L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELLA
PEPERONATA
PARTE PRIMA: L’ANTEFATTO
Non ne posso più: basta! Ah, è non è del lavoro
che mi lamento, anche se mi è toccato andare avanti e
indietro tutto il giorno dagli uffici dell’Assessorato
al giardinone del megavillone del commendator Brambilla,
dal sottosuolo del quale, mentre erano in corso d’opera
gli scavi per la costruzione di un gazebo che sembra il
Duomo di Milano è emerso un sarcofago di epoca romana
con relativo contenuto di mummia e corredo funerario.
Sui piedi mi sono spuntati certi vesciconi che li
fanno rassomigliare a due rospi nella stagione degli
amori, visto che, come minimo mi è toccato macinarmi
una quarantina di chilometri per accompagnare dal sito
all’ assessorato e dall’assessorato al sito almeno
venti volte un manipolo di archeologi testé spediti
dalla Soprintendenza, nessuno dei quali rassomigliava,
per mia disgrazia. ad Indiana Jones, anzi, il più
carino era il ritratto parlante di Nicola di Bari ai
suoi tempi d’oro.
Ma lungi da me lamentarmi di tutto questo!!! Ben
peggio erano i tempi infausti trascorsi a timbrare
scartoffie nel bunker dell’ufficio accettazione della
ASL numero 20, da cui sono fortunosamente riuscita ad
evadere grazie a colui che ora è la mia croce, che mi
risparmierà nell’altra vita,di questo sono sicura,
duecento anni almeno di purgatorio: Giacomo Leopardi
Cantacesso, il re della carta igienica.
Ogni volta che squilla il telefono, mi produco in un
salto degno di Sergeji Bubka alle Olimpiadi, e senza l’ausilio
dell’asta. Mi incute più terrore il cellulare dei due
rottweiller addestrati all’attacco che il commendator
Brambilla tiene nel giardinone del megavillone temendo
di essere sequestrato. Penso che, uno di questi giorni,
lo scaraventerò dalla finestra: il cellulare,
beninteso, non il Brambilla con i suoi rottweiller. Il
Motorola Timeport che mi è costato un occhio e dal
quale,annunciata da uno squillo che simula la “Toccata
e Fuga,” sortisce sistematicamente la voce chioccia
del Leopardi Cantacesso che scarica su di me i suoi
problemi e le sue paturnie, neanche mi avesse presa per
un’operatrice del Telefono Azzurro.
Non che gli affari vadano male, anzi è vero il
contrario: è ormai appurato che nemmeno i calciatori
della Nazionale conoscono l’Inno di Mameli, ma il
motivetto della carta vaniglia che la voglia ti piglia
lo canticchiano anche le suore di clausura del convento
di Santa Redegonda.Giusto ieri, sul solito Novella 2000
sfogliato distrattamente mentre aspettavo il mio turno
dall’estetista,ho letto che grazie ad esso quella
faccia da culo che sembra il Grillo Parlante con la
parrucca di maga Magò sta diventando ricca e famosa:
più del suo fascinoso e bravissimo consorte, che, roso
dall’invidia e dalla rabbia,si sarebbe gettato a corpo
morto nel lavoro, starebbe girando tre film
contemporaneamente, incidendo quattro album doppi,
programmando una tournée in giro per il mondo isole
comprese, avrebbe perso una ventina di chili e chiesto
il divorzio. E per festeggiare si sarebbe scolato una
cantina.
Gli affari dicevo.Meglio di così non potrebbero
andargli:la Premiata Ditta Cantacesso ha ottenuto,
grazie ai buoni uffici del Cavaliere, l’appalto delle
forniture dei gabinetti (non intendo i ministeri, mi
pare ovvio) di Palazzo Chigi;ma grazie ad un’oculata
politica super partes, anche i leader dell’opposizione,
compreso Nanni Moretti con i suoi girotondini, sarebbero
diventati suoi affezionatissimi clienti.Immagino rotoli
di soffice carta velina azzurra, rossa,
candida,tricolore, delicatamente stampata a
margheritine, foglioline d’ulivo,falcette, martellini,
biancofiori… sono perfino arrivata a fantasticare di
una ruvida carta color verde pistacchio per gli uomini
del Senatur, che a sentir loro ce l’hanno duro… e
che amano sentirsi grattare il sedere da una rude
cartaccia degna d’un vero maschio. Insomma, il
Leopardi ha capito che gli affari sono affari e per lui
non esistono distinzioni tra destra e sinistra.
Tantopiù che l’articolo da lui trattato finisce
sempre al centro.
Basta. L’altra sera, mentre rinfrancavo i miei
poveri piedi gonfi come soufflé in una catinella d’acqua
bollente dove avevo sciolto mezzo chilo di sali del
dottor Scholls,squilla il maledetto cellulare. So già
chi è, perché ormai mi chiama tutti i giorni, più
volte al dì come lo sciroppo per la tosse, durante i
pasti come l’aspirina, dopo i pasti come il biochetase…Chiama
per chiedermi di accompagnarlo al camposanto a deporre
un bel mazzo di gladioli sulla tomba del Commendator
Zelindo Cantacesso, fondatore della premiata ditta;
chiama per informarmi sull’andamento delle borse e
sulle prospettive di far conoscere aldilà dell’Atlantico
i suoi manufatti… Chiama per parlarmi di un nuovo
prodotto in rampa di lancio, una carta igienica di un
elegante color terra di Siena bruciata, così lo sporco
non si nota… Non chiamerà a ogni piè sospinto e con
le scuse più cretine perché magari… si è innamorato
di me? Mia madre, che ormai disperava di vedermi
accasata gongolerebbe all’idea di un genero
miliardario. Io, proprio per niente, meglio il mio
stipendietto risicato e gli archeologi che somigliano a
Nicola di Bari da accompagnare nel giardinone con
sarcofago e rottweiller del megavillone del Commendator
Brambilla. Sicchè, quando mi confida di essersi
innamorato e mi chiede un consiglio per conquistarla
tiro un sospiro di sollievo che si sente da qui a Capo
Miseno.
Come si chiama?Faccio io, tanto per dire
qualcosa.Yvonne. E’ il suo nome d’arte.Quello vero
è Baldoni Cesira. Da Predappio,in provincia di Forlì,
terra natale di un’altra celebrità (Mussolini,N.d.A.)...
Com’è?Piccola, bionda, un gioiellino, una seconda
Marylin… Penso alla diva della carta vaniglia che la
voglia ti piglia e lo stomaco mi si annoda. Domani ti
accompagno a vederla, vuoi?
Non riesco, secondo il mio solito, a dirgli di no.
Pretende che sia io ad accompagnarlo con la mia
Seicento, gli lancio un’occhiata e penso che,
nonostante tutti i suoi soldi la conquista della Yvonne
potrebbe rivelarsi per lui più ardua di quella della
parete nord del K2. E’ vestito da cani, ha gli occhi
pesti, il parrucchino di traverso e un alito degno di
una fogna di Calcutta nella stagione delle
piogge.Davvero niente male.
Forse, nonostante le mie 46 primavere sono rimasta un’ingenua.
Quando mi ha parlato di nome d’arte, credevo che la
Yvonne fosse una cantante, un’attrice, al limite una
spogliarellista… Invece è una peripatetica in disarmo
che batte dalle parti della Tangenziale Ovest, ha i
capelli gialli,le tette flosce, una nutrita clientela di
camionisti e pendolari e la stessa faccia da funerale di
terza classe della protagonista dello spot. E’ in
grazia della somiglianza,suppongo, che il relitto umano
ha perso la testa. Poveretto.
Le donne adorano pellicce e gioielli.Gli faccio.Lui
ha già un brillocco da cento milioni di vecchie lire in
tasca e un visone Fendi appeso nell’armadio.E’
fatta.Penso. Contento lui…
Invece, il giorno dopo mi telefona, puntuale come la
giustizia, proprio mentre sto per andare a letto dopo
una giornata di duro lavoro. Con una voce da Giudizio
Universale, mi dice che non ha accettato i suoi regali:
il brillante glielo prenderebbe il pappa e in quanto
alle pellicce è contraria: alle ultime elezioni ha
votato per Pecoraro Scanio.
Crollo sul letto a corpo morto ma non riesco ad
assopirmi perché, non appena chiudo gli occhi, vedo
materializzarsi le immagini del Cantacesso, della Yvonne
puttana animalista e perfino quella dello scheletro
incartapecorito chiuso nel sarcofago del giardinone del
megavillone eccetera eccetera: ha una parrucca gialla in
testa ed è completamente avvolto nella carta igienica.
Che fare, in simili frangenti? Ma saccheggiare il
frigo e la dispensa, mi sembra ovvio! Purtroppo, ho
terminato il vasetto della Nutella. Ma in un angolo del
frigo trovo una terrina di peperonata avanzata da
mezzogiorno.E’ letteralmente ricoperta da uno strato
di brina alto come la banchisa polare, ma ho bisogno
della mia dose di roba e la tracanno quasi senza
masticarla, come una tossica in crisi da astinenza. Poi
mi lascio andare a corpo morto sul letto, chiudo gli
occhi… Lo stomaco comincia a vorticare come se ci
avessero chiuso dentro un branco di criceti con le
convulsioni. E la fantasia si scatena.
PARTE SECONDA:LA MACCHINA DEL TEMPO
Queste facce non mi sono affatto nuove, penso
faticando a ricacciare indietro il rigurgito acido che
mi sale dallo stomaco alla bocca, accompagnato da un
coraggioso brandello di peperone che, come Pinocchio,
tenta di emergere dalla pancia del pescecane. Dove le
avrò viste? La prima appartiene a un passabile barbuto,
l’altra a un tipo con gli occhialini e l’aria da
bravo ragazzo della porta accanto, sexy come le mutande
a costine della nonna. Non impiego molto a realizzare di
trovarmi al cospetto di Alberto Angela e Alessandro
Cecchi Paone i quali, senza troppi complimenti e senza
neppure lasciarmi il tempo di chiedergli un autografo
per il mio nipotino, mi spingono dentro un loculo che
sembra un ibrido tra la cabina di pilotaggio dello
Shuttle e il cesso di un aeroplano. Non oso protestare,
anche perché non ne avrei il tempo. Nel giro di un
nanosecondo, mi ritrovo infatti proiettata…
… a Roma, Anno Domini 180, regnante il Cesare Lucio
Aurelio Antonino Commodo.
Mentre i peperoni testé ingurgitati continuano a
turbinarmi nello stomaco,mi sento felice come una
pasqua: mi è stata offerta l’opportunità fantastica
di un viaggio a ritroso nel tempo!!! Il sogno della mia
vita!!! Ho frequentato il liceo classico e sono laureata
in lettere antiche, ragion per cui maneggio piuttosto
bene il latino: non dovrebbe essere difficile, per me,
immergermi in questa realtà, tantopiù che mi ritrovo
addosso,chissà come mai, una bella tunica marrone da
popolana che gratta quanto la linea discount dei
prodotti Cantacesso ma mi rende perfettamente identica a
centinaia di altre comuni mortali che vedo girare con la
borsa della spesa. Piuttosto, non posso togliere gli
occhiali perché senza non vedo un accidente e ho i
capelli corti, ragion per cui chi mi incontra sul suo
cammino mi guarda con un misto di curiosità e
repulsione come se vedesse un incrocio malriuscito tra
ET e un botolo rognoso. Si abitueranno, mi dico tra me e
me continuando ad andare per la mia strada, vale a dire
dove non so.
Mi guardo intorno e realizzo che Roma non è poi
così cambiata, in mille ottocento e passa anni. Il
traffico e il casino quelli erano e quelli restano anche
se dovuti a fattori di natura diversa. Devo essere
finita in un quartiere popolare (oddio, speriamo non si
tratti della famigerata Suburra); le abitazioni che
costeggiano la stradaccia puzzolente sono insulae
(casermoni popolari N.d.A.) sbilenche e
traballanti i cui muri sono pasticciati con scritte
inneggianti alle prodezze di questo e di quel gladiatore
e alle virtù riconosciute e apprezzate nel passato,
presente e futuro della mentula e del cunnus
(gli organi genitali maschile e femminile N.d.A.): il
tutto condito da realistici graffiti esplicativi. Il
tanfo dei canali di scolo, del piscio, delle carcasse di
gallina e di quella salsetta a base di pesce guasto che
i Romani mettono dappertutto, il garum, è quasi
insopportabile. A momenti mi sento male, ma devo tener
duro. Anche perché come farei a spiegare a un medico
(pare che in città ce ne siano di bravi) che ho fatto
indigestione di peperoni, se tali ortaggi sono giunti a
noi dalle Americhe di cui, in codesto luogo, ancora si
ignora l’esistenza?
A forza di macinare chilometri, menomale che i
sandali che ho ai piedi sono piuttosto comodi, mi
ritrovo fuori dal rione malfamato e più tranquilla anch’io.
Ci sono dei bei giardini, da queste parti. Edifici
solenni e magnifiche statue.Seduta su una panchina, mi
godo il panorama e il venticello fresco che spira dal
Tevere, finchè il mio occhio miope non scorge in
lontananza una figura avvolta in una candida toga che s’avanza
con passo sbilenco nella mia direzione. Oh, no. Penso.
Oh no! Anche qui! Era lui, Giacomo Leopardi Cantacesso,l’ossessione
della mia vita. Era riuscito a scovarmi anche nel
passato.
Con la parrucca a ricciolini e gli stinchi
rinseccoliti e lividi che spuntano da sotto alla toga fa
veramente una gran figura, mi dico tra me e me. E mi
domando che ci faccia anche lui qui.La risposta non si
lascia attendere molto:affari. E’ riuscito a vendere
la sua carta igienica anche nell’antica Roma. Molta
glien’hanno comprata i lanisti (gli
impresari dei gladiatori N.d.A.), visto che, prima
degli scontri, capita spesso che i loro campioni se la
facciano sotto dalla paura. Una carta bianca ornata dal laticlavius
(il bordo color porpora sulle toghe dei senatoriN.d.A.)
va a ruba tra i membri dell’alta società, rotoli di
funerea carta nera sono stati acquistati per i bisogni
dei suoi militi da Quinto Emilio Leto, Prefetto del
Pretorio e lo stesso Cesare sembra interessato ad una
morbidissima carta color porpora imperiale fabbricata
esclusivamente per lui con le migliori cellulose della
Scandinavia… Eppoi, mi confida, frequentando la Corte
Imperiale potrò vedere la Principessa… La più bella
creatura che ci sia.
Il Cantacesso ha la cotta facile, ma stavolta rischia
guai davvero grossi. Probabilmente ignora che, al
momento, sul trono posano le muscolose chiappe di Lucio
Aurelio Antonino Commodo, un giovinastro forte come un
toro,con il cervello bacato, un carattere infernale, un
vocabolario degno dei peggiori bassifondi, la passione
per il vino ad alta gradazione e i giochi gladiatorii
che più sono truculenti e più lui si diverte. E poi
dicono che lo studio della storia non serve a
niente.Decido di mandarlo affanculo, vorrei morire a
centovent’anni nel mio letto, non nel passato
rosicchiata dai leoni del Colosseo e mi do da fare per
cercare una locanda decente in cui trascorrere la notte.
Ho proprio bisogno di una bella dormita.
La mattina successiva, con un po’ meno stanchezza e
la mente lucida, mi fermo ad ascoltare le chiacchiere
degli avventori della sottostante taverna e faccio una
scoperta di rilevante importanza storica. Marco Aurelio,
oltre alla bella Lucilla e al pazzo Commodo, avrebbe
avuto un’altra figlia, e sarebbe proprio lei la
principessa che con uno sguardo ha rubato il cuoricino
sensibile del Cantacesso. La fanciulla, a nome Dania
Scopilia Sportula,sarebbe nata da una frettolosa copula
che l’imperatore filosofo avrebbe consumato con un’indigena
in una catapecchia nel cuore della foresta del Norico (l’attuale
Austria N.d.A.) per consolarsi delle corna che gli
metteva a più riprese la consorte Faustina, la quale,
mentre il pover’uomo era impegnato al fronte o chiuso
nei suoi appartamenti a meditare, si faceva trombare dai
gladiatori.
Non voglio pensare a quel che sta rischiando il
povero Cantacesso e decido di uscire a farmi un
giretto.Siccome anche nel Ventunesimo Secolo ho sempre
avuto la passione per lo shopping e per i centri
commerciali, mi dirigo verso i Mercati Traianei.
Strano a dirsi, la mia attenzione non è attirata
dalle mercanzie di tutti i generi e neppure dalla folla
pittoresca e cosmopolita. E’ attratta dai manifesti
affissi ai muri. Alcuni reclamizzano i giochi
gladiatorii più spettacolari e truculenti che mai si
siano visti. Altri ribadiscono il tassativo divieto di
appartenenza, conversione e proselitismo nei confronti
dell’abominevole setta cristiana, pena la
morte.Rabbrividisco al pensiero che, malgrado poco
praticante, ho ricevuto tutti i sacramenti ad eccezione
dell’Ordine, del Matrimonio e dell’Estrema Unzione e
che ho pure uno zio prete.Ma la mia attenzione è
calamitata da un manifesto, uno dei tanti a questo
identici che campeggiano ovunque sui muri dove leggo le
testuali parole:
LUCIUS SERGIUS CATILINA
PULIVIT CULUM CARTA VELINA
La reclame, nell’Urbe Imperitura, dei prodotti
Cantacesso. Quando si dice che la pubblicità è l’anima
del commercio.
Borbottando tra me e me, osservo certi gioielli di
squisita fattura esposti nella bancarella di un
argentiere. Pochi secondi dopo, le mie orecchie captano
alcuni brandelli di conversazione e si drizzano come un
radar. Un ricco mercante proveniente da Mediolanum
(Milano N.d.A.) sarebbe stato arrestato e
tradotto, in attesa dell’esecuzione, nelle segrete del
Colosseo. Si sarebbe macchiato del delitto di lesa
maestà. Impallidisco. Soffoco. Come prevedevo, il
Cantacesso si è messo nei guai. Ma proprio con la
sorella dell’infernale imperatore Commodo doveva
mettersi a fare il cascamorto? Sento un disperato
bisogno di fumarmi una sigaretta, ma, visto che il
tabacco proviene dalle stesse contrade dei peperoni,
dovrei aspettare fino al 1492… E non c’è tempo da
perdere.
Voglio vederci chiaro in merito alla faccenda.Fermo
un distinto signore dall’espressione gentile e gli
chiedo di delucidarmi. Quello mi guarda perplesso gli
occhiali e la zazzeretta poi mi dice sibillino che un
prodotto dal mercante venduto alla Sacra Maestà
Imperiale non si sarebbe rivelato all’altezza. Quindi
Dania Scopilia Sportula o come accidente si chiama non c’entrerebbe
niente… Riesco a captare qualche brandello di
conversazione che si scambiano tra di loro due facchini
senza troppi peli sulla lingua e la verità mi è
chiara. Cantacesso ha usato come slogan pubblicitario
per la sua carta igienica la prima parte di una
filastrocca che da tempo immemorabile circola in tutti i
licei italiani. Purtroppo per lui, la seconda
DITUS CARTAM LACERAVIT
ET IN CULUM PENETRAVIT
si è avverata, la carta non si è dimostrata
abbastanza resistente, tra le rozze manacce abituale a
maneggiare il gladio di Lucio Aurelio Antonino Commodo e
il dito, senza incontrare ostacoli, è penetrato dello
sfintere anale della sua sacra persona… Il povero
Giacomo Leopardi Cantacesso pagherà nel passato la sua
mancanza di prudenza e già immagino un leone dalla
folta criniera inghiottirlo come una mentina al cospetto
di cinquantamila energumeni urlanti.
Devo fare qualcosa. Già, ma CHE COSA? Cerco di
captare altre chiacchiere, sperando frattanto in un’illuminazione
divina, e vengo a scoprire che l’arresto del
Cantacesso non sarebbe stato impresa di poco conto.
Proculo e Corvino, i due risoluti pretoriani spediti dal
prefetto Quinto ad eseguire l’operazione, sarebbero
tornati alla base pallidi come stracci e con i capelli
completamente bianchi a causa di quel che avevano visto.
Decisi, secondo il loro solito, a dare una bella lezione
alla vittima strattonandogli i capelli e facendogli
sputare qualche dente, si erano ritrovati in mano il
parrucchino del Cantacesso e, quel che è peggio, l’avevano
visto raccattare da terra i denti e rimetterseli in
bocca prima di seguirli docilmente. Quella era
sicuramente opera di magia, dietro le spoglie dell’innocuo
mercante si celava in realtà un pericoloso maleficus
(stregone N.d.A.) che con le sue nefaste cartacce
nettaculo chissà quali sortilegi era riuscito ad
operare.
Non ci fosse da piangere, mi metterei a ridere: al
poveretto era caduta la dentiera, non i denti. Ma
poiché nel 180 dopo Cristo le dentiere ancora non erano
state inventate, i pretoriani hanno fatto due più due
uguale quattro… In ogni caso, sembra che l’Imperatore
intenda scaraventare il pericoloso negromante nell’arena
per farlo combattere contro il più forte gladiatore
dell’Impero: i muscoli e la spada di Massimo Decimo
Meridio, l’Ispanico, contro i sortilegi di Giacomo
Leopardi Cantacesso che, come l’Idra di Lerna riusciva
a farsi ricrescere le teste tagliate, riesce a farsi
rispuntare i denti caduti.
Seguendo più l’istinto che non la ragione, mi
incammino verso il Colosseo.In altre circostanze, mi
sarei fermata ad ammirare la costruzione in tutto il suo
splendore,ma al momento non ho un minuto da perdere. Mi
introduco in una sorta di cunicolo che non oso
immaginare dove porti e, spinta dalla forza della
disperazione, mi incammino in un luogo umido e tetro,
rischiarato dal lume delle torce infisse nelle pareti di
pietra, puzzolente di muffa, sudore, piedi sporchi,
escrementi umani e animali. E sangue. Di tanto in tanto
il suono di un ruggito, di un barrito, di un ululato o
di un muggito mi fa accapponare la pelle.Mi pento di
essere entrata, ma nessuno mi ferma e continuo ad andare
avanti, per forza di inerzia. Finchè, in fondo al
cunicolo, non noto una cella aperta. Entro.
Gli occhi mi schizzano fuori dalle orbite al cospetto
di cotanto spettacolo: forse credevo di trovare il
Cantacesso, invece, incatenato tra due colonne, e
illuminato dalla luce delle torce che affumicano l’ambiente
ma rendono possibile la visione in tutto il suo
splendore, mi si materializza dinanzi l’uomo più
bello che abbia mai visto: una montagna di muscoli
sudaticci, ammaccati e contusi, coperti solo da un subiaculum
,che poi sarebbe l’antenato della mutanda, che lascia
pochissimo spazio all’immaginazione… E’ lui,
penso. L’Ispanico, il boia designato del povero
Cantacesso.
-Ave, o Massimo Decimo Meridio…
Si china verso di me e mi sorride.E’ molto più
alto della sottoscritta e devo tirare su la testa per
guardarlo. Ha i lineamenti delicati,il profilo perfetto
e dei bellissimi occhi blu. L’espressione è
malinconica, non certo dura, feroce e un po’ ebete
come ci si aspetterebbe in un gladiatore. Vorrei
parlargli perché, anche se non lo conosco, mi sembra
che quest’uomo meriti fiducia. Ma… Ma vorrei vedere
un po’ voi, se vi trovaste all’improvviso davanti,
appeso come una provola, vestito quasi di niente e
completamente alla vostra mercè, l’uomo più bello
dell’orbe terracqueo.
Allungo un braccio e, con sforzo sovrumano, gli
accarezzo i capelli: sono bruni, molto corti e un po’
ispidi.La sua reazione non è negativa, anzi, mi sorride
piegando leggermente la testa in direzione della
spalla.Decido di non fermarmi.Le mie dita gli percorrono
leggere la fronte, il sopracciglio, la guancia barbuta…
Scendono lungo il collo,ma quanto è bello il collo dell’Ispanico,risalgono
sulla nuca, riscendono ancora, gli percorrono il braccio…
La pelle freme, il respiro si fa rauco. Acchiappo uno
sgabello e glielo metto di fronte. Ci salgo sopra per
portarmi grossomodo alla sua altezza e gli stampo sulle
labbra un bacio a ventosa al quale risponde, con molta
passione e molta dolcezza. La faccenda sta prendendo una
piega decisamente interessante e non me ne frega niente
se, con ogni probabilità, il tizio non si lava chissà
da quanto e soprattutto avrà sì e no trent’anni
mentre io ne ho 46, sono in pre menopausa, mi tingo i
capelli altrimenti sembro babbo Natale e quando leggo il
giornale devo togliermi gli occhialini da miope e
inforcare gli occhialacci da presbite. Metto a tacere la
mia coscienza dicendomi da me sola che, se sono nata nel
1957 e mi ritrovo nel 180 dopo Cristo, sono molto più
giovane io di lui… E continuo ad esplorare i suoi
rilievi, le sue valli e le sue praterie con le dita e
con la lingua senza pormi alcuno scrupolo circa la mia
presunta pedofilia.
Gli sbaciucchio il petto: non è molto peloso, ed è
talmente largo che prima di arrivare da un capezzolo all’altro
temo che avrò finito la saliva. Come molte
donne,impazzisco per i capezzoli maschili, forse proprio
perché non servono a niente. Se si escludono i
giochetti erotici, beninteso. I suoi sono deliziosi:
piccoli, morbidi, di un allettante colore ambrato e
piazzati al centro di due areole perfettamente
simmetriche.Poco sopra il sinistro, ha pure un vezzoso
neo. Quasi appiattiti contro i muscoli pettorali, si
gonfiano e s’inturgidiscono sotto l’azione delle mie
dita, dei miei denti e della mia lingua.Vorrei che
potesse fare altrettanto e mettere sull’attenti i miei
, ma nella condizione in cui si trova, poveretto, non è
che possa far molto.
Sospiro di disappunto, prima di riprendere con le
esplorazioni.Le mani e le labbra scendono lungo lo
stomaco, sostano sull’ombelico, sfiorano il pelo
ispido del basso ventre, incontrano il subiaculum
e… Riesco, alla bell’e meglio, a spacchettarlo, ma
quanto sono complicati questi antichi romani, e spalanco
tanto d’occhi di fronte alla visione del suo set di
organi riproduttivi: forma, colore, dimensioni, tutto
perfetto. Scendo dallo sgabello, mi piego per rendere a
cotanta perfezione il dovuto omaggio, lo sento gemere
come Meg Ryan in “Harry ti presento Sally”solo che
questo qui fa sul serio… Qualcuno mi liberi le mani!
Impreca con voce rauca. Al che mi frugo nella tunica e
la trovo, sia reso grazie a tutti i numi: la chiave
dello stipetto dell’ufficio, che apre una cinquantina
almeno di altre serrature e spero tanto riesca a
scardinare anche le manette del mio bellissimo Ispanico.
Consumato il rapporto amoroso, giaccio a lungo tra le
sue braccia nerborute, contro il suo corpo che olezza a
dire il vero di sudore stantio, ma non si può avere
tutto dalla vita. Il suo viso è triste e, potrei
sbagliarmi, ma mi sembra proprio di veder luccicare una
lacrima in quei suoi occhi il cui colore mi ricorda il
mare della Costa Smeralda, ammirato l’anno passato
durante la gita dei dipendenti comunali. Che c’è?Gli
faccio, coccolandolo come se fosse un bambino. C’è
che domani a quest’ora potrei essere un uomo
morto,risponde lui. Mi metteranno a combattere contro un
terribile negromante e la mia forza non potrà niente
contro la sua magia.
L’indomani è venuto, e seduta sugli spalti dell’Anfiteatro,
resto in attesa di assistere alla consumazione del
dramma. Sono abbastanza vicina alla tribuna imperiale, e
riesco a distinguere e ad osservare i suoi occupanti: l’imperatore
è un giovane dall’aspetto piacente e dai tratti
regolari,ma lo sguardo gelido e la piega amara che gli
storce la bocca lo rendono sgradevole quanto uno stronzo
fumante nella vetrina di un gioielliere. Sua sorella,Annia
Lucilla Galeria, alta, sottile, solenne, con una gran
chioma di riccioli rossicci che le ruscella lungo la
schiena e il pallido volto malinconico, è bellissima.
Nel Ventunesimo secolo, avrebbe una carriera assicurata
come fotomodella o diva di Hollywood. Le sue mani
affusolate si appoggiano sulle spalle di un bel
ragazzino d’una decina d’anni, che mi si dice sia il
figlio Lucio Antonino Vero. L’altra sorella, Dania
Scopilia Sportula, è alta quanto un hobbitt, ha i
capelli che sembrano una balla di paglia, la faccia
larga e piatta come un pane casereccio su cui spiccano
la bocca fino alle orecchie e le narici da dromedario e
un fisico in confronto al quale la lisca spolpata di una
triglia sembra Carmen di Pietro. Mi ricorda tanto
qualcuno di mia conoscenza, e adesso capisco perché il
Cantacesso ha perso la testa e a me sta tanto
antipatica.Vorrei tanto poter disporre di un canestro di
patate marce e pomodori fradici per bombardarla, ma non
posso aspettare il 1492 …Porca miseria, ma perché
tutti gli ortaggi da lancio arrivano dall’America?
Preceduti dal suono stridulo delle buccine, i due
contendenti entrano nell’arena. L’Ispanico, accolto
da un boato del pubblico, si inginocchia, raccatta da
terra una manciata di sabbia e se la strofina tra le
mani.E’ armato di daga e di scudo ed è coperto
solamente da un gonnellino a metà coscia e da due
baltei di cuoio rafforzati con placche di bronzo che gli
si incrociano sul petto.La sua pelle abbronzata e unta d’olio
brilla al sole come oro vecchio e gli salterei molto
volentieri addosso: è bellissimo.
L’ingresso del Leopardi Giacomo Cantacesso nell’arena
è accolto con un silenzio sepolcrale.Gli hanno messo in
mano una specie di giavellotto che lui non sa neppure
come si tiene ed è intabarrato in una tunica nera lunga
fino ai piedi, con cappuccio che gli copre la testa. E’
talmente brutto che, in confronto a lui, Marty Feldman
nei panni del gobbo Aigor in “Frankenstein Junior”
sembrava Alain Delon nello splendore dei suoi trent’anni.
Mi ritrovo con l’anima lacerata in due.Devo
augurarmi la vittoria dell’Ispanico o quella di
Cantacesso? Massimo, con i suoi occhi ha scatenato in me
l’inferno e con tutto il resto mi ha fatto guardare il
paradiso… Ma non fosse stato per il Cantacesso a quest’ora
starei ancora a rodermi il fegato nell’Ufficio
Accettazione della ASL numero Venti… Vorrei che la
terra si spalancasse sotto i miei piedi e mi
inghiottisse.
-Ci sarà un magnifico premio per il vincitore…-sibila
Sua Maestà Imperiale come un serpente a sonagli a cui
abbiano pestato la coda. Quindi indirizza i suoi occhi
verdi, piuttosto belli per la verità, verso Dania
Scopilia Sportula e le sorride.Siamo a posto, penso tra
me e me. Dopodiché la contesa ha inizio.
La folla è, come al solito, tutta per l’Ispanico
ma, a quanto capto dai discorsi del pubblico, i tifosi
non sembrano molto soddisfatti dell’operato del loro
campione.Egli gira intorno all’avversario senza
avvicinarsi, come se un muro invisibile glielo
impedisse. E’ sicuramente opera di magia, comincia a
borbottare qualcuno. Io, che conosco bene il Cantacesso,
penso che, più prosasticamente, il muro invisibile sia
quello innalzato dalle pestilenziali flatulenze per cui
era famoso quando prestava i suoi servizi quale
archivista della ASL Ma in questo mondo anche l’esistenza
dei fagioli è ancora ignorata.
L’Ispanico pianta i begli occhi blu negli occhietti
porcini del Cantacesso e costui, in preda alla paura,
continua con le sue fetide emissioni gassose: ma le
convenzioni internazionali non avevano bandito l’uso
delle armi chimiche? Non bastassero quelle, il re della
carta igienica dispone altresì del fiato di un drago e
il povero Ispanico si rende conto che l’impresa in cui
si è imbarcato è ben più ardua della battaglia di
Cartagine e della lotta contro le tigri messe insieme.
Trattenendo il fiato, avanza verso l’avversario con la
daga puntata. Ha lasciato cadere a terra lo scudo. Con
un calcio, solleva un polverone per accecare l’avversario
e…
Non sa, l’infelice, che il Cantacesso è allergico
alla polvere e agli acari.Non sa che comincerà a
starnutire e non la smetterà più. Né può immaginare…
Portandosi le mani al petto, crolla nell’arena come
una quercia schiantata.Il Colosseo ammutolisce: il
brutto mago ha annientato il suo bel campione.
Accanto al corpo inerte dell’Ispanico ecco l’oggetto
che ne ha provocato la sconfitta: i denti, anzi la
dentiera, di Cantacesso, sparati da uno starnuto a
velocità supersonica contro il plesso solare fasciato
di muscoli dell’altro, ne hanno provocato il deliquio
istantaneo.
Lucilla si dispera, io mi dispero, la folla si
dispera, la carogna dell’Imperatore si frega le mani,
Dania Scopilia Sportula ostenta la faccia indifferente
di sempre… Ma grazie al cielo Massimo è solo svenuto
e di lì a pochi istanti, riemerge dall’incoscienza
con la fatidica domanda senza risposta: DOVE SONO?
Giacomo Leopardi Cantacesso ha vinto. Rificcatisi in
bocca i denti imbrattati di sabbia zozza e pisciosa,
avanza verso l’imperatore per reclamare il premio a
cui ha diritto. Commodo lo guarda con i suoi occhi
verdi, gelidi e beffardi e…
-Ho cambiato idea- gli fa con un sorriso sghembo
-Il premio non andrà al vincitore, ma allo sconfitto.
Vedo Massimo scattare in piedi e puntare al cielo il
dito medio.E’ l’inizio del segnale della
rivolta.Dopo quanto ha visto, il popolo romano non è
più disposto a soggiacere agli arbitrii del tiranno.
EPILOGO PIANGE IL TELEFONO
Grazie a Dio è domenica.Se fosse lunedì, non credo
proprio che sarei in condizioni di andare al lavoro, con
la bocca impastata e i peperoni che mi fanno ancora il
saliscendi nello stomaco. Il sogno è stato bello,
però. E quanto ho maledetto lo squillo del cellulare
che mi ha svegliata proprio mentre Massimo Decimo
Meridio, sconfitto il tiranno, stava per stringermi tra
le braccia e baciarmi appassionatamente, secondo la
migliore tradizione hollywoodiana… ACCIDENTI A
CANTACESSO!!!
Fine
Lalla,23 marzo 2003 |