Articoli interessanti per approfondire temi inerenti la cucina. [Rubrica quidicinale]
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"La nocciola è apprezzata da migliaia di anni, ma il suo successo gastronomico è iniziato solo a metà Ottocento"
Fra la frutta secca la nocciola va considerata una “superstar”: è dotata di
caratteristiche importanti dal punto di vista sia alimentare che gastronomico.
Già nell’antichità fu apprezzata come nutrimento dai nomadi raccoglitori di
frutti selvatici.
Costoro, dopo aver osservato nei boschi la preferenza ottenuta dagli scoiattoli
e dai ghiri, vollero gustare il frutto ricercato da questi ghiotti consumatori.
Non solo: gli attribuirono caratteristiche “magiche”. Galeno consigliava un
impasto di nocciole, fichi secchi e ruta per guarire dai morsi degli scorpioni e
dei serpenti. Le fattucchiere consigliavano di appendere al collo, con seta
rossa, delle nocciole riempite di argento, per difendersi dalla peste. Angelo De
Gubernatis, docente di
sanscrito e mitologia comparata all’Università di Firenze, a fine Ottocento
diceva che tanto potere deriva dal fatto che la nocciola ha delle somiglianze
con la luna, sempre ritenuta misteriosa. Oggi si sa che la nocciola secca
effettivamente è dotata di un alto valore energetico perché ogni 100 g danno
circa 655 calorie. È stato dimostrato che il consumo regolare di nocciole
(almeno 25 g al giorno, per 7 volte alla settimana) aumenta i livelli di
colesterolo Hdl (quello buono) e abbassa quello Ldl e i trigliceridi, riducendo
il rischio di malattie cardiovascolari. Questo perché la frazione lipidica è
costituita per oltre il 40% da acidi grassi monoinsaturi (come l’acido oleico) e
presenta il più alto rapporto monoinsaturi/polinsaturi rispetto
all’altra frutta secca. Bisogna però sottolineare che il successo della nocciola
nel mondo della gastronomia è dovuto al matrimonio con il cacao, che
inizialmente fu un matrimonio di convenienza. A metà Ottocento il prezioso “oro
bruno” proveniente dalle Americhe costava un occhio della testa ed era di
difficile reperimento. Due artigiani torinesi, Michele Prochet e Pierre Paul
Caffarel, ebbero un’idea vincente. Miscelarono la pasta di nocciola piemontese
facilmente reperibile nelle Langhe (provincia di Cuneo) con cacao e da questo
connubio nacquero i famosi cioccolatini “gianduiotti”. Correva l’anno 1865. Va
detto che ai primi dell’Ottocento erano fabbricati in Torino delle pastiglie al
cioccolato chiamate “diablotin” e i “givu” (in
dialetto piemontese significa cicca o mozzicone) che ebbero molto successo.
Questi prodotti furono gli antesignani del cioccolato in forma solida: sino a
questa data il cioccolato veniva gustato come bevanda. Inoltre, si vendevano
delle nocciole arrostite in tavolette che erano apprezzate da molti buongustai.
Il prodotto dei due artigiani torinesi ebbe subito un grande successo e Gianduja,
la maschera dei clamorosi carnevali torinesi di un tempo, va ad assaggiare
questa nuova squisitezza e con grande solennità decide di dargli il suo nome.
Strano destino quello delle nocciole: passa un secolo e pochi anni or sono un
altro industriale dolciario piemontese, Pietro Ferrero, ripropone ad Alba, in
provincia di Cuneo, l’aggiunta di pasta di nocciole al cacao, in forma
spalmabile, e ha uno strepitoso successo in tutta Europa e nel mondo. Nasce una
gamma di prodotti a base di cacao purissimo e nocciole (in inglese si dice “nut”):
Nutella, cioccolato Duplo, Rocher e altri prodotti perfezionati dall’inventiva
del figlio del fondatore dell’industria suddetta, Michele Ferrero. Il successo
dei prodotti dolciari a base di nocciola e cacao fu dovuto al particolare aroma
della varietà di nocciolo coltivato in Piemonte, definita “Tonda, gentile,
trilobata”, la cui produzione è concentrata nelle province di Cuneo, Asti e
Alessandria, in un areale compreso tra le colline delle Langhe, del Roero e del
Monferrato. La nocciola piemontese è l’unica Igp. Ormai non si contano più le
specialità dolciarie che contengono nocciola e cacao: citiamo il “cremino Fiat”
della Majani, il “bacio” Perugina, le noccioline di Chivasso, il gelato alla
nocciola e al torroncino, il torrone di Gallo d’Alba, la squisita torta di
nocciole. E infine, se andate ad Alba, nelle Langhe, o in ristoranti qualificati
nella cucina piemontese, richiedete la carne cruda di vitella fassone tagliata o
battuta a coltello, condita con olio di nocciola. Una bontà.
di Renzo Pellati
"Testimonianze delle proprietà curative e ristoratrici dell’aceto balsamico"
L’aggettivo “balsamico”, attribuito al prodotto alimentare ottenuto dalla
cottura, acetificazione e invecchiamento in botticelle di legno del mosto d’uva,
appare, per la prima volta, in due fonti storiche modenesi del secolo XVIII. Si
tratta del: “Registro delle vendemmie e vendite dei vini per conto delle
cantine segrete ducali” e del: “Quaderno delle memorie per la cantina di
Sassuolo”. Nel primo, in data 11 marzo 1747, è segnata una spesa sostenuta
per “rincalzare l’aceto balsamico”. Nell’altro, il giorno 20 luglio 1747, il
maestro di cantina scrive: “Mi sono portato alla visita dell’aceto ove ho
trovato vascellini piccoli e due altri più grandi… tra quali ve n’è uno con
aceto balsamico, ma poco, sarebbe però necessario alla ventura vendemmia darle
provvidenza”. L’aggettivo “balsamico” riappare, dopo 42 anni, in una lettera
inviata da Pavia, il 31 dicembre 1789, da Lazzaro Spallanzani al bolognese prof.
Leopoldo Caldani, medico e titolare della cattedra di anatomia dell’Università
di Padova. Scrive lo Spallanzani: “Io vi promisi mandarvi da Modena
dell’eccellente aceto balsamico giacché altro simile altre volte non vi era
dispiaciuto”. È ancora un esponente della famiglia Spallanzani, il fratello
Nicolò esperto agronomo, a usare l’aggettivo “balsamico”. Il 5 febbraio
1801 Nicolò scrive da Scandiano all’amico Orazio Baggi di Sassuolo: “Sono
bloccato a letto da una puntura di costa. Prego nell’aiuto di Dio e nel soccorso
dei medici per vederla al più presto finita”. Si rivolge, in seguito, all’amico
e chiede: “Ho bisogno assolutamente dell’opera vostra, ho bisogno di aceto
balsamico ma veramente dolce o almeno che vi si accosti il più a quello che
avete sentito più di una volta alla mia tavola”. Il merito di Nicolò è quello di
averci fornito una testimonianza documentata delle proprietà curative e
ristoratrici dell’aceto balsamico. Nel marzo del 1812 la N.D. Angela Fantozzi di
Guastalla si univa in matrimonio con il N.U. Domenico Tapparelli
di Correggio. Tra i suoi beni dotali anche “sei vascelli di aceto
balsamico valutati lire imperiali 35”. La notizia non deve stupire più
di tanto. In terra reggiana e modenese erano frequenti i casi di donne che
portavano in dote botticelle di aceto.
L’aggettivo balsamico lo ritroviamo in un documento ufficiale del 1861. In
occasione della prima Esposizione italiana, che si svolse a Firenze, fu premiato
con medaglia d’oro un campione di “aceto balsamico di 150 anni proveniente dalla
acetaie di casa d’Este di Modena”, presentato dal modenese Francesco Aggazzotti.
L’avvocato Francesco Aggazzotti (1811-1890), definito il padre dell’aceto
balsamico, fu figura di primo piano e molto ascoltata dai produttori modenesi e
reggiani. Il suo metodo per la cottura del mosto d’uva, ripreso anche dalla
legge 3 aprile 1986 n. 93 che regolamenta la produzione dell’aceto balsamico
tradizionale di Modena e di Reggio Emilia, è codificato in una lettera da lui
inviata nel 1862 all’amico Pio Fabriani. Il 19 aprile 1869 l’Opera pia di
Scandiano mise all’incanto le suppellettili, i mobili e altri oggetti
provenienti dall’eredità dell’avvocato Giuseppe Morsiani. Tra i beni offerti
anche un “bariletto di aceto balsamico” che fu assegnato per lire 32 a Guglielmo
Almansi, ricco ebreo scandianese. È questo il primo caso a noi noto di una
vendita all’asta di aceto balsamico. Dal confronto dei prezzi degli oggetti
assegnati, riportati nel verbale di fine asta, si ha un’ulteriore conferma
dell’alto prezzo raggiunto dall’aceto balsamico, considerato, a quei tempi, un
alimento ricercato e di lusso. Per esempio le 19,99 lire pagate per una
scrivania in noce del 1700, intarsiata e impiallacciata e con sette cassetti, le
20 lire per un canterano
antico in noce e le 10 lire per l’“Appianus: Historia Romana”, stampato a
Scandiano il 10 gennaio 1495 da Pellegrino Pasquali, raro incunabolo, sono
prezzi inferiori alle 32 lire pagate dal facoltoso ebreo scandianese per
procurarsi il dolce aceto balsamico. Negli ultimi decenni del secolo XIX e nel
corso del secolo XX, l’uso dell’aggettivo “balsamico” si fece sempre più
frequente. Oggi è già entrato a far parte del lessico corrente e della narrativa
specializzata delle antiche provincie
modenesi e non solo.
di Roberto Gandini