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Testi letterari I sortilegi di nonna Caterina di Sergio Fumich, in Keraunia - Rivista di poesia, n. 16,giugno 1994.
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I SORTILEGI DI NONNA CATERINA
Briciole di credenze popolari nel villaggio di Lukezi
Nonna Caterina aveva fama d'essere una maga, non solo nel piccolo selo di Lukezi, poche case di sasso e di calce cresciute attorno ad un primo insediamento le cui origini si perdono nella notte dei secoli, ma anche tra la gente dei dintorni. Venivano dai villaggi vicini a farsi curare persistenti mali di testa, a chiedere rimedi per il mal di denti, ascessi, per fastidiosi mali di gola ed i mille altri malanni che deliziano la quotidianità del vivere.
In quella terra povera e riarsa, dove la vigna e qualche njiva, lembi di terra coltivata strappata alla petraia, una mucca nella stalla, il maiale e qualche gallina erano il sostentamento d'una famiglia spesso numerosa; dove ancora ai tempi della mia infanzia le donne con la brenta sulle spalle s'avventuravano a piedi scalzi giù per un sentiero ripido e dirupato per raccogliere l'acqua che spillava da una sottile sorgente sulla costa del monte, e l'elettricità era stata portata da poco, davanti al fuoco nel buio delle cucine, con una bukaleta di vino che girava di mano in mano, fiorivano spontanee credenze e superstizioni, storie inverosimili di mirabilia e sortilegi. La religiosità popolare di quella gente, la mia gente, era tutta intrisa di pratiche magiche, tabù e prescrizioni ereditate dai genitori con la vigna e la casa.
Così, per dirne alcuna, guai a chi mangiava il prosciutto prima di Pasqua: poteva star certo costui che si sarebbe imbattuto spiacevolmente in una vipera. E gat, la vipera dal morso mortale, era vista come una creatura per quanto possibile da evitare: al ritorno dalla messa pasquale, quando ci si riuniva a tavola per la colazione con il cibo benedetto in chiesa, prosciutto, pancetta, uova sode, e pinza, il dolce di Pasqua, per prima cosa si mangiava dello scalogno per scongiurare il temuto incontro. Per lo stesso motivo si prescriveva di mangiare la "testa" della prima sparuga che si trovava, l'asparago selvatico con cui si facevano squisite frittate. Guai a chi saliva s'un albero il giorno di Corpus Domini o di San Pietro: sicuramente anche il più robusto ramo si sarebbe spezzato sotto il peso e la caduta resa inevitabile; guai a chi lavorava la terra il venerdì santo!
Si raccontavano storie terribili su chi aveva trasgredito al riposo festivo. Si diceva, ad esempio, d'una donna che faceva il pane di domenica, che la disgraziata, dopo aver provato e riprovato invano ad accendere il fuoco che non voleva prendere, alla fine alterandosi, si fosse lasciata andare a tirar moccoli restando paralizzata in volto; e d'un'altra giù in Valle, recatasi a lavare, l'incauta, il giorno di Corpus Domini, che, all'improvviso, i panni avessero preso fuoco e che da essi fosse sgorgato sangue.
Pericolosa cura della propria persona era per le donne il tagliarsi le unghie di venerdì: chi indulgeva a quella pratica, pensata forse troppo civettuola per la pietà del giorno, infallibilmente diventava striga, strega. E, a proposito di streghe, una superstiziosa diceria sconsigliava di andare a lavare i panni al torrente durante le tempora, perché in quei giorni, lì a lavare c'erano, per l'appunto, le streghe. Ed ancora, durante le tempora dopo l'Ave Maria, non si doveva uscire da casa, né, in casa, stare sotto la cappa del camino e guai a fischiettare: sarebbe stato come invitare vrah, il diavolo, a mostrarsi.
Il grande nemico era grad, la grandine, capace di arrecare danni irreparabili alle brajde, le vigne. Quando il cielo non lasciava presagire niente di buono, si andava presso la vigna e si facevano dei falò. Con gli sterpi e la ramaglia, dopo avervi collocato una candela benedetta il giorno della candelora, si bruciavano i fiori benedetti durante la processione del Corpus Domini, i rami di frassino usati quel giorno per ornare i muri al passaggio della processione, frasche di pelin, assenzio, e si spruzzava acqua benedetta. Il fumo denso che si levava dai falò contro le nuvole, avrebbe allontanato il pericolo della grandine.
Ma tornando a nonna Caterina, le malignità dei vicini insinuavano che le sue pratiche magiche non si limitassero agli scopi benefici della guaritrice, ma fosse solita ad usare sortilegi e stregonerie. Nei ricordi di mia madre, la diceria risaliva ai primi tempi dopo le nozze, quando era venuta a Lukezi sposa di mio nonno Zvane Lukes. In casa di mio nonno, allora, non si sfruttava il latte delle mucche come alimento, perché a nessuno piaceva. Così le mucche avevano latte soltanto finché allattavano i vitelli, poi non mungendole se non per quel pochissimo che di tanto in tanto serviva, lo perdevano. A nonna Caterina piaceva il formaggio ed il latte, e nel vedere tutta quella grazia di Dio andar sprecata, non poteva restar indifferente; così cominciò ad occuparsi della stalla e della vacca.
Cominciò a mungere la mucca mentre questa allattava il vitello, portandole via una buona parte del latte. Diceva che di latte le mucche ne hanno tanto e che ai vitelli non ne occorreva tutto perché poi cominciano anche ad andare al pascolo e a nutrirsi diversamente. E, dunque, ritornava sempre dalla stalla con grandi pignatte di latte.
Per rincasare dalla stalla si doveva girare attorno alla casa del vicino, non essendoci un passaggio diretto. Quell'inconsueto viavai di latte non poteva non essere notato dalla vecchia madre del vicino, come anche il fatto che il traffico di latte continuasse anche dopo la vendita del vitello. Non sapendosi spiegare la cosa, la vecchia cominciò a lamentarsi con gli altri che da quando quella donna era arrivata al villaggio loro erano rimasti senza latte, che aveva portato via il latte dalle loro mucche facendolo passare nella propria, che doveva saper fare sortilegi perché fino ad allora le mucche di Zvane Lukes non avevano mai avuto latte, ch'era già tanto se riuscivano a tirar su i vitelli, ed adesso dopo ch'era arrivata quella donna in quella casa, non facevano che portar pignatte di latte dalla stalla.
Ma con la grande guerra ormai e la fine dell'impero austroungarico, era tramontata un'epoca. Così i figli di nonna Caterina credevano poco alle sue pratiche magiche, anzi spesso la deridevano quando cedendo alle insistenze di qualcuno si lasciava convincere a tirare gli uroki o a fare qualche altro scongiuro. Finché, dunque, smise non tramandando ad altri il suo patrimonio di conoscenza empirica popolare. Nei ricordi di mia madre è rimasto frammentario questo rituale di scongiuro per il mal di testa: si prendeva una tazza d'acqua, in essa si dovevano gettare delle braci ardenti afferrate con le mani e sputare per terra dicendo una formula magica, come le altre perduta; poi bisognava far bere il paziente da tre punti diversi della tazza, quindi la maga prendeva le braci e sempre recitando formule magiche le scagliava oltre il paziente; infine con le dita bagnate in quell'acqua massaggiava la fronte e le tempie dolenti, poi vuotava l'acqua in un canto della casa. Se, nel gettare le braci nell'acqua della tazza, esse fossero rimaste a galla, allora si trattava di un normale mal di testa; altrimenti, se andavano cioè a fondo, era malocchio.
LA MORÀ E GL'INCUBI NOTTURNI
Nel mondo magico di Lukezi, ancora negli anni della mia infanzia, la notte arrivava densa di misteri. Una cappa buia avvolgeva il villaggio, il vicino bosco e la campagna, mostrando alla luce delle stelle d'ogni cosa aspetti inconsueti, forme notturne non ravvisabili di giorno.
Lo scuro fitto delle notti nuvolose, mai più ritrovato dopo altrove, o lo splendore incantato dei pleniluni, dove le ombre assumevano spessore densità presenza vita, erano il fondale perfetto per le mille storie straordinarie ed inverosimili che si raccontavano vicino al fuoco, in quelle lunghe sere senza radio e televisione, o libri, se non qualche Vita dei Santi illustrata da immagini di dannazione, più spaventose di quella bambagia nero-seppia in agguato fuori dalla porta.
Nessuna meraviglia, dunque, che a guardarsi in uno specchio in quelle notti lontane, si vedesse il diavolo, o dormendo con il viso rivolto alla luna si diventasse sonnambuli, o, ancora, costretti per qualche ragione a star fuori casa, camminando per quelle strade o sentieri ci s'imbattesse talvolta in streghe od altre creature maliarde, com'era successo ad un mio prozio, recatosi con altri due amici per la leva a Pisino. A piedi naturalmente, perché il cavallo di San Francesco allora era il mezzo più usato, quando non l'unico, per spostarsi in quelle terre. Il racconto di mia madre sull'accaduto è scarno ed irriverente: "I gaverà bevù un bicèr de più per festegiar la leva", e ancora sempre in triestino, ma senza mezzi termini, "I iera de sicuro inbriaghi". Comunque, il fatto capitò di notte al ritorno, poco fuori Pisino dove, dopo un moderato salire, la strada s'adagia s'un pianoro. Lì, i tre malcapitati incontrarono tre streghe che si misero a ballare con loro. E balla, balla, balla, non smettevano mai e non li lasciavano proseguir la strada. Ed oltre alla beffa, in quella notte da discoteca, il danno: i tre portavano con sé gli ombrelli, che più dopo, finita la buriana, non furono capaci di ritrovare. Le tre malefiche streghe ne avevano fatto, evidentemente, il bottino di quella notte. Mia madre assicura che al loro racconto, una volta a casa, credevano tutti, senza un solo dubbio. E del resto tutto era possibile per chi sapeva di poter parlare con gli animali recandosi nella stalla la notte di San Giovanni.
La notte era il regno della morà. La morà era una strega, una strega particolare che tormentava di notte le sue vittime prescelte. Che non fosse una fola, che questa creatura notturna, che terrorizzava la contrada, esistesse veramente, lo testimoniava il racconto di uno - non si sa dove, non si sa quando, - ch'era riuscito a farla prigioniera chiudendola in una cassapanca. Determinante per il buon esito della cattura fu il fatto che la cassapanca non avesse fori o aperture, neppure una serratura per bloccare il coperchio, perché la morà era abilissima nel passare attraverso il più piccolo pertugio. Dicevano anzi, che solitamente entrasse in casa proprio per il buco della serratura. Dentro la cassapanca la morà piangeva immensamente e supplicava l'uomo che l'aveva imprigionata. Supplicava che aprisse, che la lasciasse andare perché il giorno dopo doveva sposarsi e non poteva assolutamente mancare. L'uomo, cuore tenero, alla fine cedette e la lasciò libera.
Lo zio Joze era molestato la notte in continuazione dalla morà. Nel vicinato correva voce che fosse la Pierina: dicevano che la Pierina era una strega, e poiché non nascondeva il desiderio di volerlo sposare, di notte andasse a tormentarlo perché si decidesse. Zio Joze raccontava d'esser una notte riuscito ad afferrarla e, scagliatala per terra, d'averne sentito il tonfo come fosse stato un piccolo sorcio.
Un'altra vittima era l'Ana dei Znjider, madre d'un'amica di mia madre. Si lamentava che la morà venisse di notte mentre dormiva a succhiarle i calcagni, e che li avesse ben ben rovinati era visibile a tutti in un tempo in cui si andava scalzi.
Per porre un rimedio alla persecuzione della morà, gli sventurati si rivolgevano al prete perché desse loro qualcosa di benedetto che tenesse lontano un tal castigo di Dio. E nella sua infinita pazienza il prete dava loro un pezzetto di un vecchio paramento, che veniva tagliato poi in frammenti ancor più piccoli da portare sempre indosso, o qualche altra cosa del genere. Perché, una volta che ci si fosse messo addosso qualcosa di benedetto, la morà non si sarebbe fatta più vedere.
Anche il maggiore dei miei fratelli, oggi stimato professore di greco in un liceo triestino, fu a detta dei parenti una sua vittima. Neonato a Lukezi, aveva, cosa non rara, un seno gonfio, e tutti a dire ch'era la morà che veniva di notte a succhiargli il seno. La nonna o forse qualcun altro dei parenti andò subito dalla Mariolinka, una donna che s'intendeva di tali faccende; e con questa poi dal Ciapusei, il sagrestano, perché procurasse qualcosa di benedetto da mettere attorno al collo del bambino. Il rimedio sembrò servire, perché il gonfiore di lì a poco sparì.
Non c'era persona che a quel tempo non avesse sperimentato le molestie della morà. Quando l'incubo cessava, la bestemmiavano e la vituperavano a più non posso, e lei lì sulla porta a farsi beffe di loro prima di sparire nell'oscurità della notte.
Ma la notte non aveva soltanto un aspetto terrificante; le giovinette, se volevano, potevano usare le notti di luna piena per fare romantici sogni sul proprio destino di donna. Guardando la luna ci si poteva procurare una piacevole notte dicendo "Luna lunare fammi sognare chi devo sposare". Chissà quante volte la luna, oltre ad essere compiacente, sarà stata anche bugiarda, a fin di bene naturalmente. La filastrocca è in lingua italiana, e risale dunque agli anni dell'occupazione italiana di quelle terre dopo il crollo dell'impero austroungarico, magari portata da qualcuna di quelle eroiche maestrine siciliane mandate ad insegnare la lingua di Dante a quella gente che parlava un dialetto croato misto di sloveno, tedesco e veneto.
BAMBINI E MAL DI DENTI
Era usanza a Lukezi di vestire il bambino maschio appena nato, prima ancora di pulirlo, con i calzoni del padre. Si voleva così, con questo gesto rituale, trasmettere al figlio, capofamiglia lui pure un giorno, l'autorità del maschio su cui si fondava ancora nel secondo decennio del secolo quella società agricola e patriarcale. Ma la vita nei primi mesi, nonostante questo dovuto atto di benvenuto in seno alla famiglia, non doveva essere un gran che per i bambini d'allora.
Venivano fasciati strettissimamente in tutto il corpo, particolarmente le gambe perché non avessero dopo da svilupparsi storte. Solo la testa, ovviamente, non subiva quella sorta di mummificazione. E fino a sei mesi stavano nella cuna tutto il giorno. Le madri, impegnate nel duro lavoro in campagna, evitavano di levarli su dal lettino, perché non si viziassero a stare alzati; anche quando era il momento di nutrirli, allattavano i figli chinandosi sulla cuna. Alimentavano il bambino col proprio latte fintantoché non restavano nuovamente incinte: Gli ultimi figli venivano così allattati talvolta fino ai quattro, cinque anni. La cuna faceva da giaciglio all'ultimo nato finché non arrivava un nuovo fratellino.
Per svezzare un bambino si usava far arrostire una mela e, dopo averla bagnata nel vino, farla mangiare al bambino col cucchiaio. In una terra dove la vigna e i suoi frutti erano la risorsa più grande, il rituale ingenuamente si proponeva di favorire nell'uomo di domani l'amore per il vino, perché solo chi ama il prodotto del suo lavoro ama il lavoro.
Un bambino particolarmente bello suscita sempre manifestazioni di stupore ed ammirazione, ed attira gli "Oh, che bel bambino!" ed i complimenti delle altre persone. Come sorta di scongiuro contro l'invidia altrui il genitore o l'altro parente che badava al piccolo, diceva tra sé un "drek ti pod nos", che è un augurare all'altro - mi si risparmi la traduzione letterale, - di avere sotto il naso una puzza, di cosa ben s'immagina, non certo piacevole.
Poverini, poi quei bambini che soffrivano per i vermi parassiti nell'intestino. L'aglio era anche a Lukezi il rimedio principe. Con uno spicchio schiacciato venivano sfregate le labbra per far sì che il sugo venisse assorbito dal bambino. Poi con altri spicchi e dello spago si faceva una collana che era messa al collo del bimbetto, costretto a portarla dovunque per tutto il giorno.
Della mancanza di un dottore in luogo, a farne le spese erano soprattutto i bambini. Per trovarne uno, bisognava recarsi fino a Pisino, un tragitto, più o meno come Brembio-Lodi, accidentato, che non era poca cosa a farlo a piedi o anche con un carro - chi l'aveva - tirato da buoi sottratti al lavoro della campagna; e poi costava, ed inevitabilmente chi non aveva da scialare per un tale "lusso" - cioè tutti o poco meno, - si arrangiava con l'esperienza secolare consolidata ed arricchita da generazioni di dignitosa povertà.
Fu così che la fatalità d'una banale caduta, determinò la morte di un fratellino di mia madre. Il bambino, aveva due anni, era affezionatissimo a mia zia Amalia, allora ragazzina di 13-14 anni; e s'era abituato ad andarle incontro all'ora in cui tornava a casa dopo aver pascolato la pecora. M'ha sempre incuriosito come facesse quel bambino di due anni a stabilire ch'era il momento del rientro della sorella, ma il cercar di ricavare da lontanissimi ricordi, per di più d'infanzia, un simile dettaglio sarebbe stato pretesa maniacale. Sta di fatto che puntualmente s'incamminava incontro alla sorella sulla strada del pascolo, chiamandola "Ama, Ama", come un bambino può fare, e di lì a poco era di ritorno con la zia Amalia e la pecora. Lungo il percorso, nei pressi della casa d'una cugina spuntava dal terreno una pietra aguzza, cosa di poco conto, anche se nel bel mezzo d'un passaggio, in un luogo dove anche la poca terra coltivata è strappata alla petraia. Quel giorno fatale, forse vedendo la sorella già poco distante, s'era messo a correrle incontro, azione ben pericolosa su quel viottolo ricavato nel sasso, levigato per secoli dal passare e ripassare di zoccoli. Nella corsa incespicò e disgrazia volle che cadendo picchiasse la fronte contro quello spuntone maledetto di roccia affiorante. La ferita era profonda e usciva molto sangue. Il nonno di mia madre, togliendosi quel berrettino, fatto in casa, a forma d'un basso cilindro che allora s'usava e si ereditava di padre in figlio, ordinò senza discussioni di chiudere la ferita con la sua lana. L'emorragia si fermò ma al bambino venne il tetano. Otto giorni dopo cominciò a stare male; anche se ormai non sarebbe servito a nulla, nessuno pensò di chiamare un medico, era troppo lontano sia da quei luoghi sia dai pensieri della povera gente.
Se il medico era un lusso impossibile, il dentista neppure un sogno. Così ci si arrangiava come si sapeva. Per preservarsi dal mal di denti, andavano a sentir messa il giorno di Santa Apollonia in una chiesetta di campagna a Galignana. Dopo il sacro ufficio, ognuno tirava coi denti la fune della campana. Quando poi, nonostante tutto, il mal di denti arrivava, per scongiurare il formarsi d'un ascesso portavano in tasca cinque grani di sale, cinque chicchi di grano ed un mazzetto d'assenzio; era questo il rimedio diffuso, capace di neutralizzare l'ascesso che altrimenti si sarebbe formato pestando sfortunatamente un'orma, slet, tanto particolare quanto misteriosa, forse di strega forse di qualche bestia malefica. Il disgraziato, infine, che si ritrovava poi con un ascesso in bocca usava come rimedio l'assenzio, pianta che bruciando produce molto fumo. Il malato, messa sul fuoco la ramaglia, immergeva la testa nella colonna di fumo tenendo aperta la bocca.
(Ndr. - I brani riportati sono parte di una serie di articoli pubblicati dal quotidiano Il Cittadino di Lodi nel marzo-aprile 1991)
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