Articoli interessanti per approfondire temi inerenti la cucina. [Rubrica quidicinale]
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Con questo termine fino a una quindicina di anni fa si indicava
esclusivamente un’erba selvatica (Silene vulgaris o inflata o venosa o cucubalus),
appartenente alla famiglia delle Cariofillacee, che nei vari dialetti si poteva
trovare anche con i nomi di stritoli, bubbolini, coietti, verzini, verzitt, erba
scoppiettina, ciocchetti, sclupit, erba del cucco, silene rigonfia e altri
ancora. Questa molteplicità di nomi dialettali locali è il segno implicito della
sua popolarità presso la gente di campagna,
che l’ha sempre apprezzata come una delizia della mensa. Una nota casa
sementiera ha addirittura messo sul mercato i semi della silene col nome appunto
di “strigoli”, da utilizzare per gli orti familiari. Il nome del genere (Silene)
deriva chiaramente da Sileno, divinità panciuta, come panciuti sono i calici di
questo genere di piante, da cui deriva anche il termine botanico inflata; il
nome cucubalus ricorda invece il cuculo, annunciatore della primavera,
corrispondente al periodo della comparsa della pianta, mentre quello di
“strigoli” deriverebbe, secondo alcuni, dal fatto che le sue rosette fogliari,
carnose e tenere, se fatte rotolare fra le dita stridono (strigolano), mentre
altri lo fanno derivare dall’uso che probabilmente ne facevano le streghe nelle
loro pozioni magiche, per cui veniva chiamata anche “erba delle streghe”. In
alcune località del Viterbese prendono anche il nome di “ammazzamogli”, per il
fatto che dopo cotti si riducono notevolmente,
e quindi danno l'impressione che la donna che li ha cucinati abbia avuto la
visita dell'amante. Per coloro che si dedicano alla raccolta delle erbe
selvatiche diciamo che si tratta di una pianta perenne, con una grossa radice
nodosa, di proporzioni talvolta enormi, lunga anche mezzo metro, con diverse
diramazioni della grossezza di un pollice, che si ramifica e striscia emettendo
ciuffi qua e là che arrivano a formare dei piccoli cespugli. La pianta quando è
adulta può raggiungere l’altezza
massima di 60 cm ed è facile riconoscerla soprattutto perché le sue
infiorescenze biancorosee hanno il calice rigonfio a mo’ di palloncini penduli,
pieni d’aria, segnati ognuno da 20 distinte nervature; questi, se serrati tra le
dita o schiacciati sulla fronte come facevano un tempo i bambini, producono un
piccolo scoppio. Il fusto, ascendente e glabro, quando viene tagliato emette una
sostanza biancastra appiccicaticcia. Le foglie sono a forma di lancia,
contrapposte a coppia, prive di picciolo, lisce, glabre e un po’ carnose;
strofinate tra le dita danno una caratteristica sensazione tattile che ricorda
quella delle foglie di cavolo, da cui deriva il termine dialettale di “cavoli
della comare”. Cresce in abbondanza nei prati, sia abbandonati che falciati,
nelle vigne, nei campi seminati e nelle zone incolte, dalla pianura alla collina
e in montagna fino a 2.000 metri di altitudine, per cui se ne può raccogliere
una quantità notevole in poco tempo. A marzo è fra le prime erbe a comparire.
Per l’uso in cucina bisogna coglierla quando è ancora tenera, prima che siano
visibili i boccioli. Se si raccolgono i getti teneri, la pianta ne emette degli
altri in abbondanza e nei prati falciati è tra le prime erbe a rispuntare. Sono
proprio i getti primaverili, raccolti quando la pianta non è ancora in fiore
(marzo-aprile), noti col nome di “coietti”, che vengono consumati un po’ ovunque
come fossero asparagi, per fare delle ottime frittate. Le foglie vengono invece
consumate come fossero spinaci, quindi strascinate in padella ma, soprattutto in
Veneto, vengono aggiunte ad altre erbe per fare minestroni, minestre di riso e
zuppe varie. Alcuni la consumano anche cruda nelle insalate, frammista ad altre
verdure (tipo misticanza),
perché ha un gradevole sapore agretto che stimola l’appetito e la digestione. In
Romagna si utilizza come colorante nella pasta verde all’uovo o come
aromatizzante nei tortellini di ricotta. Una ricetta piuttosto moderna la
impiega rosolata nel burro per preparare un originale risotto. Tutto questo fino
a una quindicina di anni fa, quando gli appassionati di ricerche su Internet,
cliccando il termine “strigoli”, avrebbero ottenuto una serie lunghissima di
siti riferiti agli strigoli come pianta selvatica. Oggi le cose sono cambiate
completamente, al punto che andando a cercare lo stesso termine su Internet ai
primi posti, sotto il nome di strigoli, non è più presente la pianta selvatica,
ma comparirà un elenco lunghissimo di siti che si riferiscono a un tipo di pasta
simile alle trofie, che non si capisce come possa essere stata identificata con
le foglie di questa graziosa piantina. Approfondendo la ricerca su questo tipo
di pasta abbiamo scoperto che si tratta di un prodotto
industriale nato nel Trentino e inizialmente commercializzato da una società
austriaca. Per cui gli strigoli (pasta) sono ormai entrati nell’ambito dei
prodotti che i ristoratori attuali acquistano dalle varie società che
commercializzano prodotti già
pronti per la ristorazione. In conclusione possiamo affermare che anche gli
“strigoli-pasta” fanno ormai parte del folto gruppo dei tanti falsi che
l’Accademia ha voluto denunciare con il libro sul “Falso in tavola”.
di Italo Orieti
Cerimonia per la consegna dei premi “Allium cepa”. Durante la tradizionale
“Fiera della cipolla” a Isernia, da centinaia di anni, alla fine di giugno si
esponeva in pittoreschi mucchi questo prodotto eccellente, che aveva assunto un
ruolo preminente
e simbolico nell’economia contadina locale. Una prelibata ricchezza che aveva un
vivace commercio in tutti i paesi vicini. Unita ad altre manifestazioni, per
quasi un’intera settimana ancora adesso si tiene questa fiera ma certo quel che
viene proposto non è quasi più la cipolla: c’è la solita varietà di articoli
presenti in tutti i mercati. L’Accademia con il suo intervento è chiamata a
sottolineare che la cipolla è diventata un tramite storico della cultura della
città, è una realtà esclusiva
del posto e lo identifica. Il suo iter, dai periodi di massima produzione e
diffusione commerciale fino alle difficoltà vissute come tanti altri prodotti
della terra, per arrivare ai cenni di ripresa da parte di piccoli imprenditori
con auspicati aiuti delle istituzioni, è la sua storia, è la storia di un paese
e dei suoi abitanti e ne racconta i cambiamenti e le tradizioni. In
collaborazione con la Camera di commercio, il Comune e la sua Pro loco, la
Provincia, l’Università del Molise, il Co.Re.Di.Mo., la Delegazione di Isernia
ha voluto, in un convegno, parlare sì della cipolla ma presentandola in una
nuova veste che sottolinea il suo significato di appartenenza, di costume, di
tradizione, di leggenda, di sapore essenziale nella gastronomia locale e il suo
importante ruolo per la salute e per il gusto. Apparirà quindi “in
palcoscenico”, accompagnata dalle “spezie del popolo”, quelle erbe che siamo
così abituati ad adoperare, di così facile reperimento, da farci quasi
dimenticare la loro preziosità. Esse si presenteranno raccontando la loro
origine leggendaria e il loro ruolo impareggiabile e insostituibile in tante
ricette. Nella sala ovale dell’istituto “Itis”, la Delegata saluta i numerosi
partecipanti, il Presidente Ballarini e la gentile consorte, i Delegati e gli
Accademici di altre regioni, Anna Maria Dell’Osso presente con lo stesso
entusiasmo che il marito dimostrava verso le nostre iniziative, le autorità, gli
interpreti prestigiosi dell’originale spettacolo che seguirà, ringrazia chi ha
dato un valido contributo all’organizzazione del convegno, i rappresentanti
degli enti e delle istituzioni. Vengono poi illustrate dall’Accademico Luigi
Brasiello, presidente della Camera di commercio, da Sebastiano Delfine
dell’Università del Molise e dall’Accademico Mario Stasi le peculiarità del
territorio e delle sue coltivazioni fra cui la cipolla, e gli sforzi che si
stanno facendo per riportarla all’antico splendore. Il premio annuale “Allium
cepa”, alla sua seconda edizione, riconoscimento rivolto a tre studiosi e
ricercatori nel campo della cultura enogastronomica, viene consegnato dallo
stesso presidente della Camera di commercio a Giovanni Benelli, Accademico della
Lunigiana, al prof. Tommaso Lucchetti e all’Accademico Alfredo Pelle, persone di
altissimo livello culturale e umano. La Delegazione assegna poi un premio
speciale all’Accademico Gianni Franceschi, direttore della rivista “Civiltà
della Tavola”. L’attrice Daniela Terreri, regina delle essenze, le convoca per
parlare ognuna di sé e introduce la rappresentazione di cui proprio i tre
premiati sono gli interpreti principali. Con grande spirito e simpatia si
raccontano, riconoscendosi come i più importanti aiuti in cucina e,
impersonandoli con accattivante maestria, ci svelano inoltre il loro più
profondo significato, la loro anima; ascoltiamo così, rapiti, presentarsi la
cipolla, il sedano, la carota, seguiti dal meraviglioso aglio; li affianca la
bruciante anima del peperoncino che ci affascina con la verve della prof.ssa
Carmela di Soccio. Ed ecco ancora la carrellata delle spezie del popolo, spezie
minori rispetto a quelle esotiche e rare, ma minori sono il prezzo e la
difficoltà a procurarle, cosa che non è
per niente riduttiva ma ne costituisce il pregio perché sono una consuetudine,
sono di casa e questo deve far riflettere. Ascoltiamo così la loro storia, le
leggende legate alla loro origine e al loro nome, l’uso che se ne fa al di là
della cucina e poi la loro grande valenza nella gastronomia, a cui aggiungono
scintille di sapore che caratterizzano, profumano, identificano una ricetta. Una
pagina di cultura così originale, piacevole e inaspettata in cui il
Vice-Delegato Michele Cinone ci descrive la poesia dell’origano; Bruna Spina,
Accademica di Campobasso, la curiosità del prezzemolo; Gianni Valentino la
fantasia della menta; Soledad Pirraglia la superbia del lauro; Paola D’Antonio
la religiosità del rosmarino; Asia Franceschelli la grandezza del basilico. Un
racconto intrigante, gradevole, con la freschezza dell’interpretazione
amatoriale ben in carattere con gli scopi del convegno dove si volevano far
parlare, per riscoprirli, questi modesti protagonisti silenziosi ed essenziali a
cui siamo così abituati da farli essere sempre presenti nelle nostre cucine,
spesso rallegrate da vasetti con basilico, prezzemolo, rosmarino: quanti di noi
non hanno in tasca o in borsa le mentine, passando accanto a una siepe di lauro
chi non ne prende un paio di foglie per goderne il profumo, e il barattolo più
disponibile in cucina non è quello dell’origano? Il Presidente Ballarini
conclude con affettuose parole di compiacimento questo convegno che segue il
“Processo alla cipolla” dello scorso anno, quando ci dissero che era stato
insuperabile e non avremmo potuto fare di meglio! Meglio non si sa, ma
senz’altro bene quando lo scopo da raggiungere è quello di non lasciare che un
grande e ottimo prodotto come la cipolla di Isernia diventi solo una bellezza da
favola. Una buona cena offerta dalla Pro loco ha concluso piacevolmente la
serata, dove piatti interessanti hanno per protagonista questo ortaggio. Per gli
ospiti il giorno dopo c’è stato un giro per conoscere più da vicino il
territorio: Pietrabbondante, cuore della civiltà sannita, la riserva di
Collemeluccio, la zona archeologica, accolti dal sindaco Giovanni Tesone, nel
Teatro italico, unico al mondo ad avere alle tre prime file i sedili con lo
schienale. Scolpiti in un unico blocco di pietra con linee sinuose e anatomiche
sono sempre una sorpresa. Comodamente seduti assistiamo a uno spettacolo
musicale del gruppo “Il Tratturo”, che esegue un repertorio di folklore locale
con strumenti sapientemente fatti artigianalmente, come zampogna, ciaramelle,
percussioni. Raggiungiamo poi Agnone per visitare la Fonderia Marinelli, la
millenaria fabbrica di campane famosa nel mondo, accolti dalla squisita
ospitalità dei titolari Armando e Pasquale, artefici anche della campana il cui
rintocco, in tutte le Delegazioni, scandisce l’inizio e la fine delle
conviviali. Per pranzo andiamo, sempre traversando lo splendido paesaggio
dell’alto Molise, verso Pescopennataro. Poco prima del paese - che nel nome
riporta il frequente “pescum”, ossia ”roccia”, perché costruito fra imponenti
rocce che emergono simili a scogli da un mare verde, con le case aggrappate come
conchiglie fossili - arriviamo al ristorante che domina un prato in discesa
verso una fresca sorgente del Rio Verde. L’ambiente è caldo e accogliente, e il
pranzo molto curato nella scelta delle pietanze proposte, assolutamente della
tradizione, eseguite con amore e sapienza antica da madre, figlio e nipote,
quella nonna che un tempo faceva la cuoca a domicilio, chiamata dalle famiglie
per le grandi occasioni. Gli ingredienti e i prodotti sono sceltissimi: genuini
e locali ed è raro trovare sapori così puliti e veri che vengono davvero molto
apprezzati e
graditi da tutti.
di Maria Cristina Carbonelli
“Giulio Cesare Croce scrisse più di 400 operette”.
Nato a San Giovanni in Persiceto nel 1550 e morto a Bologna nel 1609
Giulio Cesare Croce fu dapprima fabbro ferraio, come suo padre, poi
cantastorie girovago e infine scrittore, sotto la protezione della potente
famiglia bolognese dei Malvezzi. Scrisse più di 400 operette, spesso inedite o
pubblicate in modesti opuscoli venduti per le strade. Talvolta scurrili, mai
osceni, i suoi scritti sono realistici e fotografano la realtà bolognese di
quattro secoli fa, raccontata con arguzia ed esuberanza, e sempre dal punto di
vista dei cittadini meno abbienti. Le storie di Bertoldo e di Bertoldino
furono il suo unico, grande successo e gli fecero guadagnare un po’ di
quattrini, di cui aveva costante bisogno per mantenere la numerosa famiglia.
Questi personaggi creati dalla sua fervida fantasia sono ancor oggi popolari e
amatissimi, addirittura proverbiali. Questa storia viene continuamente
ristampata, spesso con l’aggiunta delle avventure di Cacasenno, scritte
pochi anni dopo da un bizzarro monaco bolognese, Adriano Banchieri, che volle
dare un figlio anche al povero e ingenuo Bertoldino. Il Croce non aveva
l’ambizione di educare in materia di gusto e di tecnica cucinaria, bensì di
proporre in estrosi componimenti di vena popolare i drammatici problemi della
carestia, della fame e della sopravvivenza che egli volutamente enfatizzava,
forse per esorcizzarli. Per Bologna, infatti, era un periodo non troppo florido.
“La canzone de la casa nova e de tortelli”, del 1583, è la prima delle
sue opere a essere pubblicata e vi si esaltano i tortelli, specialità bolognese
che già troneggiava sulle tavole cittadine. Ne “I banchetti de’ mal cibati”,
del 1591, il Croce mette a confronto le differenze che si registravano fra le
tavole dei ricchi e quelle dei poveri ed enumera una infinità di vivande, sia
veramente esistenti, sia parto della sua fantasia. “Il trionfo del porco”
è del 1594, ma fu ristampato a Bologna e a Venezia nel 1622, con un elegante
frontespizio recante l’immagine del tipico suino bolognese di quei tempi, che
era assai pregiato e adattissimo alla produzione di salumi particolarmente
saporiti. Il poeta prega le Muse di presenziare al “trionfo” che il nobile
animale ben merita per la sua grandezza e per la sua totale “bontà”. Ne “La
sollecita e studiosa Accademia dei Golosi”, del 1602, il Croce canzona le
“Leccardiane Scienze” e sulla scia di Ortensio Landi cita vini e vivande di ogni
parte del mondo e gli
inventori di queste prelibatezze. Tre versi sono famosi:
“Tutti san che in
Bologna si son sempre usati
i miglior salsiccion di tutto il mondo
e sempre e da ognun son celebrati”.
Salsiccion era allora sinonimo di mortadella. “La canzone della porcellina”
fu pubblicata per i tipi degli Eredi del Cochi, nell’anno della sua morte, e
descrive la tradizionale festa della porchetta che si celebrava a Bologna ogni
anno nel giorno di San Bartolomeo apostolo. Il momento culminante era il lancio,
dal Palazzo comunale alla piazza sottostante gremita di folla, di una gigantesca
porchetta arrostita. Questa tradizione si è perpetuata dal 1254 al 1796. Dopo
oltre due secoli di interruzione, la parrocchia di San Bartolomeo, posta proprio
all’ombra delle Due Torri, ha ripristinato la festa, in forma più consona ai
tempi attuali, ma egualmente apprezzata dai bolognesi. Questi numerosi testi del
Croce, assai difficili da reperire nelle librerie antiquarie, sono interessanti
perché contengono una infinità di informazioni sui consumi alimentari della
popolazione bolognese, a cavallo fra il Cinquecento e il Seicento. In quei
secoli i viaggiatori stranieri, soprattutto
inglesi, francesi e tedeschi, che effettuavano il cosiddetto “Grand tour”, si
limitavano ad accennare solo di sfuggita, nei loro resoconti di viaggio, alle
locande nelle quali avevano alloggiato e a quello che vi avevano mangiato e
bevuto, perché ritenevano l’argomento troppo prosaico e non degno degli ideali
artistici e culturali che dovevano costituire l’essenza del loro peregrinare per
l’Italia. Siamo pertanto assai poco informati su questi argomenti e gli scritti
del Croce, sebbene
scherzosi, ironici e talvolta paradossali, aiutano a colmare una lacuna.
di Maurizio Campiverdi
“In vari luoghi, piccole dosi di china venivano utilizzate per preparare
elisir amari eupeptici, venduti come «specialità della casa»”. Forse a qualcuno
sarà tornato in mente, sentendo parlare delle celebrazioni dei 150 anni
dell’unità d’Italia, il jingle a due voci (Ernesto Calindri e Franco Volpi) di
un vecchio “Carosello” della China Martini, quello del “Dura minga”, per
intenderci. Un prodotto della più genuina tradizione liquoristica italiana, la
china (o meglio l’elisir di china), proprio nell’Ottocento venne perdendo poco
alla volta l’indicazione di farmaco specifico contro la febbre terzana e
quartana, acquistando la sua attuale connotazione di amaro - tonico - eupeptico.
Un prodotto il cui percorso erboristico si perde lontano
nel tempo. Secondo il “Dizionario di sanità” (1779), “china” deriverebbe da
“kina”, cioè corteccia, parola tratta dal dialetto di alcune tribù indie. Kina
kina, cioè corteccia della corteccia, o regina delle cortecce, rappresenterebbe
un superlativo, riferito a un’imponente rubiacea sempreverde (il nome Cinchona
fu dato, nel Settecento, dall’astronomo Carlo Maria de la Condamine all’albero
che poi Linneo denominò Cinchona officinalis) usata dalle popolazioni andine per
colorare e tingere le stoffe, ma anche come rimedio contro le febbri. Il segreto
su questo febbrifugo naturale fu mantenuto a lungo dagli sciamani e fu rivelato,
a uno o più spagnoli, solo verso il 1630. Un primo dato storico, del 1638,
riferisce della guarigione - con un trattamento terapeutico a base di infusi di
china - di don Juan Lopez de Canizares, governatore di Loxa. E sempre nel 1638
anche donna Ana de Osorio, moglie del viceré del Perù, conte di Chinchon, fu
guarita, grazie all’intervento del governatore di Loxa, che le inviò il nuovo
farmaco. Entusiasta, la nobildonna decise di far importare in Europa la preziosa
sostanza di origine vegetale e della missione si occuparono i Gesuiti, come
ricorda Francesco Redi in una lettera del 1686 nel libro “Esperienze intorno a
diverse cose naturali”; per questo motivo, fu conosciuta come “polvere dei
Gesuiti”. La sostanziale ignoranza circa le caratteristiche farmacologiche della
china contribuì, tra il 1660 e il 1680, al nascere di molti rimedi segreti per
curare le febbri, spacciati per miracolosi, in cui erano presenti le più
svariate droghe esotiche, comprese talvolta anche piccole quantità della polvere
dei Gesuiti, o polvere della contessa. Si deve allo speziale Robert Talbor
il merito di aver convinto la medicina ufficiale a riconoscere le proprietà
terapeutiche della china. Colpito dagli indubbi successi del rimedio di Talbor,
lo stesso Re Sole trattò l’acquisto del suo segreto, che gli fu ceduto dal
medico inglese per l’enorme cifra di 2.000 luigi d’oro, con la condizione di non
pubblicarlo fino alla sua morte. Un grande merito negli studi sull’uso razionale
della terapia della china va a due medici italiani: Giovanni Maria Lancisi e
Francesco Torti, ma solo nel
1820 due chimici francesi, Pierre-Joseph Pelletier e Joseph-Bienaimé Caventou,
riuscirono a isolare dalla corteccia della china il principio attivo in forma
pura, un alcaloide che fu denominato “chinino”. E per secoli, nonostante i suoi
effetti
collaterali, il chinino rimase l’unico farmaco antimalarico. Già nel Settecento,
in vari luoghi, piccole dosi di china venivano utilizzate per preparare elisir
amari eupeptici, venduti come “specialità della casa” in molte farmacie, ma il
vero boom di
giulebbe ed elisir di china si ebbe a partire dalla metà dell’Ottocento, come
testimoniano tante antiche farmacie. Contemporaneamente, in Piemonte, sorsero
numerose ditte che proponevano anche vini (Barolo) e liquori aromatizzati con la
china (in
particolare la Cinchona calisaya, sudamericana, preferita per il suo maggior
contenuto in sostanze aromatiche), tra cui il popolarissimo Fernet Branca
(creato nel 1845, a Milano, da Maria Scala, moglie di Bernardino Branca) e
l’altrettanto popolare China Martini (nata dalla evoluzione dell’originario vino
chinato, denominato “elisir di china”, prodotto dalla Distilleria Nazionale da
spirito di vino di Agnelli-Balduino, nel 1847). Tra i tanti estimatori della
china anche il celebre scrittore-gastronomo Pellegrino Artusi, che ne “La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, quasi al termine del capitolo
dedicato ai liquori, volle includere l’elisir di china, commentandolo con queste
parole: “Non tutte le ricette che io provo le espongo al pubblico: molte ne
scarto perocché non mi sembrano meritevoli; ma questo elisir che mi ha
soddisfatto molto, ve lo descrivo”.
di Giancarlo Burri
Un’abitudine antica presente in tutto il mondo. Vincenzo Borruso, docente di Antropologia culturale dell’alimentazione nella Scuola di specializzazione in Scienza dell’alimentazione dell’Università di Palermo, ha accettato l’invito e ha intrattenuto con una dotta relazione avente come tema: “Cibo di strada: arte del comunicare”. L’oratore ha esordito dicendo tra l’altro che fin dall’antichità le classi popolari del nostro Paese vivevano per gran parte della giornata all’aperto e usavano consumare sulla strada cibi comprati da botteghe o ambulanti. Consumare cibi per strada, soli spesso o in compagnia, viola certamente i canoni dell’alimentazione all’interno della propria abitazione, trascura una ritualità fatta di intimità legata al sedersi alla stessa tavola, con una gerarchia nel posto occupato, nel servirsi o essere serviti secondo la posizione di prestigio goduta all’interno della famiglia o del gruppo, alla natura e posizione delle “mense” alle quali attingere i bocconi da consumare. “Mense” che, nel mondo latino, erano composte da una sfoglia di pane sulla quale venivano collocate le pietanze da consumare. Da questo l’attributo di “compagno”, vocabolo derivato dalla espressione “cum panis” che designava quelli che consumavano assieme il pasto con il pane. Tuttavia, anche questo consumo per la strada è stato sempre ritenuto un motivo di comunicazione, di solidarietà fra gli occasionali avventori; riconoscersi nella predilezione di un cibo, nella stima di un sapore può dare un senso di complicità e solidarietà fra gli improvvisati consumatori del cibo di strada. E fra un boccone e l’altro non è difficile un commento sulla sua bontà, sulla buona scelta di un momento, meglio di quanto possa avvenire in un ristorante. Pompei ci mostra ancora una serie di botteghe nelle quali il popolo poteva attingere dal pane al companatico (altro termine che viene da “cum panis”), dal vino all’acqua. È naturale che nel nostro Paese questo consumo in strada sia stato favorito dalle condizioni meteorologiche che permettono per molti mesi dell’anno la vita all’aperto, così come hanno permesso lo sviluppo di attività ludiche e spettacolari all’aperto. Oggi, con l’internazionalizzazione di alcune abitudini alimentari simili alla nostra di Paesi extraeuropei, si è coniato il nuovo termine di “street food”, il cibo di strada degli anglosassoni, e di “finger foods” (manicaretti), piccole porzioni di cibo da portare alla bocca con le mani. Da ricordare che l’uso delle mani per portare il cibo alla bocca venne considerato nell’antichità un gesto da re. Bisogna arrivare al XVI secolo per avere indicazioni diverse sull’uso delle mani nell’assumere cibo: monsignor Della Casa consiglia di limitare il più possibile l’uso delle mani, mangiando. Ma la civiltà occidentale, a quell’epoca, aveva già inventato la forchetta. Tuttavia i problemi più evidenti nell’era attuale sono creati dal fatto che il cibo di strada, se così possiamo continuare a chiamare gli alimenti pronti distribuiti attraverso punti vendita o distributori automatici, non legati spesso alle tradizioni alimentari del Paese, si va rivelando un “cibo spazzatura”, così definito dal Coldiretti italiana. Che fa suo l’allarme lanciato da ricercatori americani su “Nature Neuroscience” secondo i quali hamburger, patatine fritte, merendine dolci, ossia il cibo-spazzatura, creano dipendenza e generano allarme, anche in Italia, a causa della crescita nel consumo di cibi grassi e bibite ricche di zucchero, che il 41% dei bambini beve ogni giorno Il cibo di strada tradizionale è presente in ogni parte del mondo, specie in Africa e Asia. Nei Paesi mediterranei ha una lunga storia e nei secoli si è distinta l’Italia e, al suo interno, quasi tutte le regioni con una serie di pietanze che hanno contraddistinto, fino a oggi, la terra in cui sono nate. La Sicilia rappresenta uno dei contenitori più ricchi del nostro Paese, con una tradizione che ha sfidato i secoli e che ha raccolto lasciti classici greco-romani, arabi, spagnoli. Ancora oggi, in piena globalizzazione dei sistemi di alimentazione, il consumo di cibo di strada ha una sua rilevanza, poco scalfito dalle nuove usanze che, quando accolte, ricevono spesso un adattamento alla cucina tradizionale siciliana. In particolare a Palermo, che ha inglobato alcuni modi nuovi di alimentarsi fuori casa, accettando il kebab, i panini dei McDonald’s senza dimenticare nessuno dei suoi cibi di strada. È possibile citare l’attività delle panellerie, botteghe fisse ma anche mobili collocate su un carrettino o su una “lapa” (l’ape della Piaggio), nelle quali si friggono e si vendono le panelle, frittelle di farina di ceci con prezzemolo, cazzilli, crocchè di patate e prezzemolo fritte, rascature, arrangiate con quanto si può raschiare dalle pentole nelle quali si è fatta cuocere la farina di ceci impastata e le patate, e fritte in olio bollente, “quagghi” di melenzane fritte (melenzane intere spaccate in più quarti e così chiamate perché, fritte, sono somiglianti alle quaglie). Questi cibi, in genere, si consumano imbottendone dei panini rotondi particolarmente morbidi, o mafalde (altra forma di pane palermitano), ai quali viene asportata la mollica. Altri cibi prodotti dal panellaro sono le arancine, palle di riso bollito ripiene di “capuliatu” di carni a ragù con piselli, e fritte (una variante è l’arancina al burro che si riconosce dalla forma conica). Vi sono botteghe di panellari presso le quali possono essere comprate per consumo immediato o per asporto alcune pietanze tipiche del Palermitano quali “‘i sardi a beccaficu”, preparate con sarde senza lisca, avvolte su un ripieno di mollica, uva passa e pinoli, fritture di cicirello (piccoli pesci) o di calamari, broccoli, cardi e carciofi fritti in pastella. Il pane e panelle, ancora oggi, è il cibo tipico degli studenti in ricreazione e degli operai in pausa di lavoro. Anche se insidiato dai distributori automatici collocati in tutte le scuole, il “frii e mancia” (friggi e mangia), adattato su una “lapa”, non manca mai nelle ore di ricreazione scolastica. Un altro cibo di strada, il cui consumo a Palermo è ancora florido, è lo sfincionello, formato da una base circolare di farina impastata sulla quale viene posto un condimento di pomodoro e cipolla, preparato a parte, sarde salate, pane grattugiato. Un passaggio al forno di pochi minuti lo rende pronto e fragrante per essere consumato. Ancora oggi, attraverso mezzi motorizzati, come la “lapa” o camioncini adattati, viene preparato e venduto davanti alle scuole nell’ora di ricreazione o davanti ai cantieri. Altro cibo di strada palermitano, conosciuto ormai in tutt’Italia, è “‘u pani ca meusa”, il pane con la milza. Esso consiste in una pagnotta morbida imbottita di milza di vitello bollita e tagliata a fette sottili, fritta in padella con lo strutto prima di essere collocata all’interno del panino spaccato in due metà. Un posto a parte nei cibi di strada occupa la stigghiola. Si tratta di budella di agnello o di capretto (ma, a volte, anche di altri animali), lavate in acqua e sale, condite con prezzemolo o con sfoglie di cipolla, infilzate con uno spiedino, o avvolte e legate, e cotte sulla brace. La stigghiola classica deve contenere all’interno delle budella ancora il latte cagliato dell’animale, capretto o agnello, che dovrebbe essere macellato ancora lattante. Cibo di strada stagionale sono i “babbaluceddi” (lumachine) cotti e conditi con olio e prezzemolo e presentati sulla strada in piramidi collocate su grandi ceste piatte di canna intrecciata. Vengono venduti e consumati su una foglia di cavolo e le bucce disperse per terra dopo averle vigorosamente succhiate per estrarne la lumachina.
di Cinzia Militello
La storia di un cuoco italiano imprenditore di successo
Certamente non è una novità che la pasta italiana ha sfondato negli Stati
Uniti, che sono oggi il secondo produttore di pasta al mondo dopo l’Italia, e il
secondo per consumo pro capite, sempre dietro l’Italia. Ma se chiedete a un
giovane americano il nome della pasta americana più conosciuta, risponderà senza
esitazione: “Chef Boyardee”. Chef chi? Non è una presa in giro né si tratta di
un nome fittizio: questo chef è realmente esistito e il prodotto da lui creato,
la pasta in scatola, esiste ancora e continua a essere favorito dai ragazzi, e
non solo loro, in America. Si chiamava Ettore Boiardi, era nato a Piacenza nel
1898. Emigrò con la famiglia negli Stati Uniti, sbarcando a Ellis Island nel
1914, e cominciò a lavorare con il fratello nella cucina dell’albergo “Plaza” di
New York. Fu qui che sviluppò le sue capacità cucinarie tanto che presto divenne
capocuoco. E fu così che venne chiamato a servire una cena al presidente Wilson.
A 24 anni si trasferì a Cleveland, dove aprì un ristorante, “Il Giardino
d’Italia”. Si era fatto crescere i baffi per non apparire troppo giovane e aveva
adottato il nome Hector. I suoi spaghetti, con carne e sugo di pomodoro, fecero
furore, tanto che i clienti cominciarono a chiedergli una scorta di sugo da
portare a casa. Chef Hector versava il sugo nelle bottiglie di vetro del latte
aggiungendovi pasta e formaggio. Dalle bottiglie alle scatole il passo fu breve.
Il bravo Hector si rivolse a un’industria di inscatolamento nell’Indiana, la
Vincennes Packing Company, e chiese se era possibile inscatolare la pasta con il
suo sugo. Gli risposero che si poteva fare, e lo fecero. Ettore Boiardi era
divenuto il primo industriale della pasta nelle scatole, che recavano la sua
immagine in camice di chef con tanto di baffoni. Solo che il nome era cambiato.
Il nostro si era stancato di ripeterne la corretta pronuncia e decise quindi di
stamparlo in modo che fosse facile pronunciarlo: “Boy-ar-dee”. Nel 1938 spostò
la sua industria in
Pennsylvania per essere vicino ai campi di produzione del pomodoro. Giunse anche
al punto di coltivare i funghi in cantina. La pasta, e in modo speciale i
ravioli in scatola di Chef Boyardee, conobbero una vera economia di scala al
tempo della seconda guerra mondiale quando vennero distribuiti come razioni ai
militari. Ma il vero successo economico fu tra i giovani e le famiglie bisognose
che potevano alimentarsi a prezzi decisamente convenienti. Nel 1950 Boiardi finì
col cedere agli allettamenti di una grande compagnia che comprò Chef Boyardee
per una cifra a quell’epoca imponente, sei milioni di dollari. Il giovane cuoco
piacentino aveva davvero fatto fortuna in America. Non solo, ma era divenuto
un’icona mediatica
apparendo nei primi spot televisivi con il copricapo da cuoco e gli immancabili
baffoni. E rimase consulente dell’azienda fino alla morte nel 1985. Oggi il
marchio “Boyardee” appartiene a una grande industria alimentare, la Con Agra
Foods, che commercializza una grande quantità di prodotti alimentari, dai cibi
congelati a salsicce ebraiche, farine varie e sostituti di uova, pomodori in
scatola e popcorn. Questi prodotti entrano nel 97% delle case americane. La
pasta in scatola Boyardee non è mai mancata nella mensa delle famiglie povere,
soprattutto negli anni Sessanta, ma il suo successo non è mai venuto meno presso
le nuove generazioni. Basta accedere al web
www.chefboyardee.com per capire quale
sia il mercato della Boyardee: i ragazzi. Le varietà di pasta in scatola
includono gli “overstuffed meat ravioli” (ravioli con ripieno di carne), gli
“sports forkables”, i “minibites”, i microravioli, i dinosauri nella salsa, e
gli immarcescibili “macaroni and cheese”, probabilmente il cibo preferito dai
giovanissimi. Ma la pasta in scatola non è più sola. Da anni ormai la affiancano
le paste da microonde, eufemisticamente battezzate “tastee microwavables”.
Spuntano quindi le “microravioli cup”, “minibites”, e varie altre “microcup”. E
per finire, “pizza and dinner kits”. Ora anche con farine integrali. Provare per
credere: il sito Boyardee è tutto un programma, divertente e creativo, di
pubblicità per i ragazzi. Un consiglio. Non andate a dire agli americani che i
cibi Boyardee hanno un basso valore nutritivo. Il loro vantaggio è che sono
“shelf stable”, ossia possono rimanere a lungo sugli scaffali del supermercato,
e che si fa presto ad aprire una scatola e riscaldarne il contenuto. Ettore
Boiardi questo lo aveva capito benissimo e per giunta aveva saputo proteggere la
sua invenzione. Cosa che invece non è capitata ad Alfredo, quello famoso per le
fettuccine romane al doppio burro, che si è visto soffiare il “copyright” in
America con il risultato che il nome Alfredo oggi compare dappertutto,
affibbiato a pasta, riso, pollo, pesce e ogni sorta di intrugli: un altro vile
colpo ai danni della gastronomia italiana.
di Marino de Medici
Olio extravergine di oliva, olio biologico DOP Tuscia e DOP Canino: la provincia di Viterbo offre un ampio ventaglio di oli prodotti secondo elevati standard qualitativi
La leggenda vuole che un giorno le piante si riunirono per eleggere il loro re. Dopo aver a lungo discusso, tutte si trovarono d’accordo nello scegliere l’ulivo, ma questi rifiutò rispondendo: "È troppo importante la missione che Dio mi ha assegnato per il bene dell’Umanità perché io possa occupare il mio tempo nelle cure del Governo". Nella provincia di Viterbo la coltura dell’olivo deve la sua importanza alla diffusione capillare, sia in termini territoriali che aziendali, ma soprattutto al suo radicamento socio- culturale che fin dal tempo degli Etruschi le prime coltivazioni. Con oltre 20mila ettari di oliveti, pari al 6,9% della superficie agricola provinciale ed al 18,9% della superficie ad oliveti del Lazio, la provincia di Viterbo rappresenta una realtà importante in ambito nazionale, soprattutto in riferimento agli elevati standard qualitativi raggiunti. La coltura olivicola incide per circa il 6% sul totale della produzione lorda vendibile provinciale, con un volume di affari di 25- 30 milioni di euro, mentre a livello regionale la produzione pesa per il 21%. Grazie al lavoro sapiente e alla fatica di donne e uomini che hanno puntato tutto sulla qualità nei sistemi di coltivazione, raccolta e frangitura, la filiera dell’olio nella Tuscia ha raggiunto un ottimo livello di organizzazione. Tutto ciò ha permesso all’intero territorio provinciale, di per sé già favorito da madre natura per caratteristiche geologiche e climatiche, di essere considerato tra le realtà italiane di maggiore pregio per la produzione dell’olio extravergine di oliva. Caratteristiche uniche che hanno portato nel 1998 al riconoscimento comunitario di Olio extravergine di oliva di Canino DOP (Denominazione di Origine Protetta), a cui si è aggiunto nel 2006 l’Olio extravergine di oliva Tuscia DOP. Per la provincia di Viterbo si tratta di un balzo in avanti della produzione di qualità garantita dell’olio extravergine di oliva che può vantare anche l’inserimento nel marchio collettivo Tuscia Viterbese, il marchio di garanzia, assegnato dalla Camera di Commercio di Viterbo alle aziende che rispondono a rigorosi standard qualitativi di sicura affidabilità.
“Chi è all’avanguardia in un determinato settore non è necessariamente interessato a quella che è l’avanguardia in altri campi”
Esordisce così il famoso chef Ferran Adrià, in risposta alla curiosa domanda
“Come immagini che Gaudí avrebbe considerato la tua cucina?”, in un’intervista
di Maurizio Cattelan per un importante mensile di arte contemporanea. Eppure si
sa,
i movimenti d’avanguardia dialogano con la storia passata rivoluzionando idee e
linguaggi tradizionali. Per approdare a nuove soluzioni espressive, gli artisti
attingono linfa da svariati campi, spesso nutrendosi di esperienze che a prima
vista sembrano distanti dal loro ambito di ricerca. Un filo, non poi così
sottile, lega la ricerca di Adrià a diversi campi artistici, fino a rendere le
sue intuizioni storicamente debitrici di un tempo molto più lontano di quanto si
possa pensare. Rintracciare tali legami storici e culturali significa dare un
senso e sostenere nuove ricerche che a primo impatto risultano incomprensibili
se non pericolose. L’idea di trasformare il bisogno di nutrirsi in una forma di
espressione di avanguardia risale almeno ai primi decenni del XX secolo. È
dall’Italia che Filippo Tommaso Marinetti e la compagine futurista danno il via
a una rivoluzione gastronomica che nel gennaio 1930 è formalizzata
nell’esilarante “Manifesto della cucina futurista”.
Il piano d’azione è pratico. Marinetti e compagni organizzano cene all’insegna
del nuovo, redigono menu inusuali come quello proposto alla famosa “cena alla
rovescia”, durante la quale i commensali sono invitati a retrocedere lungo la
solita sequenza di portate, partendo dal caffè sino ad arrivare all’antipasto.
Muovendo dal concetto di esperienza sinestetica, tanto cara oggi allo chef Adrià,
diffusori di suoni e profumi divengono parte integrante delle cene futuriste,
così da
coinvolgere tutta la sensorialità dei commensali, non solo il palato. Il
principio ispiratore dei menu futuristi è la sorpresa: le vivande nascondono
sapori imprevisti creati da accostamenti inauditi. Il primo tentativo di
diffusione di questa nuova
cultura gastronomica finisce relativamente presto, così che il “Santopalato”
torinese, taverna futurista, è costretto a chiudere i battenti non molto tempo
dopo la sua apertura. L’idea di base diventa però, a partire dagli anni Trenta,
affascinante, a tal punto da spingere artisti e cuochi a riflettere sull’atto
del nutrirsi come esperienza sensoriale complessa e a trasformare il cibo in un
mezzo espressivo, una forma d’arte. Basta soffermarsi un attimo all’entrata del
Teatro-Museo Dalí a Figueres per capire subito quanto sia profonda l’ossessione
dell’artista catalano Salvator Dalí per il cibo: l’intera facciata del museo è
ricoperta da piccole riproduzioni di pane ed enormi uova sormontano le torrette
del museo.
È del 1936 l’opera di Meret Oppenheim “La mia bambinaia”, ready meat che
assembla un vassoio d’argento e delle scarpe da donna evocando l’immagine di un
tacchino in un gioco di condensazione onirica libera da univoche
interpretazioni.
È Andy Warhol che introduce in ambito artistico i prodotti pop della cultura
gastronomica americana, con le lattine di zuppa Campbell’s, o ancora Claes
Oldenburg con le sue morbide torte giganti plastificate. Sono proprio gli anni
Sessanta, segnati da un forte sperimentalismo in ambito artistico, a rivelarci
una nuova idea di convivialità che porta la ricerca artistica fuori dagli spazi
ufficialmente deputati al fare arte. Daniel Spoerri, artista francese, inaugura
a Düsseldorf un ristorante con galleria annessa, nella quale raccoglie le tavole
ingombre dei suoi clienti, immortalandole con una colata di cera e colla. Ancora
ai giorni nostri l’artista Vanessa Beecroft organizza e documenta cene intorno a
lunghe tavole veicolando un senso di straniamento dato dal colore delle vivande
piuttosto che dalla scelta dei commensali. Pur parlando di cibo ci ritroviamo
già fuori sia dall’ambito gastronomico che da quello artistico tradizionalmente
intesi. È proprio alla luce di questi ultimi anni che la ricerca artistica in
senso lato mira a inglobare ambiti ed esperienze differenti. Sperimentali chef
partecipano a importanti rassegne d’arte. I confini tra le varie discipline si
fanno labili. E anche la ricerca gastronomica espande sempre più i propri
confini.
di: Lucia Pedi
di: Marino de Medici
"Una dotta illustrazione dei metodi tradizionali”.
La Delegazione della Virginia si è riunita nell’accogliente villa di James
Gardiner per celebrare a tavola un leggendario prodotto della gastroenologia
italiana, l’aceto balsamico. Simposiarca l’Accademico Gardiner, certamente
l’esperto più qualificato, in quanto gastroenterologo, per illustrare ed
esaltare le qualità gastronomiche e medicinali dell’aceto balsamico. Tanto per
cominciare, ha avvertito l’Accademico, le prime descrizioni dell’aceto
balsamico, già dal Medioevo, si riferiscono ai suoi poteri terapeutici e non ai
suoi usi cucinari. All’aceto veniva infatti attribuito il merito di curare un
gran numero di malanni, dai raffreddori al mal di cuore. Durante la peste del
1630, il duca di Modena si rifiutava di lasciare il castello senza un’ampolla
aperta di aceto nella sua carrozza, convinto che le sue esalazioni purificassero
l’aria attorno alla sua persona. L’aceto, e non soltanto quello balsamico, è
stato impiegato per secoli per togliere la sete, ammorbidire le carni,
purificare l’aria e come conservante e medicinale. Per quanto già Virgilio ne
parlasse, l’aceto fa la sua apparizione ufficiale nel manoscritto di un monaco
benedettino, Donizone, del 1046. La relazione di Gardiner, ampia e ben
documentata,
ha presentato una dotta illustrazione dei metodi tradizionali, a partire dal
mosto cotto fino al rincalzo e prelievo, passando attraverso la fermentazione
alcolica e il processo di ossidazione dovuto agli acetobatteri. La parte finale
della relazione
ha messo a fuoco lo sviluppo dei regolamenti che definiscono i periodi di
invecchiamento e le attività dei tre Consorzi dell’aceto e l’assegnazione
dell’ambito premio “Palio San Giovanni”. La parte della relazione che più ha
interessato i convenuti è stata, comprensibilmente, quella riguardante i
benefici dell’aceto balsamico. Vale la pena di elencarli per edificazione:
proprietà antibatteriche e antivirali; erogatore di energia e rimedio indicato
per dolori del corpo; potente antiossidante
che protegge le cellule da danni e rinforza il sistema immunitario; le
caratteristiche antiossidanti aiutano a prevenire danni al cuore e processi
infiammatori cronici; incrementa l’attività dell’enzima digestivo pepsina nello
stomaco; migliora la reattività dell’insulina; riduce il colesterolo; può
ridurre la frequenza delle emicranie; può prevenire l’anemia e l’affaticamento;
può sopprimere l’appetito e contribuire alla riduzione del peso corporeo;
contiene minerali che migliorano il metabolismo delle ossa. Il pranzo,
all’insegna dell’aceto balsamico, ha portato in tavola un maialino di circa 25
chilogrammi, cucinato in un forno commerciale secondo precise indicazioni degli
anfitrioni. Una leggera spruzzatina di aceto balsamico ha benedetto le portate.
Due erano gli aceti balsamici in tavola, uno di 12 anni e uno di 25, prodotti da
una delle più celebrate acetaie di Modena. Gli aceti sono finiti ad arte sulle
bruschette, sui funghi portobello con gorgonzola, sulle lasagnette ai
porri, cipollotti e tartufi neri, sull’insalata con agrumi e finocchio, e per
finire sulle fragole, sul gelato di parmigiano reggiano, e infine sui cioccolati
al tartufo. Una straordinaria cornucopia di aceto sulle vivande apprestate dagli
Accademici in un gustoso concorso di capacità cucinarie. Questa non è stata la
prima volta [e non sarà l’ultima] in cui gli Accademici della Virginia si sono
cimentati nel proporre piatti di loro creazione, rigorosamente rispettosi delle
tradizioni gastronomiche
dell’Italia, all’insegna di un prodotto specifico che esalta quelle tradizioni.
Per concludere, anche la scelta dei vini rispecchiava la presenza di Modena, con
un eccellente Lambrusco Modena Dop, accoppiato allo Sparviere del Consorzio per
la tutela del Franciacorta, allo Sforzato della Valtellina e a un ottimo Recioto
Begali. Resta solo da osservare che la conviviale casalinga dedicata all’aceto
balsamico non poteva avvenire in un periodo più consono, alla vigilia di San
Giovanni e dell’omonimo palio dell’aceto.
di: Carlo Magni
“Il caleidoscopio delle innumerevoli forme lascia francamente perplessi”.
Abbiamo sempre spiegato ai nostri bambini che il formaggio è fatto con il
latte, prevalentemente latte di mucca oppure di pecora, capra o bufala.
Quest’atavica convinzione evocava, anche per merito della comunicazione
pubblicitaria, pascoli felici negli alpeggi, mucche serene, mammellute e
parlanti che rassicuravano i consumatori circa il destino del latte appena
munto. Crescendo, i nostri bambini hanno imparato che le mucche da latte
pascolano poco e sono invece costrette in stalle supertecnologiche a ingurgitare
mangimi studiati apposta per aumentare la loro produttività lattifera e quindi
la produzione di formaggio. Nonostante questa triste consapevolezza si fanno
ricerche per aumentare in ogni modo la produttività naturale dei bovini e si
sollecitano analisi e inchieste sul settore lattiero-caseario. Una di queste
inchieste mette in luce alcuni aspetti sui quali vale la pena riferire, anche se
come semplice testimonianza personale. Qualche anno fa mi fu richiesto di
affrontare, insieme ad altri ricercatori, uno studio del settore
lattiero-caseario [limitatamente a quello vaccino] per una grande istituzione
pubblica. Diligentemente cominciammo a cercare informazioni sulla quantità di
latte prodotto, importato o esportato, di quello destinato al consumo “fresco”
e, infine, di quello avviato alla trasformazione per fare formaggi. Lo studio si
presentava assai complesso perché una parte dei formaggi è mista, vale a dire
fatta con latte di specie diverse [mucche, pecore ecc.]. Inoltre molti formaggi
sono d’importazione. Dopo diversi tentativi per ottenere qualche dato dalle
statistiche ufficiali o da quelle ufficiose delle associazioni di categoria [che
non combaciavano mai] decidemmo di fare una stima: calcolare, secondo parametri
tecnici, la resa nei principali tipi di formaggio del latte bovino prodotto in
Italia e importato. Questa stima teneva conto della dimensione d’impresa e si
differenziava in base a essa. In altre parole quanto formaggio, nelle sue
diverse categorie e livelli di stagionatura, si può fare con un litro di latte
“standard”. Il risultato fu stupefacente. Anche considerando i formaggi misti,
la quota di latte avviato al formaggio per canali “informali”, la produzione di
burro e yogurt e gli inevitabili errori di stima, la quantità di formaggio
prodotto era sempre superiore a quella di latte “standard equivalente”
disponibile sul mercato interno (prodotto e importato) e destinato alla
trasformazione. A questo punto non restava che arrendersi. Le notizie della
stampa e le inchieste televisive degli ultimi anni spesso affermano che il
formaggio non si fa solo con il latte e che i dati sulle importazioni non sempre
corrispondono al vero. Infatti, sembra esservi una
quota non piccola di formaggi ottenuti attraverso l’uso di polvere di latte (che
talvolta fa il suo ingresso nel nostro Paese come destinata all’alimentazione
[animale] oppure frutto di una lavorazione di formaggi mal riusciti e mal
conservati o che non hanno retto la stagionatura [scoppiati]. Di fronte a questa
possibilità come fa il consumatore a individuare i formaggi prodotti
essenzialmente con il latte? Alla luce di un po’ di buon senso possiamo
certamente affermare che, a grandi linee, il formaggio stagionato è meglio di
quello fresco e che tanto più ha la forma del contenitore in cui è conservato
dopo la sua lavorazione tanto maggiori saranno le probabilità che sia fatto con
il latte. Un altro elemento da considerare è l’area di produzione. Tanto più
quest’area è specializzata nell’allevamento di vacche da latte ed è distante da
concentrazioni industriali tanto maggiore sarà la probabilità che il latte
provenga dalla zona di produzione. Le mucche, infatti, fanno latte ogni
giorno, il latte è facilmente deperibile e non facile da trasportare perciò le
imprese di trasformazione tendono a localizzarsi nelle aree di produzione.
Infine, occorre diffidare di formaggi che non esistono nella loro forma
“naturale”, generalmente corrispondente ai contenitori che li ospitano dopo la
prima fase di lavorazione. Il caleidoscopio delle innumerevoli forme che assume
il formaggio [fette sottili, salamini, rettangolini, triangolini e tutte le
altre geometrie destinate ai mercati di massa] lascia francamente perplessi e la
possibilità che contengano polvere di latte o formaggi fusi è presente.
L’esigenza di raccontare questa piccola esperienza è nata quando, entrando in un
piccolo negozio di generi alimentari di un’area rurale, ho trovato, insieme
all’immancabile caciotta nostrana, formaggi dalle forme più stravaganti. Quando
il formaggio fuso preconfezionato, da spalmare, light, da aggiungere ad altre
creative preparazioni comincia a inondare le nostre campagne è giunto il momento
di fare appello al buonsenso del consumatore.
di David Bixio
“Un prodotto molto delicato che va trattato con cura”.
I bianchetti [in Liguria “gianchetti”] sono i piccoli di alcune razze di
pesci e hanno una lunghezza compresa fra i 3 e i 10 millimetri. Da non
confonderli con i “rossetti” [Aphya minuta], pesciolini morfologicamente simili
ai bianchetti, però
già adulti, pescati in periodo estivo allorquando si avvicinano alla costa per
la riproduzione, mescolandosi in sciami a stadi giovanili di sardina e acciuga
con prevalenza di pesce azzurro del Mediterraneo. Fanno parte del cosiddetto
“novellame” la cui pesca potrebbe essere proibita da norme emanate dalla
Comunità europea, vincolanti nei confronti degli Stati membri. Attualmente la
pesca commerciale dei gianchetti è regolamentata da apposite normative disposte
dalla Comunità europea che consentono una sola raccolta annuale tra febbraio e
marzo, a una distanza minima di mezzo miglio dalla costa, 0,70 miglia marine per
la Liguria, in deroga alla normativa a causa della conformazione dei fondali
della costa ligure, diversa da quella di altre zone. La pesca dei bianchetti
viene praticata da moltissimi anni in varie località italiane, in particolare
Liguria, Puglia e Calabria. Le tecniche di pesca sono varie ma hanno in comune
le dimensioni della maglia [4-5 millimetri] delle reti per trattenere nel
“sacco” prede così minuscole. La pesca è praticata con “sciabiche” da spiaggia o
da natanti di piccole dimensioni, ma anche con reti da traino e da circuizione,
ed è tassativamente limitata ai mesi di febbraio o marzo onde evitare che un
prelievo troppo abbondante possa danneggiare la pesca delle sardine adulte.
Trattandosi di pesce territoriale e strettamente stagionale, forte ne è la
richiesta per cui il suo prezzo di mercato è assai elevato, riservandolo a
ristoranti di classe superiore; inoltre, per ragioni economiche, i bianchetti
quasi mai vengono consumati dai pescatori del Levante ligure i quali
tradizionalmente hanno un’alimentazione basata soprattutto sui prodotti
dell’entroterra. I bianchetti rappresentano un prodotto molto delicato che va
trattato con cura, che va trasferito in poche ore dalle barche da pesca o dalla
spiaggia al consumatore finale conservando così la sua principale
caratteristica, la freschezza, testimoniata dalla tipica trasparenza dei singoli
pesciolini che un’eventuale congelazione farebbe subito appannare. Chi ha una
certa età e vive sul mare di Liguria ricorda quando i pescatori locali si
industriavano per esportare questo prezioso e apprezzato prodotto del mare,
bollendo i bianchetti in acqua salata, raccogliendoli delicatamente con una
schiumarola non appena venivano in superficie e depositandoli in cestelli di
vimini per farli asciugare. Le ceste, provviste di un coperchio di sacco,
venivano avviate, tramite ferrovia, in Piemonte, specie ad Asti e ad
Alessandria, e in Lombardia a Milano, dove i grossisti provvedevano a rifornire
i ristoranti le cui clientele apprezzavano questa singolare squisitezza. La
cucina tradizionale dei bianchetti è sostanzialmente semplice: dopo averli
scottati in acqua calda salata vanno serviti conditi con succo filtrato di
limone e olio extra vergine di oliva, salati a piacere, tiepidi o freddi. Molto
apprezzata la frittata di bianchetti: rompere le uova in un piatto, sbattere
aggiungendo sale e pepe, incorporare i bianchetti crudi, eventualmente con un
pizzico di prezzemolo tritato, mescolare delicatamente e versare il tutto in
padella con poco olio cuocendo la frittata per un minuto o due finché l’uovo non
sarà rappreso. Peculiari per la cucina genovese, i “friscieu” di bianchetti in
pastella fritti in olio ligure. Quasi analoga la ricetta delle classiche
frittelle di bianchetti, mescolati nella pastella e gettati a cucchiaiate
nell’olio bollente della padella. Qualche nostalgico della tradizione locale
ricorda la minestra di bianchetti con fidelini e verdurine. I bianchetti sotto
la cenere sono una ricetta singolare proposta da una cuoca di Torriana che
prescrive di trattare preliminarmente i bianchetti crudi con aglio trito, sale e
pepe, e di cuocerli avvolti in carta da forno sotto la cenere, servendoli, a
fine cottura, conditi con un filo di olio extra vergine di oliva.
di Donato Pasquariello
“Dopo anni di tendenziale massificazione e appiattimento del gusto, si va lentamente riscoprendo l’importanza della specificità”.
La specificità nel campo alimentare è una qualità oggettiva dei prodotti che
vale a differenziarli da altri della stessa specie presenti sul mercato e a
favorirne l’apprezzamento. La naturale appetibilità di questi beni è dovuta al
possesso di
specifici caratteri organolettici derivanti da fattori geografici, alla
genuinità delle materie prime impiegate o alla peculiarità delle tecniche di
lavorazione, circostanze queste che li rendono non facilmente riproducibili su
larga scala e quindi rari sotto il profilo economico. La dimensione localistica
che li accompagna, in quanto prodotti prevalentemente del territorio, fa sì che
essi assumano a volte significato simbolico, storico e culturale che li lega
indissolubilmente alle relative comunità.
Guardata soggettivamente, la specificità è qualità rilevabile grazie a una
sperimentata conoscenza o a speciali capacità e sensibilità, anche innate: non è
da tutti infatti apprezzare le caratteristiche di sapore, spesso sottili e
apparentemente insignificanti, che assicurano al prodotto quel qualcosa in più
rispetto a quelli comuni di mercato. La preferenza loro accordata dal
consumatore, anche se a volte dettata da esigenze di ordine culturale o di
adesione alle tradizioni della
comunità, esprime indubbiamente livelli di conoscenza e di maturità elevati e
denota, per altro verso, incertezza e scetticismo verso il mercato, spesso non
appagante sul piano del piacere e non affidabile per le frequenti delusioni o
per i non rari episodi di frodi e di sofisticazioni alimentari. Un rapporto
privilegiato e intenso lega da sempre l’uomo ai prodotti del suo ambiente,
rapporto essenzialmente “fiduciario” che si sostanzia, da un lato, nella
speciale capacità di riconoscerne e apprezzarne la natura e, dall’altro, nella
garanzia del mantenimento delle caratteristiche attese. Un tempo l’ambiente e i
prodotti che esso esprimeva abbondavano naturalmente di specificità che
contribuivano a esaltare le capacità individuali
di comprensione del particolare; il sapore generico, prerogativa dell’ordinario
nutrimento quotidiano, costituiva lo sfondo necessario per l’emersione e
l’esaltazione del particolare gustativo, capace di garantire senso e significato
al piacere del vivere. Nell’antica Roma, secondo quanto afferma il poeta
Giovenale nella sua quarta satira, il gusto per determinati alimenti raggiungeva
livelli di raffinatezza tali da permettere di distinguere, al primo boccone, se
un’ostrica proveniva dal capo Circeo, dal lago Lucrino o dai fondali di Rutupie
[“castrum” romano sulle coste meridionali dell’Inghilterra, vicino all’attuale
Dover] e di individuare, dall’aspetto, il lido di ritrovamento di un riccio di
mare. Nella sua opera il poeta cita pure, qua e là,
tante specificità della sua epoca, molte delle quali perdute quanto meno negli
originari sapori, che rappresentavano il meglio che un raffinato palato potesse
desiderare (rombo adriatico, triglia della Corsica o di Taormina, capretto della
campagna di Tivoli, olive sabine, olio puro di Venafro, aceto dell’isola
egiziana di Faro e, tra i vini, il puro Falerno, il molle Caleno, il Sorrentino,
il denso passito di Creta), sottolineandone nel contempo la dimensione
localistica ]“tocca alla provincia
rifornirci la cucina”].Tralasciando queste lontane testimonianze e a conferma
delle illimitate capacità discriminanti che da sempre l’uomo ha mostrato di
possedere, va detto come nel nostro Paese anche in tempi piuttosto recenti,
allorquando
la specificità era di più facile accessibilità, non fosse raro imbattersi in
persone in grado di individuare dal semplice sapore la località di provenienza o
di lavorazione di un prodotto e talvolta persino il relativo terreno di
coltivazione o lo specifico sito produttivo. Il mondo è purtroppo da decenni
interessato da profonde trasformazioni: l’esigenza di sfamare una popolazione
globale in continuo aumento, le accentuate disparità economico-finanziarie tra
Paesi e all’interno di
questi, il perseguimento a ogni costo del profitto nelle attività economiche,
l’abbandono delle campagne da parte della vecchia classe contadina hanno portato
a un’agricoltura di tipo intensivo, sino all’introduzione di piante
geneticamente modificate, allo sviluppo di allevamenti animali in batteria con
sostanze iperproteiche e alla standardizzazione delle produzioni e delle
relative lavorazioni. Il soddisfacimento di tutta una serie di bisogni primari
ha finito quindi per lasciare poco spazio a una qualità ecosostenibile e alla
biodiversità, compromettendo il secolare lavorio di selezione delle varietà
locali e disperdendo esperienze e cultura a esse associate. Le normative
nazionali e comunitarie poi, con l’obiettivo di accrescere la tutela del
consumatore, si sono mostrate sempre più attente nell’individuare profili di
rischio proprio nei prodotti del territorio, nelle lavorazioni manuali e nelle
produzioni di fattura artigianale. L’odierna sopravvivenza di varietà autoctone,
costituenti preziosa risorsa genetica e fondamento della specificità, è per lo
più dovuta a circostanze fortuite, quali l’esistenza di comunità ancorate alle
tradizioni, il loro isolamento geografico e il consumo locale di materie prime
tipiche. In una logica di globalizzazione, la progressiva affermazione di
sistemi di alimentazione e di stili di vita distanti da quelli del passato sta
determinando un certo allontanamento dalla cucina tradizionale - non più
facilmente accessibile sia per i lunghi tempi di processo richiesti sia per i
costi crescenti delle materie prime - e l’introduzione sul mercato di
preparazioni veloci di tipo industriale. Le generazioni più giovani, influenzate
da nuove mode alimentari ispirate a falsi valori di cucina, mostrano crescente
disinteresse verso le tradizioni del passato per avvicinarsi a sapori di dubbia
origine. Il gusto non può che tendere così all’indifferenziato e
all’indeterminato, cioè a quanto di diametralmente opposto si possa concepire
rispetto ai
genuini e raffinati sapori delle “specificità”; i prodotti comunemente
accessibili, a meno di sporadiche eccezioni, presentano gusti del tutto anonimi
e senza particolare attrattiva. Quel rapporto privilegiato che un tempo legava
l’uomo ai prodotti della natura va progressivamente allentandosi per divenire
casuale ed episodico così come, con il venir meno delle opportunità di
affinamento, tendono di pari passo ad affievolirsi le sue abilità discriminanti.
Più di recente comunque, dopo anni
di tendenziale massificazione e appiattimento del gusto, si va lentamente
riscoprendo l’importanza della specificità; la diversità di prodotto o di
processo sta riguadagnando consistenti margini, a motivo sia dei maggiori
livelli di benessere che, specie in Paesi come il nostro, permettono di accedere
ai più elevati prezzi dei prodotti di qualità o di nicchia, sia della riscoperta
di valori culturali e tradizioni capaci di dar vita a iniziative e progetti tesi
alla valorizzazione delle varietà autoctone e al recupero dei sapori del
passato. Sono proprio i valori che in un contesto siffatto possono rivelarsi
strategicamente vincenti: il ritorno a un’alimentazione maggiormente aderente ai
canoni della tradizione richiede sia contributi culturali e conoscitivi a cura
di enti e istituzioni, sia comportamenti individuali possibilmente ispirati a un
consumo “responsabile”, improntato cioè a cautela e oculatezza nelle scelte di
mercato e basato, anche per ragioni salutistiche, su
un’ampia gamma di prodotti con adeguata presenza di specificità. L’auspicabile
diffusione di queste ultime dovrebbe infine promuovere, sotto la spinta della
concorrenza, un deciso accrescimento della qualità complessiva del mercato
alimentare,
in modo da garantire alla generalità dei consumatori concreto riconoscimento del
loro “diritto” al sano piacere della tavola.
di Lejla Sorrentino Mancusi
“È tenera e saporita, adatta a qualsiasi tipo di ricetta”.
Nell’Italia meridionale, ricca di aree paludose e improduttive, alcuni secoli
fa si diffuse l’allevamento dei bufali, ancora oggi concentrati soprattutto in
Campania, nelle province di Caserta e Salerno, dove spesso le acque del Sele e
del Volturno invadono i terreni, ma anche nell’agro pontino in provincia di
Latina e in quantità minore in Calabria, Lucania e Puglia. La presenza di questo
animale si rivelò una risorsa importante per l’economia di quelle zone,
sfruttato sia come animale da lavoro e da latte sia per consumarne le carni.
L’allevamento inoltre non richiedeva particolari accorgimenti o attrezzature in
quanto le bestie erano lasciate allo stato brado in zone inadatte a qualsiasi
coltivazione. Sin da allora con il latte di bufala venivano prodotte ricotte e
provature, di solito sottoposte ad affumicatura per allungarne il tempo di
conservazione. Il pellame dei bufali maschi era utilizzato in Toscana in
attività artigianali tipiche. Animale piuttosto selvatico, la sua fama di
aggressività e ferocia accendeva lo spirito d’avventura dei viaggiatori
stranieri che si spingevano in luoghi impervi del Sud Italia pur di ammirare
paesaggi aspri e incontaminati e di provare il brivido di un incontro a distanza
ravvicinata con le
temibili bestie.
Così Goethe quando si recò a visitare i templi di Paestum: “Passammo per ruscelli e paludi ove dei bufali, che avevano l’aspetto d’ippopotami, ci guardarono fissamente coi loro occhi selvaggi e rossi come sangue”. | |
La presenza dei bufali e i loro molteplici utilizzi sono attestati in Italia sin dal XII-XIII secolo, e diventano sempre più frequenti dopo il XIV. Tra i cespiti elencati nel testamento del padre di Ettore Fieramosca c’era un terreno dove erano allevati bufali. | |
Nel “Libreto de tutte le cosse che se manzano” [1508] di Michele Savonarola, i “buffoli”, pur considerati alla stregua dei buoi, sono classificati “più sechi e più duri assai da padire”. | |
Marco Lastri, ecclesiastico vissuto a Firenze, nel suo “Corso di agricoltura” [1801] annotò: “Migliore assai della carne del bufalo adulto, e positivamente buona, è la carne del bufalotto tenero”. | |
A Napoli, secondo la statistica riportata da Errico De Renzi nel suo saggio “Sull’alimentazione del popolo minuto di Napoli”, nel dicembre 1861 furono macellati 54 bufali e ben 91 nel dicembre 1862. | |
Nel “Breve ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del Regno di Napoli” [1845] di A. Bruni e G. Gasparrini, si legge: “Le carni dei bufoli di un anno sono buone a mangiare, essendo tenere, passato tal tempo sono dure”. | |
Il Presidente Ballarini, nel suo esaustivo “Elogio della carne” [1992] scrive: “Le carni bufaline si differenziano dalle carni bovine per il colore rosso cupo intenso, oltre che per l’aspetto della superficie di sezione che presenta una «grana» più grossolana. È più apprezzata la carne del giovane [annutolo] anche perché meno grassa”. |
Ciò nonostante, sia nei ricettari del passato che in quelli più recenti, la carne bufalina è quasi sempre ignorata, limitandosi a confrontarla con quella bovina, e pochissimi le concedono dignità propria con ricette ad hoc.
Vincenzo Corrado, che non aveva inserito la carne di bufalo ne “Il cuoco galante” [1773], nel successivo “I pranzi giornalieri” [1832] la considerò degna di essere servita alla tavola dei grandi: inserì ben sette ricette e annotò: “Sebbene la carne di bufala non sia da soddisfare ogni palato, il lacerto però, siccome il fegato, la lingua e la zinna, è eccellente”. | |
Alexandre Dumas nel suo “Grand dictionnaire de cuisine” [1873] riporta una bizzarra ricetta ricevuta dallo chef dei Rotschild: “Prendete un muso di bufalo, fatelo spurgare, sbianchitelo e raffreddatelo, poi raschiatelo e fiammeggiatelo per eliminare i peli, infine mettetelo in un buon fondo e fatelo cuocere per tre ore. Assicuratevi di tanto in tanto se si è cotto, poi sgocciolatelo e sistematelo in un piatto cosparso di una buona salsa tritata molto saporita e servite. Si può servire questa pietanza in diverse maniere: sia in cartoccio, alla provenzale, alla marinara, alla lionese, alla tartara, con salsa di pomodori e alla Villeroy”. | |
Nel ricettario francese “L’art de bien manger” [1904] di Edmond Richardin c’è un’altra ricetta singolare da realizzare dopo una battuta di caccia: “Ammazzate un bufalo, sezionatelo, prendetene il filetto che taglierete in fette sottili. Accendete tra due pietre piatte un fuoco di legno resinoso, sistemate al centro una marmitta di campagna che riempirete di vino, condite questo vino di sale, pepe, bacche di ginepro, grani di mostarda e qualche erba aromatica. Tuffateci le fette sottili, fate cuocere per tre ore e servite. Pietanza molto apprezzata dai cacciatori nell’America del Nord”. |
Ancora penuria nei testi del Novecento, ascrivibile all’affinità con la carne bovina e alla difficoltà di reperirla sul mercato.
Tra le rare ricette c’è lo spezzatino di bufala, tipico della zona di Eboli,
ne “La Campania” [1981] di Domenico Manzon. In un libro, che definire insolito
sarebbe riduttivo, “Le ricette dei professori per cucinare le carni italiane”
[1986], dove i professori sono i veterinari e gli zootecnici appassionati di
gastronomia, il prof. Mariano Aleandri, da vero esperto, offre un valido
contributo all’uso della carne bufalina con ricette della cucina popolare
ciociara: arrosto di bufalotto, spezzatino di annutolo, carne di bufalo in
umido. Nel terzo millennio c’è un’inversione di tendenza in Campania, con una
campagna per la valorizzazione della carne di bufalo, iniziata forse per
utilizzare i bufalotti maschi considerati un onere inutile e destinati
a essere soppressi. Di recente sono sorti allevamenti bufalini finalizzati
esclusivamente alla produzione di carni e salumi pregiati, escludendo del tutto
i tradizionali prodotti caseari. Nei ristoranti ubicati nelle aree vocate agli
allevamenti di bufali, gli chef più quotati hanno valorizzato la carne bufalina,
alcuni ne hanno fatto addirittura il fiore all’occhiello dei loro menu con una
vasta scelta di ricette e la moda ha contagiato un po’ tutti gli operatori del
settore desiderosi di offrire novità allettanti ai clienti. Sono stati indetti
concorsi negli istituti alberghieri per premiare la migliore ricetta di carne di
bufalo e sono stati invitati chef famosi per elaborare nuove preparazioni che
abbiano come protagonista questo ingrediente.
Anche la scienza ha dato il suo contributo, elencando le qualità positive della
carne bufalina: è tenera e saporita, è adatta a tutti, soprattutto anziani e
bambini, è tra le carni più magre e leggere, ha bassissimo contenuto di
colesterolo e alti valori di proteine e di ferro, è versatile in cucina, adatta
a qualsiasi tipo di ricetta sia della tradizione familiare che della cucina
innovativa o d’alta classe.
"La regione riproduce le caratteristiche dell’intero Paese, sia per la varietà del territorio sia per il repertorio gastronomico storicamente stratificato"
La “vexata questio” se esista una cucina italiana, o non piuttosto tante
cucine regionali, è affiorata in occasione delle celebrazioni del 150°
dell’Unità d’Italia, che hanno messo in giusta evidenza il non trascurabile
apporto della cucina nel
processo di formazione dell’identità culturale del Paese. È ben vero quanto
afferma Massimo Montanari - “L’Italia delle cento città e dei mille campanili, è
anche l’Italia delle cento cucine e delle mille ricette” -, ma si deve pur
riconoscere che questa pluralità si ricompongono in un grande mosaico di culture
e di cucine, in cui si armonizza una molteplicità enogastronomica, un patrimonio
immenso di conoscenze e di tradizioni, una cucina insieme regionale e nazionale,
una sorta di federalismo gastronomico. E si potrebbe richiamare in proposito la
“Guida gastronomica d’Italia” che il Touring club pubblicò nel 1931, un
repertorio di prodotti e specialità alimentari, un’articolata rilevazione della
pluralità di sapori diffusi sull’intero
territorio. Per usare una significativa espressione di Giovanni Ballarini, “una
autentica unità nella diversità”. La Toscana in questo senso è un caso
esemplare, che riproduce le caratteristiche dell’intero Paese. Anzitutto il
territorio, composito proprio come quello italiano, con aree che vanno dalla
costa ai colli, dalla pianura alle montagne, in particolare con quattro province
affacciate sul Mar Tirreno, e un litorale che si estende per circa 600 km da
Marina di Carrara ad Ansedonia,
dalla foce del Magra a Porto Santo Stefano, con le isole dell’arcipelago.
Proprio questa multiforme realtà costituisce la ricchezza della Toscana e tale
situazione di base non poteva che dar origine a un vasto repertorio gastronomico
storicamente stratificato, con piatti e tradizioni diverse in ogni città, in
ogni paese, in ogni località. Insomma, la Toscana dei comuni, in simmetria con
l’Italia delle regioni. Inoltre, così come lo schema alimentare nazionale
risulta impostato sulla cultura popolare, la cucina toscana, di origine
prettamente rurale, particolarmente attenta all’impiego dei prodotti vegetali (i
toscani “mangiaerba”), che affonda le sue radici nel Medioevo e nel
Rinascimento, marca una profonda continuità con la cucina contadina, nonostante
la coesistenza tra la mensa dei signori, contraddistinta dall’utilizzo della
carne, e la tavola dei ceti inferiori, incentrata sui prodotti della terra. Una
cucina semplice, decantata in “Cucina toscana” da Gustavo Pierotti: “La
semplicità
le è norma prima… E infatti chi non sa ch’essa raggiunge il massimo di effetti,
con il minimo dei mezzi? Essa è modesta e signorile e ricca al tempo stesso;
ricca di sostanza e di sapore e parca di rivestimenti esteriori”. La Toscana ha
anche dato un apporto determinante alla letteratura gastronomica nazionale con
l’opera del “toscano di Forlimpopoli”, ma prima della “Scienza in cucina”,
pubblicata dall’editore fiorentino Salvatore Landi, sono da ricordare “Il
cuciniere italiano moderno” (Livorno 1832), presente nella celebre biblioteca di
piazza D’Azeglio a Firenze, e “Il cuciniere moderno ossia la vera maniera di ben
cucinare” di P. Santi Puppo (Baroni, Lucca 1849). Dopo Artusi, la casa Salani di
Firenze pubblica nel 1905 “L’arte della cucina”, un manuale di 871 ricette, e
nel 1907 una serie di otto volumetti (“Le maniere di…”) di grande successo,
riuniti nel 1923 in un unico volume (“Il cuoco per tutti” di Ettore Grati).
Sempre a Firenze viene pubblicato l’“Almanacco gastronomico” di Jarro
(pseudonimo del volterrano Giulio Piccini), in quattro volumi, e “Cucina
toscana” di G. Pierotti nel 1927. Tuttavia il contributo della Toscana
all’unificazione gastronomica non è solo un fatto letterario. Basti pensare alla
presenza di trattorie e ristoranti in molte città italiane, sotto le insegne di
“Toscana” e “Firenze”, che hanno esportato ovunque la cucina toscana e ne hanno
diffuso nel mondo la conoscenza. Del resto già nel Cinquecento cuochi e
pasticcieri fiorentini al seguito di Caterina de’ Medici, sposa del futuro
Enrico II, influenzarono la cucina della corte di Francia. Per concludere, piace
ricordare l’espressiva sintesi di Orio Vergani: “Ci si riunisce alla milanese;
si mangia alla toscana; si paga alla romana. Perfetta trinità della raggiunta
unità d’Italia”
Di Romolo Ciabatti
“Il pane e il vino dell’ultima cena, sono gli oggetti principali della costruzione metaforica”
La metafora del cibo è una chiave di lettura che rappresenta altresì
l’intelaiatura portante dell’eredità lasciataci nell’ultima cena e va rapportata
alla figura storica di Gesù inserita nella geografia politica del tempo. Egli
operò da ebreo dentro una società ebraica dilaniata da una pan-conflittualità:
socio-politica (Erode e i Romani contro la teocrazia ebraica), socio-ecologica
(città contro campagne), socio- economica (ricchi contro poveri),
socio-culturale (ebrei contro pagani). Fruì di questa tipologia di società per
ottenere, dal confronto di contrasto, valore aggiunto al suo messaggio.
Messaggio che si divulgò successivamente solo nella società ellenico-romana, più
evoluta culturalmente, con maggiori criteri di comunicazione e integrazione,
indispensabili allo sviluppo di un movimento irenico. Gesù preferì muoversi
nella fascia sociale degli sradicati sociali, decise un cammino itinerante, non
prima di recidere la sua rete di protezione affettiva amicale e parentale, e lo
pretese anche dai suoi, tutto al fine di provocare una risposta
dell’interlocutore fuori dai canoni istituzionali, che lo costringesse a due
sole possibilità: accettare o no. La sua azione si colloca tra le pieghe delle
categorie sociali, è “interstiziale”. Inocula criteri nuovi non solo nelle
classi di sradicati sociali, ma anche nelle categorie marginali inferiori e
superiori, socialmente più instabili quando minacciate nei loro averi. Questo
avvalora il significato culturale della sua rivoluzione, che più di ogni altra
destabilizza l’economia dei luoghi. Rivoluzione senza armi. Con assoluta
coerenza antropologica Gesù persevera nel metodo: riequilibra la società
iniziando dagli ultimi. Il luogo privilegiato di insegnamento del Maestro è il
banchetto. Le fonti storiche sono concordi nell’asserirlo e ne contano sette
tipologie in cui Egli si cimenta. Dal Paleolitico, passando per il Neolitico,
l’uomo ha costruito attorno al banchetto il proprio tempio della diseguaglianza.
Nel pasto comune si esprime simbolicamente l’organizzazione sociale e si
influisce su di essa. I presenti, la loro collocazione attorno alla tavola, il
cibo scelto, esprimono l’estrema sintesi del gruppo e delle gerarchie al loro
interno, trasmettendo modelli codificati. Un tempio che l’uomo da sempre ha
edificato mantenendo inalterata la simbologia, un luogo ideale dove il Messia
introdusse il concetto, per contrasto, della “condivisione”. Il tutto sviluppato
sino all’ultima cena dove il banchetto finale è paradigma del regno di Dio. Un
luogo privato di esclusione trasformato da Gesù in luogo aperto di inclusione.
Il valore del cibo e della parola per la comunicazione di Gesù sono
coerentemente avallati dall’importanza dei loro contrari: il digiuno e il
silenzio. Ambedue fruiti in maniera originale nella sua tecnica comunicativa. Il
pane e il vino dell’ultima cena, con il lievito (necessari per entrambi), non
sono semplici simbologie (come l’acqua, il pesce, la carne, la mela) ma gli
oggetti principali della costruzione metaforica. Già dalla preistoria, il primo
ambiente che l’uomo diversificò nelle abitazioni fu il laboratorio della
manifattura e cottura dei cibi. Il pane primo rituale fra tutti. La simbologia
della vite e del vino era ben compresa dagli uomini dei
villaggi in Galilea, che da sempre coltivavano terreni vocati. La simbologia
metaforica di concetti elevati era dunque loro comprensibile. La vite è una
pianta che predilige terreni poveri, pietrosi, drenanti. Cresce in collina, in
montagna, lontano e
vicino al mare. Non sopporta ristagni di acqua, aria umida e stagnante, si
adatta alla siccità. Cresce dunque dove tante piante hanno difficoltà. Ha
l’esigenza di lunghe ore di sole e si adatta alle escursioni termiche notturne.
Produce comunque un frutto, ma per essere pregiato la mano dell’uomo è
indispensabile per arare, potare a secco e a verde, sfoltire i grappoli
eccedenti, curarla dalle malattie. Una mano essenzialmente giusta, sapiente,
piena di abnegazione verso il lavoro, fiduciosa e umile per ottenere il successo
sperato. Dunque la natura dona le materie prime, l’uomo con il suo libero
arbitrio trasforma i doni per costruire la propria vita. La metafora è già
sapientemente impostata.
di Maurizio Pedi
"Il fico è un frutto molto amato, ritenuto, nell’antichità, simbolo di conoscenza e abbondanza"
È bellissimo e particolare l’albero di fico, con i suoi sette, otto metri di
altezza, la corteccia liscia e grigia, e le foglie grandi, a tre e cinque lobi,
spesse e rugose. Ed è forse anche per questa sua così particolare bellezza, che
il fico trova
spazio negli scritti di sommi poeti: Omero decanta i dolci fichi del giardino di
Alcinoo; Dante lo cita nel XV canto dell’“Inferno”, e ne parlano Leopardi e
Pascoli, Torquato Tasso e Pietro l’Aretino. Il fico ha origini antichissime,
certo più antiche del primo uomo, che “biblicamente” per vestirsi ne utilizzò
una foglia. Pare, infatti, che il fico fosse presente già nell’era geologica del
Cretaceo, e lo attestano rinvenimenti fossili in Francia e in Italia, così come
i disegni a ornamento delle piramidi egizie. Proveniente dai paesi
mediorientali, la pianta di fico si diffuse nei paesi mediterranei probabilmente
a opera dei Fenici, e lo fece assai rapidamente, grazie alla sua capacità di
crescere spontaneamente, adattandosi all’ambiente con grande facilità. Nel
secolo successivo all’arrivo di Cristoforo Colombo, approdò anche in America.
Pare che le specie di fichi oggi conosciute siano più di settecento, tutte
raggruppabili in due grandi tipologie: a buccia verde liscia, con polpa
bianco-rossa, e a buccia viola e polpa rosso-bruno. I primi si raccolgono a
maggio e giugno, sono chiamati fioroni e hanno grande pezzatura, mentre i
secondi, più piccoli e più dolci, detti proprio fichi o forniti, si raccolgono
ad agosto e settembre. Tra le maggiori qualità selezionate si trovano il Gentile
e il Columbro bianco, tra i fioroni, e il Brogiotto nero e il Verdesco tra i
forniti. Nell’antichità classica, la pianta di fico, e i frutti che donava,
ebbero enorme importanza, e in taluni casi, assurti a simbolo di conoscenza e
abbondanza, furono considerati addirittura sacri. La “Bibbia” cita il fico
innumerevoli volte. Nel libro IV dei “Salmi”, tra le piante colpite dal flagello
della grandine che Dio mandò in Egitto, si ricordano vigne e fichi. Sotto il
regno di David, Balanon reggeva il dicastero per gli ulivi e i fichi. Il
“Corano”, parimenti, nomina il fico con rispetto. La sura XCV, detta proprio
“del fico”, inizia con l’invocazione “Per il fico e l’olivo…”. E si narra che
sotto una pianta di fico si trovasse Buddha al momento dell’illuminazione. Certo
è che gli orientali non ponevano dubbi sul potere energetico dei frutti, tanto
che gli atleti, in particolare, ne facevano largo consumo, certi di mantenere,
forse anche per appoggio divino, alta la performance. Grande consumo di fichi si
attesta anche nella Grecia antica, i cui abitanti ne erano talmente ghiotti da
proibirne l’esportazione e da affidare il controllo e il rispetto di tale veto a
un funzionario preposto, il sycophanta. Tra i consumatori più illustri si
annoverano Platone, soprannominato il mangiatore di fichi, Democrito, che pure
li amava molto, e Zenone, per il quale pare che i fichi fossero, addirittura,
“l’unico cibo”. Ai tempi di Omero, il fico era particolarmente amato anche
perché il suo lattice era l’unica sostanza nota per far cagliare il latte.
Nell’antica Roma, l’amore per il fico, e la convinzione della sua sacralità,
nacquero in seguito al racconto che all’ombra di questa pianta si rinvenne la
lupa che allattò Romolo e Remo. Successivamente ricordandolo per essere stato il
primo a fornire all’umanità cibo, l’albero di fico fu dedicato a Rumina, dea
dell’allattamento, simbolo e fonte di prosperità. Il suo frutto fu considerato
anche dono di Cerere, dalla quale si invocava la protezione del focolare
domestico. Leggenda vuole che, quale segno di buon presagio, vi sia stata anche
l’improvvisa, spontanea e miracolosa comparsa di un fico nel foro romano. Si
narra anche che l’imperatore Traiano proteggesse i fichi nella ferma convinzione
che lasciarli inaridire portasse male, e che Catone il Censore, in
considerazione dell’importanza che soleva darsi al frutto di fico, abbia
simboleggiato proprio con esso la necessità di riprendere la
guerra tra Roma e Cartagine. I patrizi romani, infatti, gustavano molto i fichi,
e li amavano. Mangiafichi (“ficus edit”) si diceva di una persona panciuta di
classe agiata, leggendo in tale ironica locuzione anche un’effettiva fiducia
nelle virtù
nutritive del frutto. Virtù che sempre Catone chiaramente sottolineava quando
scriveva che agli schiavi nella stagione dei fichi “il pane andava ridotto a una
libbra”. Anche nelle “Metamorfosi” di Ovidio compare il fico, quando sulla mensa
di Filemone e Bauci, al momento della frutta, i fichi secchi si uniscono alle
mele odorose. E pure nella Pompei “prevesuviana” il consumo dei fichi era
considerevole, come dimostrano facilmente le numerose raffigurazioni dell’epoca
e come, più tristemente, attestano i frutti carbonizzati presenti nel Museo
archeologico nazionale di Napoli, a memoria della furia terribile scatenatasi
dal vulcano nel 79 d.C. In sintesi, si può certo affermare che nell’antichità
solo la vite si ricordava
più del fico. I fichi venivano consumati non solo come frutto ma anche come
antipasto, serviti e insaporiti con sale, aceto e “garum” (specie di salsa al
pesce, molto usata dai Romani). E si pensi addirittura che, durante la
prosperità imperiale, Marco Apicio, contemporaneo di Augusto, ingrassava i
propri maiali con fichi secchi, dissetandoli con vino, e cuocendo poi i loro
prosciutti in un particolare brodo, anch’esso di fichi secchi, aromatizzati con
alloro. In effetti, all’epoca, il succo lattiginoso
del fico era noto ai cuochi come “inteneritore”, poiché le diastasi che contiene
esercitano una vera predigestione delle carni dure. Vivendo quindi in una sorta
di delirio gastronomico di fichi, sempre Apicio nel “De re coquinaria”, quale
salsa per condire le polpette di pavone, propone lo sciroppo di fichi, ancor più
buono, dice, se fatto con i fichi della Caria, gli stessi esaltati da Plinio,
che i Romani chiamavano “colore”. Per poterne consumare sempre, i Romani usavano
essiccare e conservare i fichi in molti modi. Columella ne riporta alcuni nel
XII libro del “De re rustica”. Si ricorda, tra tutti, il sistema di
“impacchettarli”, previa essiccazione e pigiatura umana (“pedibus lotis”), in
recipienti di terracotta, mescolandoli a semi di anice e finocchio. Anche la
Scuola medica salernitana dedicò al fico la propria attenzione, sostenendone le
proprietà curative: “Scrofa, tumor, glandes, ficus cataplasmati cedunt” infatti
si scriveva (le scrofole, e le glandole i tumori, con gli empiastri di fico
guariscono). Come avevano già compreso gli antichi, il fico è certo frutto
energetico e, come con maggior consapevolezza possiamo asserire oggi, contiene
vitamine A, B, C, ferro, nichel, manganese e potassio. Ha inoltre proprietà
emollienti, espettoranti, lenitive ed è di ausilio contro la carenza di calcio.
Le gemme della pianta sono ricche anche di enzimi digestivi utili contro la
sonnolenza post prandiale. Mangiando fichi, quindi, si fa il pieno di vitamine e
sali preziosi per il nostro organismo, e se freschi, si incamerano anche meno
calorie di quanto comunemente si pensi: circa 50 Kcal per 100 grammi, calorie
che invece si moltiplicano di almeno 5 volte se il fico è secco, e ancor più, se
è ripieno di mandorle, noci, cioccolato e caramello. In cucina, oggi più di
ieri, i fichi vengono adoperati con meravigliosa fantasia, non più unicamente
nei dolci e nelle confetture, bensì anche negli antipasti, in sodalizio non solo
con il gustoso prosciutto o il nobile culatello, ma anche con diversi formaggi,
con la mousse di pomodori secchi e persino con alcuni carpacci di pesce. Tra i
primi piatti con i fichi ricordiamo il risotto, mentre tra i secondi gli
innovativi e ottimi modi di proporre la sempre squisitissima cacciagione. Non si
può chiudere il discorso sul fico senza ricordare che questo frutto, dopo la
fermentazione (in Oriente è pratica seguita), dona un vino (la Sycita di Plinio)
dalla cui distillazione si ottiene poi una grappa di qualità, con cui ben
potrebbe chiudersi un pranzo al fico. E come l’alloro, albero amato da Apollo,
anche il fico non è mai colpito dal fulmine. Lo si pianti dunque in vicinanza
delle case, oltre che per la sua bellezza e i suoi frutti miracolosi, anche per
difenderle dalle saette durante i temporali, raccontando a chi lo ammirasse che
per i Celti era l’albero della pace e dell’abbondanza.
di Amedeo Santarelli
"È il prodotto base per le famose olive farcite, ma oggi rappresenta una quota quasi irrilevante del totale di olive utilizzate"
Nella letteratura gastronomica rare sono le occasioni in cui si tratta di
oliva tenera ascolana, in quanto se ne parla quasi esclusivamente in riferimento
a una sua preparazione: l’oliva ripiena. Nulla si cita quanto alle proprietà
soprattutto organolettiche specifiche di questa varietà d’oliva, detta anche
“gentile”. Le olive da mensa non sono un generico prodotto alimentare standard.
Esse presentano una vasta gamma di varietà che danno alle pietanze gusti e
sapori diversi. In questo ampio panorama di produzione, l’oliva tenera ascolana
si caratterizza per le sue intrinseche qualità di consistenza e gusto e anche
perché è una produzione che viene da lontano, molto lontano nel tempo. La
coltivazione dell’olivo nel territorio piceno risale ai Fenici e ai Greci. La
selezione della varietà da mensa - oggi conosciuta appunto come “oliva
tenera ascolana” - è avvenuta nei secoli e già dai tempi di Roma antica
essa era nota e apprezzata. Marziale, in un epigramma, critica un tal Mancino
per la grossolanità dei suoi banchetti, in cui, tra le varie prelibatezze che
mancavano, sottolinea l’assenza di “olive picene”, mentre, in un altro
epigramma, accenna all’oliva picena come stimolatore di appetito o aperitivo.
Plinio, nella sua “Naturalis historia”, sottolineava che a tavola le olive
picene e sidicine erano sempre al primo posto. Lo stesso Plinio riteneva che le
olive eduli avessero proprietà terapeutiche contro i calcoli renali e la carie
dentaria. Papa Sisto V introdusse l’oliva ascolana sulle mense vaticane
facendola venire dal Piceno, sua terra natia. Questi brevi riferimenti storici
vogliono sottolineare che l’oliva ascolana è una realtà produttiva dalla storia
millenaria e ha un’affermata tradizione nella preparazione
dell’oliva verde in salamoia e dell’oliva ripiena all’ascolana. Le olive verdi
raccolte a inizio autunno hanno come destinazione prima la deamarizzazione che
le rende eduli e commercializzabili al grande pubblico. La tradizionale
procedura di deamarizzazione, in uso sino all’inizio del secolo scorso, era
basata sull’utilizzo del “ranno”: “In tini di legno, a temperatura ambiente, si
pone acqua di fonte in cui viene immerso un sacco di iuta o canapa o cotone
contenente un miscuglio composto da quattro parti di cenere e una parte di calce
in polvere... Il sacco con cenere e calce è tolto e la soluzione è versata in
altro tino ove si erano preventivamente collocate le olive da trattare... Quando
la polpa si presenta ingiallita per 2/3 del suo spessore le olive si tolgono dal
ranno... il tempo di «concia» per la Tenera è di 10 ore”. Il prodotto ottenuto è
di gusto gradevole ma di limitata conservazione. Il metodo descritto è empirico
e veniva usato nel passato a livello familiare e artigianale.
L’industria moderna utilizza per la deamarizzazione una soluzione di soda Solvay
(70% di purezza) in acqua fredda, quindi le olive vengono sciacquate
ripetutamente. Per ovviare all’inconveniente che eventuali residui di soda
possano dare luogo a
fermentazioni dannose, l’industria ricorre a salamoie di conservazione con alti
contenuti di cloruro di sodio. Una parte importante di olive in salamoia è
destinata alla produzione di olive farcite all’ascolana, il prodotto principe
della tradizione cucinaria picena, che ha il pregio di conservare, dopo la
frittura, quel lieve sapore di amarognolo proprio dell’oliva ascolana tenera. La
farcitura (un miscuglio di carni bovine e suine con uova e formaggio
grattugiato) deve essere non dominante e quantitativamente moderata. Oggi,
tuttavia, il prodotto di base non è più quello tradizionale: si tratta di olive
verdi importate, le cui proprietà organolettiche non corrispondono a quanto la
ricetta di base esige. L’uso di olive ascolane per la farcitura rappresenta
attualmente una quota quasi irrilevante del totale di olive utilizzate. Al fine
di ripristinare la vera qualità da garantire al consumo dell’oliva ascolana in
salamoia e ripiena, dopo lunghi anni di lavoro generoso e coraggioso
di pochi, il prodotto ha ottenuto già da qualche anno la Dop, il cui
disciplinare ha stabilito le condizioni da rispettare a livello sia agricolo che
industriale per produrre olive ascolane verdi, in salamoia e farcite.
di Francesco Lucidi
"Il nome di Marano risveglia profumi di saporitissimi piatti con i prodotti della caccia e della pesca"
Una macchia di colore quanto mai suggestiva, nella variopinta tavolozza delle
preziose tradizioni friulane, è Marano Lagunare, ove ti accorgi subito di quanto
di veneto, anzi di veneziano, ci sia, di quanto di diverso dal resto
dell’entroterra e dalla costa orientale regionale. Del resto non va dimenticato
che a Marano vige tuttora il detto “Se non ghe fusse Venèsia, Maràn saria
Venèsia”. Lo stesso impianto planimetrico dell’abitato maranese presenta
linee del tutto particolari: osservando i rilevamenti di alcuni centri
dell’estuario occidentale, eseguiti nei primi dell’Ottocento - di Caorle e di
Chioggia, per esempio - balza subito all’occhio un’identità del sistema
urbanistico, con un’unica strada principale (a Marano: via Sinodo, probabilmente
l’unico accesso al paese), dalla quale si dipartono diverse calli. Venendo alla
cucina, il nome di Marano risveglia suggestioni, profumi, degustazioni di
delicati, robusti, saporitissimi piatti, legati a un calendario cui i maranesi
hanno dovuto attenersi per necessità più che per vocazione, siano essi
pescatori, siano essi cacciatori. Per quanto riguarda la caccia, va detto che la
selvaggina di valle era tanto preziosa già ai tempi della Serenissima durante i
quali, secondo un’antica usanza (decreto del 1273), venivano donate prima di
Natale, il giorno di Santa Barbara, a tutti i patrizi che avevano diritto di
voto al Maggior Consiglio, cinque oche palustri dette volgarmente oche
selvatiche (“osele dai pie rossi”), prelevate
dalle valli di Marano, come corrispettivo per alcuni privilegi di caccia
concessi in quelle valli. L’usanza rimase valida fino alla caduta della
Repubblica veneta, pur subendo nel tempo alcune varianti. Ma sicuramente Marano
è maggiormente legata alla cucina del pesce. Tanto pesce e di qualità: “bisati”,
per San Michele quando monta lo scirocco e lasciano il letto di limo nella
frenesia della fecondazione; “scievolame” (cefali pescati d’estate
di giorno e di notte, ma il momento migliore è intorno a San Jacun, nelle due
versioni di “spadòn” e “bòsighe”, da prepararsi
bollita la prima, ai ferri o al forno la seconda), l’“otragàn”
dalla polpa abbastanza grassa, con la caratteristica macchia gialla, catturato
normalmente entro il primo anno di vita; il “passarìn”, l’“orade”,
il “branzìn”, il “romp”, oltre che “lis capis
tarondis”, “lis capis defiàr”, “lis capis lungis”,
“lis masanetis”. Pesce e piatti tradizionalmente condizionati dal
fatto che la comunità maranese era portata a migliorare le proprie condizioni
economiche, destinando alla vendita, soprattutto sul mercato udinese, il
prodotto migliore e lasciando per sé quello di minor pregio. Circostanza che,
peraltro, ha dato origine a piatti con intelligenti accostamenti di aromi che,
lungi dall’alterare i profumi del mare, aggiungono loro un leggero tocco di
signorilità. Gran protagonista in tempo d’inverno, soprattutto nelle acque
lagunari più basse e nei fondi argillosi, è il popolarissimo “go”,
ingiustamente considerato un pesce umile, anonimo, forse perché facile a
disfarsi. In realtà è di grande validità gastronomica. Testimonianze storiche al
riguardo si rifanno agli “Epigrammi” di Marziale (XII, 88). Vanno ricordati
anche i riferimenti storici di Bartolomeo Scappi, cuoco di papa Pio V, con
sicure influenze venete, ancorché nativo di Dumenza di Luino, autore nel 1570 de
“L’arte del cucinare” dove si legge, tra l’altro, che “il gho è un
pesce tondo et liscio senza scaglia e tira al colore leonato… Se ne pigliano
molti tra
Chiozza e Venetia… Vuol essere cucinato fresco perciochè presto si corrompe. Li
pescatori da Chiozza et Venetiani li cuociono alla bragie et anco ne fanno
potaggio con malvagia et acqua, et un poco d’aceto e spetierie veneziane, e si
friggono in olio et si servono caldi con sugo di melangole sopra”. Si
ricordi pure il libro del Bellemo “Il territorio di Chioggia” del
1893, ove si scriveva che “i ghiozzi ebbero tal favore prima dell’era volgare
che, come oggidì si principiano i pranzi con le ostriche, così in antico
principiavano i banchetti di ghiozzo”. Il “go” lagunare è
stato oggetto di protezione fin dal 1559, quando si proibisce “a pescar di
giorno, di notte da Pasqua granda sino a Pasqua di marzo con i cogoli per le
rive, acciocché le "goate" (femmine piene d’uova) convengono con questi
cogoli pigliar e non possano moltiplicar, acciò siano conservai li nidi che in
detti tempi si fanno per la moltiplicazione di tal sorta di pesci”. Divieti
ribaditi anche negli anni successivi, così come nel
regio decreto del 1882 con il quale si stabilì la misura minima per la pesca dei
“go”, fissata in 12 centimetri. Per il suo sapore caratteristico e
intenso il “go” è molto reputato a Marano. Notissimo è il “boreto
de go”, chiamato un tempo il piatto dei poveri (non si deve pensare che
“boreto” o “brodeto” richiami qualcosa di brodoso),
che si cucina comunemente così: si imbruniscono nell’olio di semi di girasole
due spicchi di aglio; si rosolano lentamente, nel lavezzo di terracotta, “go”
di media pezzatura (in inverno, trovando maggiori difficoltà di alimentazione,
risultano meno grassi. Si tratta anche di “go de mar”, quelli di
non più di 25 centimetri di lunghezza che amano il mare aperto).
Successivamente, si sala e si aggiunge un pizzico di pepe; si bagna con aceto e
vino (mai con l’acqua!). Si cuoce a fuoco basso finché il sugo non abbia
raggiunto una certa densità, cioè sia diventato stretto e appiccicoso. Si serve
bollente con polenta gialla e rigorosamente senza pomodoro. Il
piatto originale si fa risalire, infatti, a prima della scoperta dell’America.
Da tale “boreto”, passato al setaccio, si ricava la base per uno fra i più
tipici e prelibati risotti (“risoto de go” ovvero “risoto
del re”), che si prepara secondo una ricetta abbastanza corrente, anche
se un po’ laboriosa. Con l’aggiunta di un brodo di fagioli nostrani, cotti e per
la metà setacciati, di un pugno di riso di Fraforeano e di un’abbondante croce
di olio di semi di girasole, il “boreto” passato al setaccio si
trasforma anche in una “mignestre magre”, molto appetitosa e
apprezzata nei paesi dell’immediato entroterra. Inoltre, entro 24 ore dalla
pesca - perché si dice che “il pesce ha ventiquattro virtù e ne perde una
l’ora” - i “go” vengono preparati usualmente (con abbondanti
dosi di olio, prezzemolo, pepe, sale) anche su “la gredela”, che
non deve mai venir lavata, ma rivitalizzata con il fuoco di “grisiòi”
ormai inservibili perché rosi dalla salsedine. Unitamente allo “scievolame” e al
“bisato” - comunque al pesce che non può venir venduto, perché
rotto, di piccole dimensioni, di scarsa qualità -, ponendo attenzione ai vari
tempi di cottura del pesce - a partire dal soffriggere quelli a polpa più
consistente e, a seguire, gli altri a cottura
più veloce - i “go” sono ingredienti di base per la rinomata “sopa
de pesse de Maràn”. In particolare i “go” conferiscono a
questo brodo il tipico colore verde-marrone; per goderne appieno, lo si deve
consumare con crostini di pane raffermo e tostato (eventualmente profumato
d’aglio) o con l’aggiunta di una manciata di riso. La caratteristica del piatto
è di essere assolutamente senza spine. Va detto in proposito che è senz’altro
frutto di fraintendimento il corrente quanto superficiale paragone tra questa “sopa”
e la ben più famosa bouillabaisse marsigliese, che da un lato si presenta con
pezzi di pesce stufati, affogati nel brodo cremoso, dall’altro utilizza invero
anch’essa teste e lische, ma si rifà all’impiego di ingredienti del tutto
sconosciuti a Marano come bucce di arancia, stimmi di zafferano, semi di
finocchio e soprattutto pomodoro o passata di pomodoro, come noto mai entrati
stabilmente nell’uso alimentare del litorale friulano.
di Pietro Adami
"Le indagini botaniche di Giuseppe Marzari (1779-1836) sfociarono nella proposta di raccogliere e coltivare il lichene come integratore della dieta delle popolazioni della montagna veneta esposte alla carestia"
Per le nuove generazioni il rischio di una globalizzazione e omologazione
fuori controllo è anche quello di un appiattimento culturale gastronomico, che
potrebbe portare alla perdita dei valori di secolari tradizioni alimentari del
nostro Paese. Come
quella dell’utilizzo alimentare delle piante spontanee, delle erbe dei campi, di
cui si occupano più discipline scientifiche sotto la bandiera della “alimurgia”
(termine coniato nel 1767 dal naturalista toscano Ottavio Targioni Tozzetti
fondendo le parole “alimenta” e “urgentia”, a significare provvedimenti basati
sull’utilizzo della flora selvatica spontanea per far fronte a carestie
alimentari). Riferendo dei pregi gastronomici e terapeutici attribuiti dalle
popolazioni rurali a piante come il raponzolo (Campanula rapunculus), il dente
di leone (Taraxacum officinale), il rosolaccio (Papaver rhoeas) si potrebbero
riempire volumi e volumi, ma, qualche volta, antichi tentativi di valorizzare -
sotto il profilo nutrizionale - piante spontanee “minori”, sfuggono agli onori
delle citazioni. Come per il curioso caso del lichene islandico, o “muschio
d’Irlanda” o “lichene artico” (Cetraria islandica). Correva l’anno 1801. Durante
la carestia che aveva colpito le popolazioni della montagna veneta, il conte
Giuseppe Marzari Pencati, insigne geologo e naturalista, avviava -
sull’Altopiano dei Sette Comuni (oggi più noto come Altopiano di Asiago, dal
nome del suo principale centro) - un’affannosa serie di esperimenti sulle piante
indigene “che potrebbero riuscire d’un grande soccorso agli abitanti de’
villaggi sottoposti alle regioni alpine”. Sulla base delle testimonianze
sull’uso popolare del lichene islandese come alimento, presso le popolazioni del
Nord Europa, anche il Marzari volle cimentarsi alla bisogna utilizzando il tallo
delle piante più giovani. Inizialmente seguì il metodo dei lapponi “per
spogliarle del principio amaro”: una prolungata ebollizione nell’acqua. Il
lichene, così purgato, “accomodato in tecchia con un po’ di
burro e della cipolla” risultò gradevole all’assaggio, con un sapore simile a
quello della cicoria. Alla ricerca di un metodo di lavorazione che incidesse
meno sui valori nutrizionali del lichene, Marzari volle sperimentare la tecnica
in uso presso gli islandesi: una semplice digestione, per più giorni, in acqua
fredda. Migliori i risultati, e tali da suscitare l’entusiasmo degli abitanti di
Campo Rovere, che dopo un pubblico assaggio di lichene in padella con burro e
cipolla ”non finivano d’esternare meraviglia per aver fino allora ignorato l’uso
di una pianta sì comune fra loro, e che trovavano ottima”. Qualche
intraprendente massaia ne sperimentò l’utilizzo in minestra (con il latte a
neutralizzare completamente il sapore amaro), in insalata (lessato e condito con
olio e aceto) e persino come dessert (fatto bollire con uva passa, cannella,
vino bianco e zucchero). L’entusiastica attività del Marzari non godette
purtroppo del dovuto apprezzamento da parte delle autorità scientifiche
dell’epoca. Critiche, se non ostili, le relazioni scritte dalla Commissione
dell’economia alimentare del Lombardo-Veneto, che a fronte di una presunta,
eccessiva lunghezza della digestione in acqua fredda proposta dal conte
vicentino, e di conseguenti danni sui valori nutrizionali del lichene,
mostravano una più entusiastica attenzione verso i più rapidi metodi di
purificazione chimica proposti, in Svezia, da Westring e Belzelius. Antesignano
propugnatore della difesa degli alimenti da ogni possibile rischio da residui
chimici di trattamenti tecnologici, Marzari si affannò a dimostrare le
conseguenze negative, per la salute dei consumatori, dei residui della
lisciviazione con potassa caustica (idrossido di potassio), ma con poca fortuna.
Indirizzando a sua eccellenza Pietro conte di Goess la sua risentita e polemica
“Memoria sull’introduzione del lichene islandese come alimento in Italia”
(apparsa solo nel 1815 a Venezia), rivendicando il merito di essere stato “il
primo che abbia introdotto in Italia questo vegetabile ad uso alimentare pegli
uomini”, Marzari chiuse praticamente le sue interessanti ricerche.
di Giancarlo Burri
"Meno noto di quello del 1846 è il testo del 1851 dedicato alla cucina casalinga, sana ed economica"
I cultori della gastronomia storica che hanno consultato il testo di
Francesco Chapusot (1846) “La cucina sana, economica ed elegante secondo le
stagioni”, diventato accessibile grazie alla ristampa anastatica con
l’esaustivo saggio del prof. Milo Julini, saranno sicuramente sorpresi e
incuriositi dalla prossima ristampa anastatica di un testo successivo dello
stesso autore, pressoché sconosciuto: “La vera cucina casalinga sana,
economica e delicata”, edito a Torino nel 1851 dalla tipografia Botta e che
conosce una terza ristampa nel 1855 con la tipografia torinese Luigi Conterno.
L’autore, nato a Plombières-les- Dijon nel 1799, è stato capo cuoco di Ralph D’Abercromby
(ambasciatore d’Inghilterra a Torino) dal 1841 al
1851. La sua professione gli ha permesso di conoscere tutta l’aristocrazia e la
migliore borghesia della città, una situazione privilegiata che lo induce a
pubblicare, dopo il primo ricettario “elegante”, il secondo testo citato,
rivolto questa volta a un pubblico più modesto, quello che incontra abitualmente
nelle strade, nei mercati; si tratta sempre comunque di borghesia in grado di
leggere e di acquistare un libro di cucina. Con la pubblicazione del nuovo
ricettario l’autore non rinnega il suo recente passato di cuoco d’élite, ma vi
traspare invece il desiderio di proiettarsi nella realtà quotidiana, più vicina
alla maggior parte della popolazione (benestante). Anche in quest’opera Chapusot
continua a stupirci per l’attenzione ai problemi economici, sociali e di
organizzazione nello specifico campo professionale; egli tratta in modo chiaro e
innovativo il proprio punto di vista su diversi aspetti relativi alla cucina: “La
cucina per servire bene al suo ufficio deve essere comoda, cioè di facile
pratica, sana, chiara, ariosa, e composta se si può di due camere, una pel
fuoco, l’altra per la dispensa”. “Io raccomando soprattutto la nettezza,
come nella cucina, così nella dispensa”, "e per la buona preparazione e
il sapor sincero, e per la perfetta conservazione dei cibi”. In questa
succinta rassegna riesce a coinvolgere l’attenzione sull’ambiente, i mobili, gli
utensili e il personale di cucina, poi l’insegnamento continua fino alla
descrizione nei minimi dettagli dell’attrezzatura per tagliare e cucinare: “mannerino
per gli ossi, coltellaccio forte, trinciante ben affilato, coltellino da mondare
i legumi, "casseruole quante ne son di bisogno, se di rame, ben stagnate ad
evitarne l’ossido sì pernicioso”. “Nettezza, lindura, ordine, io non
raccomanderò mai abbastanza queste belle doti alla donna massaia, alla cuoca di
famiglia, al cuoco delle grandi case”: con questa raccomandazione ci rivela
indirettamente quali sono gli interlocutori ai quali rivolge il suo nuovo testo
di cucina. Un coraggioso discorso controcorrente è rivolto anche alla natura del
cibo, che non deve essere scelto per soggiacere alla moda, piuttosto la scelta
deve essere indirizzata verso la qualità e la freschezza: “Meno ancora io
concepisco il pregiudizio della necessità di un pezzo di storione per un pranzo
d’impegno. Lo storione si vanta a cielo non per altro che nel suo prezzo,
accessibile soltanto ai ricchi; ma per me sarà sempre un pesce men che mediocre”.
Chapusot fornisce inoltre intelligenti
indicazioni a cuochi e cuoche per utilizzare prodotti del territorio, i più
facilmente reperibili, i più conformi a tradizione e gusti, sia personali che
locali: “Tali sono specialmente il burro, l’olio, il lardo, la sugna o il
grasso dolce di porco, i vari formaggi che possono all’uopo avvicendarsi e
sostituirsi l’un l’altro”. L’autore dà molto importanza nelle
preparazioni di cucina all’aspetto salutare, che risulta infine l’argomento
principale; le regole vengono sintetizzate in tre fattori: bontà intrinseca
del cibo, assoluta pulizia dello stesso e semplicità della
preparazione, regole fondamentali per arrecare “salute, giovialità ed
energia” anziché trasformarsi pericolosamente in veleni. Molta importanza
riserva all’aceto: “In un paese vinifero quale è il Piemonte, io sono per
vero dire meravigliato come vi si abbia tanta difficoltà per trovare buon aceto”,
per cui consiglia di farlo personalmente in casa con un botticino di rovere.
Trattando delle paste giudica che “i maccheroni
di Napoli sono tra le specie la migliore così pel loro gusto, come per la loro
fermezza, non disfacendosi essi nella cottura”. La sua è una lezione di
apertura mentale nell’applicare le ricette proposte nel libro, consigliando di
utilizzare i prodotti di ogni regione: “Hanno le varie contrade i loro
prodotti particolari eccellenti nella loro specie, con cui si possono eziandio
supplire occorrendo ad altri più o meno indispensabili in cucina”. Consiglia
di tener conto anche di prodotti meno
conosciuti, sempre di buona qualità, e fornisce anche una lezione di economia
domestica suggerendo l’utilizzo degli avanzi: “Si può trarre ottime insalate
da un pezzo di lesso, eccelse frittate o palline di carne con gli avanzi di
arrosto o dalle carni stufate, anche i legumi possono rivitalizzarsi in puree,
frittelle, flan”. Fa eco a questa economia, la saggezza nella spesa, con
l’attenzione dell’acquisto giornaliero per evitare l’eccesso di alimenti che
facilmente potrebbero guastarsi. Il libro di Chapusot è rivolto soprattutto alla
“buona massaia”, più raramente egli si appella ai cuochi, e si
caratterizza per un aspetto non riscontrabile in altri testi dell’epoca: egli
traduce sistematicamente in piemontese il nome degli alimenti, quello
degli utensili di cucina, il modo di cucinare, i nomi delle preparazioni
cucinarie. La sua lodevole iniziativa è ben comprensibile in quanto la lingua
parlata dalla popolazione (cui è rivolto il suo ricettario) era esclusivamente
il piemontese. Nel descrivere le numerose ricette, che naturalmente spaziano
dalle minestre ai sughi, dalle carni alle verdure, dai pesci ai dolci, Chapusot
per ogni preparazione esprime in modo significativo il proprio giudizio,
fornendo anche una valutazione finale
del piatto, sia sotto l’aspetto visivo sia sotto quello salutistico, dimostrando
un’attenzione di fondo per la qualità degli alimenti, per la loro cottura, per
il benessere dello stomaco, non trascurando i dettami religiosi per i giorni di
magro. Il testo di Chapusot è innovativo per il suo tempo, sia per la riduzione
nella quantità dei servizi, “tre o quattro messi semplici”, sia per l’attenzione
alla spesa; egli auspica con grande anticipo la nascita di scuole di cucina per
migliorare la categoria professionale, non soltanto per le cucine aristocratiche
ma soprattutto per quelle borghesi.
di Domenico Musci