VITA
OLTRE LA VITA (prima parte)
MASSIMO DECIMO MERIDIO, IL
GLADIATORE
Era difficile che qualcuno
piangesse gli uomini come lui, il cui destino si chiamava morire. Prima o
poi , ai più capitava, si sa, la ruota della fortuna non gira sempre
nella stessa direzione anche se per i miserabili di quella risma poteva
essere consolatorio crederci. Cento combattimenti vinti. Il rudis, la
spada di legno con inciso il tuo nome sopra l’impugnatura. La libertà,
un sogno covato nei recessi della mente, un incubo che costava il sangue
tuo e degli altri ai quali i casi della vita avevano riservato, in
circostanze più o meno diverse, l’identica sfortuna. Ammazza, o muori.
Lui aveva ammazzato ed era stato ucciso.
Dov’era la gente che lo
aveva applaudito? Quando il gelo gli era sceso negli occhi, nella mente e
nel cuore, il grande anfiteatro era ammutolito. Il tirannicida era
crollato morto su quella sabbia rossa del sangue vecchio di centinaia e
centinaia di disgraziati, rossa del sangue del tiranno a cui la sua spada
aveva squarciato la gola. Un attimo, un lampo. Che cercasse giustizia o
vendetta, forse neppure lui lo sapeva. Sapeva che doveva fare presto,
perché il gelo della morte dai lombi gli stava salendo fino al cuore e
perché gli occhi non vedevano ormai quasi più niente. Coraggio, stringi
i denti. Stringi i denti, dagli quello che si merita. Dagli quello che si
merita perché si è portato via, con le vite dei tuoi cari, la tua anima
e la tua dignità, prima ancora di cacciarti nella schiena lo stiletto che
ti avrebbe dato una morte lenta e subdola, una morte che della morte
avrebbe avuto l’angoscia, ma non il dolore. Nascondetegli la ferita, e
gettatelo nell’arena, aveva abbaiato il despota agli inservienti,
perché tutta Roma possa guardare con i suoi occhi come muore un bandito.
Dovevi essere già morto da un pezzo, Massimo Decimo Meridio: da quando, a
Vindobona, avevo ordinato ai miei pretoriani di giustiziarti e tu eri
riuscito a scappare. Erano mesi che aspettavo questo momento, sangue
bastardo, schiavo, animale…
LUCILLA
Non sembrava morto,
semplicemente addormentato. Lei non aveva mai avuto occasione di vederlo
mentre dormiva, solo quando chiudeva gli occhi per concentrarsi sui suoi
pensieri o per sforzarsi di cacciarne via qualcuno molesto e inopportuno e
allora l’espressione della sua faccia non era certo quella. Ma forse
neanche nel sonno aveva mai trovato pace, perché da lui la vita aveva
preteso molto di più di quanto non fosse stata in grado di offrirgli.
Povero Massimo.
Con le dita cariche di
anelli, gli accarezzò il viso bellissimo, sereno nel sonno dell’ultimo
riposo. Era stata lei a chiudergli gli occhi, come avrebbe fatto con uno
sposo amato per davvero e non imposto dalla ragion di stato perché era la
figlia dell’Imperatore e la sua volontà non contava niente.
Presto sarebbe calato il
buio. Molto presto le avrebbero detto è tempo di andare via, Augusta. E
lei avrebbe pensato che era giunto il momento dell’addio definitivo e
avrebbe pianto le ultime lacrime che le restavano da piangere, di
nascosto, perché era quella che era e sarebbe stato indecoroso mostrare
le sue debolezze a tutti quanti, anche agli schiavi addetti alla
preparazione dei cadaveri per la sepoltura. Annia Lucilla Galeria, figlia
del Cesare Marco Aurelio,sposa del Cesare Lucio Vero, sorella dal Cesare
Lucio Aurelio Antonino Commodo, il cui cadavere sarebbe stato sotterrato
in una fossa comune e la cui memoria sarebbe stata dannata nei secoli a
venire. Aveva un figlio, pensò. Un bambino di neanche otto anni. Pregò
in silenzio, affinché quegli dei nei quali suo padre aveva fatto finta di
credere gli risparmiassero un destino amaro, negli anni a venire. Doveva
pur esserci un dio capace di stornare il pericolo dalla testa d’un
fanciullo di neanche otto anni, si ritrovò a pensare. O, in realtà, a
quegli dei indifferenti e freddi come il marmo bianco in cui erano
scolpiti, dei poveri mortali non importava nulla, che fossero sangue di re
o schiavi, feccia della terra, come quelli che si muovevano silenziosi nei
sotterranei del Colosseo, davanti alla panca di marmo dove Massimo dormiva
il suo sonno ultimo e definitivo.
“Massimo…” Una
lacrima calda le attraversò la guancia pallida. Massimo, che sembrava
addormentato ed era bello come lo era stato da vivo, di lì a qualche
giorno appena sarebbe diventato vermi, ossa e marciume. Non era mai stata
sua, per il destino, i casi della vita, la volontà degli altri. Non aveva
potuto dividere con lui che pochi attimi di un’esistenza che non le era
mai appartenuta. Fosse stata una qualsiasi, come quella moglie che lui
aveva amato e che gli scherani di Commodo gli avevano ammazzato…Neppure
di morire in quel modo, brutalizzata, stuprata, crocifissa e bruciata
quand’era ancora viva le sarebbe importato, perché quella vita breve,
almeno, aveva avuto un senso. La sua, invece, cos’era stata? Un idillio
stroncato prima che potesse diventare amore, il matrimonio d’interesse
con un vecchio e, da ultimo, il terrore angosciante che quel pazzo di
Commodo potesse in qualche modo nuocere al suo bambino. A Lucio, non a
lei. Perché di ciò che sarebbe potuto accaderle se il suo modo di
comportarsi fosse, in qualche modo, dispiaciuto a suo fratello gliene
importava come di sapere in anticipo se il giorno successivo avrebbe
portato pioggia o bel tempo: niente.
-Augusta…
Erano venuti a dirle non è
più tempo? O vattene, dobbiamo prepararlo per la sepoltura e sotto il
lenzuolo è nudo? Se si fosse trovata nelle condizioni di spirito adatte,
avrebbe riso in faccia a quella gente ipocrita. Quando aveva visto Massimo
nudo per la prima e unica volta, lei aveva sedici anni, lui diciotto. Era
stato lungo i confini settentrionali, tanto tempo prima. Avevano fatto il
bagno in un’ansa tranquilla del fiume, si erano baciati e accarezzati.
Per lei era stata la prima volta. Prendimi, gli aveva detto. Non pensare a
niente, lasciati andare e basta. Invece l’aveva sciolta dal suo
abbraccio, ed era andato ad asciugarsi e a vestirsi senza guardarla
neppure in faccia. Non sapeva ancora che quella donna non era per lui e
non lo sarebbe mai stata. Lo immaginava soltanto, ed era sempre stato
troppo leale e onesto per prendersi di nascosto qualcosa che non gli
apparteneva. Povero Massimo, era stata la sua lealtà a perderlo, la sua
onestà cristallina a scavargli la fossa. Per il bene dell’Impero aveva
sacrificato la sua stessa esistenza, e Roma che cosa gli avrebbe dato in
cambio? Esequie degne di un eroe e da ultimo l’oblio, come sempre
succedeva?
-Augusta…Non puoi stare
ancora qui…
-A chi osate dare ordini… schiavi!
La voce che le uscì di
bocca era un grido stridulo, e qualcuno degli inservienti e degli uomini
di fatica, guardandola così alterata, dovette pensare che non era poi
così diversa da com’era stato suo fratello, Commodo il pazzo che non
avrebbe avuto le esequie dei sovrani e degli eroi ma sarebbe stato sepolto
in una fossa comune, quindi ricoperto di calce viva,come la carcassa di un
cane idrofobo.
-Domina…
La vecchia che avanzava
sulle gambe sbilenche reggendo un piccolo bacile d’argento contenente
acqua mista ad essenza di mirra e di rose era quella che, ormai da
decenni, era stata chiamata ad assumersi l’incombenza di preparare i
cadaveri per la sepoltura. Doveva trattarsi d’una puttana ormai da anni
in disarmo, della guardiana di qualche postribolo d’infimo ordine, e i
suoi occhi e il suo onore non sarebbero stati certo compromessi dalla
vista di un uomo nudo. Aveva la faccia grinzosa, i denti marci, ed era
brutta quanto le Graie (creature
mitologiche, vecchie ed orribili N.d.A.).
-Lascia che sia io a farlo.
Le disse Lucilla, tuffando
nell’acqua profumata il lungo velo di seta che s’era tolta dalla
testa.
-Dovevi volergli bene.
Gli occhi cisposi della
vecchia erano buoni, tristi e rassegnati. Lucilla accennò di sì con la
testa, mentre uno schiavo teneva sollevato il corpo possente di Massimo.
Dov’è la ferita che ti
ha ucciso? Pensava la donna. La pelle dell’uomo era intatta, a parte
alcune vecchie cicatrici e i segni ancora rossi delle ferite più recenti.
La spada di Commodo non aveva potuto trafiggergli il petto, protetto dalla
corazza, e non gli aveva neppure tagliato la gola che invece l’armatura
lasciava scoperta. Non era possibile che un uomo del coraggio di Massimo
fosse stato colpito alle spalle, come succede ai codardi… E com’era
successo a lui. Ma la ferita che lo aveva ucciso non gli era stata inferta
con la spada. Era piccola come il morso di un insetto, e non doveva aver
sanguinato molto. Lo stiletto o il lungo spillone con cui era stata
inflitta doveva aver perforato il polmone sinistro, e Massimo era morto
soffocato dal suo stesso sangue. O, forse, la punta dello stilo era stata
intinta nel veleno. Commodo. Era stato lui. L’aveva colpito a
tradimento, come un serpente che si nasconde tra le pietre, prima del
duello, per fiaccare la sua resistenza e poterlo uccidere senza rischiare
di essere ucciso, anche se aveva sbagliato a non includere nei suoi
calcoli la furia del gladiatore, la stessa di una belva morente. Ed aveva
finito col farne le spese.
-Dio abbia pietà di te,
domina…
Sibilò la vecchia fra i
denti guasti e traballanti. Indossava sul corpo scheletrito una tunica
sudicia e dal collo, appeso ad un laccio bisunto, le pendeva un fascinum
(amuleto N.d.A): la Croce dei cristiani.
PRISCA
Quale dio? Il piccolo ebreo
straccione che il Proconsole di Giudea aveva fatto appendere alla croce
poco meno di duecento anni prima? Il figlio del falegname il cui cadavere
era stato fatto sparire da quei quattro fanatici dei suoi seguaci, giusto
per darla a bere al popolino e a un paio di donnette credulone che fosse
tornato dall’aldilà? Lucilla avrebbe riso in faccia a quella vecchia
puzzolente, se si fosse trovata nelle condizioni di spirito adatte a
farlo, invece aveva soltanto voglia di piangere.
-Era un uomo giusto, e deve
aver sofferto tanto. Dio ne terrà conto, nella sua misericordia infinita.
Parlava tenendo semichiusi
gli occhi pallidi e acquosi, che sembravano vedere aldilà di quel che
guardavano. Se ci fosse stato davvero un dio misericordioso e buono,
questi non avrebbe permesso che un uomo come Massimo morisse. Gli dei
erano tutti quanti uguali, se non ostili almeno indifferenti, e delle pene
dei poveri mortali non doveva importargliene proprio un bel nulla. A
quello, poi…Ciclicamente, le autorità scatenavano persecuzioni
sistematiche contro quell’accozzaglia di fanatici che predicavano l’amore
e l’uguaglianza e rifiutavano d’inginocchiarsi, com’era loro dovere,
davanti alle statue di Cesare. Piuttosto, preferivano farsi ammazzare
tutti quanti, uomini fatti, ma anche giovinetti, vecchi, donne, bambini.
Dove andavano a finire, in quei frangenti, l’onnipotenza e la
misericordia del loro dio? Perché non scendeva dal cielo a salvarli?
-La pietà del tuo dio non
mi serve, vecchia. Massimo…
-Si chiama così? Massimo.
E’… un uomo molto bello, somiglia ad uno degli angeli guerrieri che
montano la guardia dinanzi al trono dell’Altissimo.
-Non è più, vecchia. Era.
E scoppiò a piangere. Si
stupì di avere ancora lacrime. Non è morto, vive ancora, in un altro
mondo, in una dimensione diversa da questa. Ha trovato la pace, adesso… Prega
per lui il dio in cui credi, principessa. Ma io non credo e non crederò
più in niente e nessuno, vecchia.
-Il mio nome è Prisca, e
vorrei regalarti…
Regalarmi qualcosa?
Regalarmi qualcosa tu, pezzente indegna perfino di baciare la terra dove
io, l’Augusta, la figlia di Marco Aurelio e la vedova di Lucio Vero,
Cesari di Roma, poso i miei calzari?
-Vorrei regalarti…la
speranza, domina.
Lucilla le indirizzò un
sorriso amaro. Quale speranza voleva regalarle, la vecchia stracciona?
Quella di incontrarlo ancora, chissà come, chissà dove e chissà quando?
Che ne capiva, dell’amore che l’aveva accompagnata per tutti quegli
anni come un sogno e un’illusione, e che forse, chissà, si sarebbe
anche potuto riaccendere, se lui non fosse morto in quel modo? Che poteva
saperne, decrepita com’era, e consunta, e rinsecchita e senza più
voglie, di quanto lei li avesse desiderati allo spasimo, la sua pelle, il
suo corpo, i suoi baci, quei suoi occhi, che avevano il colore del mare in
tempesta, nei quali avrebbe tanto voluto perdersi per sempre?
-Siediti qui, vicino a me,
e ascoltami, domina…
Le ubbidì senza neanche
rendersi conto del perché lo facesse. E l’ascoltò parlare mentre le
teneva, imprigionata tra le sue, sudice, macchiate e rinseccolite, la
bella mano sottile, carica di anelli.
Le raccontò di Gesù.
Chiamava alternativamente il profeta della sua setta figlio di Dio e
figlio dell’Uomo. E’ morto perché predicava l’amore, ma dopo tre
giorni è tornato dall’aldilà. Aveva parole di speranza per chi
soffriva…Questa vecchia delira, come tutti i fanatici della sua specie.
Pensava Lucilla mordendosi il labbro nervosamente. I fanatici che suo
nonno, il mite Antonino Pio e suo padre, il saggio Marco Aurelio, avevano
sempre cercato di lasciare in pace, contrariamente a molti loro
predecessori che li avevano perseguitati in quanto sovvertitori dell’ordine
costituito. Razza di schiavi e di miserabili, bisognosi di una speranza
che solo l’aldilà poteva loro offrire. Ma non solo: simpatizzanti di
quella setta giudea allignavano ormai anche tra i patrizi, i ricchi
cavalieri, gli alti funzionari dello Stato, i militi e gli ufficiali delle
Legioni, perfino a Corte. Si diceva che Marzia, la puttana di suo
fratello, fosse anch’essa cristiana. Come facesse quella donna a
conciliare i precetti austeri della sua fede con il suo stile di vita per
lei era sempre stato un mistero.
-Aveva parole di
misericordia per i peccatori, ed era pietoso con chi soffriva. Quando la
bambina di Giairo esalò l’ultimo respiro, a lui bastò sfiorarle la
veste per restituirla guarita e felice ai suoi genitori.
Lucilla scosse la testa,
impallidì. Era possibile che… No, non crederle, si disse da sé sola. Ti
sta illudendo e, se credessi alle sue fole, dopo soffriresti ancora di
più.
-Quando incontrò il
funerale del figlio della vedova, ebbe per lei parole di compassione, e le
restituì il ragazzo, che era il suo unico affetto e la sua unica fonte di
sostentamento. Lazzaro… Lazzaro se n’era andato da diversi giorni e il
suo corpo si stava già putrefacendo nel sepolcro, quando Lui lo chiamò
indietro dal mondo dei morti.
Lucilla serrò le palpebre
per non guardarla, mentre diceva quello che diceva. Era assurdo tutto
quanto, i morti tornati dall’aldilà, la resurrezione del Profeta a tre
giorni dalla sua esecuzione capitale. Eppure quelle assurdità, al
momento, erano l’unica speranza che le restasse.
-Nella sua infinita
misericordia, Nostro Signore Gesù Cristo ha conferito ai suoi seguaci il
potere di operare miracoli nel suo nome.
-Prisca…
Sentì che le mani ossute
della vecchia non stringevano più le sue. E, quando riaprì gli occhi,
altro non vide se non le pareti scabre illuminate dal riverbero delle
torce e i lineamenti regolari, quasi delicati, di Massimo distesi e sereni
nel riposo del sonno senza risveglio.
MARZIA
(Si tratta di un personaggio
realmente esistito. Era davvero l’amante di Commodo,ed era cristiana,
anche se potrebbe riuscirci difficile conciliare lo stereotipo, tutto
mitezza e candore, dei primi seguaci di Cristo con la figura di questa
donna, da molti definita malvagia e depravata. Non so molto di lei, ma
penso che fosse anch’essa una vittima dei disegni e degli interessi di
qualcuno, e come tale ho voluto raffigurarla. N.d.A.)
L’aveva sempre detestata,
per quello che era, una piccola arrivista di origini oscure, e per come
era riuscita ad insinuarsi, una goccia alla volta, alla maniera di certi
veleni, nella mente e nel cuore di suo fratello, per come aveva fatto di
lui ciò che aveva voluto. Suo fratello. Lo era solo per metà, a detta di
tutti quanti e, per quanto duro fosse, lei non aveva faticato ad accettare
quella realtà, da subito. Sua madre, Faustina, la figlia del Cesare
Antonino Pio, era notoriamente una poco di buono che, come altre
gentildonne sue pari, si era spesso concessa amori proibiti con i
poveracci destinati a farsi ammazzare nell’arena per il sollazzo della
plebaglia. Tutta Roma lo sapeva, eccetto suo padre che, povero illuso,
continuava a crederla fedele e intemerata come le matrone dei bei tempi
andati. E non fosse bastata la faccia di Commodo a provarlo…Non
somigliava a suo padre, che era gracile, emaciato, già vecchio a meno di
cinquant’anni. Quello che Marco Aurelio s’era illuso fosse sangue del
suo sangue era in realtà progenie di un gladiatore sarmata, da cui aveva
preso i capelli chiari, gli occhi azzurri slavati, la corporatura
gagliarda, i gusti rozzi e volgari, l’amore smodato per il vino non
diluito, le puttane, i giochi del Circo…Quel Commodo a cui il potere
aveva dato alla testa come e forse più delle porcherie che buttava giù
per ubriacarsi come una spugna e dimenticare la sua pochezza. Quel Commodo
che Marzia aveva manovrato come un burattino per riuscire a diventare
quella che era diventata.
-Augusta Lucilla! Qual buon
vento…
Un vento di morte e una
debole speranza che forse si alimenta d’illusioni. Ma tu non mi puoi
capire, perché non sai amare, Marzia.
L’aria intorno alla donna
aleggiava del suo profumo. Non l’aroma leggero dei fiori ma quello
pesante e dolciastro che, sotto i cieli dell’Oriente, fa ululare gli
zibetti alla luna. Gli occhi, scuri e scintillanti sotto l’arco delicato
delle sopracciglia erano bistrati di nero e i lunghi capelli corvini,
ricciuti come quelli di un’africana, cosparsi di polvere d’oro.
-Marzia…
-Da quanto tempo non mi
rivolgevi la parola, Augusta Lucilla?
Non c’era traccia di
rimprovero nelle sue parole, solo un’ironia lieve come il sorriso che le
scopriva appena la punta dei denti candidi e le disegnava profonde
fossette sulle guance olivastre. Una bella donna, elegantemente vestita e
doviziosamente ingioiellata. L’amante per la quale Commodo aveva
scacciato dal palazzo la moglie aristocratica impostagli dal padre. Forse
l’unica persona per cui il giovane fosse riuscito a provare affetto. E
lei? Ma non c’erano dubbi che l’avesse usato per gli sporchi
tornaconti suoi e del suo socio in malaffare, quel greco depravato, quell’Ecletto
che aveva sposato e che di sicuro non ricambiava il suo amore, visto come
i gusti che ostentava spudoratamente fossero orientati in tutt’altra
direzione.
-Ho bisogno del tuo aiuto,
Marzia…
Ancora? Credevo che non mi
avresti chiesto più niente, dopo aver saputo che, la sera prima del
duello nell’Anfiteatro, avevo propinato a Commodo una pozione per
fiaccare le sue forze. L’imperatore, pazzo, debosciato, bestemmiatore
degli dei, schiavo del vino e dei suoi vizi, stava diventando un pericolo
per Roma…Beh, provavo affetto per lui, un tempo non molto lontano.
Perché era bello, e forte, e potente. Perché mi aveva scelta, anche se
non ero nessuno. Ma chi non ucciderebbe il suo cane preferito, se questi
diventasse idrofobo?
-Devi essere proprio
disperata, Lucilla, se sei venuta a cercarmi.
E che cosa fiacca le
resistenze di una donna se non il mal d’amore? L’aveva vista con i
suoi occhi mordersi a sangue le mani, la sera del duello nell’Anfiteatro,
l’aveva vista precipitarsi nell’arena quando quel gladiatore che la
gente aveva soprannominato Ispanico era crollato a terra senza vita. Si
chiamava…Massimo? Un gran bell’uomo, non c’era dubbio. Lineamenti
delicati, profilo da medaglione, occhi azzurri, il corpo che avrebbe avuto
Ercole, non fosse stato una delle tante menzogne inventate dai
pagani.Prima di cadere in disgrazia era stato un grande generale e chi l’aveva
conosciuto allora lo definiva un uomo perspicace, probo e coraggioso.
Sicuramente Lucilla, la principessa superba e schizzinosa, sapeva bene
come quell’uomo fosse bravo a fottere anche quando non era ormai più
nessuno, solo uno schiavo che tanfava di cavallo, di sudore e di sangue ,
suo e degli altri.
-Dicono che tu sia
cristiana.
E con ciò? Cristiana…Le
brave donne cristiane hanno orrore del peccato, sono fedeli al marito, non
saltano da un letto all’altro per poter soddisfare i loro sporchi
tornaconti, non si agghindano come baldracche e non propinerebbero una
pozione drogata neanche al demonio in persona, figurarsi all’uomo che
amano, seppure di un amore che puzza di depravazione e di vizio da dieci
miglia.
-Non lo so neppure io
quello che sono, Lucilla carissima.
So solamente che ho perso
il ricordo del passato e che non ho futuro. Ho dimenticato la mia infanzia
felice e la mia adolescenza fatta di stenti. Ho dimenticato le mie nozze
da burla con il cubicolario pederasta dell’Imperatore, a cui ero stata
venduta come una merce per arrivare, passando dalla porta principale,
nella camera da letto di Commodo. E lo sai chi mi aveva venduta per un
pugno d’oro? Proprio gli zii che mi avevano accolta in casa per carità,
quando i miei genitori erano morti e mi ero ritrovata senza altri parenti
e, quel che è peggio, senza un soldo. Già, loro. Loro e un prete
cristiano. Sacrificando me, speravano di stornare l’ennesima
persecuzione dalla testa dei nostri correligionari…Ho dovuto sottostare
al gioco, Augusta Lucilla, e adesso sono quella che sono, una peccatrice
destinata alla dannazione eterna. Se pensi che, da bambina, avevo promesso
di votare a Dio la mia verginità…
-Anzi, no, una cosa la so
con certezza: noi donne siamo soltanto pedine nelle mani degli uomini.
Pedine di un gioco crudele, la cui posta è alta e da cui nessuno è
libero di ritirarsi quando si è stancato di giocare.
La voce della concubina si
fece cupa, prima di affievolirsi in un rantolo che sapeva di lacrime non
versate. Marzia si alzò dalla sedia, e baciò su entrambe le guance la
sorella di Commodo, sollevandosi sulle punte dei piedi poiché, al
contrario dell’altra, era piccola di statura quasi come una bambina.
Anch’io sono stata usata
come la pedina di un gioco, anche la mia vita non è mai stata mia. Mio
padre, mio marito, mio fratello hanno fatto di me uno strumento nelle loro
mani. E l’unico uomo che ho amato per davvero…Adesso è morto, Marzia…
-Dimmi quello che sei
venuta a chiedermi, Lucilla.
I grandi occhi neri
mandavano bagliori di brace. Se potrò aiutarti lo farò…Ti ho sempre
detestata, ma adesso mi fai pena. Doveva essere proprio bravo, a farti
godere, quel gladiatore dagli occhi azzurri e dalle spalle poderose.
-Tu conosci il Sommo
Sacerdote dei Cristiani.
-Il pontefice Vittore?( era
davvero il Papa dei Cristiani quando morì Commodo N.d.A) Ti
accompagnerò da lui adesso stesso.
VITTORE
Oggi, e poi domani, pensava
Lucilla mentre attraverso le tendine della lettiga, vedeva, spiattellate
con crudeltà in tutta la loro bruttura, le varie facce della miseria e
fiutava gli odori fetidi d’immondizia e d’escrementi del Velabro, uno
dei peggiori quartieri dell’Urbe.Domani lo seppelliranno, e sarà tardi,
morirà anche l’ultima speranza, quando il suo corpo avvolto nel sudario
verrà rinchiuso nel sepolcro. Per non sentirsi male, si coprì le narici
con una pezzuola profumata, cosa che, nell’altra portantina, sicuramente
la bella Marzia non stava facendo: a quel puzzo aveva fatto il naso
quando, dopo la morte dei genitori, plebei cristiani benestanti, era stata
costretta a trasferirsi proprio lì, presso certi zii, plebei cristiani
miserabili, in un’ insula (l’ abitazione della povera gente, simile
a un moderno condominio ma priva di qualsiasi criterio d’igiene e
sicurezza, spesso preda di crolli e incendi N.d.A.) sbilenca e
maleodorante dove dentro due stanze ci stavano in sette. Che i cristiani
fossero gentaglia quella non era una novità, ma Lucilla trovò alquanto
strano che il loro pontefice vivesse in un posto come quello, una
stamberga fatiscente fianco a fianco con una bettola e un bordello, che
sembrava stesse in piedi per miracolo. Scesa dalla portantina,dovette
sollevare le vesti per evitare di tuffarle nelle pozzanghere dove
galleggiavano immondizie d’ogni genere, dalle piume di gallina, alle
carogne di animali morti, agli escrementi umani, e, sempre con le vesti
sollevate, seguì per i due piani d’una scaletta sconnessa e tarlata,
Marzia che la precedeva.
Il pontefice Vittore era
ancora abbastanza giovane, ma la barba arruffata e i capelli lunghi e unti
come il vello sudicio delle pecore gli regalavano parecchi anni in più di
quelli che doveva avere. Indossava una lunga tunica logora sotto una
dalmatica coperta di ricami eseguiti con mano maldestra, che dovevano
rappresentare simboli sacri o esoterici: pesci, croci, sigle misteriose…Dei
cristiani, Lucilla non sapeva molto. Suo fratello li aveva disprezzati
cordialmente, aveva riso della loro melensa mitezza e della stravaganza
delle idee che si portavano appresso, li aveva detti codardi e vigliacchi
quanto e più dei conigli, ma non li aveva fatti perseguitare. Doveva
essere stata Marzia a chiederglielo, nello stesso modo in cui aveva
chiesto, e ottenuto, prestigio, ricchezze, poteri occulti e, infine, le
teste dei Prefetti del Pretorio Tigidio Perenne e Cleandro, per spianare
la strada all’ultimo dei suoi amanti, Quinto Emilio Leto. E Commodo non
aveva mai negato niente a quella donna.
L’uomo la trattò come
una qualsiasi, probabilmente perché neppure l’aveva riconosciuta.
Lucilla notò che aveva le unghie nere, e le dita sporche d’inchiostro.
-Sei già cristiana, figlia
mia…O ancora catecumena (in attesa di ricevere il battesimo
N.d.A.)?
Il pontefice aveva una voce
piatta, monocorde e lo stesso sguardo acquoso della vecchia Prisca nei
sotterranei del Colosseo. Come tutti gli adepti della sua setta, usava
spesso, e a sproposito, i termini figlio, fratello, sorella. La
familiarità con cui quell’uomo sudicio e scheletrito la trattava
infastidì non poco Lucilla che a stento si trattenne dal rimproverarlo e
dal rivelarglisi: erano altri, e ben più importanti, i motivi per cui lo
aveva cercato.
No, non sono niente, solo
una donna disperata, che ha riposto in te e nel tuo dio le ultime speranze…Non
mi hai riconosciuta? Eppure, chiunque mi riconoscerebbe in questa città.
Papa Vittore osservò la
donna che gli stava davanti: una dama dell’aristocrazia di una trentina
d’anni, alta, elegante e bella. Erano finiti i tempi in cui la sua
religione attirava unicamente le simpatie di schiavi, miserabili e
diseredati.
-Mi hanno riferito che il
profeta della tua setta era capace di resuscitare i morti.
-Gesù operò guarigioni,
scacciò i demoni dagli invasati, riportò in vita persone morte…E, a
tre giorni dalla sua esecuzione capitale, ritornò dall’Aldilà, com’era
stato profetizzato fin dai tempi dei tempi.
-Era un mago, questo tuo Gesù?
-Era il figlio di Dio fatto
uomo.
E’ una donna astuta,
manipolatrice, abituata a comandare. Ha lo sguardo duro, nonostante si
capisca che deve aver pianto tutte le sue lacrime. E non è venuta a
chiedermi il battesimo, ma qualcosa di ben diverso…Papa Vittore si mise
in guardia, come un animale selvatico che abbia fiutato un pericolo
nascosto.
-E’ vero che quel vostro…profeta
aveva concesso ai suoi seguaci il potere di operare miracoli nel suo nome?
Vittore non abbassò la
guardia. Poteva venire un pericolo, come no, da quella bella dama alta e
sottile, vestita di bianco con squisita, elegante semplicità. Era un
uomo, malgrado si fosse votato totalmente a Dio, e non gli sfuggirono i
lineamenti fini e aristocratici, gli occhi verdi dallo sguardo
malinconico, i riccioli dorati che facevano capolino sotto il lembo della
stola che le velava la testa, il delicato profumo di fiori che impregnava
le sue vesti. Ma sapeva bene che il demonio conosce mille astuzie per
perdere gli uomini.
-Il nostro Imperatore è
morto, lo sai?
Lo sapeva. Commodo era
stato ammazzato nell’arena durante uno dei consueti duelli che aveva
sempre amato concedersi con i gladiatori: questa volta la situazione gli
era sfuggita di mano…E il potere era rimasto vacante. Che cosa sarebbe
successo, dopo? Pur essendo stato fin dalla più tenera età una sentina
di tutti i vizi possibili e immaginabili, Commodo aveva lasciato in pace i
cristiani. Sicuramente il suo successore, un senatore ambizioso, un
generale, o chissà chi altro, si sarebbe comportato in maniere del tutto
diversa.
-Il nostro Imperatore è
morto, lo so. Dio abbia misericordia della sua anima.
-Potrei…Potrei renderti
ricco, se…
-Se operassi il miracolo di
riportarlo in vita? Io sono solo un povero peccatore, il servo dei servi
di Dio. E non sono capace di tanto, domina.
-Non ti chiedo d’aver
misericordia di lui…Ma dell’uomo che è morto per liberare Roma dalla
tirannia. E di me, che lo amavo più della mia stessa vita.
Massimo. Un valoroso
giovane generale, un galantuomo caduto in disgrazia e costretto a giocarsi
la pelle nell’arena. Vittore aveva sentito parlare di lui, anche se non
l’aveva mai visto combattere: assistere a simili spettacoli era, per i
cristiani, peccato mortale, punibile con l’interdetto e la scomunica.
-Noi uomini non possiamo
cambiare a piacimento i disegni di Dio, figliola. Pregherò per te…e per
lui, affinché possa riposare in pace, povero ragazzo.
LA SUBURRA
E io? L’avrò mai la pace
che cerco? Me la pagherai, e cara, cane di un cristiano…Lo guardò
fisso, gli occhi cattivi come lame affilate, la bocca dura che non
proferiva parola, prima di voltare le spalle alla sua figura scheletrita e
alla sua sudicia casa, prima di gettarsi tra le braccia di Marzia
singhiozzando come una disperata, incurante di quelli che passavano e la
guardavano.
-Lo immaginavo. Ma non è
finita…Ordinerò immediatamente ai miei servi di rubare il suo cadavere,
di portarlo nella tua casa sul Palatino. Non è difficile far sparire il
corpo di un morto, l’hanno già fatto altre volte e sanno benissimo cosa
gli capiterebbe se non riuscissero ad essere più che discreti. Ma questa
è una faccenda che ci riguarda fino a un certo punto. Comanda ai tuoi
schiavi di seguire la mia portantina, e non fare domande: se ci tieni, mi
ringrazierai dopo, a lavoro concluso.
Lucilla si lasciò sfuggire
un sospiro. Guardati da chi ti promette false speranze, si disse da sé
sola. Ma, nello stesso tempo, non voleva lasciare niente d’intentato:
forse, dove non aveva potuto, o voluto, il Pontefice dei Cristiani,
avrebbe potuto, e voluto, un sacerdote egizio, un mago siriano, qualche
strega della Tessaglia…Specialmente se, sotto i suoi occhi avidi,
qualcuno avesse fatto balenare il riflesso irresistibile dell’oro.
Marzia era una donna piena
di risorse, pensava, seguendo dalla sua la portantina della favorita
muoversi in quel dedalo di stradacce puzzolenti, scansare la folla
stracciona, i mendicanti che imploravano tendendo le mani sudice un obolo
di elemosina, i cani randagi e rognosi, i lenoni e le loro vecchie
prostitute con le parrucche gialle, i venditori di frittelle bisunte, garum
(salsa piccante a base di pesce,N.d.A.) di pessima qualità e
impiastri altrettanto maleodoranti per colorare le guance, schiarire i
capelli, estirpare la peluria dalle gambe.
Non fosse stata sopra un’altra
portantina, le avrebbe chiesto dove mi stai portando, cagna? Non fosse
stata sopra un’altra portantina, e non avesse avuto il peso del mondo a
schiacciarle il cuore. Non fosse stata sopra un’altra portantina, e non
avesse avuto quel piccolo barlume di speranza a scaldarle la vita. Finse d’ignorare
che quel luogo dove stava passando era la Suburra, il quartiere più
miserabile e malfamato della città, e che non mancava molto al tramonto.
Cercò di scacciare la paura pensando a Marzia. Era coraggiosa,
determinata. Era intelligente. E spregiudicata. Era stata capace di far
ballare sulla punta di un dito Commodo il pazzo, il terrore di Roma, di
fargli fare sempre ciò che lei voleva e, malgrado affermasse di amarlo e
di credere in un Dio di misericordia, non si era tirata indietro, quando s’era
trattato di dare il suo contributo per farlo fuori. Suo fratello era stato
succube di quella femmina diabolica. Come spiegare diversamente il fatto
che, nonostante il suo serraglio fosse pieni di donne molto più belle di
lei, l’avesse sempre preferita alle altre? Forse aveva saputo dargli
qualche momento di felicità,malgrado tutto, pensava Lucilla. Adesso,
quella felicità forse ingannevole la prometteva a lei: e, strano a dirsi,
in cambio di niente.
TIMANDRA
L’abituro dove Marzia la
invitava ad entrare non era molto diverso dalla stamberga di Papa Vittore
e il suo interno sarebbe stato buio come la bocca di un forno, non fosse
stato a malapena rischiarato dalle fiammelle giallognole di alcune piccole
lanterne ad olio collocate sopra mensole d’ordinario legno di castagno.
La donna stava seduta, con
l’attitudine di una regina, sopra uno scranno ricoperto di vecchie pelli
tarlate. Nonostante la debole illuminazione, Lucilla notò gli splendidi
zigomi e gli occhi gialli, tagliati a mandorla come quelli di una pantera.
Doveva essere stata una bella donna, chissà quanti anni prima: i capelli
spruzzati di grigio e le braccia scarnite denunciavano un’età più che
matura. Vestiva completamente di nero e due pesanti pendenti d’oro le
deformavano in maniera quasi grottesca i lobi delle orecchie.
-Che cosa sei venuta a
chiedere a Timandra di Tessaglia, domina?
Timandra di Tessaglia, la
strega. Il buio e il lutto si addicevano a quella sacerdotessa di Ecate la
Nera, esperta di magia e di venefici. Erano in molti a rivolgersi a lei,
per curare le malattie che i medici non riuscivano a guarire, perché i
dardi incendiari di Cupido infiammassero gli animi freddi di chi non
voleva amare…E per uccidere.
-Questa donna, che mi è
amica, è venuta a proporti una sfida alla quale forse non ti sei mai
assoggettata, grande Maga…
-Marzia…Lascia che sia
lei a parlare.
-Ha il cuore distrutto dal
dolore e mi ha chiesto di farlo al suo posto.
-Perché è triste e
disperata?
-L’uomo che amava è
morto ieri. Assassinato.
-Ah.
E saettò il suo sguardo
tagliente sopra la donna che le stava davanti muta e sconsolata ma non
chinava la bella testa coperta da un lembo della stola. Una donna ricca, e
non solo. Anche potente. Come quell’altra, che, la conosceva bene, era
stata l’amante dell’Imperatore. Forse perfino di più.
-Tu sei Lucilla, figlia del
Cesare Marco Aurelio, vedova del Cesare Lucio Vero, sorella del Cesare
Lucio Antonino Commodo…
E tu sei Timandra l’avvelenatrice,
Timandra la strega e vorrei chiederti…
-L’Augusta vuole
chiederti di riportare indietro dal mondo dei morti Massimo Decimo Meridio,
il gladiatore che la gente chiamava l’Ispanico.
Hai comprato da me
veleni,filtri d’amore, pozioni abortive, nobile Marzia…E adesso mi
chiedi di riportare in vita un morto. Timandra, al pensiero, sorrise, ma
il buio nascose la smorfia che, improvvisa, le aveva piegato per un solo
attimo le labbra sottili e dure nella parodia di un sorriso. Ti dici
cristiana…e fai cose che il profeta della tua setta non approverebbe di
certo.
-Lasciaci sole.
E Marzia tornò alla
portantina che l’attendeva in strada, facendo fluttuare i veli che
odoravano di muschio e sandalo. L’avrebbe aspettata lì, sicura che il
colloquio sarebbe stato breve.
-Ti pagherò a peso d’oro
questo servigio…grande Maga.
-Non lo metto in dubbio.-
le rispose questa parlando nella sua lingua, il greco.- Ho pietà del tuo
grande dolore e ti prometto che non sarò esosa. Ma…
-Vuoi abbandonarmi anche
tu, come…come…
-Come il Papa dei
Cristiani? Io non ho tutti i suoi scrupoli, ma voglio metterti in guardia.
Quello che intendi fare, potresti essere costretta a pagarlo con lacrime
di sangue.
-Non me ne importa niente.
-Lui…La morte, la
vecchiaia e le malattie lo rifiuteranno finché sul mondo sorgerà il
sole, e non è detto che… non arrivi a considerare una maledizione
questa vita senza fine che intendi regalargli.
-Ho detto che non me ne
importa niente.
-Quale età aveva, quando l’hanno
ammazzato?
-Trentatrè anni.
-Era nel fiore della
giovinezza. Li avrà per sempre, mentre tu invecchierai, e…
Lucilla scosse la testa,
sbattendo sgarbatamente sopra il tavolo un sacchetto in pelle gonfio di
pezzi d’oro. Niente l’avrebbe fatta desistere dal suo proposito: lo
sapeva, e lo sapeva anche Timandra.
-La luna piena, questa
notte, guiderà la sua anima a percorrere a ritroso il cammino. Tu dovrai
solo vegliare accanto a lui, e aspettare.
-Non voglio che…che si
accorga che io…
Timandra sorrise,
sarcastica.
-Non potrai nasconderglielo
a lungo, domina. Presto o tardi, si accorgerà che le ferite e le malattie
non lo uccidono, che il tempo non segna il suo volto, il suo corpo e i
suoi capelli. Ma se proprio non vuoi che cominci a sospettare da subito,
quest’ampollina contiene nepente (succo di papavero N.d.A). Cerca
di propinargliene qualche goccia, e dormirà finché lo riterrai
opportuno. Al suo risveglio, potrai fargli credere che la gravità delle
sue condizioni l’aveva tenuto, per diversi giorni, in stato di totale
incoscienza. E se ti parlerà di quello che ha visto nel mondo dei
trapassati, non ti sarà difficile fargli credere che ha solo sognato.
-Sarà…sarà ancora
quello che è stato?
Timandra annuì con un
cenno del capo. Sarebbe stato quello di sempre, anche se la vecchiaia e la
morte lo avrebbero rifiutato, finché sul mondo avesse continuato a
splendere il sole, a soffiare il vento, a cadere la pioggia. Gli sarebbe
piaciuto mangiare, bere, fare l’amore…Gli sarebbe piaciuto cavalcare
nel vento e tagliare con le sue braccia forti la corrente fredda del
fiume. Avrebbe percepito con una sensibilità resa ancora più acuta dalla
sua nuova condizione, il piacere. E il dolore. Ma senza il conforto delle
lacrime.
-Adesso va’ da lui…E
tienigli la mano, mentre la luna illuminerà alla sua anima la strada del
ritorno.
LA RICOMPENSA
Il corpo di Massimo giaceva
ancora inerte sopra un piccolo letto, in una stanzetta al riparo da occhi
curiosi. Gli schiavi di Marzia erano stati rapidi, abili e discreti,
proprio come lei aveva promesso. Qualcuno aveva provveduto perfino a
fasciargli il busto con un vistoso bendaggio, anche se la ferita aveva
smesso di sanguinare già da prima che il gladiatore cessasse di vivere.
La finestra inquadrava uno
spicchio di cielo acceso dal tramonto e un raggio di sole morente
illuminava il viso disteso e sereno di Massimo e l’espressione ansiosa
di Lucilla.
-La luna sorgerà a
momenti.
-Momenti che mi sembreranno
eterni, Marzia. Temo che quella donna mi abbia ingannata.
-Timandra non ha ragione d’ingannare
alcuno, Lucilla, te men che meno: qui in città sei ancora considerata una
persona molto influente.
-Stai adulando una donna
che non è più nessuno, Marzia mia carissima.
-Sei figlia, moglie,
sorella e madre di principi, Lucilla.
-Sono figlia, sorella e
vedova d’ombre di morti, Marzia.
-Ma tuo figlio vive.Ed è
il parente più prossimo del defunto Imperatore.
-Purtroppo per me. E per
lui, che è solo un bambino.
Avanti, dimmi quello che
vuoi: perché una come te non fa niente per niente, lo so. Vuoi una casa,
del denaro? Vuoi andartene lontano da qui? Vuoi che mi prodighi per far
arrestare e giustiziare il tuo marito da burla in modo che tu possa amare
alla luce del sole il nobile Quinto? O forse sei meno egoista di quello
che sembri e stai per chiedermi, col cuore in mano, che io faccia il
possibile per fermare la probabile persecuzione che il successore di
Commodo inevitabilmente scatenerà a danno dei tuoi correligionari?
L’Augusta si chinò su
Massimo, gli accarezzò con tenerezza la guancia barbuta. Era calda, come
se davvero…O forse la speranza la ingannava. Quello che non la ingannava
era lo sguardo famelico e bruciante della concubina imperiale sul corpo
inerte, seminudo del gladiatore bellissimo e maledetto. L’avresti voluto
per te, puttana…Pensò stringendo il labbro fra i denti mentre, oltre il
giardino che circondava la piccola, lussuosa villa sul colle Palatino, il
sole tramontava incendiando il cielo.
La mano sottile di Lucilla
scese dalla guancia alla gola…E le sembrò di percepire il pulsare della
vena sotto le sue dita.
-Marzia…-gli occhi verdi
erano lucidi di lacrime, le labbra le tremavano -Dimmi solo come posso
ricompensarti, sorella mia.
-Dimenticandomi. E
facendomi dimenticare, come se non fossi mai esistita.
Le rispose la concubina
imperiale, dritta in piedi accanto a lei. Stava per andarsene, e quello
che aveva da dire lo disse di fretta. Ho paura, sorella mia. Ho paura del
fuoco dell’inferno, ma anche della sorte che presto o tardi potrebbe
toccarmi perché… Tutta Roma sa che sono cristiana, che lo ero…e che
lo sarò per sempre, malgrado tutto. Quando mio marito mi gettò in pasto
a Commodo, fingevo di non esserlo, e dovevo assistere ai giochi del Circo.
E’ un peccato meritevole di scomunica, ma io…Beh, peccati ne ho
commessi veramente tanti, un po’ perché l’ho voluto e molto perché
mi ci hanno costretta. Tutti quanti, anche i miei correligionari. Tutti
sapevano che Marzia era la pedina più importante di uno sporco gioco.
Finché quel debosciato dell’Imperatore la vorrà per scaldargli il
letto, ai cristiani non succederà niente. Un giorno ( Tigidio Perenne,
nemico giurato dei cristiani, era ancora Prefetto del Pretorio) assistetti
al martirio di una quindicina fra donne, vecchi, ragazzi…Li fecero
sbranare da una muta di cani inferociti. Le loro grida, e tutto quel
sangue, ossessioneranno per sempre i miei sogni. Ho tanta paura, sorella
mia…
-Cercherò di fare quanto
è in mio potere per aiutarti. E non ti dimenticherò, stanne certa. Non
potrei farlo nemmeno se volessi.
Di Marzia era rimasto solo
il profumo che aleggiava nell’aria, e del sole qualche raggio infuocato
a giocare contro la linea dell’orizzonte. La luna piena era salita in
alto nel cielo e, sotto la sua mano, Lucilla percepiva i deboli battiti
del cuore di Massimo. La sua anima stava davvero tornando indietro dal
mondo dei morti, pensò. Quindi afferrò l’ampollina che le aveva dato
Timandra, si versò qualche goccia di nepente sull’indice e lo passò
dentro le labbra socchiuse dell’uomo. Erano morbide, umide e calde, vive
come lo erano state l’ultima volta che l’aveva baciata, nelle segrete
del Colosseo.
IL RISVEGLIO
Un posto che non erano i
sotterranei del Colosseo fu la prima cosa che i suoi occhi, gonfi di sonno
e feriti dalla luce, videro al momento del risveglio. Una stanza piccola,
ma lussuosamente arredata: tende, tappeti, argento, avorio, legnami
pregiati; e un letto soffice, ricoperto di pelli preziose, che abbracciava
i suoi muscoli intorpiditi dall’immobilità a cui era stato costretto…Da
che cosa? Da quanto?
Non sentiva dolore, solo un
buco di fame in fondo allo stomaco e tutto il corpo debole come una corda
bagnata. Gli occhi, quelli sì, gli facevano male, la testa gli ronzava
come se qualcuno ci avesse chiuso dentro un nido di calabroni impazziti.
-Dove sono?
-Sei salvo e al sicuro,
Massimo.
Si mise a sedere,
puntellandosi sui gomiti. Un vistoso bendaggio bianco e pulito gli
fasciava il torso e la sua pelle odorava di sudore, di mirra e di olio di
rose.
-Che cosa ci faccio qui? E
perché puzzo come un esercito di baldracche?
-Sei stato molto male,
Massimo.
Una voce femminile che
aveva sentito tante altre volte: ma non quella della sua donna, che gli
era sembrato di tenere tra le braccia e il sogno era così
straordinariamente vivo da potersi confondere con la realtà.
-Olivia…
-Lucilla.
-Lucilla…Tu?
Il bel viso della
principessa, stravolto dal dolore e dalla disperazione, era stata l’ultima
cosa che aveva guardato, prima di crollare sulla sabbia del Colosseo,
accanto al cadavere del tiranno. Morto…Lo avrebbe creduto, non si fosse
trovato in quella stanza silenziosa e ovattata , con il tanfo dolciastro
della mirra, dell’olio di rose, del sangue e del sudore a solleticargli
le narici e i lunghi riccioli dorati di Lucilla che gli carezzavano il
petto. Ma adesso la donna gli sorrideva anche con gli occhi, dai quali le
tante lacrime che doveva aver pianto avevano lavato via la tristezza.
-Da quanto tempo mi trovo
qui?
-Dieci giorni. Temevamo…Temevamo
che non ce l’avresti fatta, la tua ferita era molto grave.
-Tuo fratello…
-Commodo è morto.
-Mi dispiace.
La guardò con gli occhi
torvi di chi sta mentendo. Il succo di papavero aveva ridotto le sue
pupille a due minuscoli puntini neri, proprio al centro delle iridi in cui
l’azzurro, il verde e l’oro si mescolavano senza fondersi, come
succede quando i raggi del sole danzano sulla superficie tranquilla di un
lago.
-Non sei obbligato a
raccontarmi delle bugie al solo scopo di sembrare pietoso, Massimo. Io e
lui avevamo lo stesso sangue ma…era diventato un cane idrofobo, questo
lo sapevi anche tu.
Un cane idrofobo? Commodo?
Beh, non lo era diventato: lo era sempre stato. Le labbra di Massimo si
contrassero in un ghigno sarcastico.
Lucilla distolse lo
sguardo, gli chiese se avesse bisogno di qualcosa. Vorrei bere, ho la gola
arida e dolorante. Vorrei mettere sotto i denti qualcosa di solido. E
vorrei che qualcuno mi togliesse di dosso questa fasciatura che non mi
lascia respirare. Perché mi avete fasciato come una mummia? E perché mi
sento addosso questa puzza degna del peggior lupanare della Suburra?
-Ti abbiamo fasciato
perché la ferita era profonda e il medico temeva che s’infettasse.
…e quello che ti senti
addosso è l’odore dell’unguento che si strofina sui cadaveri prima di
seppellirli. Perché tu non eri solo ferito, Massimo. Eri morto, e sono
stata io che ho voluto ad ogni costo riportarti indietro dall’aldilà.
Timandra le aveva detto che sarebbe stato impossibile nascondergli a lungo
la verità e le parole della maga tornarono in mente a Lucilla, brucianti
come la sete che incendiava la gola arsa di Massimo.
-Ordinerò che ti sia
portato subito da mangiare e da bere. Bentornato nel mondo dei vivi…Massimo
Decimo Meridio.
FAME E SETE
Divorati il pane fresco e
la carne arrostita, Massimo chiese da bere.
-Acqua?! Con questa mi ci
sciacquerò la bocca, dopo. Fammi portare del vino, Lucilla…Del Falerno
non diluito.Per favore.
Per ubriacarti, come faceva Commodo? Lucilla storse la bocca. Quell’abitudine non gliela conosceva,
e non le piaceva.
-E’ necessario che tu sia
prudente con il cibo e con il vino, Massimo: sei stato molto male, sono
dieci giorni che non metti quasi niente nello stomaco, e…
Il viso dell’uomo assunse
un’aria cogitabonda.
-Dieci giorni senza
mangiare e senza bere…Come ho fatto a sopravvivere?
-Un paio dei miei servi si
sono dimostrati particolarmente abili a cacciarti in gola le medicine e a
farti inghiottire qualche sorso d’acqua e qualche cucchiaiata di latte
mentre eri incosciente. Sembravi…un gattino neonato rifiutato dalla
madre.
Lucilla gli sorrise,
allungandogli la coppa del vino e sentendo le dita calde di lui sfiorare
le sue.
-Un gattino inerme e
indifeso, completamente nelle tue mani…Augusta Lucilla.
La guardava in tralice, gli
occhi azzurri socchiusi che mandavano bagliori di metallo. Puntellandosi
sui gomiti, si sollevò ancora di più a sedere, e il lenzuolo gli
scivolò giù per il corpo, scoprendogli il busto muscoloso fin quasi alle
anche.
-Vuoi che ti faccia portare
un altro cuscino?
-Dell’altro vino,
piuttosto. Dicono che faccia sangue, e dovrei averne perso parecchio…-ridacchiò,
tastandosi con il palmo della mano la spalla, il petto e lo stomaco. -Sono
rimasto dieci giorni quasi senza mangiare e…Non mi sembra di essere
dimagrito, rispetto a com’ero. Non è strano?
Non lo so. Non ho mai
prestato assistenza a un ferito grave. Tu sei il primo e spero anche l’ultimo,
Massimo. Lo pensò, ma non glielo disse, e gli voltò le spalle di
proposito, perché lui non notasse il rossore che le aveva imporporato le
guance.
-Il dente di lupo. Senza mi
sento nudo.
Non era cambiato, rispetto
a com’era stato. La voce era quella grave, rauca e sensuale che gli
aveva sempre conosciuto e la sua bellezza…Perfino il dolore e la
sofferenza erano stati gentili con lui, pensava Lucilla, percorrendo con
lo sguardo i tratti quasi delicati induriti dalla barba incolta, gli occhi
azzurri, la pelle abbronzata tesa sopra i grossi muscoli e segnata dalle
cicatrici:lama di coltello, punta di freccia, taglio di spada…perfino
artigli di tigre. Le bianche dita sottili gli accarezzarono il collo,
mentre annodavano il lacciolo di cuoio dal quale pendeva il suo
portafortuna. Te l’avevo tolto io stessa e l’avevo conservato nel mio
scrigno, con gli altri gioielli: perché se fossi morto, avrei voluto che
mi rimanesse qualcosa di te.
-Lucilla…
La voce di Massimo era
diventata un bisbiglio rauco e la donna ritrasse la mano, come se avesse
toccato il fuoco.
-Lucilla, io…
Avrebbe cercato di farle
capire ancora una volta che nel suo cuore c’era posto solo per quella
moglie che gli avevano ammazzato? O, peggio, la odiava ancora per come l’aveva
fatto soffrire dal momento in cui aveva creduto si fosse presa gioco di
lui, del bel soldataccio dal quale le era piaciuto lasciarsi baciare e
accarezzare, ma stando ben attenta a non compromettersi, perché era la
principessa Lucilla, la figlia dell’Imperatore Marco Aurelio, destinata
al letto d’un Cesare di Roma, che aveva tutto il diritto di prendersi in
moglie una vergine illibata, non certo gli avanzi di un oscuro legionario?
Lo vide abbassare le
palpebre, sospirare, accennare a un vago sorriso a labbra chiuse. Come da
ragazzo, quando aveva amato il contatto delle mani di lei sulla sua pelle,
che fosse casuale o voluto. Come da ragazzo, quando l’aveva desiderata
allo spasimo, con il corpo, il cuore e la mente, ma il destino aveva
deciso in maniera totalmente diversa.
Lucilla si sedette accanto
a Massimo, gli cinse i fianchi con le braccia. Era morbida, e profumata.
Come a sedici anni, quando ancora s’illudeva che la sua vita potesse
appartenerle per davvero, senza che nessuno scegliesse per lei quello che
non voleva. E’ per il tuo bene, Lucilla. Sei la figlia di un Cesare di
Roma e, se da questa condizione ti derivano molti privilegi, hai pur
sempre dei doveri...
Il dovere di non essere se
stessa, pensò mentre baciava il petto di Massimo e gli toglieva via le
bende. Il dovere di amare un uomo che non amava e non l’aveva mai amata.
Il dovere di mettere al mondo figli nelle cui vene scorresse sangue reale.
Il dovere di accettare senza opporsi l’ineluttabilità del destino…Le
mani delicate accarezzavano, lievi come piume, la pelle dell’uomo. Era
calda, morbida, tesa su una magnifica muscolatura.
-Massimo…
La ferita sulla sua schiena
era un minuscolo segno rosso, asciutto e completamente rimarginato. Poco
sopra, il marchio a fuoco di Proximo, il suo padrone. Non era più
schiavo, ma quel segno non sarebbe mai stato possibile cancellarlo dalla
sua carne finché…Finché fosse vissuto, cioè per sempre, pensò
Lucilla, e un lungo brivido le attraversò il corpo.
-Lucilla…-gentilmente, l’uomo
le strinse il polso. Adesso scosterai da te la mia mano, rifiuterai le mie
carezze. Mi dirai di no ancora una volta, Massimo. Mi dirai di no perché
con te sono stata cattiva…tanto tempo fa. Mi dirai di no perché…Perché
il fantasma di tua moglie pretende ancora la tua fedeltà…Ma lei è
morta, e tu sei vivo, Massimo.
-Lascia perdere, Lucilla:
sono impresentabile, ho la barba lunga e puzzo come una vecchia baldracca.
Ah, è solo per questo? La
donna gli sorrise, senza distogliere gli occhi dai suoi. Domani ti laverai
e ti spunterai la barba, ma io non aspetterò un minuto. Ho aspettato
anche troppo e mi sono stancata di doverlo fare ancora.
-Hai ancora…fame e sete,
Massimo?
Lui accennò di si con la
testa, gli angoli delle labbra sollevati in un sorrisetto allusivo.
-Ho ancora fame e sete.
Ma non di carne arrosto, di
pane e di vino non diluito. Le sollevò il mento con la mano, le cercò la
bocca per baciargliela, dapprima dolcemente, un labbro alla volta, quindi
con ardore selvaggio: come qualche giorno prima, nelle segrete del
Colosseo, quando lui era ancora uno schiavo miserabile, e non un nume
immortale.
La tunica di seta scivolò
via dal corpo della donna, lasciandola nuda e tremante di freddo, esposta
al suo sguardo ardente. Era bella come quindici anni prima, pensava
Massimo sfiorandole il piccolo seno con le dita,le labbra e la lingua,
sentendola gemere mentre le mordicchiava i capezzoli, glieli lambiva e
glieli succhiava. Come quindici anni prima, in quell’ansa tranquilla del
fiume, lungo i confini settentrionali. Solo che allora…Ma adesso sarebbe
stata sua, perché nessuno dei due avrebbe osato tirarsi indietro. Lo
sapeva, prima ancora che lui la penetrasse e, per la prima volta nella sua
vita, le regalasse l’estasi.
L’ALBA DEL GIORNO DOPO
-Grazie, Massimo.
-E di che cosa?
Di esistere. Di avermi
perdonato, anche se mi sono presa gioco di te e ti ho ingannato, anche se
ti volevo esattamente come mi volevi tu. E adesso, non andartene. Roma ha
bisogno di te. Ma soprattutto, IO ho bisogno di te.
Le braccia strette intorno
al suo corpo, la testa posata sul petto, Lucilla gli ascoltava i battiti
lenti, regolari del cuore. Avrebbe continuato a pulsare all’unisono con
il cuore stesso della terra, finché agli dei fosse piaciuto che il sole e
la luna continuassero a sorgere, che il vento soffiasse, che la primavera
facesse nascere le foglie e l’inverno cadere la neve, che le nuvole si
sciogliessero in pioggia e, nel folto del bosco, la belva divorasse la
preda. Il pensiero le fece correre un brivido lungo il solco della schiena
e ricordare le parole di Timandra la Maga: “Quello che chiedi potrebbe
costarti lacrime di sangue”…Ma, per il momento, le aveva regalato
soltanto felicità, a piene mani.
Ma sono io che dovrei
ringraziarti, Lucilla. Per questa notte, e non solo. Mi hai detto che,
quando ero uno schiavo che metteva a repentaglio tutti i giorni la pelle
per il sollazzo della plebaglia e di quel bastardo depravato del sedicente
imperatore, tramite un tuo uomo di fiducia hai contattato gli
amministratori della mia tenuta di Tergillium e fatto sì che non andasse
in rovina. Firmavi a nome mio le missive, ti occupavi in prima persona
della contabilità…Come potrei ricompensarti onoratamente, con il poco
che ho? Se non fossi così indegno da non osare farlo, ti chiederei di
sposarmi. Ma tu sei progenie degli dei, e io non sono nessuno.
Ho dimenticato il passato,
Massimo, e non oso ipotecare il mio futuro. Viviamo il presente, e non
pensiamo al domani. Non ho il coraggio di pensare a quel che potrebbe
riservare, a me e a mio figlio: sono in molti a contendersi il trono che
Commodo ha lasciato vacante. Sembrano cani affamati intorno a un osso da
spolpare. Lucio è il parente più prossimo di mio fratello, e non ha
neppure otto anni. Non voglio che qualcosa di molto più grande di lui gli
divori la vita…come l’ha divorata a me.
Tuo padre mi diceva sempre
che eri forte, determinata. Che saresti stata un grande Cesare, se solo
fossi nata maschio. Vedi, Massimo, gli somigliavo. Proprio come Commodo
rassomigliava all’uomo che aveva versato il suo seme nel grembo di mia
madre, quell’equites (gladiatore che combatteva a cavallo
N.d.A) sarmata che sapeva solo cavalcare, ubriacarsi, fottere e
ammazzare. E’ da lui che ho preso il coraggio della sopportazione. Te lo
ricordi? Avrebbe voluto dedicarsi solo ai suoi studi e alle sue
meditazioni, e si è ritrovato schiacciato dal peso del potere. Era un
uomo di pace, e ha trascorso metà della sua vita sui campi di battaglia.
Credeva nel valore della famiglia, nella lealtà e nell’onore e si è
ritrovato con una moglie frivola e infedele, un figlio, che non era
nemmeno tale, imbelle,crudele e vigliacco e una figlia che chiedeva solo
di vivere la sua vita e che, senza volerlo fare di proposito, ha
condannato all’infelicità…Povero padre mio. Mi aveva insegnato che ci
vuole più coraggio a sopportare che a ribellarsi. E aveva ragione.
Sono passati più o meno
quindici anni, da quando…Mi ricordo. Quindici anni. Tu ne avevi sedici,
io diciotto. Tu eri la figlia dell’Imperatore, io un provinciale, figlio
di un modesto contadino, e sembrava che la vita, per me, non avesse in
serbo niente. Oh, invece la vita ti avrebbe riservato la gloria e l’amore,
Massimo…Li hai pagati con il prezzo della sofferenza, ma li hai avuti.
Io…Io ho dovuto inghiottire i miei dolori senza avere nient’altro in
cambio che pena a non finire, anche se il popolo che mi vedeva sorridere
accanto a mio marito o a mio fratello non poteva immaginarlo. Ero ricca,
ero bella, ero potente: osare chiedere di più agli dei sarebbe stato l’equivalente
di una bestemmia. Non ho mai amato Lucio Vero, né lui ha mai amato me.
Eravamo troppo diversi, per età, carattere, abitudini. Gli ho dato un
figlio, com’era mio dovere, e poi…Basta, siamo diventati due estranei.
Mi tradiva…Mi tradiva con tutte le donne che gli capitavano a tiro e io…L’hai
tradito anche tu? Solo con il pensiero, Massimo. E ci sei sempre stato tu
soltanto, nei miei pensieri. Invidiavo tua moglie, che poteva darti l’amore
che meritavi, mentre io…Mentre tu, l’Augusta, consumavi la tua
esistenza nell’infelicità, prima accanto a un marito che non amavi,
quindi accanto a quel fratello pazzo, imprevedibile e sanguinario che ti
incuteva terrore.
Massimo chiuse gli occhi,
sentendo la carezza leggera delle dita di lei sulle guance e sul collo. C’era
un qualche cosa d’infantile, nei tratti morbidi e nelle labbra
imbronciate, leggermente aperte sul candore dei denti piccoli e regolari.
Avremo tempo per noi, ma la prima cosa che voglio fare appena sceso dal
letto è lavarmi via quest’odore di dosso: sangue, sudore, mirra e olio
di rose. Dove l’ho già sentito? Ti farò preparare un bagno caldo dai
miei servi, e lascerò che qualcuno di loro ti aiuti. O a uno schiavo
preferiresti…una principessa imperiale per insaponarti i capelli e
strofinare quella tua magnifica schiena?
Prova a indovinare, Lucilla…Il
sorriso di Massimo s’era fatto malizioso. E la mente della donna tornò
a quel giorno di quindici anni prima, sul greto del grande fiume, lungo i
confini settentrionali. Lui aveva accarezzato e baciato ogni brandello
della sua pelle, e aveva lasciato che lei facesse altrettanto. Ma, al
momento del dunque, si era tirato indietro. Quella era una principessa,
lui un soldato senza domani, e non aveva da offrirle niente che non fosse
il suo ardore. Lucilla aveva pianto lacrime cocenti di delusione, mentre
lo guardava stornare la faccia dalla sua e infilarsi i vestiti sulla pelle
ancora bagnata. Ma sapeva che, quello, era un discorso solo
temporaneamente sospeso. E che lo avrebbe portato a conclusione, avesse
dovuto aspettare mille anni ancora.
L’AGGUATO
Non voleva che qualcuno
potesse pensare, adesso che era guarito, che Massimo Decimo Meridio, il
salvatore di Roma, fosse diventato il mantenuto e il trastullo dell’
Augusta ex imperatrice. E’ meglio per me e per te, le aveva detto,
comunicandole che un uomo di sua fiducia gli aveva trovato casa. Tanto,
potremo vederci ogni volta che lo vorremo.
La casa era una villa
fatiscente, mezza diroccata, dalle parti del Celio; benché inabitabile,
era circondata da un grande giardino incolto e affiancata da una piccola
foresteria non troppo malridotta, quattro o cinque stanze. A lui
bastavano. Arredatala spartanamente con un mobilio semplice e ordinario,
ci si era trasferito con un servitore zoppo da una gamba e cieco da un
occhio che era stato congedato dall’esercito dopo aver servito per anni
nelle Legioni di stanza in Oriente.
Avrebbe ripulito il
giardino dalle sterpaglie e potato gli alberi, si ripromise. Avrebbe
dissodato quella terra indurita e morta, quando fosse giunto il tempo di
farlo. Si sarebbe procurato un cane, e un altro cavallo. E avrebbe avuto
il modo e il tempo di pensare a cosa farne della sua vita.
Questa bestia ha tutto il
diritto di riposarsi. Se l’era detto tante volte, mentre strigliava il
mantello del vecchio baio che gli era stato venduto con la villa: un
brocco sfiatato che, se non aveva i suoi trentatré anni, poco ci mancava.
Dalle parti di Tivoli, un allevatore affidabile vendeva buone bestie da
sella, gli era stato detto. E quel giorno aveva deciso di recarsi a fargli
visita sperando al contempo che quello potesse essere l’ultimo sforzo
che richiedeva al suo vecchio animale prima di collocarlo a riposo.
Indossò una tunica corta
color vinaccia stretta in vita da un’alta cintura borchiata, brache di
pelle morbida all’uso barbarico, e si avvolse in un lungo mantello nero:
era inverno, e faceva un freddo da lupi. Prese con sé del denaro,
perché, se avesse trovato un cavallo di suo gradimento, era certo che l’avrebbe
acquistato e portato via subito. Non dimenticò la daga: le strade erano
infestate di briganti, per i quali non esistevano estate e inverno, ma le
sue esperienze nell’esercito e nell’arena avevano finito col fare di
lui un osso molto duro, semmai a qualcuno fosse balenata l’idea poco
felice di tendergli un agguato allo scopo di rapinarlo.
Gentile alla maniera dei
mercanti, Gaio lo fece accomodare dinanzi a un camino scoppiettante e gli
offrì da mangiare e da bere. Quindi gli mostrò i cavalli: belle bestie,
floride e ben tenute, con gli occhi vivaci e i mantelli lucidi e puliti.
Lui scelse un giovane stallone biondo e pagò quel che Gaio gli domandava
senza mercanteggiare, come se avesse fretta di andarsene.
-Si è fatto tardi e presto
scenderà il buio.Puoi passare la notte qui, domine, e ripartire domani,
se lo desideri.
-Ti ringrazio della tua
gentilezza, Gaio, ma la città non è così lontana.
-L’aria è fredda,
potrebbe nevicare da un momento all’altro…
-Ero di stanza lungo i
confini settentrionali fino a due anni fa. Non mi fanno paura quattro
fiocchi di neve.
Gli rispose Massimo sulla
porta; il suo sorriso gentile tradiva una leggera impazienza. Quindi
saltò in groppa allo stallone biondo, afferrò le redini del vecchio baio
e si allontanò, lasciando il mercante ad arrovellarsi nella convinzione
che a quel bel giovanotto elegante, dai riccioli bruni, dagli occhi
azzurri e dal piglio risoluto mancasse qualche rotella, ad andarsene in
giro,per giunta da solo, in una simile nottataccia.
La strada era deserta, l’aria
gelida. Massimo stava riflettendo sulla situazione dell’Impero, a
proposito della quale Lucilla lo aveva edotto senza reticenze: alla morte
di Commodo, gli aveva detto, mente lui giaceva incosciente tra la vita e
la morte, c’era stato un tentativo, subito abortito, di restaurare la
Repubblica. Quindi i Pretoriani, arbitri come sempre della situazione nei
momenti di anarchia e disordine, avevano venduto la porpora imperiale al
miglior offerente. A spuntarla era stato Elvio Pertinace, un generale
valoroso che non capiva niente della politica e dei suoi maneggi;
sicuramente sarebbe durato poco, specialmente dopo che i Pretoriani si
fossero accorti che non aveva nessuna intenzione di versare loro il denaro
pattuito: quei delinquenti sinistramente intabarrati di nero la prendevano
molto male quando venivano contrariati ed erano abituati ad andare per le
spicce.
Era tutto preso dalle sue
riflessioni, quando sentì una voce che lo chiamava con il suo nome. “Generale,
sono io…” Io chi? Qualcuno degli uomini che avevano combattuto al suo
fianco lungo i confini settentrionali? Scese di sella, esplorò la foschia
fredda e lattiginosa del tramonto con i suoi occhi acuti. Forse non era
necessario, ma mise ugualmente la mano sull’elsa della spada.
Alcuni grandi alberi spogli
bordavano il ciglio della strada, sinistri come scheletri. Dieci uomini
spuntarono da dietro quei grossi tronchi. Vestivano modestamente, e non
avevano un aspetto ostile. Forse volevano davvero soltanto parlare con
lui, magari erano davvero veterani delle Legioni del Nord, o forse si
trattava di semplici viandanti che avrebbero avuto piacere ad
accompagnarsi al giovane elegante e dal piglio risoluto, per non
percorrere da soli la strada verso casa.
-Massimo Decimo Meridio…Questo
è un dono che ti manda Sua Maestà Imperiale, il Cesare Publio Elvio
Pertinace.
Prima che potesse sfilare
dal fodero la sua, sentì la daga di uno degli uomini penetrargli nel
ventre. Crollò a terra in un lago di sangue, con gli intestini che
fuoriuscivano da un’orrenda ferita e il corpo straziato da dolori che
mai avrebbe immaginato di poter provare. Questa volta il fato non gli
avrebbe concesso deroghe, pensò, prima di perdere i sensi. Publio Elvio
Pertinace aveva visto in lui un possibile rivale, e s’era deciso ad
assoldare dei sicari per eliminarlo. Eppure, lui lo aveva conosciuto e
sapeva che era un soldato valoroso e un galantuomo.
Il buio che gli accecava
gli occhi come il giorno del suo ultimo duello nell’arena non era la
notte, pensò. Questa volta non avrebbe avuto scampo. Sarebbe morto in
aperta campagna, e il suo cadavere avrebbe sfamato i lupi e i corvi.
RIVELAZIONE
La campagna battuta dal
vento gelido e inargentata dalla falce della luna non erano i Campi Elisi.
Sentì ululare un lupo in lontananza, i cavalli nitrire inquieti. Non
provava dolore, anche se la tunica e le brache erano zuppe di sangue e
testimoniavano che l’agguato non era stato un sogno. Si tastò la ferita
e sentì, sotto le dita, i muscoli addominali induriti dall’esercizio
fisico, il calore della pelle, che era sana a intatta. Non aveva sognato,
il dolore l’aveva sentito davvero, come aveva sentito il sangue scorrere
portandogli via la vita, come aveva visto gli intestini fuoriuscire dallo
squarcio orrendo che qualcuno che voleva la sua morte gli aveva aperto nel
corpo. Già, perché ferite simili uccidevano sempre, gli anni trascorsi
nell’esercito e l’esperienza dell’arena glielo avevano insegnato.
Non provava il dolore di
quando era stato trafitto e la campagna con gli alberi nudi inargentati
dalla luna era il tratto di strada che divideva Roma da Tivoli, non il
mondo dei trapassati. Un gufo che volava basso quasi gli sfiorò la testa
con la punta della sua ala. Non aveva sognato, il sangue, la stoffa
strappata dov’era penetrata la punta della daga lo testimoniavano. E se
non era stato un sogno…Se non era stato un sogno, doveva essere un
sortilegio, pensò, mordendosi a sangue il labbro. Si avvolse nel
mantello, per non sentire freddo, e montò in sella: la città non era
lontana.
RANCORE
-Lucilla.
E’ solo, e cerca di me.
Pensò la donna. Forse ha freddo, la notte è gelida e ha ancora bisogno
di qualcuno che gli trasmetta un po’ del suo calore, che lo tenga
stretto tra le braccia per scacciare gli incubi dalla sua mente…Massimo
il soldato. Massimo il gladiatore. E’ fragile, nonostante tutto. Fragile
e sensibile, ed è anche per questo che gli voglio così bene.
-Lucilla.
La sua voce era tesa, e la
fiamma della grande lucerna gli illuminava lo sguardo gelido come non
gliel’aveva mai visto,i tratti impassibili, immobilizzati in una
maschera spettrale che suggeriva l’idea della morte, gli occhi come
pozze insondabili d’oscurità.
-Lucilla…Che mi hai
fatto?
Lo sguardo di lei lo
percorse, e si fermò sulla larga chiazza di sangue che gli imbrattava i
vestiti.
-Massimo…sei ferito?
Lo vide scuotere la testa
lentamente, senza perdere quella calma che, lo sapeva, era presaga di una
gelida collera.
-Sulla strada di Tivoli…Erano
in dieci. Uno mi ha cacciato la daga nel ventre fino all’elsa e…E non
sono morto, donna…
Un lungo brivido l’attraversò
tutta. Prima o poi si accorgerà che le malattie e le ferite non lo
uccidono, gli aveva detto Timandra. E ancora:non è detto che non
consideri questo tuo dono una maledizione…
-Si vede che non era ancora giunta la
tua ora, Massimo…
-Quel genere di ferite uccide sempre.
Che mi hai fatto…puttana?
Lucilla sentì la sferzata
dell’insulto, poi le dita di ferro che le serravano il collo.
-Mi volevi…Mi hai voluto dal primo
momento che mi hai posato gli occhi addosso, ed è solo per questo che mi
hai riportato indietro dal mondo dei morti, maledetta puttana…
La spinse fino al letto e ve la gettò
sopra. Le avrebbe dato quello che si meritava. Quello che lei voleva. Ma
come alle donne dei nemici sconfitti, con rabbia e senza amore. La sentì
tremare, schiacciata dal peso del suo corpo. La sentì singhiozzare,
implorare. Non è come pensi, Massimo. Mi sentivo in debito con te,
perché ti avevo usato. Perché ti ho tradito, quando Commodo mi aveva
portato via il bambino e minacciava di ucciderlo, se non gli avessi
raccontato quello che sapevo…Non potevo vivere con quel peso sulla
coscienza, Massimo…
L’uomo si scostò da lei. Non avrei
dovuto farlo, pensava. E ricordò quando, dopo l’assalto a un villaggio
in riva al Reno, aveva egli stesso passato a fil di spada due soldati rei
di aver violentato una donna.
-Tutto quello che ho fatto…Che fosse
giusto o sbagliato…l’ho fatto solo perché ti amo, Massimo…
Il lume della lanterna gli illuminò il
solito sguardo di sempre: quello franco di un uomo che, in qualunque
circostanza, può camminare in mezzo alla gente tenendo alta la testa.
-Lucilla, lo so.
La strinse a sé baciò la bocca
teneramente, un labbro alla volta.
-Massimo, perdonami…
Le sorrise, accarezzandole i capelli
morbidi e profumati.
-Quello che mi hai fatto è un grande
dono, Lucilla. Cercherò…cercherò di esserne degno, sempre e comunque.
FINE PRIMA PARTE
Lalla U. 06/11/01
(segue) |