Erano le sei e il buio della sera aveva quasi
completamente avvolto i vicoli e le stradacce strette e
tortuose che si dipartivano dal porto quando la vedova
Berthaud sprangò l’uscio di casa , aggiunse olio alla
lanterna e la accese. Faceva buio presto, d’inverno,
si disse da sé sola, perché non le era rimasto nessuno
con cui parlare dacchè il suo secondo marito, che aveva
dieci anni in meno di lei, era morto in mare e il gatto
di casa se n’era andato per i fatti suoi e non aveva
più fatto ritorno. Sola. Non aveva avuto figli né dal
vecchio Colombier, il pescivendolo, che morendo le aveva
lasciato in eredità quella catapecchia né da Berthaud,
il marinaio, che era giovane e vigoroso e un’onda se l’era
portato via mentre governava il timone di un
peschereccio che inseguiva banchi di aringhe in mezzo
all’Atlantico.
Con una mano, si scostò un ciuffo di capelli dalla
fronte. Erano folti, di un bel castano chiaro luminoso,
quel genere di capelli in mezzo ai quali i primi fili
bianchi che i quarant’anni portano inevitabilmente con
sé si mimetizzano alla perfezione. Aveva eroicamente
resistito alla tentazione di venderli a un fabbricante
di parrucche anche quando le finanze scarseggiavano, e
li portava raccolti in una morbida crocchia sulla nuca.
Le occhiate non esattamente caste degli uomini che
incrociavano la sua strada dicevano che era ancora
desiderabile e, se avesse voluto, non le sarebbe stato
difficile accalappiare un altro marito. Se avesse
voluto, già. E ancora non aveva deciso se volerlo o
meno. D’inverno il suo letto era freddo… ma non
aveva bisogno di qualcuno che la mantenesse. Non aveva
grandi esigenze e quei quattro soldi che racimolava
lavorando di cucito o aiutando le donne del vicinato a
partorire e rimettendo a posto slogature le bastavano.
Certo, se fosse riuscita ad affittare a qualcuno il
mezzanino al piano di sopra… Era da un paio di mesi
che andava in cerca di un inquilino ma, fino a quel
momento, non si era presentato nessuno.
L’ombra di un uomo a cavallo passò davanti alla
finestra, facendola sussultare. Nero come la notte tutto
quanto, lui, la bestia che montava, il cane che lo
precedeva e chissà se era il suo o uno dei tanti
randagi che vagabondavano da quelle parti in cerca di
qualche immondizia con cui placare i morsi della fame.
Si segnò, come se avesse visto un fantasma. Tutti
dicevano che i fantasmi non esistono, eppure sua nonna
asseriva di averne visto uno e gliel’aveva raccontato
tante volte. Lei aveva sempre creduto in quel che diceva
sua nonna, una donna risoluta e forte, che aveva
lavorato tutta la vita per mantenere cinque figli e un
marito invalido, mica una piagnucolosa visionaria dalle
mani delicate e dalle lacrime facili.
-Mi hanno detto che affittate una stanza.
Si era ricomposta, prima di andare ad aprire, quando
qualcuno aveva bussato alla porta. Era tardi, e non c’era
un’anima in strada.Forse sarebbe stato meglio non
aprire, ma Marianne cercò di fidarsi delle sue
intuizioni. Non corri alcun pericolo, le avevano
suggerito.
Era lo stesso che, a cavallo, era passato sotto la
finestra di casa sua pochi minuti prima. Un uomo
giovane, si ritrovò a pensare. Giovane e forte. Ma il
mezzanino, per accedere al quale bisognava passare da
una scala esterna, non comunicava in alcun modo con il
resto della casa. Non avrebbe avuto alcunché da temere,
se non le chiacchiere di qualche vicina pettegola. E lei
delle vicine pettegole e delle loro chiacchiere se n’era
sempre infischiata.
Chiuse lo spioncino, aprì la porta. Con la lanterna
a olio, gli illuminò la faccia, per poterlo guardare
negli occhi e decidere se era il caso di fidarsi o
no.Gli occhi di un uomo sono come un libro aperto, le
avevano insegnato, e il fatto che sapesse leggere e
scrivere l’aveva sempre aiutata a crederci. Quelli
dello sconosciuto erano azzurri, venati di verde. Un po’
tristi, forse. Come se avessero visto troppo. Ma non
erano occhi cattivi.
-Entrate.-gli disse. E lui entrò.
Era avvolto in un lungo mantello nero e aveva una
pelle di lupo gettata intorno alle spalle. Zoppicava
pesantemente. Portava i capelli raccolti a coda sulla
nuca ma due lunghi cernecchi schiariti dal sole erano
sfuggiti e gli pendevano ai lati del viso sporco di
barba. Aveva tratti regolari, un bel naso dritto, la
bocca piccola,i denti bianchi, la carnagione chiara
sotto l’abbronzatura. Un bell’uomo nei suoi primi
trent’anni, vigoroso e forte, nonostante la gamba
malconcia e l’aspetto trasandato. Quando si scostò di
dosso il mantello, Marianne notò la divisa blu e le
spalline rosse della marina militare. Doveva trattarsi
di un ufficiale.
-Non dovrei trattenermi molto. Dieci, quindici giorni
al massimo. Il tempo che questo maledetto ginocchio si
rimetta in sesto e poi…
E poi si sarebbe imbarcato di nuovo sulla sua nave da
guerra. Erano tempi brutti, quelli, pensò la vedova
Berthaud. Almeno per gli uomini. Quello le avrebbe
pagato l’affitto il tempo di rimettersi in sesto e poi
se ne sarebbe andato.In mare, il suo destino era
quello.Magari a morirci, come il suo povero Michel, che
se n’era andato nel fiore degli anni, spazzato via da
un’onda mentre governava il timone del peschereccio su
cui era imbarcato.
-Allora…
-Potete andare a prendere i bagagli, signore. Speravo
che vi sareste fermato almeno qualche mese ma…Meglio
un uovo oggi che una gallina domani. Si dice così, no?
Lo guardò grattarsi perplesso una basetta, come se
non fosse del tutto convinto di ciò che stava facendo.
Ho un cavallo, lì fuori. Una bella bestia di valore,
non vorrei che qualcuno me lo rubasse. Disse. C’è un
grosso cane di guardia al mio cavallo, ma… Non si sa
mai. E lei gli rispose che c’era una piccola stalla
chiusa, dietro la casa. Il suo primo marito, il
pescivendolo, aveva un carretto e un somaro. Potevano
alloggiare lì dentro, cavallo e cane, visto che al
momento la stalla era vuota.
L’aveva fatto entrare in casa e, seduto alla sua
tavola, adesso l’uomo mangiava con appetito la zuppa
di pesce che lei aveva preparato per cena. Una porzione
abbondante. Aveva perfino cotto una torta di mele, il
cui profumo si spandeva in tutti gli angoli della
piccola casa. Si era seduta a tavola e gli aveva fatto
compagnia, come quando il vecchio Colombier e il giovane
Berthaud erano vivi. E, di fronte alla sua sedia, aveva
sistemato uno sgabello con un cuscino perché potesse
appoggiarci sopra la gamba. Era probabile che gli
facesse male, pensava: a seconda dei movimenti, una
rapida smorfia di dolore gli alterava per qualche attimo
i tratti delicati del viso.
IL TERZO UFFICIALE
Doveva avere suppergiù l’età del povero Michel.
Trenta. Forse trentacinque, ma non di più. Il tepore
che una stufa a legna diffondeva nella piccola cucina lo
aveva indotto a togliersi il mantello e lei glielo aveva
preso, per collocarlo sopra una sedia. La pelle
brizzolata di lupo era soffice e calda. Sul davanti,
nella scollatura, pendeva una catena d’argento che
serviva a tenerlo chiuso. Le spille rotonde che la
fermavano erano ossidate e sembravano parecchio antiche,
ma non dovevano avere nessun valore.
Portava una pelle di lupo gettata intorno alle
spalle, una testa di lupo era incisa sulle fibule che
gli tenevano chiuso il mantello e un lupo sembrava il
grosso cane che lo aveva seguito fino lì. I lupi sono
creature del diavolo, aveva pensato Marianne sentendo
correre un brivido lungo la schiena.
-C’è qualche altra cosa che desiderate, signore?
Lui si portò alle labbra il bicchiere, sorseggiò il
vino rosso e corposo. No, non voglio niente. Ditemi
soltanto dov’è la mia stanza. Aspettate, vi
accompagno.
Gli illuminò la strada con la lanterna, aprì la
porta del mezzanino. Non c’è stufa, gli fece notare.
E lui si schermì dicendole che non aveva mai sofferto
il freddo. Si sarebbe avvolto ben bene nelle coperte, e
avrebbe dormito come un sasso.
Era alto, dritto, con un paio di grosse spalle.Il suo
corpo brutalmente forte, le sue grandi mani callose da
fabbro ferraio contrastavano con il viso dai tratti
dolci e regolari,quasi infantili. Era un uomo molto
bello e molto virile, si ritrovò a pensare Marianne,rabbrividendo
ancora.
-Potrei conoscere il vostro nome, signore?
-Massimo Meridio, Madame.
-Non siete francese.
-Vengo da quella che una volta si chiamava Repubblica
di Genova. Sono nato a Ventimiglia.
-Ma portate la divisa della marina militare francese.
-Ero il terzo ufficiale a bordo della corvetta “Le
Heros”.
Aveva viaggiato molto, le disse. Le raccontò che
durante uno scontro con una fregata inglese nel Canale
della Manica si era beccato una palla di moschetto che
gli aveva fracassato il ginocchio e che era ancora
convalescente. Effettivamente zoppicava parecchio, e
quel passo irregolare aggiungeva una nota stonata alla
sua gagliarda prestanza. Non appena fosse guarito,
avrebbe avuto un altro imbarco, se non sulla sua nave
sopra un’altra Il mare è come un’amante capricciosa
che si prende tutto di te senza lasciarti niente in
cambio, ma ti ubriaca talmente tanto con le sue grazie
che alla fine non osi dire di no. Dovesse costarti la
vita.
-E’ stato…Tanto tempo fa?
-Quasi due mesi. Il medico di bordo ha detto che non
ci metterò molto a tornare quello di prima.
Allora potrai arrampicarti di nuovo sul sartiame,
sbraitare ordini ai marinai e batterti alla morte con
gli inglesi, tanto questa è la vita che vuoi, pensò la
donna reprimendo a stento il desiderio di carezzargli la
fronte, poi la guancia ruvida di barba.Lui le sorrise e
le chiese il suo nome.
-Voi conoscete il mio. Io non so il vostro.
-Marianne.
-Cucinate bene, Marianne.
Lei arrossì come una ragazzina, quando quell’uomo
segnato dal marchio del lupo come un antico guerriero
normanno le scostò un ciuffo di capelli dalla fronte
con la sua grande mano callosa.
-Desiderate qualcosa di particolare…domani?
-Una tinozza,un pezzo di sapone e dell’acqua: puzzo
come un caprone e ho un disperato bisogno di un bel
bagno.
IL SALVACONDOTTO
-C’è sempre una pentola l’acqua che bolle sulla
stufa e una grossa tinozza in un angolo della cucina.
Potete lavarvi qui, e mi eviterete di andare su e giù
per quelle scale con i secchi dell’acqua bollente. Io
intanto andrò nel mezzanino a dargli una sistemata.
Avrete notato il disordine, è sempre stato disabitato e…e
adesso è pieno di polvere e di ragnatele. Sono
mortificata, signore.
-Avevo talmente tanta di quella stanchezza addosso
che neppure me ne sono accorto.- la scusò lui con un
sorriso, spalmandosi uno strato di marmellata di mele
cotogne su una fetta di pane nero abbrustolito.
-La tinozza è dietro la tenda, l’acqua calda sopra
la stufa. Fate con comodo, io intanto andrò a dare una
passata di scopa in camera vostra. Dove tenete la roba
pulita?
Lui si era schermito, facendosi a momenti rosso come
una collegiale. Va’ a quel paese, marinaio. Aveva
pensato la donna. Non ti ci mando ancora una volta su
per le scale con quella gamba cionca che ti ritrovi.
Che, credi che non ne abbia viste altre, mutande da
uomo? Ho avuto la bellezza di due mariti, signorino…
Prima che lui potesse replicare, lei era già
sparita. Mentre lui versava l’acqua bollente dentro la
tinozza, lei stava frugando in mezzo alla sua roba. Lo
aveva trovato. Magari si era messa anche a leggerlo. Il
salvacondotto. Rabbrividì, accoccolandosi sulle
ginocchia e strofinandosi addosso quel pezzo di sapone
che odorava di cedrina, olio d’oliva, cenere fredda e
non voleva saperne di fare schiuma. Il salvacondotto.
Era falso. Perché mai, del resto, il Primo Console
avrebbe dovuto affidare un incarico come quello a un
oscuro ufficiale di marina di cui era più che probabile
ignorasse l’esistenza e, per sopramercato, non era
neppure francese?
Quando Marianne tornò con la sua roba, Massimo era
già uscito dall’acqua. Si era legato il telo umido
intorno ai fianchi e rabbrividiva di freddo. La donna
gli lanciò un’occhiata non troppo insistente ma
adeguata a valutarlo. Aveva spalle enormi e bicipiti
massicci, il petto largo, splendidamente modellato e
leggermente villoso. Era pieno di cicatrici e, svestito,
sembrava ancora più grosso.
-La vostra roba, signore.
Lui allungò la mano e gliela prese, disinvolto come
prima non era stato, mentre le sorrideva, guardandola.
-Vi laverò la roba sporca.
-E io vi pagherò per l’incomodo.
-No. Le spese sono comprese nella pigione che mi
avete pagato per…
-Non mi tratterrò molto.
Aveva un bel sorriso, pensò la donna. Un bel sorriso
e qualche leggera efelide dorata sotto gli occhi e sul
dorso del naso.Si ritrovò a pensare che le sarebbe
dispiaciuto,quando se ne fosse andato. Chissà chi era,
si domandò pensando al salvacondotto che aveva trovato
in mezzo ai suoi pochi effetti personali. Non aveva
resistito alla tentazione di leggerlo ed era stata
attraversata da un brivido, quando aveva visto, in calce
al documento, la firma di Bonaparte, del Primo
Console.Si parlava di un prigioniero rinchiuso in un
forte dalle parti di Besançon, lì sopra. Un certo…François
Dominique Breda.Doveva trattarsi di un personaggio
importante.
Chissà se è capace di leggere. Pensava l’uomo
infilandosi dalla testa una camicia di lino ingiallita
per i troppi bucati. Certo che sì. Parlava troppo bene
per essere un' analfabeta. Chissà se aveva scovato il
salvacondotto. Se l'aveva letto .Se aveva capito che era
falso… Il cuore prese a battergli all’impazzata, al
pensiero .Non ci sarebbe mancata che quella. Un disastro
di portata inferiore soltanto all’eventuale scoperta
che in realtà appena un’ora dopo che il chirurgo di
bordo gli aveva estratto dal ginocchio sinistro la palla
di moschetto inglese lui già non zoppicava più. Aveva
dovuto simulare anche allora. Come sempre, per evitare
che una verità difficile da accettare venisse a galla.
E poi c'era la missione da portare avanti... costasse
quel che costasse ,aveva pensato stringendo tra i denti
il labbro inferiore fino a sentire il gusto del sangue.
Se si fosse fatto credere ancora convalescente lo
avrebbero lasciato in pace, e allora... Allora, forse,
sarebbe riuscito a esorcizzare il suo rimorso. Breda
François Dominique Breda. Il prigioniero del Fort de
Joux.
Simulare. C'era abituato. Lo aveva fatto tante di
quelle volte da aver perso il conto. Per salvarsi? No:
solo per nascondere una verità che sembrava una folle
menzogna.
La guardò. Era una donna alta, forte, piacente
nonostante qualche ruga, qualche capello bianco e
qualche chilo di troppo. Si portava appresso il fascino
della donna di carattere, che le difficoltà non piegano
e non spezzano. Nemmeno, si ritrovò a pensare,
un'illusione che somiglia all'amore e amore non è.
Anche se lui... Il fine giustifica i mezzi ,aveva detto
qualcuno. Tanto tempo prima.
Chiuse gli occhi, ascoltò il rumore leggero delle
sue pantofole di feltro sul pavimento.Le circostanze
dovevano averla messa al corrente del suo
segreto,pensò. Forse era arrivato il momento di
andarsene, anche se faceva freddo, chissà in che stato
erano le strade e Besançon distava così tanto.
L' "AUREUS"
Non si era fatta illusioni sul suo conto dal primo
momento in cui i loro sguardi si erano incrociati e
quell'uomo giovane, bello e misterioso,in una gelida
sera d'inverno aveva fatto irruzione nel vuoto della sua
solitudine.
Sapeva ce si sarebbe allontanato in groppa al suo
grande cavallo nero ed era certa che non l'avrebbe mai
più rivisto, anche se lui le aveva giurato il
contrario,dopo la loro prima e unica notte insieme.Ma
non sono momenti,quelli,in cui si possa pretendere di
cogliere la verità,nelle parole di un uomo.
-Mi dispiace vedervi zoppicare in quel modo,
signore...-gli aveva detto- Ma penso che potrei fare
qualcosa per voi.Mia nonna era levatrice e aggiustaossa,
e ho fatto miei molti dei suoi segreti. Qui a Brest
erano in tanti a dire che ne sapeva più lei di tutti i
medici e i sapientoni della città messi assieme.
Le era sembrato imbarazzato, ma alla fine aveva
acconsentito; si era sfilato i calzoni, sdraiato sul
letto, e aveva chiuso gli occhi chiari facendo le fusa
come un grosso gatto, mentre le mani esperte di Marianne
cercavano nella sua gamba il punto dolorante. Strano,
non c'era niente che non andasse ,in quella solida gamba
muscolosa. Niente .Nemmeno la cicatrice ancora fresca di
una ferita recente. Non avete nulla,e fingete di
zoppicare. Non riesco a spiegarmi la ragione di un
simile comportamento, signore... Avrebbe voluto
chiederglielo, ma non gli disse nulla.
Marianne. Sei bella.Le aveva detto mentre, senza
scollare dai suoi gli occhi azzurri e tristi, si era
messo a carezzarle i capelli. Ho quarantatre anni,
signore. Sono una vecchia.
Quella notte d'amore era stata un dono inatteso della
sorte, e pretendere di più dalla fortuna sarebbe stato
indecente, pensò la donna mentre lo guardava
allontanarsi. Eppure, non riuscì a trattenere una
lacrima. Era andato via ancor prima di quanto lei avesse
previsto. Doveva raggiungere Besançon. Un posto
lontano, in mezzo alle montagne, per quel poco che ne
sapeva.
Non si era adombrato, quando Marianne si era lasciata
sfuggire quella domanda che le bruciava sulle labbra da
quando aveva visto il salvacondotto. Aveva giurato a se
stessa che non gli avrebbe chiesto niente. Invece non
era riuscita a trattenersi, come se l'intimità
occasionale con quello sconosciuto autorizzasse la
confidenza tra loro. Che lui fosse fisicamente molto
forte, era altrettanto certo del fatto che insieme non
avessero un domani,che si fossero cercati perché
l'inverno era freddo, perché avevano bisogno di darsi
reciproco conforto e per chissà quali altre misteriose
ragioni. L'avrebbe picchiata, se si fosse adirato a
causa della sua indiscrezione. Avrebbe alzato le sue
mani su di lei. Come aveva fatto Michel. Tante volte.
Massimo doveva essere terribilmente forte. Più del
povero Michel annegato in mare,si era ritrovata a
pensare accarezzandogli i muscoli torniti che gli
esplodevano sotto la pelle come a un grande cavallo da
tiro. E non tutti gli uomini erano in grado di
controllare la propria forza. Chissà, forse le
cicatrici che gli segnavano la pelle non erano quel che
restava di vecchie ferite di guerra,ma il ricordo di
risse da osteria finite a coltellate.L'uomo che si era
portata a letto poteva anche essere un assassino.Era
marchiato sulla schiena come un animale:la donna
ricordò di aver sentito dire che,in certi paesi,era
così che la giustizia segnava per sempre i criminali.
Marianne tremò,stretta tra le sue braccia robuste,il
viso premuto sul collo,contro la seta dei suoi capelli
sciolti.Faceva freddo,ma il corpo nudo e solido di lui
era caldo come pane appena sfornato,come lo
sguardo,velato dalla penombra,dei suoi occhi
azzurri,dolci e malinconici. Non erano gli occhi di un
assassino, quelli. E neppure di un ladro, o
semplicemente di qualcuno che, quando perdeva la
pazienza con una donna, era capace di colpirla.Chi sei,e
che ci fai qui,con me?Avrebbe voluto domandargli,pur
nella certezza che lui non le avrebbe risposto e si
sarebbe limitato a un sorriso fugace,a labbra chiuse.Se
ne sarebbe andato,l'indomani stesso.Nonostante il
freddo. Nonostante sapesse che avrebbe trovato la
neve,sul suo cammino.La neve. E i lupi.Ma lui non aveva
paura.
Poche ore ancora,e con il sorgere del nuovo giorno
sarebbe sparito dalla sua vita per sempre. Le sarebbe
piaciuto un figlio suo,pensò. Non era uscito via da lei
prima che il suo piacere toccasse il culmine e le aveva
versato dentro ogni goccia del suo seme. Ma nessuno dei
suoi due mariti l'aveva resa madre. Doveva essere
sterile, l'aveva sempre pensato. E poi era vecchia,
anche se aveva ancora le sue regole mensili e conosceva
donne che erano rimaste incinte malgrado fossero più
grandi di lei.
Massimo... Domani mi sentirò molto più sola, senza
di te. Non avrebbe potuto trattenerlo, pensava
guardandolo dormire, ascoltandolo russare piano. Aveva
una missione da compiere. C'era un prigioniero rinchiuso
in un forte in mezzo alle montagne.
-Massimo... Chi è François Dominique Breda?
No, non si era adombrato. L'aveva guardata, e i suoi
occhi erano quelli di sempre ,teneri, e tristi, e pieni
di domande senza risposta.
-E'il mio rimorso, Marianne.
Il suo rimorso.Il rancore contro se stesso che
chissà da quanto tempo si covava dentro. Forse il lungo
viaggio che lo aspettava poteva essere l'ultima
occasione per esorcizzare quel demone che gli rodeva
l'anima.
Lo aveva guardato allontanarsi in groppa al suo
grande cavallo, seguito dal cane nero. Avrebbe potuto
incontrare i lupi,sulle montagne. I lupi e i briganti. E
lei avrebbe pregato Dio tutti i giorni e tutte le notti
perché giungesse a destinazione sano e salvo.
Alla fine della strada, l'orizzonte aveva inghiottito
cavallo e cavaliere Il sogno era finito, pensò Marianne
asciugandosi una lacrima con il dorso della mano, prima
di impugnare la ramazza.
Qualcosa di luccicante tintinnò sul pavimento di
pietra. Marianne si chinò a raccattarla e si trovò in
mano una moneta. Una vecchia moneta dai bordi
irregolari, come non ne aveva viste mai. Una moneta
d'oro. La guardò. Su una faccia era a malapena
leggibile la scritta SPQR. Sull'altra era sbalzata la
testa di un uomo barbuto. Doveva averla persa lui.
L'avrebbe conservata, pensò, e gliel'avrebbe restituita
quando Massimo sarebbe tornato. Se fosse tornato.
LA LOCANDA
Besançon,1803, ultimi giorni di febbraio
L’uomo guardò il piatto che una vecchia arruffata,
sdentata, baffuta e verrucosa gli aveva piazzato
davanti, sopra la tovaglia bisunta che copriva un
tavolino male in arnese. Conteneva una brodaglia
nerastra nella quale galleggiavano pezzi di verdura e
patate cotte chissà da quanto,tanto viscide da sembrare
di cera. Non era molto appetitosa, ma lui aveva fame
sicché stoicamente la ingollò tutta, bevendoci sopra
per buttarla giù un bicchiere di vino che sembrava
fatto con dell’uva marcia. Non c’era da stupirsi se
gli unici clienti della bettola erano lui e due
individui malmessi i cui rutti rimbombavano all’interno
del piccolo locale che puzzava d’umido e di muffa.
L’oste, un omiciattolo calvo, che aveva una gamba
di legno e una finestra al posto dei denti davanti, gli
si era avvicinato e, preso uno sgabello,seduto a fianco
con l’intento di avviare una qualsiasi conversazione
con quel forestiero grosso,stanco e scontroso che
indossava una divisa con cuciti sopra gradi di ufficiale
e non sembrava particolarmente amichevole, men che meno
loquace.
-Venite da lontano?
-Da Brest.
L’uomo emise un lungo fischio. Brest era lontana. E
quello che gli stava davanti era un ufficiale della
marina militare. Che cosa ci faceva, un marinaio in
mezzo alle montagne?
-Il viaggio dev’essere stato lungo.
Sette giorni, aveva risposto lui. In battello,
finché aveva potuto. Poi a cavallo. Aveva percorso
strade che si inoltravano in mezzo ai boschi e, all’ombra
degli alberi,dove i raggi del sole non arrivavano, c’erano
pozze scivolose di ghiaccio. Due giorni li aveva
trascorsi chiuso nel capanno abbandonato di un
boscaiolo, mentre fuori veniva giù la neve.Il calore
dei suoi animali lo aveva aiutato a combattere il gelo
della notte,e aveva dormito con il muso del suo cane sul
petto e la puzza del pelo bagnato dentro le narici.
-I lupi? Li avete visti, i lupi?
Sì. Ho intravisto le loro sagome agili seguirmi tra
gli alberi,il luccicare dei loro occhi gialli che mi
spiavano nel buio. Ma io non ho paura. Quando,la notte,
dormivo in qualche capanno abbandonato rannicchiato tra
le coperte e con il cane che mi scaldava,non provavo
angoscia sentendoli ululare alla luna.Pensavo...Alla
libertà,ecco. Alla libertà che qualcuno aveva
perduto.Al prigioniero rinchiuso dentro il Fort de Joux.
A François Dominique Breda.
-Disponete di qualche stanza libera?
-E anche di una stalla per il vostro cavallo e il
vostro cane.A buon prezzo,signore.
Un buco,sicuramente,da dividere con i topi e le
cimici.E non gli piaceva la faccia dell'oste.In tanti
anni,aveva imparato a riconoscere al fiuto le intenzioni
degli altri,e spesso erano state proprio le sue
intuizioni a toglierlo dai guai. Se aveva velleità
strane sul suo conto che gli frullavano in testa, meglio
toglierle via subito, come si fa con i denti che
dondolano.
-I banditi. -buttò là senza un’apparente
ragione-Sulle montagne hanno tentato di rapinarmi.E'
gente disposta ad ammazzare per portarti via gli
stivali,quella,Ma il mio cavallo si lascia montare da me
soltanto,il cane è addestrato a saltare alla gola per
uccidere e in quanto a me...Non mi lascio portar via né
il cavallo né gli stivali.
Gli occhi chiari dell'uomo lampeggiarono d'un
bagliore assassino e il vecchio oste immaginò un corpo
con la gola squarciata che sfamava i corvi nel gelo
della campagna, e un bandito che si aggirava per le
montagne con tre dita di meno.
-Potrei procurarvi...una puttana con cui dividere il
letto,se vi interessa.
L'uomo aveva piegato le labbra all'ingiù,alzando le
grosse spalle.Si chiamava Massimo Meridio.Tenente di
vascello Massimo Meridio,terzo ufficiale a bordo della
corvetta "Le Heròs".Veniva da quella che si
chiamava Repubblica di Genova prima che Napoleone la
cancellasse dalle carte geografiche.
-Il Fort de Joux...E' molto lontano da qui?
IL FORTE
Ne aveva visti tanti, e non poteva immaginarlo
diverso. Quello sembrava più piccolo degli altri, o
forse era solo l’effetto della giornata uggiosa e
della distanza. Abbarbicato a un migliaio di metri di
altezza tra le montagne del Giura, un po’ caserma, un
po’ galera.D’inverno, quando la neve rendeva
impraticabile la strada, la noia doveva mangiarsi le
giornate dei suoi occupanti. Ne aveva visti un paio,
alla bettola di Doinel, qualche giorno avanti.
Approfittando della libera uscita e di una giornata non
particolarmente infame, erano scesi in città per andare
a puttane. Uno era un ragazzino non più che
diciottenne, l’altro poteva essergli padre e si
portava appresso una capigliatura rada e forforosa,
lunghi baffi spioventi e l’aria stanca. Entrambi
indossavano uniformi blu spiegazzate con mostrine rosse
e bandoliere di pelle che chissà quanto tempo prima
dovevano essere state bianche. Origliando con finta
indifferenza i loro discorsi da ubriachi, Massimo era
riuscito a carpire l’unica informazione che gli
interessava. Amiot*. Era così che si chiamava il
governatore del forte.
Se non altro, avrebbe saputo come chiedere di lui e
come rivolgerglisi senza suscitare troppi sospetti da
subito, pensò accarezzandosi il mento. Quella mattina
si era rasato la faccia e lavato in una tinozza di acqua
quasi fredda che quella sanguisuga di Doinel s’era
fatto pagare neanche fosse stata vino di Borgogna. Aveva
indossato una camicia pulita e pettinato i capelli all’indietro
con l’aiuto di qualche goccia d’olio di Macassar.
Doveva presentarsi con un aspetto decente e credibile al
Governatore del forte. Amiot. Cerca di tenerlo a mente,
Massimo. E di pensare, strada facendo, alle bugie che
sarai costretto a raccontare per convincerlo a lasciarti
solo con il prigioniero.
-Voi non siete francese.
-La Francia ormai è diventata la patria di tutti
coloro che hanno fatto della libertà e dell’uguaglianza
il loro credo, Governatore…No, non sono francese.
Vengo da Ventimiglia. Ma che io non sia francese non ha
impedito al Primo Console di affidarmi l’incarico
delicato di cui vi dicevo poc’anzi.
Maledetti negri. Aveva bofonchiato tra i denti il
Governatore Amiot senza far caso o ignorando di
proposito il sorrisetto ironico con cui il suo
interlocutore aveva accompagnato le parole appena
pronunciate. Aveva la stessa aria grigia e trascurata
dei suoi soldati e Massimo immaginò che dovesse
trattarsi d’un veterano delle campagne napoleoniche
reso inservibile da qualche menomazione e spedito lassù
per continuare, in un modo o nell'altro, a tornare utile
alla Patria o meglio a quel piccolo,pallido, bilioso ed
ambizioso generale corso che in lei adesso si
identificava.
-E così quelle maledette scimmie sono di nuovo in
subbuglio.
-La verità è che non hanno mai smesso di esserlo…nonostante
l’arresto e la deportazione del loro capo. Anzi,
sembra che Dessalines* e Christophe* abbiano giurato con
le spade in pugno di scaraventare ai pescicani i soldati
francesi che si azzardassero a mettere piede ad Haiti e
di concimare i campi con i cadaveri di tutti quei
creoli** che non hanno potuto o voluto lasciare l’isola.
- Sono animali.Non sarebbero neri, se non lo fossero.
-Il Primo Console vuole risolvere la questione una
volta per tutte e mi ha incaricato di interrogare il
prigioniero.Per carpirgli ogni informazione possibile a
riguardo.Mi ha dato facoltà di ricorrere ad ogni mezzo
per poter ottenere tale scopo.Doveste fermarvi qui un
mese,mi ha detto,e scrollarlo come un sacco.
-Non oso dubitare che lo
fareste,all'occorrenza...Comandante.
Un lampo di crudeltà aveva illuminato lo sguardo
assente del Governatore quando, sollevati gli occhi dal
salvacondotto, li puntò in faccia al lupo di mare che
avrebbe dovuto trasformarsi in inquisitore, torchiare il
vecchio rottame rinchiuso nel cachot***del forte
e fargli cacciar fuori dalla strozza tutto quello che
sapeva,con le buone o con le cattive.C'erano la firma e
il sigillo di Bonaparte,in calce al documento. E lo
straniero che chissà quale singolare caso della vita
aveva costretto a infilarsi in una divisa della Marina
da Guerra francese,sembrava uno che ci sapeva
fare.Sguardo freddo, spalle grosse e pugni pesanti.
Bonaparte aveva fiuto nello scegliersi i collaboratori.
Diversamente,non sarebbe andato così lontano.
Non succedeva mai niente,lì dentro. Le giornate
erano tutte uguali,esattamente come prima che Breda
fosse rinchiuso nella cella da cui con tutta
probabilità sarebbe venuto fuori solo con i piedi in
avanti. E non ci sarebbe voluto molto,aveva
sentenziato.L'uomo sembrava più vecchio della sua
età,ed era decisamente malridotto. Sì,non sarebbe
durato a lungo.Un grattacapo in meno,se il diavolo se lo
fosse pigliato.
-Ledoyen! Accompagna il Comandante nei suoi alloggi!
Lui.Il ragazzino che aveva visto un paio di giorni
prima alla bettola di Doinel,con due pinte di vino
cattivo in corpo e una puttana scheletrita che poteva
avere l'età di sua madre accoccolata sulle ginocchia.
*In questo e nei capitoli successivi, ho
contrassegnato con l’asterisco i nomi dei personaggi
realmente esistiti.
*Creolo=cittadino francese nato nelle colonie.
**Cachot=cella
IL GENERALE
-Lasciaci soli.
-Ma,signore...ho ordini precisi...
-Temi che quel vecchio rottame mi salti addosso e mi
tiri il collo? E se anche così fosse dovresti essere tu
a difendermi? Lasciami lavorare in pace,moccioso.E non
farti trovare tra i piedi per almeno due ore, intesi?
-Il signor Governatore ha detto che...
-E io me ne fotto di quello che ha detto il signor
Governatore.
Un breve alterco,quindi il prigioniero aveva sentito
gemere il catenaccio, scricchiolare i cardini della
porta,come quando venivano a portargli da mangiare e a
svuotargli il bugliolo.Poteva essere che così fosse,non
era facile mantenere la cognizione del tempo,in quelle
condizioni.Ma l'uomo inquadrato nel vano della porta non
era colui che doveva provvedere a quelle miserabili
incombenze senza mai rivolgergli la parola.
Eppure,l'aveva già visto...Quando? Un lampo improvviso
illuminò il caotico affastellarsi dei suoi ricordi:due
braccia forti che lo sorreggevano impedendogli di
inciampare, occhi freddi come l'aria di quelle montagne
fissi sul marinaio che l'aveva chiamato "brutta
scimmia".Vi garantisco che provvederò
personalmente a scorticare la schiena a nerbate a chi si
permetterà di mancar di rispetto al Generale,aveva
ringhiato con la sua voce grave e minacciosa. E nessuno,
a bordo della corvetta “Le Heros” aveva osato
contravvenire agli ordini del terzo ufficiale .
Non l'aveva visto a quattr'occhi altre volte e,oltre
a quegli episodi quasi insignificanti,di lui ricordava
vagamente un bel viso dai tratti delicati e un
po'infantili in contrasto con un corpo massiccio e
muscoloso, e due occhi chiari,dall'espressione franca. E
adesso era lì, fermo davanti alla porta che gli si era
chiusa alle spalle sollevando una nuvola di polvere.Non
è come sembra,Generale,gli aveva detto,senza schiodare
gli occhi dai suoi.Erano mesi che non vedeva un'anima,e
adesso...Non è come sembra.Io sono con voi,Generale.
Non è come sembra. Che cosa intendeva dire con
quelle parole il Terzo Ufficiale, colui che l’aveva
sostenuto quando stava per inciampare e lo aveva difeso
dallo scherno dei marinai? Era passato tanto tempo, da
quel giorno. Mesi lunghi come anni rinchiuso dentro quel
buco fetente d’umidità, di muffa, di escrementi di
topo, di orina e di sudore. La sua orina.Il suo
sudore.Le sue miserie.
Io sono con voi. Aveva detto così. Se fossi con me,
non porteresti addosso quella divisa, giovanotto,
avrebbe voluto rispondergli. Ma non disse nulla, come se
tutti quei mesi durante i quali non gli era stata data
la possibilità di comunicare ad anima viva gli
soffocassero le parole in gola.
-Che cosa siete venuto a fare?
-A conoscere le ragioni che hanno spinto la mia gente
a perpetrare lo spreco di un uomo come voi… generale
Louverture.
Lo aveva guardato dritto negli occhi e aveva
pronunciato con voce chiara e ferma il suo nome di
battaglia. Un nome che ormai echeggiava lontano solo nei
suoi sogni e nei suoi ricordi, un nome legato a un
passato che niente avrebbe potuto richiamare indietro,
nemmeno il terzo ufficiale della goletta su cui era
stato imbarcato per essere portato, con l’inganno e
col tradimento, a morire di stenti come l’ultimo dei
miserabili, nel freddo di quelle montagne, tra quelle
mura che stillavano umidità, senza il conforto di una
voce amica o anche solo di un foglio bianco a cui
affidare i propri pensieri. Morire così, consumato
dalla tubercolosi, dimenticato dal mondo non è lo
stesso che morire combattendo o gridando le proprie
ragioni prima che il plotone di esecuzione faccia fuoco.
I tiranni hanno paura degli eroi vivi e terrore di
quelli morti con le armi in pugno o giustiziati a causa
delle loro idee. Napoleone lo sapeva. Che fosse
maledetto. Era per quel motivo che lo aveva confinato
lì, vietando ai suoi carcerieri qualsiasi contatto con
lui che non fosse strettamente indispensabile,
impedendogli di leggere, scrivere, vedere sua moglie e i
suoi figli, arrivando perfino a ordinare di lesinargli
vestiti pesanti, coperte, cibi nutrienti e le cure
mediche di cui aveva bisogno, perché il diavolo si
spicciasse a portarselo via una volta per tutte.
Il prigioniero scosse la testa. L’uomo che gli
stava davanti, il Terzo Ufficiale, si era inchinato dopo
aver pronunciato il suo nome di battaglia battendosi il
pugno chiuso sul petto. In gioventù aveva letto i diari
di guerra di Giulio Cesare e sapeva che con quel gesto,
in quei tempi lontani, si salutavano gli eroi. I vivi. I
morti. E i morituri come lui.
FANTRAS BATON*
Louverture avrebbe voluto dire qualcosa, ma un
violento colpo di tosse gli ricacciò in gola le parole.
Sputò per terra un abbondante fiotto di sangue senza
chiedergli scusa, ripulendosi quindi la bocca con il
dorso della mano. Quel tubercolotico arrivato all’ultimo
stadio della sua malattia aveva soltanto una vaga
somiglianza con il Generale che era salito qualche mese
prima sulla goletta e il cui straordinario carisma
faceva dimenticare il suo aspetto meschino, la statura
bassa, la mascella prominente che gli imbruttiva i
tratti del viso.
Fantras Baton. Qualcosa come Manico di
Scopa. Era il soprannome che gli avevano messo quando,
ragazzino, sfacchinava nei campi di canna della Breda
Plantation. Il suo padrone, Le Comte de Noé e l’amministratore
della tenuta Baillon de Libertat dovevano avere preso a
benvolerlo, se lo avevano tolto dalle sudice baracche
dei braccianti e gli avevano perfino premesso di
frequentare un prete gesuita e d’imparare da lui a
leggere e scrivere. E siccome il ragazzo era sveglio, si
era guadagnato il droit de savane**
e un incarico, quello di cocchiere della casa, che lo
proiettava ai vertici della gerarchia sociale degli
schiavi. Poi, a trentatré anni la libertà, finalmente.
Sarebbe potuto essere uno dei tanti, avrebbe potuto
vivere di quel che il suo modesto appezzamento di
terreno gli dava e che bastava a mantenere la moglie che
si era preso e i figli nati dalla loro unione. Invece…
-Voglio conoscere la vostra storia, Generale
Louverture.
Una smorfia sarcastica aveva inghiottito i lineamenti
irregolari e sgraziati del prigioniero. Che cosa voleva
da lui quello sconosciuto nel cui parlare traspariva un’inflessione
straniera e nello sguardo un miscuglio insolito di
grande ammirazione e profonda pietà? E come aveva fatto
a violare la sua condanna alla solitudine, a ottenere il
permesso di potergli parlare?
-Volete conoscere la storia di uno schiavo? O quella
di un’ illusione durata troppo poco? O volete sapere
come ci si sente mentre si aspetta di crepare? Tutte
esperienze che il colore della vostra pelle vi ha
risparmiato, giovanotto.
Questa volta fu l’altro a sorridere sarcastico, a
pensare di me sai meno di quanto io non sappia di te,
François Dominique Toussaint Breda. Generale Louverture.
Colui che scardina vecchie porte e apre nuovi mondi.
*In alcune opere, come per esempio la biografia di
Paolina Bonaparte o certi romanzi, Toussaint Louverture
viene descritto come un bell’uomo piuttosto avanti con
gli anni ma alto, forte e vigoroso. Il suo biografo
Pierre Pluchon ce lo descrive invece piccolo magro e
brutto, anche se dotato di grande forza ed eccezionale
carisma. Anche Madison Smartt Bell, che durante la
rivolta degli schiavi di Haiti ha ambientato il suo
romanzo “Quando le anime si sollevano” ha fatto
altrettanto. E io mi sono attenuta a quest’ultima
versione, che è sicuramente quella più vicina alla
realtà dei fatti..
**Salvacondotto che permetteva ad alcuni schiavi
particolarmente fidati di allontanarsi dalla proprietà
anche da soli.
COLUI CHE APRE NUOVI MONDI
-Mi piacevano i cavalli, da ragazzo. Come tutti
quanti gli animali. Come il vostro cane e il vostro
cavallo. Che nome gli avete messo?
Finalmente aveva sorriso,guardando dalla feritoia,
suo unico contatto con il mondo esterno, il cane che
sembrava un lupo sdraiato sul selciato del cortile con
il muso fra le zampe e il collare irto di punte che
scintillava al sole, e il cavallo nero che un giovane
stalliere faticava a tenere per le briglie.
-Il cane si chiama Bellator*.Il cavallo Erebus.*
Si lascia montare da me soltanto.
-Mi piacerebbe appurare se sono ancora quello che
ero. Nessun cavallo,per quanto riottoso fosse, riusciva
a oppormi resistenza. Ma non sono più quei tempi.
-Quei tempi potrebbero tornare.
-Non per me. La morte mi sta appiccicata alle
calcagna e non mi rimane molto da vivere, questo lo so e
non posso negarlo.Ma vorrei che fosse vero per la mia
gente. Vorrei che per loro il tempo delle catene fosse
finito sul serio. Per sempre.
-Non volete parlarmi di voi?O non vi fidate di me
perché ero su quella maledetta nave?
Toussaint Louverture tossì ancora, faticando a
riguadagnare il controllo del suo respiro. Tremava dal
freddo, e Massimo si tolse il suo pesante mantello di
panno per drappeggiarglielo intorno alle spalle.
-Siete gentile…O lo fate soltanto per guadagnarvi
la mia fiducia?
-Non posso tollerare quello che hanno fatto di voi.
Tutto qui.
-Io credo nella giustizia divina. Chi ha da pagare
pagherà prima o poi. O forse…Forse ho anch’io i
miei peccati da scontare. Ma ditemi il vostro nome,
signore.
-Massimo Meridio. Tenente di vascello Massimo Meridio.
-Non siete francese.
Il giovane scosse la testa, facendo rimbalzare un
lungo ricciolo che gli era ricaduto sulla fronte.
-No.
-Ma ci credevate come ci avevamo creduto noi, alle
loro promesse. Altrimenti non portereste questa divisa.
-Libertà.Uguaglianza.Fraternità…Sì, ci credevo.
E adesso la libertà ce l’ha fottuta un tirannello
ambizioso, la fraternità è annegata nel sangue e in
quanto all’uguaglianza…Quella non è mai esistita.
La sua voce grave si era spenta in un soffio, e
Louverture aveva annuito con un cenno lento e solenne
del capo. Scommetto, gli disse quindi, che mai prima di
adesso vi eravate ritrovato faccia a faccia con un
negro. Con uno che è stato schiavo.
Massimo ci pensò un poco, prima di rispondergli.
Avrebbe accettato la sua verità, tutta
intera?Probabilmente no. Nella terra da cui Toussaint
Louverture proveniva si credeva che i morti potessero
essere richiamati in vita da stregoni particolarmente
potenti.Questo lui lo sapeva. Ma sapeva anche che il
prigioniero era un fervente cristiano e detestava la
magia africana, il vudù come lo chiamavano loro.
-Ho fatto l’amore con donne dalla pelle scura. Com’è
capitato a tanti. Se una donna mi attira, il colore
della sua pelle è l’ultima cosa che guardo. E poi…Ho
avuto un amico, tanti anni fa. Mi aveva salvato la vita.
Era un uomo bello,coraggioso, leale, mite e gentile. Una
delle persone migliori che abbia mai incontrato. Si
chiamava Juba.
-Era un bossal.** Un africano. Tanti africani
che ho conosciuto portavano quel nome.
-E’anche per lui se sono qui, adesso. Perché
quando lo incontrerò nell’aldilà non oserò
guardarlo in faccia, se prima…
-Se prima non vi perdonerò per quello che non avete
fatto, giovanotto?
Gli occhi arrossati del prigioniero erano solo
stanchi, non più anche guardinghi. Mi piacerebbe
proprio sapere come avete ottenuto il permesso di venir
qui a parlare con me, quando all’inserviente che mi
porta da mangiare e mi svuota il bugliolo hanno proibito
perfino di salutarmi.E’più semplice di quanto
possiate credere.Ho falsificato la firma e i sigilli di
Bonaparte e approfittato di una licenza che mi era stata
concessa per rimettermi in sesto dopo che, nel corso di
uno scontro con una nave inglese, un fuciliere della
marina mi ha cacciato un colpo di moschetto nel
ginocchio; tutto qui. Massimo gli aveva sorriso e il
prigioniero si era ritrovato a domandarsi se quel
giovane ufficiale bianco fosse più coraggioso, spavaldo
o incosciente.
-Quello che state facendo è molto pericoloso…e
anche perfettamente inutile, signore.
Massimo ridacchiò, prima di mettersi a urlare con
voce tonante “Vuoi deciderti a collaborare, brutta
scimmia?!”battendo i pugni sul tavolaccio per poi
riprendere, chiedendo al prigioniero con un bisbiglio,
quando i passi degli stivali ferrati del soldato di
guardia si spensero in fondo al corridoio,”Vorrei
conoscere la vostra storia, Generale. E’ per questo
che sono qui.”
*Rispettivamente Guerriero e Inferno.
**Schiavo deportato dall’Africa.
IL RACCONTO DI LOUVERTURE (parte prima)
-Non sono stato il primo.
Aveva detto Toussaint Louverture con la voce resa
rauca e sibilante dalla malattia che lo divorava. Ogni
tanto, un accesso violento di tosse lo costringeva a
interrompersi per ripigliare fiato, e Massimo gli diceva
non ho fretta, Generale, verrò anche domani ad
ascoltarvi parlare.Domani, e poi domani, e poi…Finchè
avrò ascoltato tutto quanto. Sarà solo allora che me
ne andrò.
-Quando ancora pensavo che niente potesse cambiare il
nostro destino, qualcuno ci aveva provato. Vincent Ogé*,si
chiamava così. Era un uomo decente, lui, e non chiedeva
niente che non potesse essere concesso, ma i francesi lo
hanno preso e condannato a morire con ignominia, invece
di stare ad ascoltare le sue ragioni, che erano anche le
nostre. E allora…E allora è stata la volta che il
mondo è scoppiato, amico mio.
-Come qui.
-Esatto. Come qui.L’errore che hanno fatto i
francesi era credere che noi non fossimo abbastanza
intelligenti, abbastanza umani, abbastanza…bianchi da
comprendere il significato e l’importanza della parola
libertà. Quella per cui litigavano, s’insultavano e
si picchiavano anche di fronte a noi, tanto eravamo
quelli che non capivano niente…Certi portavano una
coccarda bianca cucita sul bavero della giacca. Erano i
grandi proprietari terrieri, e stavano dalla parte del
Re. Altri, artigiani e bottegai di città,medici e
avvocati, portavano una coccarda rossa e dicevano di
stare dalla parte del popolo e della rivoluzione.
Parlavano di libertà, di uguaglianza. E in breve quelle
parole, che non erano per noi, fecero della mia terra
quello che le fiamme fanno di un edificio battuto da
tutti i venti.
Cominciò tutto nell’estate del 1791. Era la fine
di agosto e l’Hungan** Boukman* aveva riunito
centinaia di schiavi mezzo ai boschi della montagna
Morne Rouge per la calenda. La cerimonia del
sangue.
-C’eravate anche voi?
-No. Io sono un buon cristiano, e detesto quelle
superstizioni. E poi…Forse allora neppure ci pensavo.
Ero libero, avevo il mio fazzoletto di terra, mia moglie
e i miei figli. Ero egoista, forse. O non volevo legare
il mio nome a quello di Boukman. Comunque, quella notte,
tutti i diavoli dell’inferno si scatenarono e davanti
a un porco che l’Hungan aveva sgozzato con le
sue stesse mani,alla luce dei fulmini e delle
torce,sulla Montagna battuta dalla tempesta,migliaia di
schiavi giurarono che si sarebbero conquistati la loro
libertà, costasse quel che costasse. Quando scesero a
valle, ubriachi di sangue, di rhum e di
parole,sorpresero i loro padroni nel sonno e li
scannarono. Le fiamme che solcavano il cielo quella
notte furono il segnale della rivolta dei
cinquecentomila schiavi di Haiti che rivendicavano la
libertà dai trentamila bianchi che li tenevano in
catene.
Le labbra pendule del vecchio Generale tremavano, e
un filo di bava sanguinolenta schiumava alla loro
commessura. Dirò al Governatore del forte di mandarvi
un medico,fece Massimo, e Louverture si schermì con un
gesto della mano.
-Ho i giorni contati, giovanotto, e non c’è medico
che possa metterci rimedio. Vi inguaiereste per niente,
e…e non riuscireste a conoscere la mia storia fino in
fondo.
Gli occhi scuri scintillavano febbricitanti e la
fronte era imperlata di minuscole gocce di sudore.
-Adesso vi lascio.Si è fatto tardi,siete stanco e…A
domani, Generale Louverture .
-A domani, -lo salutò l’altro sollevando quasi con
fatica la lunga mano ossuta.
**Sciamano.
IL RACCONTO DI LOUVERTURE (parte seconda)
Dopo una notte insonne passata a rigirarsi nel
letto,Massimo Meridio non aveva rispettato la promessa
fatta al vecchio, e ne aveva parlato al Governatore del
Forte.
-Quell’uomo sta male, ha bisogno di un medico.
-Quell’uomo è un nero e la medicina dei bianchi
con lui non servirebbe a nulla. Se è destino che
guarisca, guarirà da solo.Se no…
A lui non avrebbe detto niente, pensava mentre il
giovane Ledoyen faceva girare la chiave nella toppa.
Collabora?Gli aveva chiesto. E Massimo, senza guardarlo
in faccia aveva controbattuto con un “è più testardo
di un mulo” che doveva bastare e avanzare.
Quell’uomo è un nero.E’ diverso da noi.La
medicina dei bianchi con lui non servirebbe a niente.
Eppure, la rozza medicina del nero Juba aveva salvato
lui, bianco, dalla morte per setticemia, un mare di anni
prima. Eppure, quando glielo aveva chiesto usando le
buone e anche le cattive, il migliore medico di Roma
aveva messo a posto la zampa fratturata del suo cane.La
verità era un’altra. Louverture dava fastidio.Il
Primo Console lo voleva morto.Ma la fortuna è una ruota
che gira. E se esisteva un Dio, Napoleone non l’avrebbe
passata liscia. Avrebbe pagato con la stessa moneta,
tra, un anno, tra dieci, non importava quando, pensò
stringendo il pugno in fondo alla tasca della
giacca.Purchè pagasse.
Quando lo vide entrare nella cella, il volto del
vecchio si illuminò per un attimo. Stava un po’
meglio, la pelle bruno rossastra della faccia era
asciutta,gli occhi non così lucidi e lacrimosi come il
giorno prima.
-Vi aspettavo.
-E io non vedevo l’ora di ascoltare le vostre
parole, Generale.
-Sono così importante per voi?
Massimo assentì con un cenno della testa,
sorridendogli, e il vecchio pensò che gli piaceva
proprio il Terzo Ufficiale, quel giovanotto spavaldo che
per incontrarlo aveva falsificato la firma e i sigilli
di Bonaparte. Se i bianchi fossero stati tutti quanti
come lui,Haiti non sarebbe andata a fuoco come un
braciere e si sarebbe potuti vivere insieme in pace. Ma
la realtà e i sogni non sono la stessa cosa.
-Dov’eravamo rimasti?
-Alla cerimonia del sangue e al massacro dei
piantatori bianchi, Generale.
-Ah. La repressione non si fece attendere e l’abbondanza
di cadaveri era tale da sfamare tutti gli avvoltoi i
corvi e gli urubù ** dell’isola.Cadaveri bianchi e
cadaveri neri, cadaveri di morti ammazzati nelle maniere
più fantasiose che la perversione umana possa concepire…La
pietà era morta, si preparavano per tutti giorni
difficili.
Per sottrarsi alla caccia dei soldati francesi, molti
schiavi fuggiaschi si erano rifugiati in mezzo alla
foresta.Fu allora che cominciarono a nascere le prime
bande,a imporsi i primi capi. Jean François*.Macaya*.Jeannot*.Biassou.*
Si portavano appresso il coraggio di chi non ha niente
da perdere, erano temerari, abilissimi nel condurre con
astuzia assalti e saccheggi.Erano spietati. E dopo ogni
impresa, si ubriacavano come bestie.
Avevano avuto una vita difficile, ed erano impastati
di rabbia e di odio.Voi non sapete che cosa significhi
essere schiavo.
Massimo Meridio sentì una lunga spada di ghiaccio
trafiggerlo da parte a parte.Invece lo so.Dirglielo
sarebbe stato forse la cosa migliore, ma il vecchio
combattente non avrebbe accettato la sua verità.So cosa
significa perdere la propria libertà, pensò.So cosa
significa preferire la peggiore delle morti alle
catene.Forse vi dirò tutto quanto, un giorno e allora
capirete perché ho falsificato la firma di Bonaparte e
intrapreso un lungo viaggio nel cuore dell’inverno
solo per potervi parlare,generale Louverture. Ammesso e
non concesso che vi sia facile credere a quello che
dovrei dirvi di me…Ammesso e non concesso che non mi
prendiate per pazzo.
-Alcuni di loro venivano dall’Africa e avevano
attraversato l’Oceano incatenati e stipati come
animali nelle stive puzzolenti delle navi negriere.
Altri erano nati qui e, se gli era stato risparmiato
quel martirio, non gli erano state risparmiate le
baracche lunghe otto metri e larghe quattro dove si
viveva nella più completa promiscuità, né il lavoro
nelle piantagioni che cominciava all’alba e finiva a
notte fonda,il cibo cattivo e le angherie dei
sorveglianti. Quelli erano bestie. Erano la feccia della
società bianca. Stupravano le più belle tra le nostre
donne e qualche volta anche i ragazzi. Durante la
raccolta, imbavagliavano gli schiavi per impedirgli di
mordere la canna. Chi si fermava sfinito, veniva
frustato. Gli indisciplinati erano puniti con fantasia:
bastonati, torturati con tizzoni ardenti, castrati,
marchiati, mutilati del naso e delle orecchie…Gli
incorreggibili venivano arsi vivi o gettati in mare con
una pietra al collo, o seppelliti fino alle spalle con
la testa coperta di melassa e lasciati divorare dalle
formiche. Alcuni proprietari facevano combattere fino
alla morte i loro schiavi, come se fossero stati galli,
o cani, o…gladiatori.
Massimo chiuse gli occhi, inghiottì a fatica il nodo
che gli serrava la gola.Pochi minuti ancora, pensò, e
Ledoyen avrebbe bussato alla porta della cella. A
domani,disse al vecchio alzando la mano.Era pallido, e
aveva voglia di vomitare. Ma sarebbe tornato:una, cento,
mille volte, finché il racconto di Toussaint Louverture
non fosse finito, finché il vecchio combattente non lo
avesse perdonato per essere venuto al mondo con la pelle
del colore sbagliato.
** Uccello che si nutre di carogne.
IL RACCONTO DI LOUVERTURE (parte terza)
Il vecchio tremava, per il freddo contro il quale
poco potevano gli abiti leggeri che indossava e per l’emozione
violenta del ricordo. Massimo gli drappeggiò intorno
alle spalle il suo pesante mantello, dicendogli che
glielo avrebbe lasciato.Lui scosse la testa.
-Non lo permetterebbero. E non vi lascerebbero più
parlare con me. Mi toglierebbero l’unica gioia di
questi miei ultimi giorni.Se non vi avessi conosciuto
sarei…sarei il più infelice degli uomini.
Una lunga lacrima attraversò il volto grinzoso e
scavato del generale, mentre afferrava le mani dell’altro,
e le stringeva forte.
-Esitai, prima di gettarmi nella mischia. Esitai a
lungo, giovanotto. Chiamatelo egoismo, chiamatelo come
volete. Ero libero, avevo moglie, figli, avevo di che
sfamarmi. Quando hai la pancia piena e il letto caldo,
finisce che non te ne importa più niente degli altri.
Anch’io ero stato schiavo, e se non è padrone
della sua vita, un uomo è meno di niente. Ma non ero
stato maltrattato,e non avevo dentro di me tutto l’odio
che divorava gli altri. Eppure, sapevo che le catene
della schiavitù sarebbero tornate a mordere la nostra
carne, se non avessimo imparato a costruire qualcosa,
invece che accontentarci di distruggere.Allora
finalmente decisi: il mio posto era a fianco dei miei
fratelli.
Non impiegai molto a rendermi conto dell’inettitudine
di chi li guidava, il cui programma era soltanto
incendiare, distruggere e ammazzare, facendo leva sull’odio
che quei poveretti covavano dentro. E quando ebbi
radunato intorno a me un buon numero di combattenti,
cominciai ad allenarli alla disciplina e alla tattica
della guerriglia, perché solo così un esercito di
disperati può augurarsi di tener testa ad un esercito
vero.
Mi avevano battezzato François Dominique Toussaint.
Breda era il cognome che mi era stato dato quando venni
affrancato, ed era quello della piantagione in cui ero
vissuto fino ad allora. Mi diedi il nome di battaglia di
Louverture: sarei stato Colui che Apre Nuovi Mondi
scardinando vecchie porte, colui che avrebbe restituito
alla sua gente la dignità e la forza di costruirsi un
avvenire, oltre alla libertà senza la quale non sei
nessuno.
Lo capirono anche i capibanda che accettarono di
prendere ordini da me: Jean François, il selvaggio
Macaya, il sanguinario Biassou…E due giovani che
avrebbero avuto la forza, l’intelligenza e le
capacità per farsi strada anche in un esercito vero,Dessalines
e Christophe.
Erano calde, le mani del vecchio generale.
Scottavano, nonostante il freddo della giornata.
Riposatevi, gli disse Massimo, ma lui scosse la testa e
continuò a parlare.
-Avevano mandato dalla Francia un esercito di seimila
uomini “per rimettere ordine nella colonia”.L’Inghilterra
e la Spagna, che occupava la metà orientale dell’isola,
entrarono in guerra contro i francesi.Io mi unii a loro
e venni nominato generale dell’esercito spagnolo. Le
vittorie dei miei uomini e l’occupazione delle coste
da parte della flotta inglese portarono in breve tempo l’esercito
francese al disastro.
Frattanto, quassù le cose erano cambiate.Il re era
stato destituito e giustiziato,il governo giacobino e
repubblicano aveva proclamato l’abolizione della
schiavitù nelle colonie.Il decreto venne portato ad
Haiti dal commissario politico Sonthonax.*Un brav’uomo.
Le autorità spagnole ed inglesi alle quali mi ero
rivolto, mi diedero risposte evasive sull’abolizione
della schiavitù, mentre la Francia aveva cambiato
pelle.Non mi interessava il gioco delle alleanze, solo
la libertà della mia gente. E a chi mi tacciava di
tradimento, dissi:”Traditore è chi vuol mettermi le
catene ai polsi.”
Fu un periodo felice, quello.Le ostilità si erano
chiuse,la schiavitù era stata cancellata, la le
autorità francesi ci avevano riconosciuto una certa
autonomia. Molti bianchi ritornarono, e riprendemmo a
collaborare.Da uguali, questa volta, non da schiavi e
padroni. I campi devastati dalla guerra furono fatti
nuovamente fruttare e iniziammo proficue relazioni
commerciali con gli Stati Uniti e con l’Inghilterra. E
questo non piacque alle autorità francesi.
Il vecchio chinò la testa,incurvò le spalle ossute.
Non disse che tutto quello era accaduto per merito suo,
quando la guerra aveva lasciato il posto alla pace e
lui, depositate le armi, aveva preso in mano le redini
del potere: per fare del suo paese, finalmente liberato
dalla schiavitù una terra di uomini.
IL RACCONTO DI LOUVERTURE (parte quarta)
Aveva piovuto tutto il giorno, e nel cielo volavano
le cornacchie. Era ormai aprile, ma la primavera non
aveva portato il bel tempo e sulle montagne faceva
ancora freddo.
Massimo aveva notato che le condizioni di salute del
vecchio prigioniero declinavano rapidamente e, per la
seconda volta, ne aveva parlato con il Governatore del
forte. Mandategli un medico.Gli aveva detto. Quell’uomo
sta morendo.
-Vi state affezionando un po’ troppo a quel negro,
Comandante.
Aveva risposto Amiot con un’alzata di spalle. E
Massimo aveva taciuto e abbassato lo sguardo, rassegnato
all’idea che non doveva insistere con quelle
richieste, se voleva continuare a vederlo.
Nei giorni precedenti, Louverture gli aveva
raccontato dell’amicizia che era nata tra lui e il
Commissario di Governo Léger-Félicité Sonthonax,
delle sue speranze, della frenesia che metteva nel
lavoro perché si realizzassero. Gli aveva detto delle
sue notti insonni e delle sue giornate che avrebbe
voluto andassero oltre le ventiquattro ore, per poter
realizzare quel che si era proposto nel minor tempo
possibile. Voleva cambiare il mondo, e ci stava
riuscendo. I neri lo amavano perché aveva spezzato le
loro catene, i bianchi lo rispettavano per il suo
equilibrio e la sua moderazione.Aveva dimostrato al
mondo che un uomo di colore può essere un abile
stratega, un politico intelligente e avveduto, un
integerrimo galantuomo. Che può avere degli ideali e
lottare nel loro nome, proprio come tutti.
-Avrei dato dieci anni della mia vita per avere la
certezza che i miei non sarebbero rimasti soltanto
sogni.-Gli aveva detto, prima che Ledoyen si mettesse a
bussare alla porta.
I giorni successivi Louverture aveva chiacchierato
con lui di tante cose, ma non aveva continuato con il
racconto della sua storia.Voglio godermi la vostra
compagnia senza intristirvi con questa favola dal finale
amaro, gli aveva detto, e Massimo si era guardato bene
dall’insistere. Avevano finito con il parlare di cani,
di cavalli e di donne e, di nascosto, lui aveva rifilato
al vecchio una fetta di torta di mele.
-Vi ringrazio, ma non fatelo più. Quelli non lo
tollerano.
-Non si permetterebbero di perquisirmi prima che
entri da voi.Domani vi porterò del vino e un pezzo di
arrosto:avete bisogno di rimettervi in forze.
-Rimettermi in forze…Non vi accorgete che sto
morendo? E poi…Non bevo vino e non mangio carne,
ragazzo mio.
Un accesso furibondo di tosse gli ricacciò in gola
il respiro e le parole.Massimo temette che il vecchio
stesse davvero per morire. E si domandò se si sarebbero
degnati almeno di mandargli un prete, visto che si era
sempre proclamato un cattolico devoto. O forse era
troppo nero per morire in grazia di Dio?
La fibra di quel vecchio doveva essere forte come
acciaio temprato.Si riprese, e,di lì a qualche giorno,
poté continuare a raccontargli la sua storia.
-La situazione in Francia cambiò e a chi aveva preso
il potere seccava rinunciare ai cinquecento milioni di
franchi tornesi che il sudore e il sangue degli schiavi
garantivano ogni anno. Napoleone volle a tutti i costi
ripristinare la schiavitù e non stette a sentire
ragione alcuna. Gli scrissi, e si rifiutò di
rispondere. Gli scrissi ancora: continuò a non
rispondere. Alla fine, mandò un esercito di
quarantamila uomini a ristabilire quello che chiamava
ordine costituito. A strappare, come diceva lui, le
spalline militari dalle giacche dei negri.Lo comandava
suo cognato Charles Leclerc*.
-Il marito di sua sorella Pauline. Quella puttana. L’ho
incontrata ad un ricevimento, poco prima che partissimo.
Guardava ogni uomo attraente, bianco o nero, che le
capitasse a tiro come se volesse divorarlo.Il suo
vestito aveva una scollatura talmente profonda che se si
chinava appena potevo vederle i capezzoli.
-Naturalmente non avete distolto lo sguardo com’era
vostro dovere di gentiluomo,giovanotto…
-Ma io non sono un gentiluomo.
Avevano riso entrambi, prima che il vecchio generale
riprendesse il suo racconto.I suoi uomini avevano
resistito eroicamente, ma non era facile tenere testa ad
un esercito di quarantamila soldati.Toussaint Louverture
e i suoi furono costretti ad arrendersi.
-Chiesi soltanto una condizione al generale Leclerc:
non la mia incolumità, ma che non fosse ripristinata la
schiavitù. E lui mi diede la sua parola d’onore di
soldato.
Conosco il resto della storia per averne fatto parte
anch’io, pensò Massimo Meridio, il terzo ufficiale a
bordo della corvetta “Le Heros”, la nave su cui
Toussaint Louverture era stato imbarcato per essere
condotto al suo destino.
CHI SIETE?
-Forse i miei erano soltanto sogni… Massimo.
Era la prima volta che il vecchio lo chiamava per
nome, guardandolo fisso con quei suoi occhi globosi e
iniettati di sangue. La pelle color mogano, incisa da
rughe profonde, stava prendendo la tinta della cenere.
Brutto segno, pensò Massimo. Ne aveva visti morire
tanti, lui, troppi per potersi sbagliare.
-Non si vive solo di sogni. Ma senza sogni non si
può vivere.
-Dite così perché siete troppo giovane per sapere
davvero come va il mondo.
-Il mondo va come va… Lo sapevate che la febbre
gialla ha decimato l’esercito francese e spedito all’inferno
lo stesso Leclerc? Lo sapevate che Dessalines e
Christophe stanno continuando la resistenza armata nell’unico
modo possibile, ritirandosi verso le montagne e facendo
dietro di sé terra bruciata?Lo sapevate… O forse ve l’hanno
nascosto?
-L’unica cosa che non mi hanno nascosto è che
laggiù adesso mi considerano un traditore.Hanno sparso
la voce che ho venduto la libertà dei miei simili in
cambio d’un mucchio di denaro e che mi sto godendo la
vita in Francia. Che li ho venduti ai bianchi, come
facevano i capitribù africani in cambio di specchietti,
perline e stoffacce… Mi hanno portato via l’onore e
la rispettabilità prima di portarmi via la vita…
Un profondo singhiozzo squassò il petto scarno del
prigioniero. So come ci si sente, disse Massimo, e lo
strinse in un abbraccio dal quale l’altro si districò
con una violenza e un’energia impensabili in quel suo
corpo ridotto allo stremo delle forze.
-La malattia che mi sta uccidendo è contagiosa,
giovanotto.
-Prima o poi vi spiegherò le ragioni per cui non ho
paura.
Il vecchio non doveva averlo sentito. Restò qualche
istante in silenzio, quindi tirò fuori dalla camicia
una cordicella a cui erano appesi una croce di legno e
un ciondolo di madreperla a forma di mezzaluna.Anche chi
mi diede questo tanto tempo fa… Chi mi diede questo e
possiede l’altra metà della luna, quella oscura…adesso
crede che io sia un traditore.
-Loro hanno vinto solo una mano del gioco. E hanno
vinto truccando le carte, Generale. Voi sapete che non
è possibile continuare a vincere barando, prima o poi
il trucco salta fuori.
-Preferisco non immaginare come finirà. Anche se in
realtà lo so benissimo, amico. Dessalines e Christophe
hanno fegato e cervello, ma non sono quello che ero io.
I loro padroni li hanno maltrattati, quando erano
schiavi, adesso vogliono vendetta. Non sono migliori di
quelle bestie di Macaya e di Biassou. Dessalines si
porta ancora sulla schiena il ricordo delle nerbate che
gli somministrava il padrone alla minima mancanza. Lui
odia i bianchi e ha giurato di sterminarli, dal primo
all’ultimo. Dall’odio non nasce niente di buono.
-Lo so, Generale. Lo so. Il cane tenuto alla catena e
picchiato è quello che salterà alla gola di chi gli
dava da mangiare, quando si ritroverà libero.
Massimo s’inchinò a raccogliere qualcosa che era
scivolato dalla mano tremante del vecchio.Un chiodo
arrugginito, l’unico suo tesoro. Quando si rizzo
nuovamente in piedi, il colletto della camicia gli si
era aperto.Il prigioniero notò la lunga zanna di
animale appesa a un lacciolo di cuoio. Notò i quattro
sottili segni paralleli sul collo.Aveva già visto
parecchie volte quel genere di cicatrici sul corpo dei bossales
africani che, nella loro terra, erano stati
guerrieri e cacciatori di belve:il ricordo dell’incontro
con un leone o con un leopardo.Il segno del coraggio
temerario, impresso per sempre nelle carni.
-Chi siete?-gli domandò strabuzzando gli occhi.
Massimo chiuse i suoi, inghiottì a fatica il groppo
di tensione che gli aveva chiuso la gola.Si tolse la
giacca.Chi sono? Il mio nome è Massimo Decimo Meridio e
i miei piedi calpestano la polvere del mondo da oltre
mille e seicento anni.Pensò alle parole con cui glielo
avrebbe detto, a quanto sarebbe stato difficile fargli
accettare quella verità che sembrava una folle
menzogna.Sono stato generale delle legioni del Nord
sotto il regno del Cesare Marco Aurelio Antonino,
schiavo e gladiatore sotto quello del suo successore, il
turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo.Sono morto
ammazzato da lui all’età di trentatré anni, nella
grande arena di Roma, ma prima di cadere ero riuscito a
tagliargli la gola. Aveva fatto trucidare mia moglie e
mio figlio.S’era macchiato di parricidio per ambizione
e sete di potere…La vita senza fine è un dono di
Annia Lucilla Galeria, principessa imperiale,innamorata
di me senza speranza.
I pensieri che non osavano diventare parole gli
turbinavano nel cervello come farfalle impazzite. Con un
gesto brusco, si sfilò la camicia,poi voltò la schiena
al vecchio. Ecco quello che sono, riuscì a dirgli.
Aveva un marchio a fuoco, sotto la scapola sinistra. Un
marchio a fuoco, come le bestie,come i neri riottosi.
Eppure era un bianco, senza possibilità di equivoci.
-Chi siete?
-Quello che siete voi, generale Louverture. Io…
Avrebbe parlato.Avrebbe chiuso gli occhi, e lasciato
che le parole fluissero liberamente. Ma picchiarono alla
porta. Ledoyen. Era venuto a dirgli che il tempo era
scaduto, anche quel giorno.
IL TESTAMENTO
Fort de Joux, 7 aprile 1803
Massimo Meridio chiuse gli occhi in faccia al sole,
mentre il garzone di stalla gli sellava il cavallo e il
cane gli saltellava attorno, quasi comprendesse che la
loro prigionia lì dentro era finita e che li aspettava
un lungo viaggio. Un viaggio durante il quale avrebbe
annusato l’odore dell’erba fresca, dei piccoli
animali che si risvegliavano dal letargo, e, se avesse
avuto fortuna, perfino quello dell’estro di qualche
giovane lupa. Era bello,viaggiare. Molto più di quanto
non lo fosse starsene rintanati lì dentro a respirare
il puzzo del chiuso e della muffa. E la terra soffice, l’erba
umida di rugiada erano decisamente migliori, sotto i
piedi, delle pietre aguzze e scivolose del cortile
interno dov’era rimasto confinato per quasi due mesi,
durante i quali il padrone aveva avuto poco tempo per
mettersi a giocare con lui.
Sette aprile.Il giorno in cui era venuto al mondo, un
mare di tempo prima. Aveva senso,in quelle condizioni,
ricordare il giorno del suo compleanno? Sua
madre,finché era vissuta, gli preparava un pranzo
speciale, con i dolci che gli piacevano tanto, in quella
particolare ricorrenza. E sua moglie gli faceva dei
piccoli regali, che di solito spediva in quell’accampamento
lontano dove lo avevano mandato a difendere i confini
dell’Impero minacciati dalle orde dei barbari,perché
erano state poche, in otto anni di matrimonio, le
occasioni di trascorrere insieme quel giorno tanto
importante. Sette aprile dell’Anno di Grazia 147. Lui
c’era ancora. Sua madre e sua moglie, probabilmente,
non erano più nemmeno ossa.
Non era riuscito a raccontare la sua storia al
prigioniero, perché l’uomo che andava a svuotargli il
bugliolo l’aveva trovato esanime proprio quella
mattina. La morte lo aveva colto mentre se ne stava
seduto davanti al tavolaccio e non doveva essere passato
molto tempo, da quel momento, la testa riversa all’indietro
contro la spalliera della sedia, le braccia ciondoloni
lungo i fianchi, un grosso chiodo arrugginito e una
croce di legno appesa a un cordino nella polvere della
cella, proprio accanto ai suoi piedi:dovevano essergli
scivolati di mano negli ultimi spasimi della sua breve
agonia solitaria. François Dominique Toussaint
Louverture se n’era andato,ucciso dall’aria fredda
delle montagne e dalla crudeltà degli uomini.
L’avevano seppellito in fretta e furia, entro le
mura di quel forte grigio e tetro dove, dieci mesi
prima, era stato mandato a morire. A morire piano piano,
di stenti, di consunzione e di solitudine nel gelo delle
montagne, poco vestito, mal nutrito,abbandonato a se
stesso…Perché era meglio non giustiziarlo.Perché
forse tanto si sarebbe ucciso.Ma François Dominique
Toussaint Louverture era troppo coraggioso per
arrendersi alla crudeltà del destino ed era rimasto
disperatamente abbarbicato alla vita, perché, fino a
quando non si fosse spento, quel barlume di esistenza
fosse monito, rimprovero e rimorso.
Massimo non chiese dove lo avessero sepolto. Avrebbe
voluto raccogliere le sue ultime parole, invece…I
nvece non era presente, come non lo era stato quando un
incendio aveva ucciso i suoi genitori,quando gli
scherani del tiranno avevano assassinato sua moglie e
suo figlio, quando il suo signore aveva chiuso gli occhi
sul mondo, assassinato anche lui.
La peculiarità di non poter esternare con le lacrime
il suo dolore diede credibilità alla messinscena.
Voglio vedere la sua cella, aveva detto al Governatore
Amiot,ed era stato accontentato. Era stato il giovane
Ledoyen ad accompagnarlo.
Avrei voluto poterti seppellire ai piedi di un grande
albero, Generale. Come faccio con i miei animali. Per
pensare che continui a vivere nell’erba, in una
foglia, nello stormire del vento e nel gracidare delle
rane. Pensò mentre si chinava a raccattare da terra la
croce di legno,la mezzaluna di madreperla e il chiodo
arrugginito. Quel chiodo con cui aveva inciso sul
ciondolo un nome e sul tavolaccio, il suo testamento.
Martin Gr. La morte doveva averlo colto prima che
facesse in tempo a completare quella scritta: il nome di
chi, ad Haiti, portava appesa al collo la metà oscura
della luna e lo credeva un traditore.
-Il Governatore ci aveva proibito di fornirgli l’occorrente
per scrivere.
-Ma a quanto pare si è arrangiato lo stesso.
Massimo sfiorò con la punta delle dita la superficie
scheggiata e sconnessa del tavolaccio.Quindi lesse a
voce alta