Capitolo I
Non resisteva più. Il desiderio di
fumare era così impellente che le sembrava di
impazzire. Guardò le cicche mezzo consumate nel
portacenere e pensò per un attimo di riaccenderne una
come faceva ai tempi della scuola. Gli anni… quanti ne
erano passati da allora, più di venti. Uno sguardo
lascivo alla bottiglia del whisky. Per quella sera
poteva bastare, si era già fatta fuori una bottiglia
intera di vino. Il mangiare, una pizza surgelata fatta
rinvenire tristemente nel forno, era a malapena il
minimo per contrastare l’effetto dell’alcool.
Eppure, anche di quello aveva voglia: di bere. Erano le
3 e 03 del mattino, e non si era prudentemente
ricomprata le sigarette quella mattina. In uno slancio
guidato soltanto dall’alcool che aveva in corpo, si
tolse il pigiama, si infilò un paio di jeans, agguantò
il piumino e quasi in un unico movimento afferrò le
chiavi di casa, quelle della macchina, la patente e i
soldi sufficienti da infilare nel distributore
automatico. Scese le scale di corsa, sì infilò nella
macchina, mise in moto e partì con una sgommata, che le
sfuggì dato il suo stato leggermente alterato. Cercò
presso il primo tabaccaio che ricordava… niente
distributore automatico. Si diresse verso il secondo, in
periferia del paese più vicino… niente. Allora scelse
la direzione del centro. Le 3 e 06. Correva un po’
troppo per essere in città, anche a quell’ora. Chiuse
la sicura in vista di un’altra auto ferma, affiancata
da un viandante che più che sembrare uno che si era
perso, data l’ora, poteva lasciar pensare ad un
passeggero lasciato in prossimità del suo portone di
casa. Li superò a velocità elevata, svoltò a destra,
percorse alcune centinaia di metri poi a sinistra,
commettendo un’infrazione. Si incuneò nel viale
principale del paese e in lontananza vide un’auto che
si scostava dal marciapiede, sulla destra una “T”
illuminata. “Eccolo…!” pensò tra se. Con
schizofrenica frenesia, parcheggiò, scese dall’auto,
il distributore mangiò al secondo colpo la sua
banconota da cinque, poi la moneta da due… sputò in
men che non si dica due pacchetti di Marlboro Light,
risalì in auto…. Si sentiva meglio, come se la dose
di insulina stesse entrando velocemente in circolo. Non
aspettò neppure di rimettersi in moto, aprì uno dei
due pacchetti, ne estrasse una sigaretta, riprese la sua
marcia non prima di aver attivato l’accendisigari, poi
si accese la sigaretta. Tirò una lunga boccata. “Dio…
finalmente…”. Lo pensava. Ma ne era convinta. Non
avrebbe potuto resistere quella notte se non avesse
fumato almeno un’altra sigaretta. Che poi sarebbero
tranquillamente potute diventare due, o tre. O di più.
Quando rientrò a casa venne assalita dal tepore
imprigionato nell’appartamento. Nonostante la pizza
surgelata, si scoprì ancora affamata e accese il forno
per scaldarsi anche l’altra pizza avanzata nella
confezione. “Che follia…” Si compatì leggermente,
ma mentre aspettava che il forno raggiungesse la
temperatura ideale, buttò giù un altro sorso di
whisky. Stava costruendo, quasi consciamente, il suo
vizio, stava desiderando di dipendere da un qualcosa per
il quale si sarebbe potuta maledire per il resto dei
suoi giorni. Ma in fondo… che le restava di quell’anno
vecchio che si era appena buttata dietro le spalle, cosa
poteva offrire di così nuovo ed invitante quell’anno
neonato, che così tanto la spaventava, piuttosto che
alimentare le sue aspettative. Il desiderio di
autodistruzione era subdolo, insinuante, quasi quanto la
speranza di trovare qualcuno che da quell’autodistruzione
l’avrebbe salvata. Oppure no… forse sarebbe stata
così forte da venirne fuori da sola ed avrebbe
dimostrato ancora una volta al mondo che lei, Sophie,
avrebbe superato le traversie della vita, e avrebbe
trovato la forza di incamminarsi sulla strada giusta. Ma
a chi interessava? Il mondo? Quale mondo? Il dolore
così intenso che aveva provato mesi addietro si
risvegliò ma solamente in parte, come un gatto che apre
appena un occhio per controllare la situazione
circostante per poi richiuderlo, confortato dal fatto
che in fondo nulla di nuovo è accaduto. Quell’ora
della notte e l’elevato tasso alcolico le elevavano
generalmente l’appetito sessuale. Per un momento
pensò di poter andare a scampanellare alla porta del
vicino, troppo giovane per lei, con la certezza che lo
stupore l’avrebbe portato ad accettare le sue
profferte. Un pensiero crudo, fatto di mani e di fredde
bocche su zone proibite l’attraversò fugace, poi di
colpo tornò al momento presente. Mangiò, scottandosi
atrocemente un labbro, la seconda pizza della giornata,
giustificandosi col fatto che, essendo le quattro ed
avendo mangiato la prima alle sette meno venti non era
poi tanto anomalo che avesse fame a quell’ora. Se
avesse avuto sonno… avrebbe potuto vincere il suo
appetito. Ed in fondo ne aveva, se avesse toccato il
letto sarebbe crollata come un macigno. Ma qualcosa, una
strana smania incontrollabile la tratteneva ancora in
piedi, in una furente corsa contro il tempo, per godere
di momenti che mai prima aveva immaginato o vissuto. Il
pacchetto di sigarette appena aperto e la bottiglia sul
mobile la tentavano, ma combattevano anche una battaglia
in verità parzialmente persa, contro la sottile nausea
che la stava assalendo. Il sonno avrebbe edulcorato
quella smania soltanto per un breve periodo di tempo ed
al suo risveglio l’avrebbe trovata lì ad attenderla,
beffarda e robusta come la sera prima. Quindi perché
cercare di ingannare se stessi, perché nascondere la
propria paura dietro poche ore di illusoria sonnolenta
estasi? Si chiese che ne sarebbe stato di lei la mattina
dopo. Le sigarette erano già state acquistate, non
avrebbe avuto altro motivo di uscire, in quella domenica
che si sarebbe sicuramente rivelata fredda e limpida.
Avrebbe dormito tutto il giorno, non avrebbe sicuramente
stirato come doveva, non avrebbe pulito la casa. E in un
soffio sarebbe stato lunedì. Un altro giorno di attesa,
un altro giorno passato senza di lui. Sarebbe
sicuramente impazzita. Se non fosse riuscita ad
incontrarlo sarebbe sicuramente impazzita, ne era certa.
Che situazione bislacca, quella bramosia, quel desiderio
per un uomo così noto eppure a lei così sconosciuto,
trasformato dalla subdola tranquillità della follia
nell’oggetto di un sentimento passionale ed amoroso.
No, quella sera non si sarebbe sfiorata sognando che
fossero le mani di lui e non le sue a regalarle
sensazioni incomparabili, avrebbe dormito il sonno
pesante e senza sogni che solo l’alcool sapeva darle.
E domani, o forse il giorno seguente, avrebbe pensato a
come fare suo quell’uomo, così lontano nella mente,
nel cuore e soprattutto nella geografia, che oltretutto
adorava un’altra donna. Il cuore le batteva forte,
sfinito, affaticato dall’alcool e dalle sigarette,
dalla mancanza di riposo, la musica dal lettore DVD si
ripeteva ossessiva riproponendo lo stesso menù. Avrebbe
preso il telecomando, avrebbe spento le apparecchiature
ausiliarie e sarebbe saltata da un canale all’altro
della TV alla ricerca di qualche pubblicità di linea
telefonica erotica, cercando di ricreare quel sogno dei
sensi in compagnia di quell’uomo che poteva solo
sarcasticamente immaginare la sua presenza. Sola, di
notte, dalla parte opposta alla sua, in qualche altro
angolo del globo.
La sera seguente si svolse
pressappoco nello stesso modo. Così come quella dopo
ancora. Con poche speranze, mentre prosciugava un’altra
bottiglia di scotch, si ricordò del suo viaggio. Una
sorta di ultimo viaggio, per dare un senso diverso a
quella vita che ormai disprezzava con tutto il suo
essere, votata soltanto al livore, o magari… per
iniziarne una completamente nuova, lontana da tutto e da
tutti, in un paese straniero. Guardò il biglietto aereo
sul tavolo. Aveva senso? Probabilmente no. E proprio per
quello l’avrebbe fatto molto più volentieri. Aveva
ancora due ore di sonno. Non le avrebbe sfruttate.
Cominciò a chiudere la valigia e a preparare i
documenti.
Capitolo II
- Buongiorno signorina, posso
avere il suo biglietto ed un suo documento?
Sophie porse il biglietto aereo e i
documenti alla hostess del banco check in. Aveva forse
dormito due ore quella notte e si sentiva uno straccio.
Gli occhi nascosti dietro le lenti scure di un paio di
occhiali da sole, attese in silenzio che la ragazza
svolgesse il suo lavoro. Dopo poco caricò il suo
bagaglio sul tapirulan, la ragazza applicò l’etichetta
adesiva e le restituì documenti e carta d’imbarco con
un sorriso sulle labbra.
- Buon viaggio signorina.
Si voltò di scatto, scontrandosi con
il passeggero in coda dietro di lei. Chiese scusa a
malapena ma in quella perse la carta d’imbarco, senza
accorgersene. Il passeggero la chiamò.
- Signorina… Ehi, signorina!
Signorina… Scotti!
Si voltò, L’uomo le porse la carta
d’imbarco.
- Ha perso questo.
Lei lo guardò. Aveva una faccia
nota, i capelli lunghi sul collo le spalle larghe e
massicce, il volto parzialmente nascosto da un paio di
occhiali da sole alla moda.
- Senza… sarebbe un problema
viaggiare.
Sarcasmo idiota. Si tolse gli
occhiali che scoprirono un paio di occhi verde azzurri
intensi e indagatori. Ma certo che lo conosceva, era
Russell Crowe. Che ci faceva in quell’aeroporto? Ah
già… una conferenza stampa o una promozione del suo
ultimo film, l’aveva quasi dimenticato. Rimase qualche
istante a fissarlo, irritata da quel fascino un po’
selvaggio che certo non riusciva a dominare. Sollevò
anch’ella gli occhiali sul capo, scoprendo i suoi
occhi verdi sottobosco. Prese la carta d’imbarco che l’uomo
che porgeva e lo ringraziò.
- Scusi…. la mia solita
sbadataggine.
- Si figuri….
Si soffermò ancora sui suoi
lineamenti. Imperfetti eppure così magicamente
attraenti quell’uomo avrebbe stregato chiunque. Non ci
poteva credere. Ecco lì di fronte a lei stagliarsi il
neanche tanto oscuro oggetto del suo desiderio. Avrebbe
dovuto saperlo, avrebbe dovuto immaginarlo, sapeva che
era a Roma per lavoro e che sarebbe dovuto partire dopo
pochi giorni, ma davvero non aveva voluto, come del
resto in altre occasioni della sua vita, fare così
tanto affidamento sulla sua fortuna. L’espressione
seria si tramutò in un sorriso spaccone e
irresistibile, sapeva di avere fascino, sapeva di avere
un pazzesco ascendente sulle donne, si vedeva.
Apparentemente lui non seppe resistere.
- Va a Sydney anche lei?
- Sì.
- Beh, interessante. Le va…
di viaggiare insieme?
- Ne dubito.
La immediata contrarietà che si
dipinse sul suo volto si tramutò istantaneamente in
incomprensione. Sophie decise di spiegarsi.
- Dubito fortemente che Lei
viaggi in classe turistica.
Lui sorrise ancora sornione e
trattenne il coupon.
- Se per questo possiamo porre
subito rimedio.
Si volse alla hostess al banco del
check in, dopo averle porto il suo biglietto ed i suoi
documenti.
- Signorina, è possibile
cambiare questo biglietto in uno di prima classe?
Vorremmo sedere vicino.
La hostess prese i documenti. Dopo
aver controllato il coupon sorrise.
- Certamente Mr. Crowe ma… è
necessario pagare la differenza.
- Nessun problema.
Estrasse la carta di credito e la
porse alla hostess. La ragazza digitò rapidamente sulla
tastiera, poi restituì i documenti all’attore.
- Ecco a lei, Mr. Crowe e buon
viaggio.
Russell restituì la nuova carta d’imbarco
a Sophie.
- Ecco fatto!
Diede un fugace sguardo all’orologio
poi disse:
- Credo ci sia ancora tempo per
un caffè, le va? A proposito… date le
circostanze credo sarebbe opportuno presentarsi in
modo appropriato.
Le tese la mano, ancora con quel
sorriso disarmante.
- Ciao io sono Russell, Russell
Crowe.
Sophie lo guardò severa.
- So chi sei.
- Fantastico… beh, hai anche
tu un nome?
- Scotti. Sophie Scotti.
- Posso chiederti cosa vai a
fare a Sydney?
- No - rispose Sophie
seccamente.
Contrariamente a quello che aveva
sempre pensato quella situazione la stava mettendo
fortemente a disagio e stava costruendo delle
invalicabili barriere per difendersi dal pericolo che
quell’uomo sapeva poter costituire per lei.
- Hai pranzato? - chiese lui
- No, arrivo da Verona. Sull’aereo
non ho avuto voglia di mangiare.
- E ora ne hai?
- Forse… soltanto un po’.
- Vieni. Parliamo un po’
davanti a un cheeseburger.
Lui ordinò senza chiederle cosa
volesse poi si sedettero ad un tavolo appartato,
compatibilmente con quanto poteva essere appartato un
tavolo da McDonald.
- Ti ho preso una birra, ti va
bene? Anche se chiamare birra questo scempio è
davvero un insulto.
Sophie pensò alla notte che aveva
trascorso quasi interamente in piedi, bevendo e fumando
decisamente più del dovuto. Fu scossa da un leggero
urto di vomito, ma deglutì vistosamente e cominciò ad
addentare il suo panino, scoprendosi in verità molto
più affamata di quanto pensasse. Lui la guardava
peraltro leggermente divertito. Si chiese quando avrebbe
smesso di giocare con la vita delle persone in quel
modo, privilegiandone una scelta a caso, naturalmente di
sesso femminile, per regalarle una mezz’ora di
incredula felicità e poi dimenticarsene, lasciandole
uno strabiliante indelebile ricordo e senza essere in
grado di conservarne una parte per sé. La ragazza era
piuttosto carina, ma mai gliene erano capitate di così
scontrose. Generalmente quel giochetto gli aveva
fruttato un maggiore e più facile successo.
- Hai detto che arrivavi da…
dove?
- Verona.
- E’ lì che vivi?
- No. Vivo una ottantina di
chilometri più a nord.
- Cosa fai per vivere?
- Senti, non potremmo
risparmiarci questi convenevoli? Li trovo
superflui e sgradevoli.
Oh beh…. pensò Crowe. Questa sì
che gli piaceva. Una che gli opponeva addirittura
resistenza. Strapparle un sincero sorriso e vedere nei
suoi occhi quella luce brillante di adorazione
incondizionata sarebbe stata la sua missione per quel
viaggio e ci sarebbe riuscito. A qualunque costo.
- Uhm! - fece vestendosi del
solito sorriso felino - Mai vista una persona che
detesta così tanto il proprio lavoro.
- Credo sia troppo facile amare
un lavoro come il tuo.
- Credi che un attore non
faccia dei sacrifici?
- A trenta milioni a film?
Sinceramente direi che per quelle cifre tutto è
dovuto.
- Sono convinto che potrò
scoprire da solo che lavoro fai andando per
esclusione… sicuramente non lavori in un’ambasciata
o in un consolato… troppo poca diplomazia.
- Se non ricordo male una
caratteristica tipica anche del tuo carattere…
- Mi piace dire quello che
penso.
- Anche a me.
- Fantastico. Mi piacciono le
persone dirette.
- Dove alloggi? A Sydney
intendo, dove alloggerai?
- Al De Vere Hotel, a Elizabeth
Bay.
- Rushcutters Bay.
Sophie lo guardò con aria
interrogativa.
- L’hotel - proseguì lui - E’
a Rushcutters Bay, non a Elizabeth Bay. E’…
vicino, comunque.
Lui guardò le sue mani
simmetricamente abbarbicate al panino. Erano belle,
aveva le unghie molto curate. Le dita affusolate, la
pelle chiara. Un bell’orologio. Inclinò appena il
capo per osservarlo meglio. Calvin Klein, tutto di
acciaio lucido, semplice, rettangolare. Poi la sua
attenzione si spostò verso il suo viso. Aveva una bella
carnagione chiara e liscia, gli occhi erano leggermente
truccati in modo da metterne in risalto il colore, le
guance scarne sotto gli alti zigomi nordici, le
sopracciglia formavano un ala di gabbiano e sopra di
essere una fronte segnata da qualche ruga d’espressione,
che rivelava non tanto la sua vera età quanto il fatto
che non doveva essere giovanissima. Aveva i capelli
biondi lisci ed era leggermente, piacevolmente
scompigliata. Quando la sua bocca si chiuse per
masticare e dopo che ebbe finito, le osservò le labbra
deliziosamente disegnate e piene. C’era qualcosa che
lo attirava molto in lei, qualcosa che avrebbe reso più
piacevole del solito quel viaggio interminabile fino a
casa. Lei si accorse di essere osservata ed alzò lo
sguardo fino ad incontrare i suoi occhi. Lui non li
distolse. Si sentì spogliata fino alle ossa e il
disagio la fece avvampare; sperò di non essere
violentemente arrossita.
- Che c’è?
- Hai… delle belle mani.
- Grazie.
- Senza… anelli.
- Li porto soltanto se l’occasione
lo richiede.
Sorrise perché lei non aveva capito
cosa aveva voluto sottolineare.
- Qualcuno ti verrà a prendere
all’aeroporto? Qualcuno che vai a trovare?
- Prenderò un taxi.
Rise nervosamente.
- Parola mia! Non ho mai
incontrato una persona più spinosa di te!
Sophie lo guardò. Era impossibile
restare indifferenti a quegli occhi, al modo in cui si
passava le mani tra i capelli, alla voce che col
registro basso e il velo lasciato dalle sigarette ti
avvolgeva come una coperta calda. Aveva paura, una paura
fottuta di aprirsi con quell’uomo, eppure era
irresistibile. Cercò di non esagerare.
- A dire il vero… me lo sarei
aspettato da te.
- Cosa?
- Che fossi un tipo scontroso.
- Mi capita di avere la luna.
Sophie sorrise.
- Così dicono certi rotocalchi…
- Oh certo! Crowe il
maleducato, Crowe il rissoso… Ho un solo
commento per quei giornalisti.
- E sarebbe?
- Kiss my butt… Love,
Russell! (1)
- Uhm. Se è efficace…
- A dire il vero funge più da
sfogo… no, non lo è più di tanto.
Sophie frugò nella borsa alla
ricerca delle sigarette. Non ne aveva avuto abbastanza
dalla sera prima e si alzò lasciando il vassoio sul
tavolo.
- Vado fuori a fumare una
sigaretta.
- Mi pare una buona idea.
Le porte scorrevoli si aprirono e i
due uscirono. Entrambi, il capo chino, le mani
arrotondate a coppa intorno alla bocca a riparare la
fiamma dell’accendino. Si guardarono e riconoscendo
nell’altro i medesimi movimenti si sorrisero.
- Brutto vizio… - fece Sophie.
- Già…. C’ho anche dovuto
pagare una multa.
- Quante ne fumi?
- Almeno un pacchetto al
giorno. E tu?
- Più o meno lo stesso anch’io.
E’ un vizio ghettizzante.
- Trovi?
- Ho molte amiche che mi
rimproverano e mi puniscono facendomi trascorrere
mezze ore sul balcone per non gasar loro la casa…
- E’ una bella… selezione
naturale. Gli amici veri ti accettano per come
sei, fumatore o no.
- Hai mai preso in
considerazione l’idea di smettere?
- No. Mi piace fumare, non mi
va di smettere.
- Hai mai avuto una compagna
che non fuma e che ti asfissia perché tu smetta?
- Ho avuto compagne che non
fumavano. - Sorrise sornione - Ma nessuna mi ha
mai chiesto di smettere.
Sophie lasciò cadere improvvisamente
la conversazione. Ripensò al suo passato, quel bagaglio
per cui era convinta che per tutta la vita avrebbe
pagato un soprapprezzo per l’extrapeso. Cercò di
scacciare i suoi fantasmi, senza peraltro riuscirci.
Russell si fece tenero. Si avvicinò a lei e piano le
chiese:
- Ehi… dove sei?
Sophie si allontanò e si chiuse
nella sua torre d’avorio.
- Da nessuna parte.
Lui capì che non era il caso di
insistere. Continuò a ripensare che mai nella sua vita
aveva incontrato una donna così arroccata in “difesa”
come quella che aveva davanti. Gettò la cicca per
terra, dopo averla consumata fino al filtro ed invitò
la sua compagna di viaggio a fare lo stesso. Rientrarono
nell’aeroporto e raggiunsero il loro gate. Si
sedettero uno accanto all’altra in silenzio, lei dopo
aver acquistato un illustrato. Lui cominciò a diventare
nervoso, le lunghe attese in posti dov’era proibito
fumare lo infastidivano terribilmente. Lei continuò
tranquilla a leggere. Percepì la sua agitazione e si
voltò a guardarlo.
- Qualcosa non va?
- Non vedo l’ora di salire su
quel maledetto aereo. Ho voglia di fumare.
- Si potrà fumare sull’aereo?
- Non credo.
- E allora?
- Almeno sarò sulla… strada
di casa.
- Prenditi un giornale…
- No… non mi va.
- Allora fatti un giro.
- Preferisco restare qui. Mi
piace la compagnia. - Sorrise.
- Vuoi leggere l’oroscopo? -
fece lei, porgendogli il giornale.
Lui sorrise.
- Non credo negli oroscopi.
- Peccato. Io ci credo. E se li
avessi seguiti non mi sarei cacciata nei guai…
Si pentì immediatamente di essersi
scoperta. Cercò di rimediare come meglio potè.
- D’altra parte, oroscopi o
non oroscopi, poi bisogna rialzarsi in piedi. Tu
hai mai avuto difficoltà nella vita?
Lui volse lo sguardo altrove, poi
tornò subito a piantarle gli occhi nei suoi.
- Ho ricevuto delle minacce una
volta… roba da far scatenare l’FBI, ero negli
Stati Uniti per una premiazione.
- Hai avuto paura?
- Mah sai… non sai mai come
prenderle certe cose.
- Senti… ti va di andare a
bere una cosa?
- Ancora sete?
- Sì… - mentì lei.
Si alzò di scatto e a passo svelto
si avviò verso il bar. Russell perse “l’abbrivio”
e dovette affrettarsi per raggiungerla.
- Ehi! Aspetta.
- Ci sei?
Si appropinquò al banco e ordinò.
- Whisky.
Poi guardò lui.
- E una birra.
Lui la guardò, sempre più stupito.
Aveva trovato una donna… più tosta di lui. Strano. E
affascinante. Ne era sempre più rapito.
Bevvero in silenzio. Dopo poco Sophie
buttò lo sguardo all’orologio.
- Andiamo? Potrebbero aver già
chiamato il volo.
- Sì.
Sull’aereo Sophie si stupì. Non
aveva mai viaggiato in prima classe.
- Che meraviglia.
- Ti piace?
- Se non altro viaggerò
comoda. Grazie, sei stato davvero gentile.
La hostess, ancor prima di consigliar
loro di allacciarsi le cinture di sicurezza, offrì loro
un drink.
- Champagne, signore?
- Sì grazie. Per la signorina
invece Laphroaig.
L’hostess si allontanò.
- Laphroaig. Ottima scelta,
bravo.
- Sono contento che ti piaccia.
Un’oretta dopo il decollo, Sophie,
essendosi rilassata, cominciò a sentire il peso del
mancato sonno della sera prima. Si appisolò. Lui rimase
a guardarla, assorto, incuriosito, tentato. Era carina,
misteriosa, stimolante, intrigante. Gli sarebbe piaciuto
continuare a frequentarla anche quando avessero lasciato
quell’aereo. Pensò a quello che l’aspettava a casa,
a quella donna piccola e petulante che tanti anni fa
aveva amato appassionatamente e dalla quale pensava che
non sarebbe mai riuscito a star lontano. Gli sarebbe
piaciuto attaccarsi alle sottane di Sophie e non
mollarla fino alla fine dei suoi giorni. Anche se non la
conosceva affatto, intuiva in lei una forza sovrumana,
ed una momentanea difficoltà nel superare delle grandi
avversità, le sue difese sembravano invalicabili,
pensava che prima che suoi problemi l’affliggessero
dovesse essere stata una ragazza gioviale, fresca e
disinvolta. Sentì di aver perso qualcosa, qualcosa di
prezioso eppure ringraziò il cielo di essere al suo
fianco in quel momento. Nel sonno si voltò verso di
lui, gli occhi chiusi. Corrugò la fronte appena, aprì
gli occhi verdi, grandi, smarriti e lo guardò.
- Cosa? - chiese con un filo di
voce.
- Ho la sensazione di aver
perso qualcosa…
Lo guardò con uno sguardo
interrogativo.
- Quello che eri prima. Prima
di… dei tuoi problemi.
- Forse meglio così, non
credi?
- Che intendi?
- Saresti rimasto deluso dal
mio cambiamento. Invece mi hai conosciuta così,
stronza e scontrosa. Almeno sai cosa aspettarti da
me. Ti pare?
- Non credo tu sia stronza.
- Aspetta di conoscermi meglio.
- Ne fai una bandiera?
- E’ una forma di difesa come
un’altra.
Lui abbassò lo sguardo serio sul suo
grembo. Sentì una strana rabbia crescergli dentro. Si
voltò ancora verso di lei.
- Chi è stato? Chi ti ha fatto
male? Un uomo?
Sophie sospirò. Guardò oltre il
sedile di fronte a sé, cercando di capire se poteva
aprirsi, ma soltanto in minima parte a quell’uomo. L’unica
cosa che le venne in mente è che le sarebbe piaciuto
chiudersi con lui nella toilette della prima classe e
scoparlo fino allo sfinimento, senza però scambiarsi
una parola. Pensò anche che molto probabilmente non l’avrebbe
mai più rivisto e quindi non aveva molta importanza
raccontargli i fatti suoi.
- Sì. Mi ha tradito. Il che
può sembrare normale ma è il modus operandi che
fa di lui uno stronzo
eccellente. (2)
- E com’è finita?
- Sono su un aereo di fianco ad
uno degli uomini più desiderati del pianeta.
Russell sorrise, invero non senza
imbarazzo.
- No intendo… vi siete
lasciati così… senza una parola?
- Oh. Di parole ne sono volate
tante. Ma mai adeguate, almeno da parte mia. Avrei
dovuto ammazzarlo quel sacco di merda, lui e la
sua puttana.
Russell si irrigidì. Non era rabbia,
non era dolore. Era odio. Quella donna al suo fianco era
carica d’odio. Quello non l’aveva percepito fino a
quel momento. Tentò di stemperare l’atmosfera.
- Magari lei è una
rompiscatole…
- Non basterebbe.
- Senti… sei mai stata in
Australia?
- No.
- Bene. Vedrai che ti aiuterà
a disintossicarti. E’ un paese incantevole.
Sophie si richiuse nel suo mutismo.
Lo guardò. Stavolta lui aveva il capo appoggiato al
poggiatesta e teneva gli occhi chiusi. Lo toccò appena
sul dorso della mano appoggiata sul bracciolo, lui
sussultò, il suo tocco delicato lo scosse come corrente
elettrica.
- Non ti ho ancora ringraziato
per questo. Questo viaggio, qui, in prima classe,
vicino a te.
- Non serve. Mi hai ringraziato
nel momento in cui hai accettato. Mi piace molto
parlare con te, davvero.
- Credevo l’avessi fatto per
scopare - disse lei, gelando l’atmosfera.
Lui si irrigidì nuovamente, la sua
crudezza lo sorprendeva, in un certo senso lo
disturbava. Non era forse vero? No, forse in quella
particolare occasione no.
- E’ questo che pensavi
volessi da te?
- Sinceramente, sì.
Russell si seccò.
- Si può sempre rimediare, se
è questo che vuoi.
- Sai… dopo certe esperienze
è difficile pensare che gli uomini non siano
tutti uguali.
Russell si imbestialì. Si alzò di
scatto, la prese per il polso e la trascinò lungo il
corridoio dell’aereo.
- Benissimo. Allora vieni con
me.
Entrò come un fulmine nella toilette
della prima classe, che pur essendo la più confortevole
dell’aereo restava sempre piccola e scomoda. Chiuse
violentemente la porta, si voltò verso di lei,
guardandola con gli occhi freddi e rabbiosi e le si fece
ancora più vicino di quanto lo spazio non lo obbligasse
già a fare.
- Se questo è quello che pensi
degli uomini, sarò ben lieto di accontentarti.
La sollevò di peso afferrandola da
sotto le natiche e la mise a sedere sul lavabo. Le aprì
velocemente i pantaloni che le sfilò con uno strattone,
poi le strappò gli slip. Entrò dentro di lei violento,
arrabbiato e indispettito. Sophie rimase senza fiato e
soprattutto senza parole. Appoggiò la testa allo
specchio e chiuse gli occhi mentre i colpi di lui si
susseguivano energici e crudeli. Lui si inclinò verso
di lei e le appoggiò le labbra nell’incavo del collo.
Annusò il suo profumo che gli piacque così tanto, poi
la baciò, la succhiò la morse. Venne subito e lei lo
sentì e provò una strana soddisfazione nel constatare
che nemmeno quell’uomo che tanto aveva desiderato
aveva smentito l’opinione degli uomini che le sue
esperienze le avevano procurato. Russell sollevò il
capo dal suo collo e la guardò, gli occhi ancora freddi
ma allo stesso tempo carichi di dolore.
- Non ti azzardare mai più a
dirmi una cosa del genere. Io non sono uguale a
nessuno.
Sophie quasi non fece una piega.
- Me lo hai appena dimostrato.
Infuriato, uscì da lei altrettanto
rapidamente di come era entrato, aveva una voglia
incontenibile di urlare che si trovò costretto date le
circostanze a trattenere a stento, si sistemò alla
meglio e si passò una mano tra i capelli che gli erano
scesi sulla fronte.
- Sai? Avevi ragione. Sei una
gran stronza.
Aprì la porta della toilette ed
uscì risbattendola.
Sophie rimase in silenzio, ancora
seduta sul lavabo. Alzò il naso verso l’alto, lo
sguardo accigliato, combattendo contro quel senso di
disagio e di sconforto che le procurava lo scoprire di
avere ragione. Lentamente recuperò i suoi jeans se li
infilò e uscì, tornando a sedere al suo posto di
fianco a lui.
Aprì la rivista e cominciò a
sfogliarla come se niente fosse. In fondo s’era tolta
un pensiero. Quell’uomo, che tanto aveva idealizzato,
aveva finito per comportarsi esattamente come tutti gli
altri. Che delusione. Non valeva niente, non avrebbe
lasciato un segno, come tutti quelli che ultimamente si
portava a letto per schiacciare il suo dolore nell’angolo
più profondo della sua anima. Talvolta faticava a
ricordare le loro facce, spesso non ricordava i loro
nomi. Questa era l’unica differenza tra lui e loro,
che per una questione pratica il suo nome l’avrebbe
ricordato per un bel po’ di tempo. Ma niente di più,
ne era certa.
Russell, nel frattempo dominava a
stento il suo disagio. Allungò il mento all’infuori,
cercando di liberare il collo da un immaginario colletto
di camicia stretto, si passò le dita nervose sulla
barba, cento, mille volte, aveva una voglia di fumare
micidiale. Quella rabbia che lo aveva divorato di colpo
non più di un quarto d’ora prima era ora dilatata e
fluttuante come un pallone aerostatico, se avesse potuto
avrebbe spaccato qualcosa in mille pezzi scagliandolo
contro il muro. Riusciva ad osservarla con la coda dell’occhio.
La sua tranquillità, apparente o reale che fosse, lo
irritava ancora di più. Non poteva essere così, non
poteva esserlo davvero. Cercò di pensare al male più
grande che una persona potesse aver subito, ma in
realtà non gli venne in mente nulla. Forse era proprio
quello che lo portava a non riuscire a comprendere il
perché del suo essere così ostile, lui in fondo non
aveva avuto grandi dolori dalla vita. Eppure… ci
doveva essere un modo per penetrare la sua corazza. Ma
ne aveva voglia? Il modo in cui lei aveva assecondato la
sua furia nella toilette era paradossalmente la forma di
difesa più esasperata che avesse mai visto: “Mi scopi
ma non avrai la mia anima”. Sophie. Sophie. Sophie,
Sophie… Bella Sophie. Dolce Sophie, sicuramente.
Piccola, impaurita, tenera Sophie. Eppure forte,
risoluta, una volta ferita nessuno più sarebbe riuscito
ad avvicinarsi abbastanza da ferirla una seconda volta,
lei non lo avrebbe più permesso. Capiva però che se
fosse riuscito a trovare una cricca, una breccia da
qualche parte in quella corazza sarebbe potuto entrare
in contatto con una donna splendida che avrebbe potuto
dargli tutto, tutto quello che un uomo poteva
desiderare. Non avrebbe lasciato che finisse così. Ci
avrebbe provato ancora, avrebbe cercato ancora di
avvicinarla, di capirla, di disarmarla, di espugnare la
sua fortezza.
- Sophie…
Si voltò a guardarlo, con una
leggera punta di disprezzo. Gli occhi di lui parevano
carichi di imbarazzo e sofferenza.
- Cosa c’è?
Abbassò lo sguardo. Era difficile
reggere quello di lei che portava fiero il dolore come
una bandiera, spavaldo come un bullo di strada.
- Mi dispiace. Ti prego,
perdonami.
- E perché mai? Ti ho
provocato. Tu probabilmente lo volevi. Perché
scusarsi? Sai? Una volta conoscevo una persona che
diceva che scusarsi era una cazzata, bisognava
pensare bene e meglio prima di dire o fare una
cosa, piuttosto che scusarsi dopo.
Un leggero sorriso strafottente si
disegnò sulle sue labbra. Che difesa. Ci sarebbe voluto
un panzer per sfondare la barricata e vedere anche
soltanto in lontananza la vera lei.
- Questa persona aveva
perfettamente ragione. Mi chiedo però quanto
abbia… vissuto. O era forse Dio? Chi non fa mai
errori? Soltanto chi non vive appieno la sua vita
e soprattutto rovina quella altrui. Probabilmente
perché è egli stesso incapace di chiedere scusa.
Sophie lo guardò. Sembrava una
seduta psicanalitica. Se soltanto fosse riuscito a
convincerla. Se soltanto fosse riuscita ad accettare la
spiegazione così semplice e lineare che ora lui le
proponeva. Forse avrebbe smesso di soffrire, forse
avrebbe smesso di difendersi all’esasperazione.
Continuò a guardarlo come se non capisse una parola di
quel che diceva, come parlasse una lingua che non
comprendeva.
- Devo scendere da qui…
Lui allargò il suo sguardo per lo
stupore.
- Come… cosa?
- Devo scendere, devo andarmene
da qui.
- Sophie….
Lei cominciò ad agitarsi, come se un
attacco di panico stesse subdolamente assalendola.
- Sophie… Sophie guardami.
Guardami. - le accarezzò appena la gota con le
dita.
- Devo scendere…
- Calmati, Sophie, stai calma.
Senti… andiamo a fare due passi? Mi hanno detto
che la classe turistica è un sogno.
Sophie, divenuta pallida, una stilla
di sudore freddo che le era comparso all’attaccatura
dei capelli, si sentì mancare il fiato. Aprì la bocca
come per divorare un boccone d’aria, sperando che
alleviasse quel senso di oppressione che sentiva al
petto.
- Vieni, alzati. Attaccati al
mio braccio, così. Andiamo a farci un giro.
Sophie sentì le gambe molli come
gelatina, ma appoggiò la mano sull’avambraccio di
lui.
Russell la guardò cercando di capire
come andavano le cose. Era ancora molto pallida in
volto, le sopracciglia leggermente aggrottate, lo
sguardo fosco, le labbra secche. Le passò un braccio
intorno alla vita.
- Vuoi una tazza di caffè?
- Forse… mi farebbe bene,
sì.
Russell lasciò Sophie appoggiata
alla parete di fianco alla toilette, poi andò dalla
hostess a chiedere la bevanda. Tornò con una tazza
fumante in mano, seguito dalla cameriera voltante.
- Signorina, si sente male?
Sophie la guardò con sguardo vacuo
ma immediatamente si riebbe.
- Sto benissimo grazie. Ho
soltanto bisogno di sgranchirmi un po’ le gambe.
Russell le porse la tazza mentre la
hostess si dileguava.
- Troppo whiskey temo. - disse
lei, gli occhi sulla moquette dell’aereo.
- Poco male. Il caffè te lo
neutralizzerà. E se non bastasse… c’è sempre
la toilette vicina. Devi rimettere?
- No… no.
- Ouch! Scotta… - sbuffò
sulla tazza - Russell…
- Dimmi - fece lui, lo sguardo
carico di tenerezza.
- Grazie.
Esaurito l’episodio tornarono al
loro posto. Il viaggio continuò senza che nessuno dei
due parlasse molto. Il tempo tutto sommato trascorse
più rapidamente di quanto si potessero aspettare e a
destinazione si ritrovarono vicini al ritiro bagagli
nonostante lei avesse perso tempo all’immigration.
- Come. Ancora non sono
arrivate?
- Lascia perdere - replicò lui
scocciato - devo volare a casa e invece sono qua a
perdere tempo.
- Volerai a casa su di una
limousine con autista?
Lui la guardò.
- No, io… - sentì l’imbarazzo
opprimerlo. Danielle sarebbe venuta all’aeroporto,
lo sapeva benissimo. - Ci sarà un amico. -
Stemperò l’imbarazzo con un leggero sorriso. E
tu?
- Te l’ho detto. Prenderò un
taxi.
Russell la guardò. Non doveva finire
così. Non l’avrebbe permesso.
- Sophie… senti… io non…
so davvero come dirtelo ma… - preso da una
tremenda smania cominciò a scribacchiare
furiosamente su di un foglietto. - Chiamami.
Qualche volta. Mentre sei qui. E… anche quando
sarai tornata. Fallo, per piacere.
Lei lo guardò di nuovo con quel
sorrisetto sarcastico.
- Ma tu non sei sposato?
- Tu chiamami. - Si accorse che
la sua valigia era sul carousel, la recuperò al
volo, il resto del bagaglio gli sarebbe stato
recapitato a casa. - Chiamami. - Si allontanò
rapidamente, dopo aver indossato gli occhiali
scuri.
Sophie lo osservò mentre si
allontanava, la stazza massiccia leggermente pendente
per agevolare il trasporto della valigia. Si sentì
strana, svuotata, ancora una volta sola. Poi abbassò lo
sguardo sul foglietto. “Russell” e un numero di
cellulare. “Call me, I beg you please”(3). Gli occhi le
si persero nelll’affollatissimo vuoto dell’aeroporto
di Sydney. La sensazione di solitudine le infuse un
freddo al cuore che non riuscì a scacciare. Tirò la
sua valigia giù dal carousel e uscì non senza
difficoltà dall’aeroporto.
Salì sul taxi e diede all’autista
il nome dell’albergo dove avrebbe alloggiato. Guardava
la periferia della città scorrere fuori dal finestrino,
si chiedeva cosa ci faceva laggiù. Quella vacanza era
stata organizzata troppo in anticipo rispetto a quell’abisso
depressivo che l’aveva assalita qualche settimana
prima. Non riusciva o forse non voleva venirne fuori. L’aria
già calda a quell’ora del primo mattino, si colorava
di rosa, il cielo si striava di giallo e arancione,
aveva un profumo diverso da quello del continente da cui
proveniva. Quando scese dal taxi, arrivata a
destinazione, mentre pagava il tassista notò nel
parcheggio una moto da strada di grossa cilindrata. Si
sentì meglio, quella era probabilmente la moto che
aveva noleggiato dall’Italia. Alla reception ne ebbe
conferma, prese la sua chiave e salì in camera dove si
concesse una lunga doccia, per lavarsi via di dosso la
stanchezza del viaggio, il fuso orario, la mancanza di
sonno di ormai due notti e l’odore di quell’uomo che
non voleva permettere che entrasse nella sua vita.
Capitolo III
Tre giorni dopo, Sophie scese dalla
camera per la colazione. Il suo abbigliamento attirava
non pochi sguardi, i jeans attillati, gli stivali da
motociclista, una semplice maglietta e un giubbotto di
pelle nera, sicuramente caldo per quella stagione ma
adatto alle gite in moto di una giornata intera che si
era programmata fin da casa. Non stava molto meglio di
quando era partita, sicuramente la sua mente era molto
più sgombra e tutto quello che doveva fare era evitare
di bere durante il giorno, per evitare di finire nei
guai nel caso la polizia l’avesse fermata. Il
fazzoletto intorno al collo rendeva leggermente
difficoltoso il gustare le uova e pancetta coi pancakes
che come tutte le mattine si mangiava in quantità
generosa, per poter arrivare fino alla sera senza
assimilare altro. Se lo slacciò per allargarlo e mentre
faceva questo un uomo piuttosto interessante la guardava
dall’altro capo della sala. Non si sottrasse al suo
sguardo, anzi lo fissò dritto negli occhi, mettendolo
in imbarazzo. “Ti pareva… il solito imbecille: prima
si mette a fare lo spiritoso poi abbassa lo sguardo”,
pensò. Terminata la sua colazione, indossò il
giubbotto, si mise lo zaino su di una spalla ed uscì.
Raggiunse la sua moto, il carburatore nero lucente
intiepidito dalla temperatura già calda della mattina.
Indossò il casco, un integrale anch’esso nero e
cominciò ad allacciarlo sotto il collo. In quel mentre
un pickup blu parcheggiò di fronte all’albergo. Lei
salì sulla moto e l’accese. Rimase a cavalcioni della
moto, dopo aver affrancato lo zaino alla parte
posteriore del sedile con un laccio elastico. L’uomo
che scese dal pickup blu le era più che noto. Russell
entrò nella recception e ne uscì a passo lesto
cercando con lo sguardo e, una volta identificatala,
avvicinandosi alla motocicletta.
- Ehi! Bel modo di trascorrere
le vacanze… E’ difficile vedere una donna su
di una moto così grossa…
- Cosa vuoi? - chiese lei
alzando la visiera del casco.
- Mi chiedevo quanto tempo
avresti aspettato a telefonarmi. Poi mi sono
ricordato che mi avevi riferito il nome dell’albergo
dove avresti alloggiato. Come stai?
- Benissimo.
Un silenzio leggermente imbarazzato
scese tra loro, Russell non seppe cos’altro dire, lei
incapace di aprigli il suo cuore.
- Ho una schedula da
rispettare. Devo andare. - Sophie chiuse
seccamente la visiera del casco.
- Aspetta! Dove vai?
- A fare la mia gita
quotidiana.
- Da che parte vai?
- Non ti riguarda.
- Sophie, per favore…
parliamo ancora un poco…
- Mi dispiace.
Innestò la marcia e diede gas; la
moto partì sollevando un po’ di polvere ed
impennandosi leggermente, Russell la guardò mentre si
allontanava. In città non avrebbe potuto correre
troppo, col traffico e i limiti di velocità. Saltò di
volata sul pickup e partì a tavoletta cercando di
raggiungerla. La raggiunse due semafori dopo. Abbassò
il finestrino e cercò di richiamare la sua attenzione.
- Sophie, ti prego, fermati! Ho
bisogno di parlarti. Per favore! - si irritò
leggermente.
Sophie alzò il capo, poi lo
riabbassò nella sua direzione, guardandolo da dietro la
visiera.
- Hai tempo fino al verde! -
gli gridò.
- Ma dai! In che… cazzo di
condizioni mi fai parlare! Accosta un momento, è
importante!
Sophie aveva paura. Una paura
maledetta che se avesse ceduto le armi ed abbassato le
difese quell’uomo, per quanto interessante ed
affascinante l’avrebbe ferita, come tutti gli altri,
come l’altro che aveva fatto di lei la donna fredda e
carica d’odio che era ora. Lo sguardo di Russell era
preoccupato, velato da una speranzosa disperazione.
Faceva fatica a negarsi a quegli occhi, il vantaggio del
casco era che poteva guardarlo attraverso la visiera
brunita senza essere vista. Notò che il verde era
scattato.
- Tra cinquanta metri c’è
uno slargo. Accosta lì! - gli gridò.
- Ok!
Dopo essersi fermata, scese dalla
moto, mise il cavalletto e togliendosi il casco si
avvicinò furiosamente al finestrino del pickup.
- Cosa vuoi, Russell, cosa
cazzo vuoi da me? Lasciami in pace, non mi rompere
i coglioni, chiaro?!
- Non voglio romperti i
coglioni, voglio soltanto parlarti!! Porca
puttana, Sophie, non siamo tutti uguali! IO non
sono LUI!!
Sophie si allontanò dalla portiera.
Rimase senza parole a guardarlo. Russell scese dall’auto
e si avvicinò.
- Quello che… quello che è
successo in aereo è…. deprecabile!!
Sophie lo guardò. Un leggero sorriso
si disegnò sulle sue labbra.
- ‘Deprecabile’..? Da
quando in qua parli forbito..?
Russell si illuminò attraverso un
sorriso dei suoi.
- Ogni tanto ci vuole, non
credi? Senti, io vorrei parlarti un po’ di più,
per… conoscerti, per… conoscerci meglio. In
aereo, nonostante la durata del volo, non ci siamo
riusciti, forse… anzi, sicuramente abbiamo
impostato le cose in modo sbagliato.
- Tua moglie dov’è, a casa a
cuocersi un uovo? - Sophie riprese il suo tono
sarcastico.
- Mia moglie è in studio, sta
incidendo.
- Chissà che meraviglia di CD
verrà fuori…
- Sophie… andiamo da qualche
parte a parlare?
Sophie lo guardò. Poi ancora una
volta volse lo sguardo in giro.
- Hai un giubbotto? - gli
chiese.
- Nella macchina. Perché?
- Prendilo.
Russell non rispose. Prelevò il
giubbotto nella macchina e tornò da lei. Sophie gli
porse l’altro casco.
- Chiudi la macchina. Sali
dietro. E soprattutto non rompere le palle.
Perlomeno fino a quando non ti autorizzerò di
nuovo a farlo.
Senza una parola, Russell si vestì, si infilò il
casco e salì dietro di lei. Mentre lei accendeva la
moto, fece scivolare le mani intorno ai suoi fianchi.
Chiuse gli occhi e desiderò Sophie in modo
completamente diverso da come l’aveva presa nella
toilette dell’aereo. Quando li riaprì, fece appena in
tempo a stringere meglio la presa che Sophie era già
partita e man mano che si avvicinava ai margini della
città aumentava sensibilmente la velocità.
(fine prima parte)