Rodolfo Pozzi gran maestro di scacchi
"Il re ("shah" in persiano) è il pezzo più importante e dà il nome al gioco: è indispensabile e insostituibile in quanto la sua cattura determina la fine della partita. Se viene attaccato, cioè se subisce uno "scacco", deve porvi rimedio e se ciò non è possibile lo scià è morto (shah mat), ovvero tradotto in italiano: lo scacco è matto!". Ce lo racconta Rodolfo Pozzi, noto commercialista della zona e appassionato cultore degli scacchi. "Per questa peculiarità - spiega - e per essere stato presente in tutte le corti medievali, il gioco degli scacchi ha ricevuto l'appellativo di "re dei giochi e gioco di re"". Sarà per questo suo fascino nobiliare, o per la sua origine misteriosa e mai svelata che la piccola scacchiera con le pedine tanto famose si è diffusa in tutto il mondo affascinando intere generazioni di individui di ogni sesso e religione. Non lo si saprà mai. Una vastissima letteratura è stata prodotta sull'argomento; "pezzi" del gioco sono stati realizzati in avorio, giada, corno e altri materiali preziosi, costituendo veri e propri tesori da collezione; i reperti antichi, singoli o completi, fanno la fortuna degli antiquari; in tutto il mondo sono sorti numerosissimi circoli amatoriali o federazioni che organizzano tornei e competizioni agonistiche. Nonostante la incredibile diffusione avuta dal passatempo orientale, è tuttora impossibile risalire ad una sua origine certa che non sfiori la leggenda e non rimanere altresì affascinati dalla grande ingegnosità del suo meccanismo di gioco, logico e poetico nello stesso tempo, che pare superare con una sfida altolocata le barriere della storia. Forse inventato in India o in Cina nel sec. I a. C., il gioco degli scacchi sarebbe poi giunto in Europa nel IX sec. con gli arabi che a loro volta lo avrebbero appreso dai persiani. Attraversando l'Asia centrale, la Russia e il Caucaso, avrebbe poi raggiunto le isole britanniche e la Scandinavia. Né il Mediterraneo né l'oceano Atlantico infine sarebbero stati in grado di contenerne l'espansione.
Rodolfo Pozzi ha iniziato il suo approccio con lo "shah" da piccolino, assorbendo la passione dal padre. Crescendo poi, ha contribuito all'organizzazione di attività scacchistiche a Como con Il circolo degli scacchi. Ha partecipato a tornei e campionati provinciali e regionali, conseguendo delle "patte" e delle vittorie contro maestri professionisti anche in competizioni ufficiali. "Una delle mie maggiori soddisfazioni - ricorda - è stata il primo posto al campionato provinciale comasco "lampo". Negli incontri "lampo" ogni giocatore ha a disposizione cinque minuti per l'intera partita: si deve quindi giocare rapidissimamente anteponendo l'intuizione all'analisi".
Rodolfo Pozzi ha anche pubblicato una breve biografia dell'associazione: "Il circolo degli scacchi di Como dal 1945 al 1955", edito da La Grafica Moderna nel 1957. In seguito per molti anni ha fatto parte della sezione scacchi del club Esperia finché... "Il Pozzi ha lasciato gli scacchi per la dama". Così lo hanno salutato gli amici quando si è sposato e ha abbandonato il gruppo. La moglie Maria Grazia ha redatto una tesina di diploma universitario sulla "psicologia dello scacchista". Ne è emerso, ci sintetizza Pozzi, un quadro curioso e significativo: la maggior parte dei giocatori possiede un elevato QI, quoziente intellettivo, ed è dotato di una grande capacità spaziale, cioè quella facoltà che permette di prevedere la posizione della pedina dopo lo spostamento o la rotazione. La memoria gioca un ruolo determinante così come le abilità analitiche e logiche. Chi è carente della facoltà "spaziale" risulta invece ferrato nelle competizioni per corrispondenza, dove prevalgono il ragionamento e la ponderatezza. "Accade spesso, purtroppo - ci dice - che l'intelligenza dello scacchista sia in effetti un po' come un "bernoccolo" e non trovi facile applicazione in altri campi o mestieri". Apprendiamo che non esiste uno "scacchista tipo" in quanto la gamma varia dai quattro ai novant'anni di età per entrambi i sessi. "Molti adolescenti, per esempio, sono abilissimi campioni già a quattordici anni".
Lasciato il club degli amici, Pozzi non ha però dimenticato il suo amato hobby. Essendo anche un cultore di archeologia e antropologia, socio attivo del centro Camuno di studi preistorici della val Camonica, ha coniugato le due passioni e si è dedicato allo studio degli scacchi in una veste culturale: "Nel mondo ci sono migliaia di tipi di giochi degli scacchi e i pezzi, soprattutto quelli figurativi, come ogni espressione artistica rispecchiano i costumi del luogo e del tempo originari. L'analisi di queste figure costituisce quindi una materia affascinante di estremo interesse storico, etnografico e simbolico".
Negli scacchi indiani del '700 per
esempio, ci informa lo studioso, il re non era affiancato dalla regina, ma dal vizir.
Entrambi sono in groppa all'elefante, il rajà protetto da un baldacchino, mentre i pedoni
sono dei fanti con la caratteristica che da un lato rappresentano gli inglesi e dall'altro
gli indigeni. In alcune versioni l'alfiere è un dromedario, in altre è invece un leone e
la torre spesso è un soldato con la bandiera, o "Union Jack".
Alcuni antichi modelli persiani sarebbero addirittura stati costruiti con smeraldi e
rubini dando vita alla classica colorazione verde-rosso (da noi diventata bianco-nera) per
distinguere i partiti.
I set fabbricati nei paesi arabi vengono chiamati "astratti", sono cioè
stilizzati con minime differenze tra loro. Questo, ci spiega il professore, in
ottemperanza alla legge coranica sul divieto di riprodurre immagini.
Rodolfo Pozzi partecipa spesso ai congressi internazionali sull'argomento, anche con
interventi personali. Due anni fa a Washington ha presentato un rapporto sugli scacchi
"da cuscino" e da spiaggia in voga nel sec. XVIII soprattutto negli ambienti
aristocratici francesi. Pedine a spillo, comode da trasportare in viaggio, venivano
conficcate su cuscini appositamente ricamati a scacchiera, o nel terreno. Pare che anche
Luigi XIII se ne servisse per superare la noia dei lunghi trasferimenti in carrozza.
È appena rientrato da un altro congresso internazionale, a Vienna, dove ha esposto le sue teorie sui giochi mongoli e tuviani e sulla loro simbologia. Queste popolazioni di pastori nomadi, confinanti con la Cina e la Russia, avrebbero la prerogativa di realizzare esemplari particolari di scacchi "ormai divenuti rarissimi e reperibili solo nei musei". Qui da centinaia di anni, ci fa sapere Pozzi, i giocatori di scacchi occupano il posto più onorevole nella "yurta" (costruzione smontabile) e non hanno l'obbligo di ossequiare se durante la partita entra una persona di rango superiore. "Il re è un "noyion", capo villaggio, seduto sulla stuoia: anziano e venerabile per i verdi, giovane e imberbe per i rossi. La regina è invece una fiera: tigre, leone, pantera o cane guardiano. L'alfiere un cammello a due gobbe, mentre il cavallo resta cavallo, con una folta criniera e la coda lunga fino a terra. La torre è un carro e i pedoni animali domestici oppure cuccioli di fiere selvatiche, cioè potenziali regine e ciò è estremamente interessante perché rispecchia le regole fondamentali del gioco: il pedone che arriva all'ottava traversa viene promosso in un pezzo maggiore". Pozzi evidenzia delle interessanti ritualità nel gioco mongolo: la scacchiera viene posta a nord, con i verdi schierati a ovest e i rossi a est. I movimenti avvengono da ovest a est, dalle montagne alle pianure e viceversa riproducendo le migrazioni stagionali della popolazione. Un'altra peculiarità riscontrata dal ricercatore su alcuni giochi del Tuva è la presenza di simboli esoterici.
Pozzi è diventato con gli anni un vero esperto della materia scacchistica e gradualmente il suo interesse è stato attirato dalle curiose incisioni che riscontrava su singoli pezzi sparsi un po' su tutto il pianeta: "nodi di Salomone", intrecci, sigle matematiche dell'infinito, croci, figure mitologiche. Questi stessi segni, rilevati sui "Tuva" mongolici e sugli scacchi arabi e scandinavi del sec. XI e XII d. C., Pozzi li ha individuati anche nelle fotografie di mosaici e bassorilievi romano-imperiali, nelle incisioni rupestri della val Camonica, su oggetti imalaiani e tibetani, su vasi delle popolazioni precolombiane del Centroamerica... "Simboli di ciclo continuo, di eternità e, in senso derivato, un augurio di felicità e amore senza fine. Presenti in contesti culturali e religiosi lontani e ben differenti fra loro: cristiano, islamico, sciamanico, buddista... Questi nodi e intrecci mistici - conclude Pozzi - sono quindi simboli universali e costituiscono un archetipo dell'uomo; il loro significato è sempre il medesimo ed è rimasto immutato per secoli".
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broletto n. 54 est.1998
La fantasia popolare, a proposito dell'origine degli scacchi, narra anche la famosa favola dell'inventore astuto che presentò il gioco al marajà, il quale ne rimase talmente entusiasta che promise al matematico qualunque cosa volesse in cambio. Costui, che era uomo accorto e saggio, domandò tanti chicchi di grano quanti ce ne stessero sulla scacchiera, cominciando da uno sul primo quadrante e proseguendo raddoppiando ad ogni casella. Il marajà acconsentì compiaciuto, sperando di cavarsela con qualche sacco di grano e fece fare i conti ai contabili di corte. Ne risultò che l'intero globo terrestre non avrebbe potuto contenere i chicchi necessari. Il marajà però aveva promesso e si sentiva afflitto di non poter tener fede al patto. Da qui in poi la fantasia popolare si divide e alcuni tagliano la testa all'indisponente inventore, cavando d'impaccio il sovrano, altri concludono invece con più filosofia facendo rispondere al saggio: "Ti ho chiesto quanti chicchi avrebbe potuto contenere la scacchiera, ma poiché la soluzione è paradossale, non voglio niente". E così se ne sarebbe andato lasciando al povero monarca due grandi doni.