, per la sussistenza del rapporto di causalità, è sufficiente che sia stato posto in essere anche uno solo degli antecedenti necessari dell'evento (cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, p. 121 e sgg., Milano 2004; M. Romano, Commentario sistematico al Codice Penale, sub art. 41 cp., Milano 2002) e ciò vale anche quando i fattori estranei sono rari o anormali. Il principio di equivalenza è uno dei corollari della teoria condizionalistica.

Il principio di equivalenza delle concause, applicato alla disciplina assicurativa dell'Inail, esige pertanto che delle malattie professionali si debba tener conto anche ove emerga che esse hanno concretamente cooperato a creare nel soggetto una situazione tale da favorire l'azione dannosa di altri fatti e/o ad aggravarne gli effetti. Con l'ovvia conseguenza che, nell'ipotesi di concorso necessario, la prestazione assicurativa spettante al lavoratore non può essere ridotta nella misura percentuale corrispondente all'entità patologica esplicata dalla sola malattia professionale, ma debba essere riconosciuta per l'intero, non essendo possibile distinguere tra cause professionali e cause non professionali, tra causa diretta e primaria e causa secondaria in forza del principio di equivalenza causale (cfr. Cass. sez. lav. 5/2/92 n. 1237).

Gli artt. 2,3 e 85 (in caso di morte) e 211 del DPR 1124/65 richiedono la sussistenza di un rapporto causale tra lavoro, infortunio o malattia professionale (o l'eventuale decesso ai fini della costituzione della rendita di reversibilità) ma nulla dicono in ordine alla sussistenza di eventuali concause nel determinismo causale. La giurisprudenza ha pertanto ricondotto nell'alveo delle disciplina dell'art. 41 c.p. anche l'assicurazione Inail, richiamandosi all'esigenza costituzionalmente garantita ex art. 38 della Costituzione, di assicurare ai lavoratori mezzi adeguati di vita in caso di malattie comunque conseguenti all'attività lavorativa.

La Suprema Corte ha così ritenuto sussistente l'indennizzabilità dell'evento infortunio nel caso in cui nella produzione del traumatismo mortale, aveva concorso il preesistente stato morboso dovuto a malattia professionale (cfr. Cass. sez. lav. 16/10/87 n. 7679), ritenendo il traumatismo stesso, l'alterazione patologica da esso creata nonché l'eventuale effetto letale, quali conseguenze della malattia professionale. Nel caso si trattava di caduta dovuta a insufficienza cardiorespiratoria concausata da preesistente malattia professionale da silicosi.

La Corte di legittimità (cfr. Cass. sez. lav. 21/1/98 n. 535), ha precisato che il rischio di malattia da naturale predisposizione non vale a escludere del tutto quello di origine professionale, in quanto il ruolo di concausa va attribuito anche a una minima accelerazione evolutiva e di aggravamento di una pregressa o attuale patologìa, ove se ne riconosca l'incidenza negativa. Nel caso, le affezioni varicose del lavoratore assicurato, pur se ricollegabili a una sua naturale predisposizione, venivano riconosciute come professionali in dipendenza dell'attività lavorativa svolta come pasticciere, attività che costringeva l'assicurato a restare per ore in posizione eretta e statica con evidenti ripercussioni sul circolo venoso.

Altrettanto la Suprema Corte ha stabilito che, nell'accertamento dell'eziologia professionale, occorre tener conto anche di quelle situazioni di dannosità (esposizione a intemperie, sbalzi di temperatura ecc.) che, seppur ricorrenti anche per altre attività umane non riconducibili a quella lavorativa (cosiddetto rischio generico) rientrano però nel rischio specifico dell'attività lavorativa del lavoratore assicurato (cfr. Cass. sez. lav. 5/2/96 n. 1196).

Di notevole rilevanza sono infine le molteplici pronunce in materia di sforzo (cfr. Cass. sez. lav. 6/11795 n. 11559, e Cass. sez. lav. 30/5/2000 n. 7228; Cass. sez. lav. 2639/90; 10450/97; 12940/97). La Corte ha ritenuto che anche lo sforzo fisico compiuto durante il lavoro, possa configurare l'esistenza della causa violenta richiesta dall'art. 2 del DPR 1124/65, atta a determinare, con azione rapida e intensa la lesione dell'equilibrio fisico dell'assicurato. Anche in questo caso il nesso causale non è escluso da una predisposizione morbosa (si pensi a es. alla ricorrenza di patologie cardiovascolari) che anzi può far sì che proprio uno sforzo determini la rottura del precario equilibrio organico dando luogo a conseguenze invalidanti.

Aldo Garlatti

(fonte: D&L, Riv. crit. dir. lav. n. 3/2004, p. 698)

 

Sul tema vedi anche Meucci - Responsabilità integrale aziendale per danni alla salute (nota a Cass. n.5539-03); Fattori congeniti predisponenti a patologie non esonerano da responsabilità chi lede il diritto alla salute.

 

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