Alessandro Barbero

 

Santi laici e guerrieri. Le trasformazioni di un modello nell’agiografia altomedievale

A stampa in Modelli di santità e modelli di comportamento. Contrasti, intersezioni, complementarità, Torino 1994, pp. 125-140 – Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”,il cui sito è http://www.retimedievali.it

 

 

1. Pur senza essere stata oggetto, finora, di un’analisi comparata, la figura del santo militare è ben presente allo studioso di problemi agiografici, che vi riconosce istintivamente un veicolo privilegiato di trasmissione dei valori cristiani al laicato, e soprattutto al laicato potente. Conviene tuttavia evitare di pensare al santo militare come a un modello in qualche modo perenne, le cui caratteristiche, fissate una volta per tutte magari fin dalla Vita Martini di Sulpicio Severo, si siano poi riproposte in modo sostanzialmente invariato nei secoli posteriori. L’appartenenza, prima della conversione, alla professione militare rappresenta di per sé un vincolo troppo debole per accomunare figure il cui significato può essere apparso di volta in volta molto diverso agli occhi dei contemporanei. Nel corso del millennio medievale, infatti, l’attitudine assunta dagli uomini di Chiesa nei confronti dei problemi morali connessi all’esercizio delle armi muta considerevolmente, così come, d’altro lato, muta il significato stesso della professione militare: essere un miles, evidentemente, a dispetto dell’identità di vocabolario, significa qualcosa di molto diverso al tempo di Diocleziano o a quello di Goffredo di Buglione.

Non è certo questa la sede per ritornare sul problema complesso delle attitudini assunte dai cristiani dei primi secoli di fronte alla guerra, per cui rimandiamo senz’altro alle rassegne di Franco Cardini e di Jean Flori[1]; basterà ricordare che mentre il pensiero dei teologi presenta una grande varietà di atteggiamenti, le figure dei martiri militari protagonisti delle più antiche Passioni tendono per lo più a sottolineare l’incompatibilità tra la fede cristiana e l’uso delle armi, foss’anche nel quadro della militia pubblica[2]. Si veda l’esempio precoce della Passio Maximiliani, redatta in Africa all’inizio del quarto secolo, il cui protagonista preferisce andare incontro al martirio piuttosto che accettare l’arruolamento, in nome di un principio che lascia ben poco spazio a dubbi o ambiguità: “mihi non licet militare quia christianus sum”[3]. Negli stessi anni il centurione Marcello, toccato dalla grazia, decide all’improvviso di abbandonare il servizio anche a costo del martirio, dichiarando al comandante della sua guarnigione africana “me christianum esse et sacramento huic militare non posse nisi Iesu Christo”[4]. Non diversamente un altro vecchio soldato, Tipasio, che ha lasciato l’esercito per rinchiudersi in monastero, quando l’imperatore richiama sotto le armi i veterani rifiuta di presentarsi, e così spiega al superiore che lo interroga le ragioni della sua decisione: “ego miles Christi sum; tibi militare non possum”[5]. Sulla stessa linea si colloca infine il più famoso dei santi militari tardoantichi, Martino, protagonista di una Vita destinata a rappresentare per molto tempo un modello per gli agiografi. Figlio di un militare, Martino è costretto a seguire il mestiere delle armi dalla volontà del padre e dalle leggi imperiali; ma cerca a più riprese di sottrarsi a quell’obbligo, e infine si ribella apertamente, con una dichiarazione che richiama da vicino quelle di Massimiliano, Marcello e Tipasio e che non lascia dubbi sull’incompatibilità fra cristianesimo e professione militare: “Christi ego miles sum: pugnare mihi non licet”[6].   

Questa visione negativa del mestiere delle armi si modifica tuttavia abbastanza presto; e con essa cambia il significato attribuito dagli agiografi alla condizione militare dei loro protagonisti. I santi militari destinati al maggior successo di pubblico, celebrati per lo più da Passioni a carattere romanzesco e leggendario, redatte nel corso del quinto secolo, non mostrano più nessun disagio di fronte al connubio tra fede cristiana e mestiere delle armi. San Giorgio è un militare di carriera ed è martirizzato perché rifiuta di sacrificare agli dèi, non perché intenda abbandonare il servizio[7]. San Sebastiano è raffigurato come un pretoriano, che si distingue al servizio dell’imperatore finché non va incontro al martirio, in nome della sua fede, durante la persecuzione di Diocleziano[8]. San Maurizio, il principale fra i martiri della legione tebea, è un soldato che affronta il martirio non perché abbia deciso di rifiutare il servizio in quanto tale, ma perché non intende essere impiegato per perseguitare altri Cristiani. I termini con cui l’autore della Passio Acaunensium martyrum descrive i soldati della legione tebea sono indicativi di una concezione ormai positiva della professione militare, in cui l’abitudine alla disciplina e alla fedeltà costituisce un primo passo sulla via della santità: “viri in rebus bellicis strenui et virtute nobiles, sed nobiliores fide; erga imperatorem fortitudine, erga Christum devotione certabant”. Subito dopo l’autore introduce un rimando evangelico che fino a quella data era stato spesso usato per porre in opposizione il servizio di Cesare e quello di Dio, ma che qui appare per la prima volta piegato a indicare piuttosto il loro parallelismo, secondo un’interpretazione che avrà larghissima risonanza nell’agiografia dei secoli successivi: “Evangelici praecepti etiam sub armis non immemores, reddebant quae Dei erant Deo et quae Caesaris Caesari restituebant”[9].

Il seguito della vicenda di Maurizio e dei suoi compagni è ancor più indicativo della mutata temperie spirituale in cui operavano gli agiografi del quinto secolo. Trascinati davanti all’imperatore per rispondere della propria insubordinazione, gli uomini dell’“angelica legio” insistono con sempre maggior sicurezza sulla compatibilità, e anzi sulla rispondenza reciproca, tra la fedeltà che hanno giurato al sovrano e quella che debbono a Dio. “Milites sumus, imperator, tui, sed tamen servi, quod libere confitemur, Dei. Tibi militiam debemus, illi innocentiam; a te stipendium laboris accepimus, ab illo vitae exordium sumpsimus”. Tanta è anzi la loro fiducia nella legittimità del proprio mestiere, che essi giustificano il rifiuto di partecipare alla persecuzione dei Cristiani insistendo sull’inammissibilità di misure così cruente in una società civile bene ordinata; dalle loro parole traspare la convinzione che i nemici dell’imperatore non possono e non debbono essere diversi dai nemici di Dio[10].

Questa concezione civica della milizia, non più aborrita come colpevole distrazione dal servizio divino, ma al contrario legittimata come servizio indispensabile in una società civile già assimilata alla comunità dei credenti, è evidentemente il frutto della convergenza fra la tradizione romana della res publica e quella cristiana; e non sorprende vederla affermare così esplicitamente alla fine del quinto secolo in un paese integralmente romanizzato, e cristianizzato ormai in profondità, come la Gallia meridionale. L’equilibrio generato da quell’incontro è per la verità instabile, e nei secoli seguenti la germanizzazione delle élites laiche ed ecclesiastiche determinerà l’impoverimento di una nozione di militia così ricca di risonanze classiche, seppure ben integrata nel sistema dei valori cristiani: la fedeltà personale si sostituirà al dovere civico, e il mestiere delle armi apparirà ancor sempre come servizio, ma non più rivolto alla collettività dei cittadini, bensì alla persona del re. Anche in questa accezione più ristretta, tuttavia, il parallelo tra la fedeltà prestata a Cesare e quella dovuta a Dio conoscerà una sempre maggior fortuna presso gli agiografi, a misura che il centro principale della produzione agiografica latina si sposterà dall’Italia alla Gallia merovingia[11].

Fra il sesto e l’ottavo secolo, infatti, il monachesimo gallico intrattiene uno stretto rapporto con le grandi famiglie franche e con lo stesso palazzo regio, svolgendo una funzione organica all’interno del sistema di potere creato dai re merovingi: nella sua spiritualità non c’è spazio per un rifiuto incondizionato dell’attività militare, soprattutto se svolta al servizio del re. I maggiori santi merovingi sono uomini che prima di dedicarsi alla vita religiosa hanno servito il monarca, con le armi in pugno se necessario, e che nel momento in cui decidono di lasciare il mondo per dedicarsi integralmente alla vita religiosa non ritengono certo necessario pentirsi del passato; anzi, il linguaggio dei biografi mostra chiaramente che i successi colti al servizio del re concorrono in pieno a delineare la personalità e i meriti dei santi. Si potrebbe perciò sostenere che la figura del santo laico è solo in senso tecnico un’invenzione del nono o decimo secolo, come si afferma di solito, col pensiero rivolto soprattutto alla Vita Geraldi. Certo, prima di allora tutte le Vitae sono dedicate a personaggi che in un momento o nell’altro della loro vita hanno assunto uno status ecclesiastico, di vescovo o abate; ma la personalità dei maggiori santi merovingi, Arnolfo o Audoino, Eligio o Romarico, si delinea già potentemente, e in una luce del tutto positiva, nel momento in cui, da laici, servono il re a palazzo o addirittura sui campi di battaglia[12].

 

2. Questa tendenza era destinata a manifestarsi nel modo più compiuto al tempo di Carlo Magno, e soprattutto dei suoi successori. Non che manchino, a dire il vero, nell’agiografia carolingia spunti critici contro il mondo dei potenti e contro lo stesso palazzo regio, descritto in una prospettiva sostanzialmente agostiniana come fonte di ogni corruzione: una critica corrosiva di cui sarebbe vano cercar traccia nella produzione agiografica dell’età precedente, assai più ossequiente al potere politico[13]. Ma altri ambiti della cultura carolingia sono piuttosto caratterizzati da una riflessione compiaciuta sul potere e sul suo funzionamento, volta a presentare l’esercizio dell’autorità come necessario e voluto da Dio: non per nulla tanti intellettuali si cimentano proprio in questa età col genere dello specchio dei principi[14]. Non è improbabile che esista una connessione tra la fortuna di questa letteratura e la comparsa nell’agiografia, proprio alla fine dell’età carolingia, di una figura di santo laico, potente e guerriero. Non penso tanto alla già ricordata Vita Geraldi, il cui valore innovativo è da riconsiderare nel più generale contesto dell’esperienza cluniacense, quanto piuttosto all’assai meno nota Vita Gangulfi, composta forse già alla fine del nono secolo, e su cui ha recentemente attirato l’attenzione I Deug-su[15]. 

Nel quadro di un’indagine sulla santità laicale e in particolar modo sulla santità militare il testo merita una considerazione maggiore di quella finora ricevuta, pur se la sua qualità letteraria non è in alcun modo paragonabile a quella della Vita Geraldi, e se in essa trionfa quel gusto romanzesco cui gli studiosi moderni, diversamente dai lettori medievali, faticano ad avvezzarsi. La ricezione della Vita Gangulfi da parte del pubblico medievale non fu affatto inferiore a quella dell’opera, di poco posteriore e oggi tanto più apprezzata, di Odone di Cluny. Il Levison, editore del testo nei “Monumenta Germaniae Historica”, reperì infatti non meno di 65 codici, di cui il più antico risale al X secolo e almeno dieci all’XI; a titolo di confronto notiamo che per la Vita Geraldi, sebbene in mancanza di un’edizione critica ogni valutazione debba ritenersi provvisoria, sono stati reperiti finora soltanto 36 codici, la maggioranza dei quali, per giunta, tramanda versioni abbreviate e ideologicamente assai meno impegnative rispetto alla redazione maggiore[16]. La popolarità della Vita Gangulfi è ulteriormente attestata dal fatto che il testo ebbe un primo rifacimento anonimo già nella seconda metà del X secolo e un secondo, in versi, alla stessa data ad opera di Rosvita, approdando da ultimo nella Legenda Aurea. Il nome di Gangolfo si ritrova in numerosi martirologi del X e del primissimo XI secolo, tanto in Francia quanto in Germania, e poco più tardi anche in Inghilterra e in Italia: il culto, sviluppatosi a Varennes nella diocesi di Langres, dove fu redatta con ogni probabilità la Vita, conobbe dunque una diffusione assai ampia - un dato che contrasta in modo significativo col carattere soprattutto locale del culto di Geraldo d’Aurillac, diffuso prevalentemente, come sembrano indicare i primi sondaggi su calendari e breviari, nella Francia meridionale e centrale[17].

L’importanza della figura di Gangolfo consiste nel fatto che nella Vita di questo conte franco, morto senza aver mai abbandonato la condizione laicale, è delineato per la prima volta un esempio di santità attiva e bellicosa, pienamente compatibile con gli impegni sociali di un laico potente. Come Geraldo anche Gangolfo, la cui unica attestazione documentaria è in un diploma di Pipino del 762, era un grande proprietario terriero, la cui famiglia dominava da generazioni la sua regione d’origine, e molto probabilmente vi esercitava ereditariamente funzioni comitali. Ma a differenza di Geraldo, Gangolfo è rappresentato dal suo biografo nell’esercizio di uno stile di vita pienamente confacente al suo rango e alle sue responsabilità. Certo egli è santo per la fedeltà all’insegnamento evangelico, l’assiduità all’ufficio divino, la carità verso i poveri, l’equità del giudizio e la rettitudine dei costumi; ma ciò non gli impedisce di adottare tutti quei comportamenti che ci si attendeva da un magnate franco del suo tempo.

La caccia, tanto per cominciare, è uno dei suoi passatempi preferiti: e l’agiografo prende energicamente le distanze da una consolidata tradizione monastica di condanna dell’attività venatoria, sforzandosi di dimostrare, con l’appoggio di diverse autorità, che si tratta al contrario di un esercizio legittimo e lodevole[18]. Gangolfo, inoltre, è vassallo di Pipino e in virtù del “militare officium” che detiene ha spesso occasione di mettere la sua spada al servizio del re, che lo considera giustamente “inter fortissimos exercitus sui”: agli occhi dell’agiografo tutto ciò, lungi dal costituire motivo d’imbarazzo, rientra palesemente fra i meriti del santo, e lo dimostra la soddisfazione con cui riferisce che la sua armatura è tuttora esposta nella chiesa a lui dedicata[19]. Gangolfo, infine, è sposato: e sebbene proprio il matrimonio sia destinato a perderlo, poiché sarà ucciso dall’amante della moglie di cui aveva scoperto il tradimento, l’agiografo, lungi dall’approfittare della situazione per criticare l’istituto matrimoniale, ne traccia un’apologia sorprendente per bocca dello stesso Gangolfo. Il santo infatti, scoperto il tradimento della moglie, la rimprovera amaramente per aver infranto un vincolo che avrebbe dovuto unirli per tutta la vita: “Optaveram, inquit, si fidem debitam servasses et in lege Dei ambulasses, omnia tecum saeculi discrimina perferre; quaecumque adversa contigissent, quaecumque prospera, collato tecum robore sustinere, simul pacienter vivere, simul delectabiliter mori”[20]. Nessun autore, credo, della letteratura agiografica latina si era prima di allora impegnato in una difesa così appassionata e toccante della condizione matrimoniale, esaltata non come mezzo per incanalare l’impulso sessuale e consentire agli uomini di crescere e moltiplicarsi, ma come la scelta consapevole di due persone che decidono di affrontare insieme, nel bene e nel male, le prove dell’esistenza.

Ecco dunque un santo laico e potente, celebrato senza imbarazzo per il suo valore guerriero, alla fine dell’età carolingia; ed ecco un agiografo capace di affrontare con notevole originalità nodi concettuali complessi come quelli del matrimonio, della guerra, della caccia, che avevano sempre costituito e sarebbero rimasti anche in seguito un problema irrisolto nelle relazioni fra ecclesiastici e laici. Il fatto che l’autore della Vita fosse con ogni probabilità un chierico, addetto o comunque vicino alla chiesa di S. Gangolfo a Varennes, contribuisce certamente a spiegare lo scarso peso che la tradizione ascetica, di matrice prevalentemente monastica, pare aver esercitato sulla sua opera. Ma più in generale, proprio in relazione con l’itinerario fin qui seguito, non è sorprendente che una tradizione di ossequio verso il potere pubblico, e di ammirazione verso l’attività politica e talora persino militare dei grandi di palazzo, viva da secoli nell’agiografia franca sia sfociata proprio alla fine dell’età carolingia nella celebrazione di un personaggio come Gangolfo: un santo, cioè, che per la prima volta conquista ampia popolarità ed è apertamente riconosciuto come tale senza aver ricoperto alcun ufficio ecclesiastico, e anzi godendo pienamente di tutte le prerogative che si addicono a un laico potente.

 

3. Non molti anni dopo la composizione della Vita Gangulfi, gli uomini di punta del mondo ecclesiastico cominciavano a interrogarsi con ben maggiore inquietudine sulla figura del santo laico e potente; di questo crescente disagio è testimonianza proprio la Vita Geraldi di Odone di Cluny. Interpretare quest’opera come indizio di un’inquietudine delle coscienze rispetto alla possibilità di una santità laicale e guerriera può certo apparire paradossale, dato che per molto tempo la Vita Geraldi è stata studiata quasi esclusivamente in relazione alla nascita dell’ideale cavalleresco e dell’idea di crociata. Come si sa, la fortuna di questo testo può essere fatta risalire a Carl Erdmann, che nel 1935 attribuiva al monachesimo cluniacense la volontà di assegnare anche ai laici un ruolo positivo nella società cristiana e in particolare di legittimare l’uso delle armi da parte dell’aristocrazia, se volto a scopi grati a Dio. Erdmann individuava le tracce di questa tendenza proprio nella Vita Geraldi, che offrirebbe a suo giudizio un nuovo e significativo ideale di santità: Odone di Cluny volle dimostrare che anche un laico e un signore cavalleresco poteva condurre una vita santa, e in tal modo prefigurò l’ideale del cavaliere cristiano, la cui attività militare è ispirata a scopi etici e religiosi[21].

Senonché la recente storiografia ha cominciato a mettere in dubbio questa presentazione convenzionale della Vita Geraldi, soprattutto per merito di studiosi italiani: le lezioni di I Deug-su all’Università Cattolica di Milano e di Ambrogio Piazzoni alla Mendola nel 1989 non sono che il punto d’arrivo di una revisione avviata già dagli studi di Arsenio Frugoni, di Paolo Lamma, di Vito Fumagalli[22]. Questi studi hanno dimostrato che la Vita Geraldi, pur distaccandosi dalle convenzioni prevalenti nell’agiografia del suo tempo, in quanto dichiaratamente rivolta a tracciare un modello di comportamento per i laici potenti, non può affatto essere concepita come la prefigurazione di un ideale cavalleresco che a metà del X secolo era ancora molto di là da venire. Al contrario, essa è prima di tutto, contrariamente a quel che credeva l’Erdmann, il ritratto di un potens tardocarolingio, nelle cui attribuzioni di governo si riflette proprio l’ideologia carolingia del potere cristiano; non senza il documentato concorso di modelli tardoantichi, come ha segnalato Martin Heinzelmann[23].

Non s’intende tuttavia proporre, con ciò, una lettura della Vita Geraldi in qualche modo appiattita sugli esiti più significativi della cultura carolingia, e magari proprio sulla poco più antica Vita Gangulfi. La peculiarità dell’opera di Odone è fin troppo evidente; ma essa consiste appunto nel fatto che a ben guardare il suo Geraldo non è certo un modello di “potens vir” paragonabile a quello incarnato da Gangolfo. Gli attributi del potere, fra cui naturalmente l’uso della forza militare in difesa della giustizia, sono bensì presenti, e largamente, anche in questo testo; ma sono trattati dall’autore con qualche freddezza, e non concorrono se non marginalmente a delineare la santità del protagonista. Al contrario di Gangolfo, Geraldo si assoggetta solo con riluttanza ai suoi doveri di uomo di potere, fra cui l’obbligo di giudicare e di combattere, ed è santo solo in quanto, pur restando laico, si sforza di vivere come un monaco, dubitando interiormente della propria funzione naturale di giudice e di guerriero[24].

Un confronto più puntuale fra le due Vitae rivela che l’atteggiamento dei due agiografi nei confronti di quei tratti che caratterizzano il ruolo sociale dei protagonisti non potrebbe essere più diverso. Gangolfo, come si ricorderà, ama la caccia, che considera esercizio salutare non soltanto per il corpo ma anche per l’anima, in quanto permette di evitare l’ozio e con esso le tentazioni; ma Geraldo, quando il padre cerca di avvezzarlo ancora bambino all’”inani studio” dei cani e dei falconi, è colpito per volontà di Dio da una lunga malattia, che lo costringe a trascorrere il suo tempo nello studio del latino e del canto ecclesiastico[25].  Il valore guerriero dispiegato da Gangolfo, “acer animo, fortis viribus, strenuus in armis et omni militari exercitio instructissimus”, al servizio del suo re è francamente compreso, senza esitazioni né sotterfugi, fra i lati positivi della sua figura; ma Geraldo, che nonostante la sua prestanza fisica aveva imparato solo con riluttanza a usare le armi, e ad ogni occasione trascurava l’esercizio per dedicarsi piuttosto allo studio delle Scritture, si decide controvoglia a scendere in campo contro i violenti soltanto quando i suoi fedeli, esasperati, gli additano le sofferenze dei contadini e la rovina della sua terra. Com’è noto, l’orrore per le armi e per lo spargimento di sangue caratteristico della spiritualità cluniacense fa sì che Geraldo, quando è costretto a combattere, ordini ai suoi uomini di battersi con le lance rovesciate, così da non macchiarsi le mani col sangue dei nemici: e tuttavia tanti scrupoli non paiono ancora sufficienti a Odone, il quale chiama a raccolta tutte le risorse della sua retorica per spiegare ai lettori che la familiarità con le armi non è sempre una colpa così grave come si potrebbe credere, e non ha lasciato una macchia sulla coscienza del suo eroe[26].

Egualmente diverso è il trattamento di due motivi senza i quali il ritratto di un potente potrebbe difficilmente essere completo, quelli cioè della proprietà e della famiglia. Gangolfo, che ha ereditato dai genitori ampi latifondi, si compiace di visitarli e migliorarli, e Dio stesso lo aiuta facendovi zampillare miracolosamente una sorgente; ma Geraldo, che solo a malincuore si è visto costretto a trascurare gli studi prediletti per occuparsi delle terre ereditate dal padre, cerca appena possibile di astrarsi con la meditazione da quelle cure che giudica mortali per l’anima, e il suo biografo lo loda per non aver mai voluto “coniungere domum ad domum et agrum agro copulare”[27]. Gangolfo, infine, è sposato senza rimorsi con una donna che ama e con cui vorrebbe vivere fino alla vecchiaia; mentre nel caso di Geraldo, che ha rinunciato per sempre al matrimonio, la sessualità è presente soltanto nella forma delle tentazioni volgari cui ogni potente rischia inevitabilmente di soccombere, e contro le quali la sola difesa è uno sforzo ascetico corroborato dalla grazia divina, nella più schietta tradizione monastica. Odone racconta infatti che Geraldo avrebbe potuto prendere senza difficoltà una delle sue contadine, che gli era piaciuta; ma all’ultimo momento un intervento miracoloso gli diede la forza di resistere alla tentazione e di abbandonare in gran fretta la capanna della ragazza[28].

Le discrepanze così rilevate mostrano che si rischia di fraintendere l’opera di Odone quando si cerca di individuarvi prima di ogni altra cosa un atteggiamento positivo nei confronti della vita secolare e in particolare dell’uso delle armi. Il motivo centrale della Vita Geraldi non è la legittimazione della forza militare, purché rivolta a scopi grati a Dio; ma piuttosto la dimostrazione che un uomo può ispirare la propria vita a un codice di comportamento intriso di rigore monastico, anche quando è costretto a restare implicato negli affari del secolo. La forza innovativa del testo consiste nella volontà di affrontare bensì la questione della vita laica, troppo spesso passata sotto silenzio nella tradizione agiografica, ma evitando il facile avallo di comportamenti che debbono passare al vaglio di una severa censura prima di poter essere in qualche misura tollerati - come invece, secondo la testimonianza dello stesso Odone, accadeva fin troppo spesso al suo tempo. Si rileggano a questo proposito le prime, significative righe della Vita Geraldi, in cui l’agiografo afferma di aver scelto come soggetto la figura di Geraldo proprio perché essa rischia di offrire una giustificazione a quanti pretendono di salvarsi senza rinunciare ai piaceri che il mondo offre ai ricchi e ai potenti: “Alii quoque velut excusationes in peccatis quaerentes, indiscrete hunc extollunt, dicentes videlicet quod Geraldus potens et dives fuit, et cum deliciis vixit, et utique sanctus est”[29]. Proprio a costoro è rivolta la fatica di Odone; ma non certo per confermarli nelle loro comode certezze, bensì per disilluderli, additando loro l’esempio di un potente che ha saputo rinunciare ai piaceri della carne per macerare il suo corpo in una penitenza non molto meno dura di quella monastica.

Beninteso non tutti i tratti attribuiti a Geraldo sono tali che soltanto un santo possa imitarli; né avrebbe potuto essere diversamente, considerando il pubblico cui è rivolta la Vita. Essa è stata scritta, afferma esplicitamente l’autore, “ad potentes commonendos”, nella convinzione che di potenti capaci di impugnare la spada c’è pur bisogno al mondo, per difendere il popolo e la Chiesa dai lupi; ora lo stesso Odone, in un’altra sua opera, avverte della cautela con cui si debbono ammaestrare i potenti: “potentiores quidem tanto cautius alloquendi sunt, quanto et laxiorem vitam ducere permittuntur”[30]. C’è allora da chiedersi se non si debba proporre un duplice livello di lettura per la Vita Geraldi; in cui l’intento più propriamente agiografico resti distinto da un più generico intento pedagogico, rivolto a uomini dal cui orizzonte la santità è irrimediabilmente assente. Nonostante la diffidenza dei monaci nei confronti di un’aristocrazia sempre più incline all’illegalità e alla violenza, non è desiderabile che i grandi rinuncino, tutti, alle proprie prerogative: l’agiografo avrà già ottenuto almeno in parte il suo scopo se li avrà convinti che Dio ha dato loro la spada soltanto per proteggere i poveri e punire i violenti, non perché si insuperbiscano trasformandosi a loro volta in oppressori; e che non si deve arrivare al placito in ritardo e ubriachi, poiché il bene comune dipende dall’onestà e dalla sobrietà di chi è chiamato a giudicare[31].

Ma questa è, appunto, soltanto una delle possibili letture; e non si comprenderebbe pienamente il senso di un testo complesso come la Vita Geraldi se non si andasse oltre questa intenzione pedagogica, dimenticando il contesto in cui si collocano le indicazioni di Odone. Non siamo qui di fronte a un trattato come le Collationes, in cui la condizione dei potenti è giudicata alla luce dell’insegnamento cristiano, nello sforzo di comprendere e, dove possibile, di riconciliare con le finalità perseguite dalla Chiesa forme di vita e di comportamento anche molto diverse fra loro. La Vita Geraldi è un testo agiografico, il suo argomento è la santità: e agli occhi dell’abate cluniacense ci dev’essere in un santo qualcosa di più che non la mera capacità di impiegare la propria spada in difesa dei poveri e di non ubriacarsi a tavola. Geraldo è stato voluto da Dio “in exemplo potentibus”, non solo per indurre la maggioranza di loro a moderare in qualche misura la propria violenza, ma anche e soprattutto per mostrare che perfino un laico e un potente può adeguarsi a quegli ideali di carità, mortificazione e rinuncia che i monaci si impongono: “nec observantia mandatorum Dei gravis aut impossibilis aestimetur, quoniam quidem haec a laico et potente homine observata videtur”. Ecco allora l’insistenza sulla ripugnanza di Geraldo per ogni spargimento di sangue, foss’anche necessario, e sulla sua capacità di resistere alle tentazioni della carne, difendendo a oltranza la sua castità, quasi che sotto l’abito laico il conte di Aurillac avesse deciso di competere con i voti dei monaci[32].

Riconoscendo nell’opera di Odone un’oscillazione fra intento pedagogico e intento agiografico, è forse possibile riconciliare le interpretazioni diametralmente opposte di essa date dagli storici in passato e in tempi più recenti. Quei tratti che all’Erdmann parevano indicare l’accettazione positiva della condizione laica e la prefigurazione di una possibile santità guerriera rappresentano in realtà la richiesta di mantenere un comportamento almeno decente, rivolta a un mondo nobiliare nei cui confronti l’abate cluniacense nutre una solida diffidenza - e che tuttavia non può certo essere abbandonato a se stesso, né convertito in massa all’ascesi monastica. Ma perché la santità possa compiere la sua epifania all’interno della condizione laicale è necessario che quest’ultima divenga un puro involucro, e che nulla più se non l’esteriorità distingua il laico dal monaco: la tonsura segreta di Geraldo è in questo senso il punto d’arrivo di un itinerario iniziato il giorno in cui il giovane scoprì che Dio non gli avrebbe permesso di andare a caccia, e proseguito col suo rifiuto di far del male ai nemici o di condannare i malfattori, nel momento stesso in cui pareva piegarsi, esteriormente, ai suoi obblighi di guerriero e di giudice.

Nella Vita Geraldi il problema della santità laica è così affrontato, al tempo stesso, con maggior consapevolezza e con maggior ritegno rispetto alla Vita Gangulfi. Odone è consapevole, molto più del suo anonimo predecessore, dei problemi sollevati dalla celebrazione di un santo laico, e più volte interrompe il filo del racconto per riflettere sulla condizione laicale e su ciò che ad essa si addice; riflessioni che invano si cercherebbero sotto la penna del biografo di Gangolfo. Ciò avviene precisamente perché l’uso delle armi, quand’anche finalizzato all’interesse pubblico, e la stessa legittimità del potere erano oggetto di discussione nell’ambiente cluniacense così come non era mai accaduto nella letteratura agiografica franca: sicché l’impegno quasi doloroso con cui Odone affronta questi problemi appare più il segno premonitore di un’incipiente chiusura, che non il preannunzio di un’apertura destinata a farsi attendere ancora per molto tempo. Non a caso del resto, come hanno segnalato Paolo Lamma e Vito Fumagalli, la redazione abbreviata della Vita Geraldi, destinata ad una circolazione almeno pari, se non maggiore, rispetto all’originale, vede cadere precisamente gli episodi e le riflessioni relativi alla condizione laicale di Geraldo e ai suoi doveri di potente: segno che l’ambiente cluniacense era ancor meno preparato del suo abate ad accettare la santità di un laico e di un guerriero[33].

Il confronto fra la Vita Geraldi e la Vita Gangulfi induce in conclusione a ripensare quella scansione temporale ormai consolidata nella storia dei modelli di santità, per cui soltanto verso l’anno Mille si sarebbe manifestata nella letteratura agiografica la possibilità di una santità laica e guerriera, in stretto collegamento con il trionfo della spiritualità cluniacense e con la comparsa dell’idea di crociata. Tutto indica, al contrario, che il modello del santo guerriero, privo beninteso di ogni connotazione cavalleresca, ma inteso piuttosto in connessione con l’esaltazione del potere regio, cominciò a prendere forma già nell’agiografia tardoantica e merovingia e trovò la sua manifestazione più avanzata in quella carolingia; mentre rispetto a questi esiti l’agiografia cluniacense rappresentò semmai una critica e un ripensamento, in linea con quella tendenza a una più netta separazione fra laici ed ecclesiastici e con quella visione negativa del potere politico e della forza militare che caratterizzano così spesso la spiritualità dell’età della riforma.

 



[1] F. Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Firenze 1981, pp. 181-202; J. Flori, L’idéologie du glaive. Préhistoire de la chevalerie, Genève 1983, pp. 9-14.

[2] Cfr. J.-M. Hornus, Evangile et labarum. Etude sur l’attitude du christianisme primitif devant les problèmes de l’Etat, de la guerre et de la violence, Genève 1960, pp. 95-120.

[3] Cfr. l’analisi di P. Siniscalco, Massimiliano: un obiettore di coscienza del Tardo Impero, Torino 1974, che riproduce in appendice il testo secondo l’edizione secentesca del Ruinart. L’edizione più recente è in Atti e passioni dei martiri, a cura di A.A.R. Bastiaensen e a., s.l., 1987, pp. 233-245.

[4] H. Delehaye, Les actes de St. Marcel le Centurion, in “Analecta Bollandiana”, 41 (1923), p. 261; cfr. le varianti pubblicate da B. de Gaiffier, S. Marcel de Tanger ou de Léon? Evolution d’une légende, in “Analecta Bollandiana”, 61 (1943), pp. 116-139.

[5] Passiones tres martyrum africanorum, in “Analecta Bollandiana”, 9 (1890), p. 121.

[6] Sulpice Sévère, Vie de St. Martin, a cura di J. Fontaine, Paris 1967 (Sources Chrétiennes, 133), I, p. 260. Il Fontaine osserva bensì che al tempo di Martino, nel quadro di un impero ormai largamente cristianizzato, la professione militare non era più in contraddizione così netta con la fede religiosa (op. cit., I, pp. 143-148), e che lo stesso Sulpicio Severo non è lontano dall’anticipare il parallelo fra “miles Caesaris” e “miles Christi” che diverrà così frequente nell’agiografia dei secoli successivi (op. cit., II, pp. 461-463); non c’è dubbio tuttavia che il mestiere delle armi continuava a essere guardato con profondo sospetto dai cristiani del tempo, soprattutto negli ambienti più rigorosi (op. cit., II, pp. 441, 458-463, 501-505), e che proprio per liberare il suo eroe da quel sospetto l’agiografo assimilò la sua figura a quella di un martire militare, in parallelo non certo casuale con le passioni di Massimiliano, Marcello e soprattutto Tipasio (op. cit., II, pp. 509-538). In proposito cfr. già J. Fontaine, Sulpice Sévère a-t-il travesti St. Martin de Tours en martyr militaire?, in “Analecta Bollandiana”, 81 (1963), pp. 31-58.

[7] H. Delehaye, Les Légendes grecques des Saints militaires, Paris 1909, pp. 45-76; cfr. AASS Apr., III, pp. 101-165.

[8] Cfr. la Passio Sebastiani pseudoambrosiana, in PL XVII, cc. 1021-1058.

[9] Passio Acaunensium martyrum, in MGH, SRM, III, p. 33 sg.; cfr. Mt 22,21 e Lc 20, 25. Per l’uso assai diverso di questo passo nei testi composti fra la fine del IV e il principio del V secolo cfr. Fontaine, Vie de St. Martin cit., II, pp. 523-524.

[10] “Dexterae istae pugnare adversum impios adque inimicos sciunt, laniare pios et cives nesciunt. Meminimus nos pro civibus potius quam adversus cives arma sumpsisse”: Passio Acaunensium martyrum cit., p. 36.

[11] Per la fortuna di Mt 22,21 e Lc 20, 25 nell’agiografia merovingia cfr. A. Barbero, Un santo in famiglia. Vocazione religiosa e resistenze sociali nell’agiografia latina medievale, Torino 1991, pp. 59-72.

[12] Così, ad esempio, il biografo di Arnolfo, vescovo di Metz, che scrive intorno al 640, esalta senza imbarazzo il valore guerriero del suo protagonista, morto allora da poco: “Nam virtutem belligerandi seu potentiam illius in armis quis enarrare queat, praesertim cum saepe phalangas adversarum gencium suo abicisset mucrone?” (Vita Arnulfi episcopi Mettensis, in MGH, SRM, II, p. 433; un passo analogo in Vita Landiberti episcopi Traiectensis, in MGH, SRM, VI, p. 355 sg.) Cfr. a questo proposito le considerazioni di M. Heinzelmann, Sanctitas und ‘Tugendadel’. Zu Konzeptionen von ‘Heiligkeit’ im 5. und 10. Jahrhundert, in “Francia”, 5 (1977), sp. p. 751 sg. Più in generale sul rapporto fra monachesimo, agiografia e politica nel regno merovingio cfr. F. Prinz, Frühes Mönchtum im Frankenreich, München-Wien 1965, e F. Graus, Volk, Herrscher und Heiliger im Reich der Merowinger, Praha 1965.

[13] Barbero, op. cit., pp. 110-114.

[14] Cfr. il quadro d’insieme tracciato da H.H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos in der Karolingerzeit, Bonn 1968.

[15] I Deug-su, Note sull’agiografia del secolo X e la santità laicale, in “Studi Medievali”, 30 (1989), pp. 143-161. La Vita Gangulfi venne composta secondo il Levison, che la pubblicò in MGH, SRM, VII, pp. 142-174,  alla fine del IX secolo o nella prima metà del X; ma secondo J. Marilier, v. Gengolfo,  in BS, è “scritta nel IX sec. al più tardi, in base a tradizioni orali”.

[16] Paolo Facciotto, allievo di Vito Fumagalli a Bologna, sta conducendo un’ampia indagine sulla tradizione manoscritta della Vita Geraldi, ed ha avuto la cortesia di comunicarmi i risultati provvisori delle sue ricerche; esse rendono superato il contributo di A. Poncelet, La plus ancienne vie de St. Géraud d’Aurillac (+1909), in “Analecta Bollandiana”, XIV (1895), pp. 89-107. La cifra di 36 codici, cui va aggiunto quello bruciato nell’incendio della Biblioteca Nazionale di Torino del 1904, è certamente destinata ad aumentare, sicché la diffusione del testo risulterà forse paragonabile a quella della Vita Gangulfi, sia pure con una distribuzione geografica sensibilmente diversa; resta il fatto che soltanto una minoranza dei manoscritti testimonia la redazione maggiore, la sola in cui compaiano i passi più significativi per quanto riguarda la condizione laicale di Geraldo (cfr. sotto, n. 33). Per la diffusione della Vita Gangulfi cfr. l’introduzione del Levison, op. cit., pp. 147-151

[17] Cfr. ancora l’introduzione del Levison, pp. 144-147, 153-154, nonché la citata voce del Marilier in BS; per un confronto fra le menzioni di Geraldo e Gangolfo in calendari e breviari un provvisorio punto di partenza può essere offerto dal Catalogus Codicum Hagiographicorum Latinorum antiquiorum saeculo XVI qui asservantur in Bibliotheca Nationali Parisiensi, Bruxelles 1889-93, III, pp. 643-6, 702-4. Paolo Facciotto ha inoltre scoperto menzioni di Geraldo in diversi calendari liturgici non segnalati dai Bollandisti, la maggior parte dei quali peraltro provengono ancor sempre dalla Francia meridionale e centrale; ciò non esclude naturalmente che attestazioni del culto si ritrovino anche in Spagna, in Italia e nella Francia orientale.

[18] “Si quem igitur movet, cur tantus ac talis vir inpendium laboris sui in his sepissime voluisset occupationibus expendere, sciat pro certo, quia sunt quaedam negotia quae, si animo semplici exerceantur, nulli exinde detrimento bonae conversationis aliquis subiacebit”: segue l’esempio di Pietro, che come sottolinea Gregorio Magno continuò a dedicarsi alla pesca anche dopo la morte e passione del Salvatore, laddove Matteo rinunciò per sempre al suo mestiere di esattore. Ma la caccia non è per il biografo di Gangolfo soltanto un esercizio consentito, bensì meritevole, poiché il santo vi si dedicava per esercitare il corpo, “causa exercitationis”, e sfuggire così alle insidie dell’ozio, in ossequio alle disposizioni della Regola benedettina (Vita Gangulfi cit., p. 158). Sulla condanna della caccia nella tradizione monastica cfr. M. Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto medieovo, Napoli 1979, pp. 265-268.

[19] Vita Gangulfi cit., p. 159. E’ questo un caso in cui il topos dell’armatura spirituale (“fidei scilicet galea, iusticiae torax inespugnabilis, equitatis clipeus gladiusque verbi Dei”), esplorato recentemente da Paolo Tomea (Il ‘Proelium’ cristiano: scene dai testi agiografici occidentali, in ‘Militia Christi’ e crociata nei secoli XI-XIII, Atti della undecima Settimana internazionale di studio, Milano 1992, pp. 589-93) è impiegato non in opposizione, bensì in parallelo alla descrizione delle armi guerriere, quell’“insignis eius armatura” che, nota con compiacimento l’agiografo, “hodieque conservatur in ecclesia eius”.

[20] Vita Gangulfi cit., p. 162.

[21] C. Erdmann, Die Entstehung des Kreuzzugsgedankens, Stuttgart 1935, pp. 60 sgg., 78 sgg.

[22] A. Frugoni, Incontro con Cluny, in Spiritualità cluniacense, II Convegno del Centro di Studi sulla Spiritualità Medievale, Perugia 1960, pp. 11-29 (ora in Id., Incontri nel Medioevo, Bologna 1979, pp. 25-38); P. Lamma, Momenti di storiografia cluniacense, Roma 1961, pp. 60-63; V. Fumagalli, Note sulla ‘Vita Geraldi’ di Oddone di Cluny, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano”, 76 (1964), pp. 217-240; I Deug-su, op. cit., pp. 151-155; A.M. Piazzoni, ‘Militia Christi’ e Cluniacensi, in ‘Militia Christi’ e crociata cit., pp. 241-272. Assai più recente l’allineamento della storiografia francese e tedesca, testimoniato da Flori, op. cit., pp. 108-112; Heinzelmann, Sanctitas und ‘Tugendadel’ cit.; C. Carozzi,  De l’enfance à la maturité. Etudes d’après les vies de Géraud d’Aurillac et d’Odon de Cluny, in Etudes sur la sensibilité, Actes du 102e Congrès National des Sociétés Savantes, Paris 1979, sp. p. 114. Ancora legati, almeno in qualche misura, alla lettura tradizionale della Vita Geraldi appaiono J.-C. Poulin, L’idéal de sainteté dans l’Aquitaine carolingienne d’après les sources hagiographiques (750-950), Québec 1975, pp. 81-98, 125-131, in cui pure è fortemente sottolineata l’appartenenza di Geraldo al mondo carolingio, e F. Lotter, Das Idealbild adliger Laienfrömmigkeit in den Anfängen Clunys: Odos Vita des Grafen Gerald von Aurillac, in Benedictine Culture, 750-1050, ed. W. Lourdaux - D. Verhulst, Leuven 1983, pp. 76-95.

[23] Cfr. Heinzelmann, Sanctitas und ‘Tugendadel’ cit.

[24] Si vedano ad esempio i ripetuti episodi di malfattori che Geraldo, dopo aver finto di volerli giudicare e condannare, fa evadere in segreto alla vigilia del processo o dell’esecuzione (Vita Geraldi comitis Auriliacensis, in PL 133, cc. 654 sg.; cfr. inoltre c. 657 sg., 680 sg.) L’attività di Geraldo come giudice sullo sfondo della normativa carolingia è analizzata con finezza da P. Facciotto, La Vita Geraldi di Odone di Cluny, un problema aperto, in corso di stampa negli “Studi Medievali”.

[25] Vita Geraldi cit., c. 645.

[26] Op. cit., cc. 646-7.

[27] Op. cit., cc. 645-6, 659

[28] Op. cit., c. 648.

[29] Op. cit., c. 639.

[30] Cfr. Vita Geraldi cit., cc. 642 e 647, e Collationum libri tres, in PL 133, c. 607; sul rapporto fra le due opere cfr. J. Fechter, Cluny, Adel und Volk. Studien über das Verhältnis des Klosters zu den Ständen (910-1156), Tübingen 1966, pp. 50-54, e Lotter, op. cit., p. 88 sg. Sull’atteggiamento di Odone nei confronti dei “potentes”, diffidente certo, ma ben più realistico di quello corrente fra i monaci del suo tempo (come dimostra ad esempio la redazione B della Vita Geraldi) cfr. ancora Fechter, op. cit., pp. 54-60, e Facciotto, op. cit.

[31] Cfr. Vita Geraldi cit., c. 649 sg.

[32] Op. cit., c. 641 sg.; cfr. Carozzi, op. cit., sp. p. 114.

[33] Cfr. Lamma, op. cit., p. 22 n.; Fumagalli, op. cit., pp. 227-233; Poulin, op. cit., pp. 96-98; Facciotto, op. cit.

 

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