Gabriel Marcel
II mistero dell’essere ~ Come interpreta Marcel il tema novecentesco della alienazione dell’uomo? ~ Quale concezione dell’esistenza per Marcel può contrastare la prevalenza dell’avere sull’essere e l’oggettivazione dell’io?
Vita e opere
Gabriel Marcel nasce a Parigi nel 1889, da una famiglia dell’alta borghesia. Studia all’École normale supérieure, dove ottiene il diploma nel 1910, con una tesi sulle Idee metafisiche di Coleridge nei loro rapporti con la filosofia di Schelling. Insegna, in maniera non continuativa, in vari licei, ma si dedica principalmente all’attività di critico teatrale e di drammaturgo. Del 1914 sono le sue prime prove teatrali, con i drammi (di atmosfera ibseniana) La gràce e Le palais de sable. La sua fama di drammaturgo si consoliderà nel 1925, con la rappresentazione di Un homme de Dieu. Accanto al teatro, coltiva per tutta la vita la passione musicale, componendo una vasta opera melodica, in gran parte medita. Fin dal 1914 inizia a scrivere le note del Giornale di metafisica (Journal métaphysique), l’opera che — pubblicata nel 1927 — lo rivela al pubblico come filosofo. Nell 929 si converte al cattolicesimo. Nel 1935 pubblica Essere e Avere, che è la prosecuzione del Journal e comprende alcuni saggi, tra cui Esquisse d’une phénoménologie de l’avoir. Le opere degli anni quaranta, Dal rifiuto all’invocazione (1940), e Homo viator (1945), approfondiscono la critica alla metafisica dell’idealismo e la ricerca di una "filosofia concreta", nella forma di un’antropologia religiosa aperta al "mistero ontologico". Ottiene numerosi riconoscimenti della sua attività filosofica sia in Francia sia all’estero. Marcel muore a Parigi nel 1973.
Da Cioffi.., I libri di diàlogos, vol E, cit., pp.100-101
La filosofia di Gahriel Marcel sfugge a ogni tentativo di facile catalogazione. L’uscita pressoché contemporanea nel 1927 di Essere e tempo (Sein und Zeit) di Heidegger e del suo Giornale di metafisica (Journal métaphysìque), la forma diaristica di quest’opera, una certa consonanza con le tematiche di Kierkegaard (singolare in un autore che all’epoca non conosceva l’opera del filosofo danese) hanno indotto alcuni a costringerne il suo pensiero nei limiti di una storia dell’esistenzialismo cristiano. Più suggestiva è la lettura di chi ha inteso vedervi la prima manifestazione di una tradizione fenomenologica francese, per molti versi distinta e persino innovativa rispetto ai più noti modelli tedeschi. Marcel, da parte sua, riconoscendosi nella maschera ironica di Socrate, ha costantemente cercato di scoraggiare ogni tentativo di inquadramento accademico della propria originale meditazione. Un dato dal quale non si può comunque prescindere è la centralità che occupa in essa il problema religioso, che Marcel ama inquadrare nel contesto di quello che definisce come mistero ontologico.
Una delle più utili chiavi d’accesso al suo pensiero è la distinzione tra problema e mistero. Un "problema" riguarda qualcosa che si trova interamente davanti a me, che posso considerare oggettivamente, in un atteggiamento da osservatore disinteressato. Il mistero è invece "qualcosa in cui mi trovo implicato", in cui pare smarrirsi la chiara distinzione dell’"in me" e del "davanti a me". Tale è il problema dell’essere, che coinvolge l’essere stesso di colui che si pone la domanda ontologica: " io che mi interrogo sull’essere, posso essere certo che io sono?". Il soggetto che pone questa domanda problematizza anzitutto se stesso, ponendosi dunque come meta-problema o "mistero".
Marcel prende le distanze da quelle metafisiche, prevalenti nell’ultimo secolo, che avevano teso a ridurre al minimo l’indice esistenziale del conoscere, creando l’illusione di una assoluta separazione dell’oggetto conosciuto rispetto al soggetto conoscente. L’ insoddisfazione per l’idealismo e per il positivismo lo induce a rinunciare alle tradizionali categorie di soggetto e oggetto: Marcel reimposta, quindi, il problema dell’essere attraverso un’analisi del rapporto che intercorre tra la categoria dell’essere e la categoria dell’avere.
Essere e avere
Il tema emerge nel Journal, in un contesto di analisi apparentemente psicologica: "In fondo tutto si rapporta alla distinzione fra ciò che si ha e ciò che si è". L’avere si presenta come una alienazione dell’essere. Ciò che si ha sono generalmente delle cose, oppure ciò che può essere assimilato a delle cose. Ciò che si ha presenta una certa estraneità in rapporto a sé. Tuttavia la relazione possessiva in cui le cose diventano mie, l’attaccamento o I’ attrazione straordinari che esercitano su di me - e che sperimento, per esempio, nella loro perdita -, testimoniano di una più profonda dipendenza dell’essere in rapporto all’avere, che Marcel esprime dicendo: "i nostri possessi ci divorano". Sono stati spesso enfatizzati gli elementi, pur presenti all’interno di questa problematica, di critica della scienza e della civiltà contemporanea: la moderna tecnologia, infatti, sembra applicare al mondo un rapporto di mero sfruttamento e di dominio. L’uomo contemporaneo pare coinvolto in questa situazione, che si configura come un’alienazione nell’avere, finendo vittima di nevrosi e infelicità. Ma è lo stesso Marcel a protestare contro l’equivoco che lo vuole accomunato a un generico irrazionalismo.
L’esistenza come partecipazione ontologica
La reimpostazione del "mistero ontologico" nei temi di una dialettica di essere e avere porta Marcel a considerare l’esistenza come "incarnazione". Il corpo costituisce infatti il luogo di incontro e di mediazione tra l’essere e l’avere ed è impossibile decidere se "lo siamo" o piuttosto "lo abbiamo".
Non solo il corpo ricade in questa dialettica di avere ed essere, ma anche gli aspetti meglio caratterizzabili dell’io: le idee, le abitudini e le stesse persone con le quali l’io viene in contatto. Quanto più esse vengono vissute come un "possesso", quanto più rientrano in una dimensione di oggettività, tanto più queste realtà entrano nella dimensione anonima dell’esso, che corrisponde all’avere, e sfuggono a rivelarsi in quanto essere, in quanto origina da inerenza di io e di tu. Tocchiamo qui un altro dei concetti fondamentali di Marcel: quello di partecipazione ontologica. L’essere spirituale è sempre personale, può essere cioè solo pensato nella forma di un io o di un tu. Il tu è anzi essenziale al riconoscimento stesso dell’io come io (io sono infatti un tu per l’altro): l’esistenza è sempre co-esistenza. Ma questo originario nesso partecipativo (che ci sforziamo di realizzare nell’amore, nella fedeltà ecc.) può essere oscurato dalle normali relazioni dell’avere. Crediamo di possedere la persona amata, tanto da avvertirne la eventuale perdita come quella di una cosa che ci apparteneva. Persino nei confronti di noi stessi, della parte più facilmente oggettivabile di noi - come le nostre idee, per esempio - siamo tentati di scivolare nella tranquillizzante relazione dell’avere. In questo caso trattiamo il nostro io come un esso impersonale. Persino Dio - il "tu" assoluto, che si invoca nella preghiera e che, per definizione, non può mai divenire un "esso" - non si sottrae al pericolo dell’alienazione religiosa o teologica: come quando cerchiamo di "dimostrarne" l’esistenza al modo delle cose, quasi si trattasse di una verità impersonale. Soltanto nella "fedeltà" e nella "speranza" (atteggiamenti che implicano una apertura all’essere), secondo Marcel, gli uomini possono viceversa incontrarlo, trovando una risposta alla propria inquietudine metafisica, alloro "bisogno ontologico".
~ Perché, per Marcel, il problema dell’essere comporta il superamento della prospettiva idealistica e positivistica?