|
Riferimenti storici e geografici L'oppressione degli sloveni e dei croati a cura di Filibert Benedeticv, in: Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera (con il resoconto del processo). Trieste - Istria - Friuli 1919-1945. Ed. Aned, Trieste 1978, 3ª ed. Cap. II, pagg. 43-54.
| Indice |
Quando, dopo la Grande guerra, la cosiddetta Venezia Giulia passò all'Italia, questa diffuse tra gli Sloveni e i Croati nobili propositi e promesse solenni. Ma ben presto la mano dell'ira fascista calò con forza per spezzare i ritmi che il palpito vitale della terra creava. L'atto culminante di quell'ira, a Trieste, fu la distruzione del Narodni dom, la grande casa della cultura slovena, nella quale dall'inizio del nostro secolo operava la compagnia stabile del Teatro sloveno di Trieste. Poi, gli Sloveni e i Croati dovettero subire il più crudele sistema di snazionalizzazione: la chiusura delle scuole, lo scioglimento dei circoli culturali, la liquidazione degli istituti finanziari, la soppressione della stampa. Eppure Benito Mussolini, in un articolo scritto nel 1915, aveva affermato che il possesso di Trieste avrebbe comportato «l'assoggettamento di circa centomila slavi, per i quali, non occorre dirlo, noi richiediamo un regime della più ampia libertà». La realtà, proprio ad opera di Mussolini, fu ben diversa...
Per gli Sloveni e i Croati non si è trattato soltanto della soppressione dei diritti individuali e politici dei singoli, così come per gli altri cittadini italiani oppressi dal fascismo, ma anche del pericolo di perdere come gruppo etnico le proprie individualità, la lingua e la nazionalità. Il disegno fascista prevedeva infatti la trasformazione del loro carattere etnico attraverso un'opera di snazionalizzazione e di assimilazione, al fine di cancellarli dal territorio della Venezia Giulia.
Su questo tema, seguendone la traccia, si citano qui alcuni passi dello studio «Slovenci in Hrvatje pod Italijo», il più completo sinora sull'argomento, pubblicato da Lavo Cvermelj, triestino d'origine, che il Tribunale Speciale fascista nel processo di Trieste del 1941 condannò a morte e in seguito, commutando la pena, all'ergastolo.
La persecuzione
Non si erano ancora diradate le pesanti nubi della guerra che aveva così duramente colpito tutta la popolazione di queste terre di confine, quando sugli Sloveni e sui Croati calò una nuova tragedia. Questa ebbe inizio non appena la Regione fu occupata militarmente. Molte famiglie slovene di contadini che si erano trovate tra due fuochi sul fronte dell'Isonzo, dovettero abbandonare la terra ed avviarsi in un lungo pellegrinaggio per l'Italia, nella maggioranza dei casi in Piemonte. Quando, a guerra finita, fecero ritorno alle proprie case distrutte, ebbe inizio sotto la spinta dell'incombente fascismo la prima ondata di terrore. Il fascismo si scagliò con tutta la sua forza sulle personalità più in vista slovene e croate, annunciando così la sua strategia di lunga portata: con l'eliminazione delle colonne portanti della vita culturale e pubblica infliggere un colpo mortale all'esistenza nazionale degli Sloveni e dei Croati.
Allo scoppio della guerra tra l'Italia e l'Austria, già nei primi dieci giorni di essa, sono accaduti nei pressi di Caporetto fatti molto gravi. Il comando militare italiano fece fucilare 12 contadini sloveni. Ancora oggi non si conoscono le vere cause di quella strage. [Vedi S. Vilhar, Iz knjige AULA IV, ristampa del «Primorski dnevnih», Trieste, 1970, pag. 11.]
Il 29 novembre 1918, il generale Petitti di Roreto, all'atto stesso dell'occupazione della Venezia Giulia, emanò un'ordinanza in base alla quale «ogni atto contro gli interessi relativi alla nuova situazione militare e civile» e ogni oltraggio ai simboli e alle persone rappresentanti quegli interessi, veniva punito con la reclusione fino a 5 anni e con la pena pecuniaria fino a 5.000 lire; in casi più gravi la pena detentiva poteva essere aumentata sino a 8 anni di reclusione.
In base a tale ordinanza, pur così generica, vennero arrestati centinaia di contadini sloveni e croati per il solo fatto che non comprendevano la lingua italiana. Inoltre i reduci dell'esercito austro-ungarico che, ritornati alle loro case, si presentarono alle autorità militari, furono proclamati prigionieri di guerra e inviati in campi di concentramento. Con la firma del trattato di pace tacquero i cannoni, ma la triste odissea degli uomini di queste terre di confine continuò dalle trincee alle carceri e alla fuga.
L'amministrazione delle zone occupate spettò dapprima al governatore militare: dal luglio 1919 all'ottobre 1922 spettò invece al commissario civile. La sede era in ambedue i casi fissata a Trieste. Qui operava il tribunale militare. Le carceri triestine pullulavano di gente in attesa di giudizio. L'ondata degli arresti investì tutta la Regione. Furono particolarmente presi di mira gli intellettuali sloveni e croati. Era evidente l'intenzione di decapitare la comunità nazionale slovena e croata impedendo qualsiasi ripresa di quella vita pubblica e culturale che prima della guerra presentava in queste regioni una ricchezza considerevole in costante sviluppo. I motivi politico-nazionali di tale operato erano evidenti. È comunque diffusa l'opinione che le pene estremamente rigorose inflitte dal tribunale militare si debbano attribuire anche al fatto che il commissario civile Mosconi fosse nemico dichiarato del socialismo.
All'odissea di intere famiglie investite dal fronte, alle fughe dei reduci, agli arresti degli intellettuali si aggiunsero le deportazioni al confino. E non si era che ai primi mesi del 1919. Dalle carceri di Trieste i deportati venivano tradotti di carcere in carcere, verso Venezia, verso Verona, verso il loro destino in villaggi sperduti e lontani, la maggior parte in Sardegna, dove molti si ritrovarono affranti, arsi dalle febbri malariche.
A nulla valsero le molte proteste e petizioni alle autorità civili e militari. Scrive il Cvermelj: «Il 6 novembre 1919 una folta delegazione di madri, mogli e sorelle dei deportati si recò dal Commissario generale civile di Trieste e consegnò un dettagliato promemoria con cui si esigette la liberazione dei figli, mariti e fratelli. La delegazione sarebbe stata ancora più numerosa, ma molte donne di diverse località, specialmente delle isole, non poterono recarsi a Trieste, poiché le autorità locali non concedettero loro l'autorizzazione necessaria al viaggio».
Quando, alla fine del 1919, i deportati ripresero il cammino del ritorno - un trasferimento lungo, per molti durato dei mesi - all'atto del rilascio comparvero alle loro case inesorabilmente minati dagli stenti e dalle febbri.
Le leggi di pubblica sicurezza del 1926
Dal governatore militare al commissario civile e all'emanazione delle leggi di pubblica sicurezza del 1926, la violenza fascista ebbe un crescendo impressionante che sfociò nella legalizzazione del sistema giudiziario persecutorio e feroce, con il Codice penale Rocco e il Tribunale Speciale. Di quest'ultimo ci occuperemo in un capitolo a parte. Ma prima ancora di possedere quest'ultimo strumento legale, con cui per quindici anni seminò terrore e morte, il regime fascista cercò di eliminare gli Sloveni ed i Croati dalla vita pubblica.
Il regime fascista imperversò ovunque, utilizzando tutte le leggi, applicandole con il massimo rigore e su vasta scala nella Venezia Giulia, particolarmente nei confronti degli Sloveni e dei Croati. La carta d'identità con le impronte digitali, la «diffida», il «confino di polizia» non furono che alcuni dei tanti provvedimenti, con i quali si voleva sopprimere definitivamente la minoranza nazionale.
La carta d'identità con le impronte digitali, prevista per i malfattori comuni e per i criminali, fu imposta alla stragrande maggioranza degli Sloveni e dei Croati. In alcuni comuni, abitati per intero da Sloveni e Croati, tutti, insegnanti e sacerdoti inclusi, furono bollati con questo sistema. Ciò non comportava soltanto una discriminazione umiliante, ma anche altre gravi conseguenze nella vita pubblica, perché i possessori della carta d'identità con le impronte digitali venivano trattati come soggetti pericolosi e nocivi.
La «diffida» comprendeva un procedimento identificativo e segnaletico dell'individuo del tutto simile a quello usato per i criminali. La «diffida» era un provvedimento transitorio con il quale aveva inizio il procedimento di limitazione della libertà personale. Il «diffidato» diventava «elemento sospetto» e «pericoloso per la sicurezza dello Stato». Nei confronti degli Sloveni e dei Croati questa disposizione veniva usata dai questori su larga scala.
Alla «diffida» faceva seguito l'«ammonizione». Questa comportava tutta una serie di misure restrittive, dal divieto di allontanarsi da casa dopo il tramonto, al divieto di cambiare domicilio senza la autorizzazione preventiva, dall'obbligo di presentarsi in giorni prestabiliti alla polizia, alla facoltà di quest'ultima di far irruzione nell'abitazione dell'«ammonito» in qualsiasi momento. A queste restrizioni si deve ancora aggiungere il divieto di frequentare i locali pubblici nonché intrattenere rapporti con altre persone, ritenute sospette. Anche il più breve trasferimento dal luogo di residenza doveva essere preventivamente autorizzato. L'«ammonito» diventava così un emarginato, impossibilitato a svolgere qualsiasi attività e occupazione lavorativa.
Se la «diffida» e l'«ammonizione» facevano capo a disposizioni che potremmo ironicamente definire miti, il «confino di polizia» rientrava già nelle disposizioni a seguito delle quali la libertà personale veniva abolita del tutto. Il «confino di polizia» significava arresto, anni di carcere, deportazione, tristi odissee nei sinistri vagoni cellulari, dove gli uomini, stipati come bestie, venivano avviati al loro destino verso le isole Lipari, verso Ponza, Ventotene, alle Tremiti...
Le nuove leggi di pubblica sicurezza colpirono molto duramente anche tutti gli studenti sloveni e croati che frequentavano istituti scolastici in Jugoslavia. Contro di loro il regime fascista operò spietatamente e non si limitò a condannarli in contumacia, precludendo così loro ogni possibilità di ritorno a casa, ma imperversò anche contro i loro genitori e parenti stretti accusandoli di complicità e condannandoli a pene detentive e pecuniarie.
La tracotanza del regime fascista non conosceva limiti. Si era giunti al punto di far venerare gli alberi. È questo un episodio marginale, ma assai significativo del clima instauratosi. Alla morte di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, furono fatti piantare in tutta Italia degli alberi in onore del defunto. «Questi alberi, - come scrive il Cvermelj - richiamavano alla memoria la vicenda storica svizzera del cappello di Gessler, che i sudditi dovevano venerare come Gessler stesso». Molti giovani sloveni e croati furono bastonati e gettati in carcere a causa di questi alberi.
Le nuove disposizioni di pubblica sicurezza in effetti legalizzavano la violenza e il terrore già instaurati nella Venezia Giulia all'atto dell'occupazione militare e proseguiti con le gesta «eroiche» delle squadre d'azione fasciste. Migliaia di Sloveni e Croati furono arrestati, deportati, brutalmente colpiti dai provvedimenti di polizia con il solo scopo di «bonificare» la zona dall'«elemento slavo».
Le interminabili liste delle persone politicamente sospette comprendevano quasi tutta la popolazione della minoranza nazionale slovena e croata che nella Venezia Giulia di allora ammontava a più di mezzo milione di unità.
La chiusura delle scuole slovene e croate
Da una statistica ufficiale del Ministero della pubblica istruzione risulta che nel 1913 c'erano nella Venezia Giulia (senza Fiume) 321 scuole elementari slovene e 167 croate, per un totale di 488 scuole con 942 classi, delle quali 677 slovene e 265 croate. Dei 66.952 alunni, 46.671 erano sloveni, 20.281 erano croati. Gli insegnanti ammontavano a 1.350 di cui 1.007 sloveni e 343 croati.
Finita la guerra, sin dalle prime esperienze con l'amministrazione italiana, gli Sloveni e i Croati videro gravemente compromessa la loro situazione scolastica. Malgrado le assicurazioni espresse dal governatore militare che magnanimamente promise più scuole di quantene avessero sotto l'Austria, la situazione ben presto precipitò. Tra i primi provvedimenti delle autorità militari in Istria ci fu anche la chiusura di ben 149 scuole slovene e croate. Nel 1921 a Roma i deputati sloveni protestarono inutilmente contro tali provvedimenti. Il ministro competente rispose allora che queste sono le «conseguenze della nuova struttura» della popolazione della Venezia Giulia dopo la firma del Trattato di Rapallo. Con l'entrata in vigore della riforma scolastica Gentile nel 1923 le scuole slovene e croate subirono una condanna definitiva. La nuova riforma scolastica prevedeva infatti l'introduzione graduale dell'italiano quale lingua unica d'insegnamento, con la conseguente esclusione della madrelingua.
All'entrata in vigore della riforma scolastica c'erano nella Venezia Giulia, Fiume e Zara incluse, ancora più di 400 scuole slovene e croate con circa 840 classi e 52.000 alunni. Il ciclo scolastico obbligatorio di sei anni si concluse formalmente nell'anno scolastico 1928-29. Ben poche furono però le scuole slovene e croate che portarono a termine quest'ultimo ciclo con l'insegnamento della madrelingua. In effetti l'italianizzazione delle scuole slovene e croate fu violenta e sbrigativa. Non solo fu negata ai bambini l'istruzione nella loro madrelingua, ma fu loro vietato anche l'uso di essa nelle conversazioni al di fuori delle lezioni e della scuola. Il rivolgere la parola in sloveno o in croato veniva severamente punito, molte volte anche con gravi pene corporali. D'altronde lo sloveno e il croato erano ormai già del tutto estromessi dalla vita pubblica. L'italianizzazione forzata dei bambini perpetrata nelle scuole, comportò conseguenze gravissime e irreparabili.
Gli insegnanti sloveni e croati subirono il destino delle loro scuole. Alcune centinaia furono cacciati dalle scuole già prima dell'entrata in vigore della riforma Gentile. Altri furono trasferiti all'interno dell'Italia. Per questi ultimi si è trattato di un addio definitivo al proprio popolo. Con la nuova riforma prese l'avvio l'odissea di un migliaio di insegnanti sloveni e croati. Banditi dalle scuole non poterono far altro che vivere di speranze e lottare alla macchia o fuggire in Jugoslavia.
A conclusione di questo capitolo, riportiamo una citazione di Andrej Budal, importante scrittore sloveno triestino: «Ogni popolo ama la propria scuola. I genitori italiani non costringono i propri figli a frequentare scuole non italiane, né qui, né in Jugoslavia, né in Svizzera, né altrove. I genitori francesi non mandano i propri figli in scuole non francesi, né in Svizzera, né in Belgio, né altrove. In modo simile si comportano anche gli altri popoli. La scuola di lingua materna è il fondamento di ogni popolo, la condizione per la sua esistenza e il suo progresso».
La devastazione delle istituzioni culturali
L'intensa attività culturale degli Sloveni e dei Croati nella Venezia Giulia, interrotta allo scopio della guerra del '14, riprese nella primavera del 1918 con rinnovato vigore. La vita associativa comprendeva una vasta area popolare che per tradizione si manifestava nei molti circoli culturali, sparsi dovunque su tutto il territorio. Nei circoli che erano quasi dappertutto forniti di biblioteca e sala di lettura, veniva riposta un'attenzione particolare alle attività musicali e alle attività di compagnie filodrammatiche. Accanto ad essi operavano associazioni di vario tipo, ricreative, sportive, sindacali, di beneficenza ed altre. L'attività culturale era particolarmente intensa a Trieste. Qui la funzione più rappresentativa e importante veniva svolta dal «Narodni dom», un imponente edificio nel centro della città che disponeva anche di un'attrezzata e capiente sala teatrale. La sola elencazione delle varie associazioni che qui avevano la loro sede è per sé significativa e rende l'idea di quale ruolo svolgesse questo centro culturale. Qui, oltre alla compagnia stabile professionistica dell'associazione teatrale «Dramaticvno drusvtvo» si trovava la società «Slavjansko drusvtvo» (Società di lettura slava) fornita di una ricca e antica biblioteca con alcune sale di lettura, c'era la sede della «Glasbena Matica» (Associazione musicale) con la rispettiva scuola di musica, c'era il circolo universitario «Balkan», ill «delavsko podporno drusvtvo» (Circolo assistenziale dei lavoratori), una banca, la «Trzvasvka hranilnica in posojilnica» (Cassa triestina risparmi e crediti), qui c'era un albergo, un ristorante, il Caffè «Balkan», altri uffici ancora e appartamenti privati. L'attività più intensa e importante veniva svolta dal teatro. Nel solo periodo che va dalla ripresa dell'attività della compagnia teatrale dopo la guerra, il 25 marzo 1919, all'ultimo spettacolo, effettuato prima della distruzione del teatro, il 29 aprile 1920, furono allestite ben 59 opere di prosa.
A Trieste operava inoltre il «Ljudski oder» (Teatro popolare), l'importante associazione socialista slovena con una ricca biblioteca che aveva succursali in varie località del territorio triestino.
Anche Gorizia aveva un suo teatro e una scuola di musica. Qui e nel territorio della Carniola interna, annesso all'Italia, operavano attivamente 130 circoli cristiano-sociali e altrettanti liberali.
Un'attività molto intensa veniva svolta dalle organizzazioni sportive di massa. Nel territorio di Gorizia, Idria, Trieste e nel territorio croato dell'Istria operavano più di 400 circoli appartenenti a queste organizzazioni. Ma la fine di tutto questo era ormai prossima. L'atmosfera di quei momenti storici faceva presagire la lunga terribile notte del terrore fascista. Il triestino Tullio Kezich, rivivendo Zeno Cosini di Italo Svevo, ripropone oggi quell'atmosfera angosciosa. Zeno ormai «sente la verità» quando l'aria viene scossa dal rombo del cannone «laggiù verso il Friuli». «Ma Svevo e Zeno - scrive Kezich - hanno vissuto anni decisivi fra il vecchio e il nuovo, tra il mondo di ieri e i primi annunci di un altro mondo, dove il genocidio diventerà legge» La fine era ormai prossima e tutto quel mondo «non forma altro che l'esercito spettrale del passato!».
Il 13 luglio 1920 le squadre fasciste entrarono in azione: agli ordini di Francesco Giunta, spedito a Trieste dal Direttorio dei Fasci, diedero alle fiamme il «Narodni dom» di Trieste. Ogni cosa fu distrutta. Nessuno dei responsabili fu arrestato né fu richiamato per questo terrificante misfatto.
Nello stesso giorno fu dato alle fiamme anche il «Narodni dom» di Pola. Ebbe cosí inizio una lunga serie di azioni devastatrici contro le istituzioni culturali slovene e croate. Nel periodo gennaio-novembre 1921 nella sola Trieste la serie delle azioni squadriste tra l'altro comprende: la distruzione della «Srpska cvitaonica» (Biblioteca serba), l'assalto alle Sedi Riunite (sede sindacale), dove era concentrata anche la grande biblioteca del «Ljudski oder», l'incendio del «Narodni dom» del rione triestino di San Giovanni, l'incendio della sala teatrale del «Konzumno drusvtvo» del rione triestino di Roiano, l'incendio della sede della società corale «Adria» del sobborgo triestino di Barcola, l'incendio della sala della locale Trattoria sociale del rione triestino di San Giacomo.
Nello stesso periodo venne incendiata la biblioteca dell'associazione croata «Bratimstvo» (Fratellanza) di Volosca. Il 16 maggio 1921 venne devastata la sede del circolo «Danica» ad Abbazia e nella stessa città il 10 giugno 1922 venne distrutta la sede del circolo «Zora». Gli aggressori erano sempre «elementi sconosciuti ed irresponsabili».
Da qui l'azione devastatrice delle squadre fasciste non conobbe soste. Il destino di tutta la vita politica, culturale ed economica degli Sloveni e dei Croati si compì definitivamente nel giugno del 1927, quando il regime fascista predispose in una conferenza a Trieste un piano operativo per risolvere una volta per tutte la «questione slava». Il «Popolo di Trieste», giornale fascista, uscì allora con un articolo, nel quale si diceva tra l'altro che «gli insegnanti slavi, i preti slavi, i circoli slavi sono anacronismi e anomalie in una Regione, che annessa nove anni orsono, non conta nessuna presenza di intellettuali slavi». Conseguentemente «le province di confine hanno il dovere di difendere a Oriente l'onore dell'Italia».
In quel periodo svolgevano ancora, nei limiti del possibile, una qualche attività circa 400 circoli culturali e sportivi sloveni e croati. In capo a cinque mesi, dal 29 giugno 1927 agli inizi del 1928, i circoli non esistevano più. Le fiamme si diffusero. Le bande fasciste imperversavano. Nei roghi sinistri, improvvisati sulle pubbliche piazze, bruciavano i libri, il bottino «di guerra» preferito.
La repressione fascista non riuscí comunque a distruggere del tutto il patrimonio culturale degli Sloveni e dei Croati. Gli stimoli vitali dell'«humus» culturale operavano in profondità, alla confluenza di tutte le forze del popolo. Qui ebbe inizio la nuova ripresa della cultura che si manifestò apertamente su tutto il territorio della Venezia Giulia tra le file dei partigiani nella lunga lotta di liberazione.
La soppressione della stampa
L'azione persecutoria contro la stampa slovena e croata nella Venezia Giulia si manifestò già dai primi giorni dell'occupazione militare nel novembre 1918. Fin quando non furono promulgate le leggi fasciste che legalizzarono la soppressione totale della stampa slovena e croata, le redazioni dei giornali e specialmente le tipografie erano esposte a continue aggressioni di «elementi sconosciuti e irresponsabili». Le autorità politiche e militari non operavano allo scoperto, ma proteggendo e incoraggiando l'azione delle squadre fasciste. Di fatto instaurarono un clima di terrore e di persecuzione già prima dell'instaurazione del regime fascista.
La tipografia dell'importante quotidiano sloveno ±Edinost» di Trieste, che iniziò le pubblicazioni nel 1976, fu fatta oggetto di aggressioni per ben sette volte: nel dicembre 1918, nell'agosto 1919, nel febbraio, aprile e luglio 1920, nell'aprile e dicembre 1921. Gli aggressori vi facevano irruzione, bastonavano il personale e danneggiavano il macchinario. Inoltre, nell'agosto 1919, nell'ottobre 1920 e nel febbraio 1921 le squadre fasciste imperversarono a Trieste contro la tipografia dell'organo comunista «Il Lavoratore», dove si stampava anche il settimanale sloveno «Delo». Durante l'ultimo assalto la tipografia fu incendiata e completamente distrutta.
In tutte le località della Venezia Giulia le tipografie slovene e croate subirono ripetute azioni terroristiche. In modo particolare ciò avvenne anche a Pisino in Istria, dove nel 1919 venne distrutta dalle fiamme la tipografia del «Hrvasvko tiskovno drusvtvo» (Società tipografica croata) e a Gorizia, dove la «Narodna tiskarna» (Tipografia Nazionale) fu fatta oggetto di più attentati dinamitardi.
La stampa slovena e croata svolse comunque la sua importante funzione fino al 1929 quando fu del tutto proibita una sua qualsiasi pubblicazione. A Gorizia e a Trieste per quasi un decennio si pubblicavano nel dopoguerra, oltre al citato quotidiano e al «Delo», altri cinque settimanali sloveni e croati. Inoltre venivano stampate riviste di vario genere, pubblicazioni specializzate, nonché tutta una serie di pubblicazioni minori.
Con la soppressione totale della stampa slovena e croata fu proibita anche l'importazione di giornali dalla Jugoslavia. Soppressi i mezzi d'informazione gli Sloveni e i Croati che non conoscevano la lingua italiana, si ritrovarono nell'isolamento più completo senza poter seguire gli avvenimenti internazionali e senza aver nemmeno la possibilità di conoscere la propria sorte attraverso le comunicazioni ufficiali dei giornali.
Il Tribunale speciale fascista
La strategia fascista del terrore legalmente autorizzato ha avuto il suo strumento più efficace nel Tribunale speciale fascista. Il tribunale speciale si avvaleva della legge per la difesa dello stato del 1926 che introdusse nuovamente la pena capitale. I procedimenti penali per la difesa dello stato vennero inclusi nel Codice penale Rocco promulagato il 1&mord; luglio 1931. Ancora oggi alcune disposizioni di quelle leggi gravano sul sistema giudiziario come fantasmi dell'oscuro passato. Ciò sta a dimostrare come l'ingiustizia perpetrata con il male e la violenza possa con estrema facilità affermarsi legalmente e come, al contrario, sia difficilissimo abolirla.
Il Tribunale speciale rimase in vigore dal 1927 al 1943. Per quanto concerne il contenuto e la gravità delle pene le condanne colpirono maggiormente gli Sloveni e i Croati. Oltre al Tribunale speciale, contro di loro emettevano severe condanne anche numerosi altri tribunali fascisti, da quelli dipendenti dalle varie giurisdizioni locali ai tribunali militari ed alle commissioni di confino. queste ultime operavano presso le Prefetture. In concomitanza con la istituzione dei tribunali militari della Sicilia e della Sardegna vennero anche formati i cosiddetti «battaglioni speciali», ai quali venivano avviati gli Sloveni e i Croati, estromessi dall'esercito italiano. Erano questi gli internati in uniforme militare. Tranne l'esauriente documentazione dell'attività del Tribunale speciale contenuta nell'«Aula IV», tutti gli altri dati documentativi sono ancora ermeticamente chiusi negli archivi statali e non sono a disposizione dello storico, quantunque siano già trascorsi, dal primo periodo fascista, i cinquanta anni previsti dalla legge.
Dei 978 processi del Tribunale speciale ben 131 furono celebrati contro Sloveni e Croati. Di 47 condanne a morte pronunciate da questo tribunale fascista, ben 36 comprendevano Sloveni e Croati, delle quali 26 anche eseguite. Furono fucilati i Croati Gortan, Milosv, Albahari e Grakalicv e gli Sloveni Bidovec, Marusvic, Valencvicv, Tomazvicv, Kos, Vadnal, Ivancvicv, Bobek, Vicvicv (Vinci), Cvekada, Hresvcvak, Rust, Srebot, Frank, Kaluzva, Belè, dolgan, Grzvina, Hrovatin, Rojc, Vicvicv (Vicich) e Zvefrin.
I primi processi contro gli sloveni ed i Croati furono celebrati sin dal momento della costituzione del Tribunale speciale. La stampa fascista dedicava ampio spazio all'operato di questo Tribunale. Agli occhi del popolo italiano e di tutto il mondo il regime fascista si vantava delle sue «eroiche» gesta. Un'importanza particolare fu data a tre processi: al Processo Gortan del 1929, al Primo processo di Trieste del 1930 e al Secondo processo di Trieste del 1941.
|