PROLOGO
Brest, fine aprile 1803
Aveva cercato Marianne, il giorno
stesso in cui era tornato a Brest. Aveva chiesto di lei,
in giro, e gli era stato detto che aveva affittato il
mezzanino a un giovane studente. Allora non l’avrebbe
cercata, si disse da sé solo, non ne valeva la pena
tantopiù che gli avevano detto che la sua nave, la
corvetta “Le Heros” sarebbe partita fra tre giorni
con un carico di armi. Destinazione Haiti.
Massimo Meridio si tastò piano la
mezzaluna di madreperla che portava appesa a un lacciolo
di cuoio, accanto al suo amuleto e alla croce del
vecchio prigioniero. Quell’uomo, pensò, avrebbe
segnato in maniera indelebile la sua vita nei giorni a
venire. François Dominique Toussaint Louverture: era
morto con il nome della libertà sulle labbra, e i suoi
compagni di lotta lo credevano un traditore.
HAITI
Le Cap Haitien, primi di giugno 1803
L’odore che gli aveva solleticato
le narici lo aveva sentito tante volte, in tutte le
città di mare dove il destino lo aveva portato, da
Antiochia a Cadice, da Istanbul a Shangai, da Zanzibar a
Nuova Orleans. Era quello stimolante della salsedine
mista alle spezie, e quello nauseabondo del pesce guasto
misto al sudore dei facchini che scaricavano le merci
dalle navi. Era quello del legno, delle derrate d’ogni
genere, del catrame e della pece.
Ma a Le Cap Haitien, la terra e il
mare avevano anche l’aroma appiccicaticcio dello
zucchero e quello amaro dell’indaco. E l’odore greve
della morte.
Sarebbe stato prudente non scendere a
terra, o quantomeno girare armati e scortati. Con i
tempi che correvano, chi aveva la pelle bianca avrebbe
fatto meglio a non mostrarsi troppo in giro. Gliel’aveva
detto lo stesso Toussaint: i suoi intrepidi e crudeli
generali, Dessalines e Christophe, avevano giurato di
scaraventare ai pescicani i cadaveri dei soldati
francesi che avessero osato mettere piede sull’isola,
e le loro non erano semplici minacce. Hanno la schiena
arata dai segni delle scudisciate, e odiano i
bianchi.Loro non sono quello che ero io.
Il Terzo Ufficiale, il tenente di
vascello Massimo Meridio, guardò il mare sfrangersi
sulla chiglia, dall’alto del cassero di poppa, mentre
la corvetta “Le Heros” attraccava in porto. Chiuse
gli occhi, per ripararli dall’offesa del sole
tropicale, e quel cattivo odore continuava a indugiargli
nella gola. Odore di escrementi, di carogne e di rose.
Sarebbe stato difficile, si chiese da sé solo,
procurarsi un cavallo? Sarebbe stato difficile eludere
la sorveglianza di coloro che, più o meno
discretamente, avrebbero dovuto vegliare sulla sua
sicurezza e andarsene chissà dove, a cercare chissà
chi per raccontargli che l’aveva conosciuto, lui, il
Generale, che aveva veduto con i suoi occhi com’era
stato trattato dai francesi? Sarebbe stato difficile
convincere quella gente che Louverture non era un giuda
e non s’era venduto la libertà dei suoi fratelli in
cambio di una vita ricca e tranquilla in terra di
Francia, ma era morto di freddo e di stenti in una
prigione in mezzo alle montagne?
Massimo Meridio si ricacciò indietro
con un movimento nervoso della mano i capelli. Il
nastrino di velluto nero che glieli teneva raccolti
sulla nuca si era allentato ed era scivolato via,
lasciandoglieli sciolti. Gli arrivavano alle spalle e il
trascorrere del tempo li aveva curiosamente schiariti.
In quell’altra vita, pensò, erano stati molto più
scuri, ma forse dipendeva dal fatto che allora li
portava corti.Avrebbe dovuto tagliarli, come imponeva la
nuova moda e soprattutto la praticità, ma alle donne
piaceva quella lunga capigliatura selvaggia,
morbidamente ondulata, alla cui base castana si
mescolavano pochissimi capelli grigi e molti color
mogano, miele, rame e oro…Capelli che nemmeno un cieco
avrebbe potuto prendere per quelli di un negro.
Come tutto quanto il resto: gli occhi
azzurri, la bocca delicata, la pelle chiara.Poteva
imbrattarsi il viso e le mani con della cenere, poteva…Non
avrebbe ingannato nessuno. Tanto valeva non provarci
neppure. Doveva andare dove lo portava l’istinto, in
un qualsiasi posto, sui monti, in mezzo alla foresta,
ovunque fosse possibile incontrare qualcuno dei compagni
di lotta del vecchio Generale: i capibanda spietati,
quelli che dopo ogni assalto andato a buon fine si
ubriacavano come spugne; o Dessalines e Christophe che,
con le spade sguainate in pugno, avevano giurato morte
ai francesi. O forse, perché no, quel Martin. Incidere
il suo nome sul ciondolo di madreperla a forma di
mezzaluna doveva essere stata l’ultima azione
cosciente che il vecchio fosse riuscito a compiere.
Martin Gr. E poi? Louverture era morto prima di poter
completare l’opera.
Non sarebbe stato facile trovarlo,
ammesso e non concesso che fosse ancora vivo. In quella
succursale dell’inferno dov’ era finito, la morte ti
stava appiccicata alle calcagna dal momento in cui
nascevi e non ti mollava più. Eppure, all’apparenza,
Haiti poteva rassomigliare a un piccolo Eden, con le
cime delle montagne che si stagliavano contro il cielo
azzurro, la vegetazione rigogliosa, l’aria tersa, il
mare dai riflessi iridescenti, i bambini dai grandi
occhi lucidi e le donne belle come fiori. Un eden
impregnato di sangue, gonfio di odio. A pochi metri
dalla chiglia della sua nave, Massimo vide galleggiare
un cadavere. Era talmente gonfio e sfigurato dai pesci e
dalla salsedine che non si capiva neppure se, in vita,
quel poveretto fosse stato un bianco o un negro. Emanava
un tanfo atroce, e lui faticò a ricacciare indietro il
conato di vomito che dallo stomaco gli era salito alla
gola. Haiti gli dava il bentornato.
MORNE ST.RAPHAEL
Il cavallo che aveva affittato gli
fece rimpiangere Erebus, che aveva dovuto giocoforza
lasciare in Francia. Era un vecchio brocco dal mantello
storno* e dalle zampe tozze e doveva essere abituato a
tirare la carretta, più che a portare in sella un
cavaliere, ma era docile come una scolaretta e
ubbidiente come un frate. Doveva aver conosciuto una
vitaccia, si disse da sé solo. Come tanti, lì ad
Haiti. Uomini e animali, bianchi e neri. L’epidemia di
febbre gialla che aveva decimato l’esercito francese
era finita. A Charles Victor Emmanuel Leclerc, era
costata la pelle.Venuto per sterminare qualsiasi negro
che avesse portato spalline militari sulla giacca, era
tornato in Francia chiuso dentro una cassa e
accompagnato da una moglie che, c’era da supporre, non
lo avrebbe pianto a lungo. Adesso, il comandante in capo
dell’esercito francese ad Haiti era Rochambeau. Forse
non si ubriacava come Jeannot e Biassou dopo ogni
impresa vittoriosa. Ma non lo si poteva definire
migliore di loro solo perché era un bianco civilizzato
ed educato. Quando l’epidemia gli aveva decimato l’esercito,
aveva deciso di rimpiazzare i soldati morti con grossi
cani feroci, addestrati a saltare alla gola e a
uccidere. Cani capaci di fiutare controvento l’odore
di negro a chilometri e giorni di distanza. Quelli,
almeno, non si ammalavano di febbre gialla.** Né si
chiedevano se ciò che gli era stato imposto di fare
fosse o meno giusto. Ammazzavano e basta.
Non sapeva dove sarebbe andato.
Uscendo dalla città, non aveva incontrato molte
persone: soldati di pattuglia, perlopiù, e negri dall’apparenza
indaffarata, che si muovevano a testa bassa, quasi a
voler impedire che qualcuno potesse leggere segreti
inenarrabili dentro i loro liquidi occhi scuri. Segreti
che avrebbero raccontato storie di odio e di dolore.
Segreti legati forse al ricordo di un uomo in cui
avevano voluto credere e che li aveva traditi in cambio
d’un pugno d’oro: come i capitribù africani che
vendevano ai mercanti di carne umana i fratelli neri.
Non sapeva dove sarebbe andato. Si
sarebbe diretto verso l’interno, e avrebbe cavalcato
fino al tramonto. Poi si sarebbe fermato. Per
proseguire, all’alba del giorno dopo finché non
avesse incontrato qualcuno.
Faceva un caldo d’inferno. Massimo
Meridio si tolse la giacca e la mise di traverso sulla
sella. Poi si aprì la camicia. Le sue dita incontrarono
il dente di lupo, il portafortuna che accompagnava da
sempre il corso della sua vita senza fine. Quante volte
aveva sentito ululare i lupi alla luna sotto un cielo
che sembrava di ferro, e quel pianto gli aveva portato
alla mente il ricordo lontano di cose perdute? In quante
lingue, il suo nome e quello del lupo erano stati
associati, nello scorrere ineluttabile del tempo che
tutto riduceva in polvere? “Ich bin Wulf…“ “Lupus
ego sum…” Io sono il lupo. Il lupo di Roma. Non c’erano
lupi, ad Haiti.
Si tastò piano il crocifisso di
legno che era appartenuto al Generale. E la mezzaluna
con quel nome inciso sopra. Un ricordo più che un
portafortuna: contrariamente alla maggior parte dei suoi
congeneri, Toussaint Louverture non era superstizioso.
Si definiva un buon cristiano, e la superstizione è
peccato. Martin doveva essere qualcuno che gli era stato
caro. Qualcuno a cui il suo presunto tradimento doveva
essere pesato sul cuore come un macigno.
La montagna si trovava quasi sul
confine di quella parte dell’isola che era appartenuta
alla Spagna, fino a pochi anni prima.***Era coperta da
una fitta vegetazione in mezzo alla quale sicuramente si
nascondevano bande di ribelli, quelli che i bianchi
chiamavano marons****. Si erano rifugiati lì
quando Louverture era stato costretto ad arrendersi e
continuavano la loro lotta che forse sapevano persa in
partenza. Ma la più orribile delle morti è sempre
preferibile alle catene. Non conoscevano il loro futuro
e l’unica certezza che avevano era che non si
sarebbero mai arresi.
I tramonti dei tropici erano diversi
da quelli del suo mondo. Il buio calava sulla luce quasi
come una scure, dopo un crepuscolo che durava solo pochi
istanti. Doveva cercarsi un riparo, se non voleva
trascorrere la notte all’addiaccio. Non era cosa da
poco, in quella landa disabitata.
*mantello equino grigio chiaro
punteggiato di piccole macchie nere.
** E’ storicamente provato che il
generale Rochambeau, succeduto a Leclerc morto di febbre
gialla, si servisse di cani feroci per stanare e spesso
anche uccidere i neri.
*** Si fa riferimento alla parte
orientale dell’isola di Hispaniola, Santo Domingo,
colonia della Spagna poi conquistata da Toussaint
Louverture.
****Dallo spagnolo cimarron, ribelle.
Erano chiamati così gli schiavi fuggiaschi che si
davano alla macchia e, dopo la cattura di Louverture,
quei suoi seguaci che non si erano arresi e
perseveravano nella lotta armata.
L’INCAPPUCCIATO
Aveva notato una piccola capanna di
frasche a breve distanza da dove si trovava. Uno di quei
ripari provvisori che i negri chiamavano ajupa.Un
buon posto per passarci la notte: gli avevano detto che
Haiti pullulava di serpenti velenosi, ma chi lo aveva
informato non era al corrente del fatto che lui non
aveva niente da temere. Era un segreto, quello. Un
segreto di cui nessuno sapeva.
Massimo Meridio smontò di sella e si
avviò a piedi verso il riparo, tenendo il cavallo per
le briglie. Il crepuscolo mitigava il caldo afoso della
giornata. Meno male, se non altro sarebbe riuscito a
chiudere gli occhi e a riposare per un po’, tantopiù
che, da qualche giorno, era tormentato da un feroce mal
di testa che quasi non gli dava requie.
Non era solo.Quando se ne accorse,
inforcare il cavallo e scappare sarebbe stato
impossibile. Era improbabile che lo avessero seguito, se
ne sarebbe accorto. I due sembravano spuntati dal nulla
ed era stato per caso che si erano trovati quasi faccia
a faccia con lui. Uno era appiedato, l’altro a
cavallo. Un uomo dalla pelle nera e dalla taglia
imponente, il primo: alto quasi due metri e largo in
proporzione, aveva un grosso cranio rasato a zero che
brillava sotto gli ultimi raggi del sole morente.Era a
torso nudo, portava uno schioppo a tracolla e una
sciabola infilata nella fusciacca. L’altro aveva la
testa nascosta da un cappuccio e scrutava i dintorni
dall’alto di un bel cavallo baio. Con una bestia del
genere, non avrebbe impiegato molto a raggiungerlo, se
avesse tentato di scappare, pensò Massimo senza
lasciare il suo nascondiglio. Il suo intuito gli diceva
che quello a cavallo doveva essere un individuo
pericoloso.Più dell’altro. E il suo intuito non l’aveva
mai ingannato.
Si avvicinò silenzioso, ventre a
terra, incurante dei rovi che gli graffiavano le mani.
Abbastanza da vederli bene, senza tuttavia essere visto,
anche se, sicuramente, avevano notato il cavallo e
adesso lo stavano cercando. Quello grosso e appiedato
portava grandi orecchini di rame infilati ai lobi e
aveva le guance e la fronte sfregiate dalle cicatrici.
Scarificazioni tribali, pensò. Doveva trattarsi di un bossal
africano. Aveva spalle larghe e bicipiti poderosi, ma il
ventre molle che gli debordava dai calzoni e le natiche
grasse come quelle di certe donne toglievano imponenza e
forza alla sua figura, finendo col renderla quasi
patetica. Dell’altro non si capiva granché, un po’
per la distanza e molto per il cappuccio che gli
occultava completamente la testa. Esile ed efebico,
doveva essere molto giovane: ma che quello più grosso
prendesse ordini da lui era evidente dall’attitudine
eretta con la quale stava in sella, da cui traspariva
una naturale autorevolezza che niente aveva a che vedere
con le dimensioni dei suoi muscoli. Un bel momento,
smontò da cavallo e s’incamminò nella direzione in
cui lui si era nascosto, a lunghe falcate elastiche. A
Massimo ricordò un felino selvatico. Un leopardo, agile
e leggero e altrettanto forte. E pericoloso. Malgrado
quel che gli aveva riservato in dono la sorte, Massimo
si mise in guardia. Le vecchie abitudini sono dure a
morire, si disse da sé solo.
L’incappucciato era piuttosto alto,
notò, anche se non quanto l’altro. Aveva le mani
infilate dentro guanti neri e gli unici brandelli di
pelle scoperta erano quelli intorno alle orbite degli
occhi, lasciate libere dai fori del cappuccio. Portava
anch’egli una sciabola al fianco e un lungo fucile a
tracolla, un vecchio catenaccio arrugginito che
indubbiamente sapeva usare con perizia. Tra un po’,
forse avrebbe potuto provarlo a sue spese, si ritrovò a
pensare. Chissà come ci sarebbero rimasti, quando…Probabilmente
se la sarebbero data a gambe e fino alla fine dei loro
giorni avrebbero raccontato dell’incontro con un
fantasma. I neri erano superstiziosi, gli aveva detto
qualcuno.
Forse non lo avrebbe fatto se non
avesse avuto dagli dei e da una donna innamorata il dono
grande e terribile che aveva ricevuto, un mare di anni
prima. Avrebbe finto di non veder luccicare tra l’erba,
appeso ad una cordicella, un ciondolo uguale a quello di
Louverture. Onice nera, però, non madreperla: la metà
oscura della luna.
-Martin!- gridò emergendo dal suo
nascondiglio.
Il cuore accelerò i battiti, quando
il suo sguardo incontrò quello dell’incappucciato. La
sua sensazione, si ritrovò a pensare per un istante
lungo un secolo, fu la stessa che dovevano aver provato
gli avversari, nella grande arena di Roma, quando i suoi
occhi beffardi li avevano fissati attraverso i fori
della maschera. E quegli occhi avevano lo stesso colore
e la stessa espressione fredda dei suoi.
Si lasciò sfuggire un’imprecazione
a mezza voce quando l’incappucciato gli sferrò con la
rapidità di un fulmine un calcio ai testicoli che lo
fece vacillare, strozzandogli in gola un grido di
dolore.
-Dev’essere venuto per insegnare la
strada ai cani di Rochambeau. Chacha, finisci il lavoro
e…legalo al cavallo. Lo portiamo all’accampamento.
Fece in tempo soltanto a strabuzzare
gli occhi, prima che il calcio del fucile di Chacha lo
colpisse alla testa, facendolo crollare a terra
tramortito. Dopo, fu il buio.
INCUBI DAL PASSATO
Quando si risvegliò, percepì ancor
prima della luce di cento torce, l’umido della notte
sulla pelle nuda del petto. Gli avevano tolto la camicia
e gli stivali e lasciato soltanto i calzoni. I piedi
scalzi calcavano un terriccio molle e fangoso in una
sorta di piccolo avvallamento forse naturale, più
probabilmente scavato da qualcuno.
Non appena aveva riaperto gli occhi,
si era accorto di avere le mani legate. Si ritrovò
circondato da una cinquantina di facce nere ma gli occhi
che lo squadravano non erano cento, visto che diverse di
quelle facce, tutte chi più chi meno segnate da
terribili cicatrici, erano guerce. L’uomo che gli si
era avvicinato brandendo un grosso coltello senza
cessare di sghignazzare era basso, nerboruto e indossava
un’uniforme sgargiante e sbrindellata, grondante
frange, mostrine e cordoni dorati degni di nota
soprattutto per il loro incredibile sudiciume. Gli si
avvicinò barcollando e lo fissò con occhi vitrei
iniettati di sangue.
-Martin e Chacha hanno trovato uno
dei cani bianchi di Rochambeau nella foresta…
La voce brancolava e l’alito gli
puzzava di rhum cattivo. Quell’individuo doveva essere
ubriaco fino alle ossa, pensò Massimo abbassando la
testa.
-Tra un po’ ci divertiremo tutti
quanti, c’est vrai, mauvais sujet?*
Le intenzioni erano chiare molto più
delle parole che aveva pronunciato con voce strascicata
e ubriaca in gombo, il dialetto degli schiavi. La
luce delle torce faceva scintillare gli occhi arrossati,
i denti bianchi e le mostrine dorate sulla sudicia
giacca dell’uomo. Massimo sapeva che gli avrebbe fatto
passare un brutto quarto d’ora e rabbrividì,
nonostante fosse quello che era. Sentì le mani callose
e sudate palpeggiarli le braccia e il petto, le dita
pizzicargli i capezzoli. Non avesse avuto le sue legate
dietro la schiena, avrebbe impartito volentieri una
bella lezioncina a quel maledetto ubriacone: detestava
che qualcuno si prendesse certe avvilenti e non
autorizzate libertà con il suo corpo. E faticò anche a
reprimere la voglia di sputargli in faccia quando, dopo
essersi alzato in punta di piedi, l’altro gli sollevò
il mento e gli alitò un “Vediamo come ti sai battere”prima
di recidere con un colpo di coltello la fune che gli
imprigionava i polsi e di spingerlo al centro dello
spiazzo sterrato.
-Voglio parlare con Martin.
Disse Massimo a voce bassa,
massaggiandosi i polsi.
-E se invece ti facessi parlare con
Babouin? Non ti andrebbe bene lo stesso?
-Voglio parlare con Martin, ho detto.
L’altro non rispose. E quando
Massimo sollevò gli occhi da terra vide, come un incubo
emerso dal passato, un uomo che impugnava due coltelli
caracollare verso di lui.
Lo avrebbe aspettato fermo al centro
di quell’arena improvvisata, pensò. Avrebbe colto in
un attimo il modo in cui si muoveva, in cui allungava le
braccia per colpirlo. Avrebbe cercato e trovato anche se
quello era armato e lui no, i suoi punti deboli per
tentare di batterlo. Come un mare di tempo prima. Come
quando era ancora una questione di vita o di morte.
Adesso non lo era, pensò. Non lo
era, almeno per lui, anche se i fendenti di quei due
lunghi coltelli erano andati a segno un paio di volte.Il
suo avversario aveva gambe storte, braccia e torace
massicci e muscolosi.Il suo volto era sfregiato da
orrende cicatrici. Bruciature, con ogni probabilità. Ma
quel che rendeva ancor più repellente quella mostruosa
creatura era la mancanza dei padiglioni auricolari,
mozzati entrambi rasenti alla testa. L’uomo in
uniforme sbrindellata lo aveva chiamato Babouin. Un nome
che gli si addiceva a pennello.
Massimo sentiva il sangue grondargli
lungo il fianco, impregnandogli i pantaloni della divisa
e portandogli via la voglia di resistere. Gli strepiti
degli spettatori che gli rimbombavano nel cervello erano
tutti per il suo avversario, un nero come loro. Se non
lo avesse steso, pensò, se si fosse lasciato crollare a
terra, il suo segreto sarebbe trapelato…Forse valeva
la pena tenerlo nascosto, forse…Strinse i denti, si
ingiunse da solo di resistere. Anche solo per
orgoglio.Non era armato, ma sapeva che tutto il suo
corpo poteva trasformarsi in un’arma micidiale: un
calcio assestato violentemente al plesso solare, un
colpo alla carotide vibrato di forza con il taglio della
mano, l’indice che entrava nell’occhio e finiva nel
cervello…Potevano uccidere un uomo. Avevano già
ucciso.
I larghi, affilati coltelli di
Babouin balenavano alla luce delle torce a pochi
centimetri dalle sue braccia, dal suo ventre e dalla sua
gola. Il mostriciattolo gli sorrideva beffardo
mostrandogli i lunghi denti limati in una sorta di
ghigno animalesco.Aveva il vantaggio dei coltelli ma era
meno agile di lui, pensò Massimo. Zoppicava da una
gamba e, guardandolo da vicino, si accorse che aveva un
occhio solo, l’orbita sinistra era vuota. Doveva
approfittarne. Sferrandogli al polso un calcio che lo
fece urlare come un cane malato, Massimo gli disarmò la
mano sinistra. Ma lo sforzo richiesto al suo corpo
ferito e dolorante lo fece crollare a terra e pochi
istanti dopo l’avversario gli fu addosso.
Strattonandogli i capelli, cercò di fargli alzare la
testa e di scannarlo, ma riuscì soltanto a graffiargli
il petto, prima che Massimo se lo scrollasse di dosso e
gli facesse cadere, mordendogli la mano che lo
impugnava, anche l’altro coltello. Il resto fu facile
anche se la ferita al fianco gli faceva male e, mentre
se ne stava inginocchiato in una poltiglia di sangue e
di mota, sentiva di essere lì lì per crollare a terra
svenuto.
*Non è vero, canaglia?
TI BON ANGE*
-I cani di Rochambeau hanno buoni
denti, vedo…E adesso raccogli uno di quei coltelli e
finiscilo. Questo lache** non merita di vivere.
Massimo Meridio alzò gli occhi su
colui che gli stava di fronte e che, con la punta dello
stivale prendeva a calci l’uomo rannicchiato a terra
come un fagotto di stracci.
-Non ammazzo uno che non è in
condizioni di difendersi.
-Invece adesso tu raccogli il
coltello, canaille, e scanni questo mangiapane a
sbafo. Lui lo avrebbe fatto, al posto tuo.
-Ho detto che non ammazzo un uomo
disarmato.
Massimo Meridio tentò, a fatica, di
alzarsi in piedi. Si tastò la ferita sul fianco. Era
profonda e continuava a sanguinare. Avrebbe continuato
chissà ancora per quanto.
-Ammazzalo, o ti sparo.
L’altro gli afferrò i capelli
costringendolo ad alzare la testa, e gli puntò alla
tempia la canna fredda della sua lunga pistola.
Massimo non si scompose.La testa gli
girava..Paura? Forse. Anche se non aveva senso. E’ la
morte a ingenerare terrore. No…Altrimenti, quella
pistola puntata contro la sua tempia, gli occhi folli
dell’uomo ubriaco di tafià*** e di odio, il
corpo inerte di quell’altro, a cui il destino non
aveva riservato i suoi stessi privilegi, non gli
avrebbero riempito il cuore di un’angoscia densa,
fredda, quasi palpabile.
-Biassou…
-Ti Bon Ange*! Che ci fai qui…anche
tu?
-Lascialo stare, Biassou. Non lo vedi
che sta morendo?
Martin, riuscì a pensare Massimo
prima di rovinare pesantemente a terra. O piuttosto Ti
Bon Ange. Piccolo Angelo Buono. Anima mia. La donna
più incredibilmente bella che avesse mai visto.
Al risveglio, fu il volto di lei la
prima cosa che vide materializzarsi nella luce dell’alba
che inondava la piccola stanza disadorna attraverso un’ampia
finestra senza vetri. Era inginocchiata vicino al suo
giaciglio. Aveva tratti meticci, zigomi alti e bocca
prepotente. La pelle era color cioccolato al latte, i
capelli lunghi e lucidi, di un nero corvino le
ruscellavano lungo la schiena, raccolti in una
complicata acconciatura fatta d’un numero incredibile
di piccole trecce. Ma a catalizzare la sua attenzione
furono gli occhi della donna: grandi, tagliati a
mandorla, vagamente crudeli. Occhi da animale selvatico,
da felino della foresta.Occhi di un blu profondo, che
sfumava nel verde quando la luce li colpiva, riducendo
le pupille a minuscoli fori. Occhi che, pur diversi
nella forma, erano dell’identico colore dei suoi,
pensò Massimo. Potremmo essere fratello e sorella, si
disse da sé solo. Anche se lei era nera, lui bianco.
Anche se lei dimostrava ventiquattro, venticinque anni e
lui…lui ne aveva oltre mille e seicento.
-Martin…
Disse con un filo di voce rauca. Gli
faceva uno strano effetto chiamare con un nome maschile
quella splendida donna, eppure il fatto che anche
Biassou l’avesse chiamata così sgombrava il campo da
ogni possibile equivoco. Quel Martin che cercava era
proprio lei. Le avrebbe parlato, decise puntellandosi
sui gomiti e tentando di sollevarsi. Le avrebbe
raccontato del suo incontro con Toussaint Louverture. Le
avrebbe detto che era morto di freddo e di stenti in una
fortezza in mezzo alle montagne e che non aveva tradito
nessuno.
-Stai giù, o ti si riaprirà la
ferita. Eri messo male, credevo che morissi. Ho dovuto
ricucirti.Ti resterà una gran brutta cicatrice.
Aveva cercato di sorridergli,
sollevando appena un angolo della bella bocca.
-Come ti chiami?
-Massimo.
-Non sei francese.
-No.
-Allora perché avevi addosso quella
divisa?
-Non lo so.
Massimo sospirò, chiudendo gli
occhi. Era la verità, quella che le aveva raccontato. O
forse sapeva bene perché aveva scelto di indossare
quella divisa, di combattere per un paese che non era il
suo. Ma il risveglio dai sogni, il crollo delle sue
illusioni, all’improvviso lo fece vergognare di quel
che aveva fatto. Rivide Louverture, la sua faccia grigia
e le sue rughe profonde. E si morse forte il labbro
inferiore fino a sentire il sapore salato del suo stesso
sangue. Per non pensare.
-Potrei riavere…I miei vestiti?
-Sì. Quando saranno asciugati.
-E il mio cavallo?
-Riavrai anche quello: non siamo
ladri, bianco.
-Debbo considerarmi…vostro
prigioniero?
-Mio ospite.
Lo aveva guardato dritto negli occhi,
mentre gli parlava: occhi nei quali il cielo e il mare
si mescolavano con i bagliori sinistri dell’acciaio.
-Che ne è stato…di Babouin?
-Avresti dovuto ammazzarlo. Per
pietà, Massimo. Biassou diventa cattivo quando si
ubriaca. Diventa incontrollabile.
Martin abbassò sugli occhi le lunghe
ciglia nere. Lui avrebbe voluto chiederle e che ci state
a fare, con uno così, voi siete diversa, siete…Era
alta, snella, con un corpo favoloso, temprato da anni di
vita difficile.Vestiva come un uomo, eppure era di una
femminilità bruciante, sconvolgente. Indossava brache
di cotone rigato e una camicia bianca, le cui maniche
arrotolate esponevano i serpenti che aveva tatuati sui
polsi e sugli avambracci. Calzava stivali da soldato,
alti fino al ginocchio. La mezzaluna d’onice, appesa a
un cordino ingrommato, le dondolava sul seno perfetto,
il cui profilo si intuiva sotto la camicia informe.
-Biassou…E’ il vostro capo?
-Sì. E’ coraggioso e astuto.
Grazie a lui, ci siamo tolti dai guai tante volte. I
francesi lo temono e hanno messo una taglia sulla sua
testa.
Anche sulla vostra, si ritrovò a
pensare Massimo. Perché sicuramente lo era, coraggiosa
e astuta. Le guardò i tatuaggi sui polsi. Molti uomini
della banda di Biassou avevano serpenti tatuati sulle
braccia e sul petto. Forse, quel segno significava
qualcosa, per loro. Come gli anelli d’oro e d’argento
che alcuni di essi portavano infilati nei capezzoli. Un
segno di virilità e di coraggio. Come nell’antichità,
quando a fregiarsi di quegli atroci gioielli erano i
pretoriani degli imperatori di Roma.****
Massimo serrò forte le palpebre
sugli occhi, quando Martin scostò il lenzuolo dal suo
corpo. Li riaprì, e vide la donna ferma accanto a lui
con in mano una ciotola che, dall’odore acre, doveva
contenere acqua, aceto e qualche erba pestata.Nell’altra
mano, teneva una pezzuola pulita.
-Che diavolo volete da me?
-Lavarti, bianco. E’ inutile che tu
faccia tanto il pudico, ti ho ricucito e ti ho visto
tutto quanto. Eppoi…Qui fa caldo. L’odore del sudore
e del sangue attira le mosche, e quella ferita ti si
riempirà di larve nel giro di poche ore. Hai mai visto
una ferita che brulica di vermi, dì?
Massimo inghiottì la saliva e la
lasciò fare, serrando gli occhi quando sentì la
pezzuola umida sul fianco, poi sul basso ventre. Le
cuciture sbilenche tiravano e i labbri biancastri non
sanguinavano più. Sei uno che guarisce in fretta, gli
aveva detto la donna. Ma ti resterà lo stesso una gran
brutta cicatrice. Andrà ad aggiungersi alle altre che
hai e che…
La guardò mordersi le labbra.Forse
avrebbe voluto dirgli che le cicatrici sul corpo di un
combattente sono il segno manifesto del suo coraggio e
che niente, per una donna, è attraente come un uomo
coraggioso. Forse avrebbe voluto dirgli che non sarebbe
mancata chi gliel’avrebbe baciata, quella cicatrice.Ma
non disse nulla e lui la guardò, prima di domandarle
che fine avessero fatto il suo portafortuna e la croce e
il ciondolo di Louverture.
-La zanna te la restituirò. Ti ho
già detto che non sono una ladra. Ma la croce e la
mezzaluna me le terrò…Perché mi appartengono.
Lui continuò a guardarla. Era
bellissima, con quella piccola testa altera sul lungo
collo flessuoso. I capelli raccolti in fitte treccioline
gli portarono alla mente i serpenti di Medusa. Chissà
se lo sguardo distante di quei suoi occhi così
incredibilmente chiari poteva pietrificare un uomo.
Chissà…
-Martin…
Sentì le dita sottili della donna
stringere piano le sue. Poi la guardò sorridergli.
Aveva denti bianchi e squadrati, tra le labbra sensuali.
-Solitude Martin Grinville De La
Fère.
*Piccolo Angelo Buono. E’ il
termine con cui gli adepti del culto vudù designano l’aspetto
più individuale dell’anima.Molti termini che si
trovano in questo racconto sono scritti in gombo, il
dialetto dei neri di Haiti e anche se potrebbero
sembrare tali (oltretutto non conosco questa lingua) non
sono storpiature del francese dovute alla mia ignoranza.
Voglio ricordare a questo proposito di aver desunto la
terminologia gombo dai glossari di due bei romanzi: ”Drum”di
Kyle Onstott e, soprattutto, “Quando le anime si
sollevano”di Madison Smartt Bell. Li ringrazio, anche
se non li conosco personalmente e mi pare che il primo
sia pure defunto.
**Vigliacco
***Rhum scadente.
****E’ storicamente provato che la
moda dei tatuaggi e dei piercing non sia affatto un’invenzione
recente.
LO SPRETATO
Si svegliò quando la luce dell’alba
inondò il buco in cui l’avevano richiuso, ma quale
ospite, lo tenevano prigioniero, altro che storie, e le
sue orecchie percepirono il cigolio della chiave nella
serratura.
Solitude. Pensò Massimo. Di nuovo
lei, la sua bella carceriera. Aveva un cognome lungo
quanto le sue gambe, neanche fosse stata una duchessa
invece che una ex sguattera di piantagione. Era
indubbiamente una donna molto bella; ed era anche
decisamente strana. Ti guardava dritto in faccia,
parlava poco ma chiaro e aveva l’aria di chi sa
esattamente quel che vuole; perfino il feroce Biassou,
che pure si ubriacava come un carrettiere e non aveva
paura di niente diventava un pulcino bagnato, se solo
lei gli piantava in faccia i suoi occhi color
acquamarina.
Ma la luce che inondava la piccola
stanza non illuminò la figura elegante della donna.
Massimo strinse tra le dita il coccio
di bottiglia che era riuscito a raccattare, lo nascose
sotto il cuscino. Nessuno doveva accorgersi che la sua
ferita si era già chiusa senza lasciare traccia e quel
piccolo, tagliente pezzo di vetro gli sarebbe tornato
utile allo scopo. Anche se, in fondo, che poteva
importargli qualora la verità fosse venuta a galla? I
neri erano terribilmente superstiziosi, gli aveva detto
qualcuno. Credevano che si potesse tornare indietro dall’aldilà.
I neri. Ma l’uomo appena entrato era bianco come lui,
senza possibilità di equivoci.
Vestiva di scuro, e i suoi abiti
erano vecchi e lisi; aveva capelli grigiastri che gli
pendevano ai lati del cranio sguarnito, il volto
cavallino, di un pallore malsano, su cui spiccavano il
naso grosso, le sopracciglia cespugliose e una bocca
livida che si apriva su una dentatura incompleta e
traballante. Ma nonostante il suo aspetto sgradevole e
trascurato non doveva avere più di cinquant’anni. Che
ci faceva, un bianco nella banda di Biassou?
-Salute a te…Massimo, mi pare.
Forse aspettavi la bella Solitude, e invece…Spero di
non averti deluso troppo e di poterti tornare utile.
Desideri qualcosa?
I miei vestiti, i miei stivali, il
mio amuleto, il mio cavallo e la libertà di andarmene
da qui quando mi pare, rispose lui, sbuffando. Quell’altro
lo invitò con cortesia ad avere pazienza ancora qualche
giorno, finché la ferita non fosse guarita del tutto e
poi…E poi forse si sarebbe dovuto rimettere agli umori
instabili del capo per sperare di andarsene da lì.
Magari dopo aver chiarito un paio di cosette con
Solitude Martin Grinville De La Fère. In ogni caso, gli
sarebbe piaciuto coricarsela sotto, quella magnifica
femmina fiera color della cannella. Rabbrividì al
pensiero che i suoi acuti occhi azzurri e le sue dita
sottili e forti gli avessero sfiorato il corpo nudo.
Tante donne avevano desiderato il suo grande corpo caldo
e vigoroso, in questa vita e nell’altra…Ma forse lei
era diversa, forse non gli avrebbe perdonato il fatto di
essere bianco. Forse se la faceva con quel gigante dall’aria
ebete che la seguiva sempre come un grosso cane, o con
Biassou…O magari con quell’omiciattolo dalla testa
tignosa che puzzava quanto un gregge di capre ma che
aveva l’innegabile vantaggio di stare dalla loro
parte, ad onta del colore della sua pelle.
-Mi chiamo Carlos Obregon.
Parlava un buon francese, corretto e
un po’ forbito, non il vernacolo inintelligibile dei
negri. E Massimo aveva capito che era spagnolo ancor
prima di sentirgli pronunciare il suo nome. Doveva
trattarsi, in ogni caso, di una persona istruita. Chi
sei e che ci fai qui? Gli chiese, anche se conosceva
già la risposta. Sono venuto a controllare la tua
ferita. Ma forse avresti voluto che fossero le mani di
Solitude a toccarti, anche questa volta.
-Chi è Solitude Martin Grinville De
La Fère?
Gli occhi dello spagnolo ammiccarono
maliziosi. Ti piace? Gli chiese. Quella piace a tutti.
Ma…E’ pericolosa, amico. E’ piena di veleno, come
una vipera. Quando è scappata dal suo padrone, ha fatto
fuori quattro uomini. Da sola. E aveva quindici anni
appena.
-Ti ho solo chiesto di dirmi chi è
Solitude Martin Grinville De La Fère.
La faccia di Obregon tornò seria..
Anche se, in verità, sono venuto soltanto per dare un’occhiata
alla tua ferita, ti parlerò di lei…E di tante altre
cose. Ma preferirei non farlo in francese. Qui anche i
muri hanno orecchie.
-Potrei parlare la tua lingua: la
conosco bene.
-Ma la conoscono bene anche parecchi
degli uomini di Biassou: aldilà del Morne St.Raphael
era territorio spagnolo, prima che Louverture lo
liberasse.
Lo sguardo scuro di Obregon bruciò
la pelle di Massimo, mentre le sopracciglia cespugliose
si aggrottavano nel dubbio se formulargli o meno la
domanda. Quello era un soldato. Quando l’avevano preso
nella foresta, aveva addosso l’uniforme della Marina
da Guerra francese. Non era ciò che era stato lui,
tanto tempo prima. Era quasi impossibile che…
-Maiorum sermonem loqueris?
-Maiorum sermonem loquor.*
Gli disse di essere stato un prete,
molti anni prima. Era stato suo padre a volerlo tale,
senza chiedergli nessun parere. Quello era il suo
destino, dal momento stesso in cui la madre l’aveva
messo al mondo. Era stato costretto a chinare la testa e
a ubbidire. Di malavoglia.
-Non sono stato un buon prete.
Nemmeno un buon cristiano, se vogliamo vederla da questo
punto di vista. Mi piaceva mangiare, bere. Mi piacevano
le donne. Ero un epicureo. Ma il destino che mi era
stato cucito addosso dagli altri non mi apparteneva. E
tu…sei stato l’artefice del tuo destino, Massimo?
Il ferito si era seduto sul
giaciglio, puntellandosi con i gomiti, e il lenzuolo gli
era scivolato lungo il corpo nudo. Sì. Gli aveva
risposto. Quel che faccio è ciò che ho sempre fatto e
che ho scelto personalmente di fare. I miei genitori e
mio fratello morirono nell’incendio della fattoria
dove vivevamo quando avevo solo otto anni. Mi sono
salvato perché in quel momento ero nel bosco a cercare
fascine. E’ stata una mia vecchia zia a crescermi. O
meglio, a farmi trovare tutti i giorni un piatto di
minestra e un tozzo di pane sul tavolo e tutte le notti
un letto asciutto su cui dormire al riparo dalle
intemperie. Ma aveva sessant’anni passati e non era in
grado di tenere dietro a un ragazzino.
-Capisco.
Già. Ma quel che non capiva era il
fatto che quel rozzo soldataccio parlasse il latino con
incredibile disinvoltura, meglio di lui che l’aveva
studiato per anni. Il resto, era come aveva immaginato.
A quattordici anni si era arruolato nella marina da
guerra e poi…Poi non aveva fatto altro.
-Da dove vieni?
-Da un paese vicino a Ventimiglia.
-La chiamavano Repubblica di Genova,
una volta. E adesso quel brigante di Napoleone se l’è
pappata. Si sta pappando mezzo mondo, ma debbo essergli
grato di aver fatto piazza pulita dell’Inquisizione in
Spagna e nei suoi territori d’Oltremare. E’ uno che
ha rischiato di finire arrostito sulla pubblica piazza
come nemico di Dio a dirtelo. Mi ero messo con una donna
meticcia e avevo avuto dei figli da lei, nonostante i
voti. Ma, quel che è peggio, non credevo in niente
malgrado mi avessero ordinato prete. Quel che facevo…era
per ipocrisia, Massimo. E per salvare la pelle. Morire
bruciati vivi è una gran brutta morte.
-Perché prendi ordini da Biassou?
-Io non prendo ordini da nessuno.
-Mettiamola diversamente, allora:
Biassou odia i bianchi, eppure…
-Forse. Ma rispetta il coraggio e
teme la magia.
-Vorresti farmi credere che sei un
mago?
Lo spretato rise, mettendo in mostra
la chiostra nera e incompleta dei denti.
-No. Sono semplicemente un dokté-feuilles**.
Fu la mia donna a insegnarmi i segreti delle erbe. Anche
quel cataplasma che hai sulla ferita e che ti aiuterà a
guarire l’ho preparato io.
-Ma Biassou è convinto che tu lo
sia.
-Già. E francamente mi fa comodo che
lo creda. Te l’ho detto, lui rispetta il coraggio…e
teme la magia. Per il resto, è più inaffidabile d’un
cane malato di rabbia.
-Hai reso l’idea. Sei il suo
medico, immagino.
-In questa situazione, chiunque abbia
qualche conoscenza di medicina è il benvenuto. Anche
Solitude conosce le erbe e i veleni. E’ lei che ti ha
ricucito la ferita.
-Allora debbo intuire che questo
luogo dove mi trovo è una specie…di ospedale?
-Più o meno. E’ l’unico edificio
in muratura di tutto l’accampamento. Probabilmente era
il casino di caccia di qualche grand blanc ***e
non si capisce come mai non l’abbiano bruciato.
-Avevi promesso…
-Che ti avrei parlato di lei? Tanto
per iniziare, comincia a pensare che non è roba per te,
quella.
-Ma neanche per te.
-Per nessuno. Neanche per Biassou. Lo
sai perché si è fatta tatuare i serpenti sulle
braccia? Per gridare al mondo che appartiene a Damballa.
Al dio. Nessuno di questi negri oserebbe toccarla, se
lei non lo volesse. E lei non vuole. Contaci. Anche se…Anche
se non credi nelle superstizioni dei negri. E sei un
gran bel giovanotto, Massimo. Forse potresti perfino
piacerle.
Eh già. Pensò saettandogli un lungo
sguardo. Aveva gli occhi teneri e un bellissimo corpo,
massiccio e muscoloso. Il suo volto era incorniciato da
una lunga capigliatura ondulata, schiarita dal sole e le
guance piene sporcate da un’ombra di barba. La bocca,
piccola e ben disegnata, si apriva su una chiostra di
denti regolari e bianchissimi. Ma Solitude non lo
avrebbe voluto, né lui né un altro. Nel cuore di
Solitude c’era posto solo per i suoi demoni.
-Nelle vene di quella donna scorre
sangue Fulah. Erano un popolo fiero, convinto che il
fatto di credere nel verbo del Profeta li tenesse al
riparo dal rischio di finire schiavi.**** Almeno
fintantoché il commercio dei neri non è finito nelle
mani degli europei, perché allora la musica è
cambiata. Anche per loro.
Massimo inghiottì con un groppo di
saliva gli insulti che avrebbe voluto vomitargli
addosso: non esiste al mondo essere umano disposto a
tollerarla, la schiavitù: nero, bianco, giallo,
cristiano, maomettano o pagano che egli sia.
-I Fulah sono schiavi ribelli e
vendicativi. Come i Mandinka. Gli Eboe sono invece
inclini al suicidio. Pensano, morendo, di ritornare alla
loro terra. I più remissivi sono gli Arada del Dahomey
e i Congo. Almeno, così si dice. Lei è mezza bianca.
Suo padre era bianco.
Una smorfia sarcastica torse in un
ghigno la bocca di Obregon. Non mi piace, pensava
Massimo. Ma avrebbe avuto ancora tante cose da
chiedergli. Strinse il coccio di vetro tra le dita, lo
fece correre, sotto la garza allentata, sotto il
cataplasma di grasso ed erbe pestate, sulla ferita già
chiusa. Voleva che sanguinasse, quando l’uomo gliel’avrebbe
scoperta per controllarla e rinnovare la medicazione.
Diversamente, il suo segreto sarebbe venuto a galla. E
non era il caso.
-Suo padre era bianco, dici. Che cos’ha
di speciale un nero con del sangue bianco nelle vene?
-Maschio o femmina, è di solito una
gran bella creatura. Ma il sangue bianco può renderlo
inaffidabile. E lei è tutto questo, Massimo…Come ti
ho già detto, quando è fuggita, ha ammazzato quattro
uomini. Da sola. E di questi quattro uomini, uno era suo
padre, l’altro suo fratello.
-Tu non hai mai ucciso, Obregon?
E a te non fa orrore chi spezza la
vita di coloro che hanno nelle vene il tuo stesso
sangue, Massimo? Che razza di uomo sei? E che razza di…
Obregon vide i graffi sulle dita dell’uomo
che stringevano il coccio di vetro tagliente come un
rasoio. Vide la ferita scoperta e sanguinante, e glielo
domandò ancora, che razza di uomo sei, Massimo Meridio?
-Voglio parlare con lei.
Disse Massimo, mentre lo spretato gli
ripuliva la ferita. Aveva capito tutto quanto, vedendo
con i suoi occhi il sangue stagnare, i labbri chiudersi
senza lasciare alcuna traccia sopra la pelle. Aveva
capito da quale recesso del passato venisse quel
marinaio senza istruzione che parlava il latino meglio
di lui. Perché mi hai detto d’essere l’artefice del
tuo destino, Massimo? Ciò che sei non l’hai deciso
tu, di questo ne sono sicuro.
Massimo non disse nulla. Chiuse gli
occhi, abbandonò sul cuscino la testa. Quell’uomo
aveva scoperto il suo segreto. Far qualcuno parte dei
propri segreti è lo stesso che consegnarsi prigioniero
nelle sue mani, pensò. E aspettò, senza parlare, che
Obregon se ne andasse.
*Parli la lingua dei padri? Parlo
la lingua dei padri.
** Guaritore
*** Grandi proprietari terrieri.
****Il Corano fa espresso divieto ai
suoi seguaci di tenere in schiavitù un correligionario.
E’ per questo motivo che la religione islamica è
così diffusa nella regione del golfo di Guinea. Ma
quando il traffico dei neri passò dalle mani degli
arabi a quelle di inglesi, portoghesi e olandesi l’essere
musulmane non mise quelle popolazioni al riparo dal
rischio di finire in schiavitù.
REVENANT*
-Massimo?
Socchiuse gli occhi al suono della
sua voce. Era lei, ed era venuta a riportargli i
vestiti. Lavati, rammendati, perfino stirati. Tuttavia
non doveva essere opera delle sue mani, quella. Aveva
notato altre donne, all’accampamento: le compagne, le
figlie, le madri dei combattenti. Ma lei non era ciò
che erano loro. Era Solitude Martin Grinville De La
Fère, che sapeva maneggiare la spada meglio di un uomo
e avrebbe potuto staccare le ali ad una mosca in volo,
con un colpo della sua pistola.
Senza scostarsi il lenzuolo di dosso,
si infilò le mutande ed i calzoni. Solitude rise. Non
ho mai conosciuto un uomo pudico come te, gli disse.
Quando si ritenne sufficientemente
coperto da non offendere il pudore della donna, Massimo
si alzò dal suo giaciglio e le andò vicino. Era alta
quasi quanto lui e, snella com’era, lo sembrava ancora
di più: gli ricordò una giovane palma. Lui si era
sempre sentito paragonare a una quercia.
-Poco ci è mancato che il coltello
di Babouin ti cacciasse fuori le budella e dopo due
giorni soltanto sei in piedi di fronte a me. -con gli
occhi chiari gli percorse senza soggezione il torso
nudo, soffermandosi sul ventre. Non c’era nessuna
cicatrice fresca, dove avrebbe dovuto esserci, solo
muscoli sodi e una pelle abbronzata coperta da una fitta
peluria scolorita dal sole- Comincio a credere che
Obregon mi abbia detto la verità, a proposito di una
certa faccenda sul tuo conto.
Un brivido gli passò sotto la pelle,
a quelle parole. Obregon le aveva detto tutto quel che
aveva scoperto di lui. Che non poteva morire e le sue
ferite si chiudevano senza lasciare il segno. Che era un
revenant. Uno tornato indietro dall’aldilà.
Per sempre.
-Chi sei, Massimo?
Lo guardava dritto negli occhi. Erano
dell’identico colore dei suoi, azzurri sfumati di
verde, e non tradivano paura alcuna. Eppure, lui sapeva
delle tenebrose superstizioni alle quali quella gente
credeva. Anche di morti fatti tornare dall’aldilà e
asserviti ai vivi: loro li chiamavano zombi. Chi
sei tu, Solitude Martin Grinville De La Fère, avrebbe
voluto controbattere lui.
-Uno che calca la polvere del mondo
da oltre mille e seicento anni, ragazza. Dovresti aver
paura di me.
Adesso le dava del tu, come a una
vecchia amica, come lei aveva fatto da subito. Paura? Di
te? E perché dovrei? Ho visto uomini morire ammazzati
nelle maniere più bestiali che la turpitudine umana
possa concepire, ho conosciuto la schiavitù, ho ucciso
chi aveva il mio stesso sangue dentro le vene per
riprendermi quello che mi spettava di diritto, ho
sentito tutte le notti, quando vegliavo con le dita
contratte sull’impugnatura del mio coltello il siffleur
montagne** che cantava e mi diceva, attenta, la
morte ti cammina vicino…Dovrei aver paura di te?
Lui la guardava, studiandola con
occhi attenti. Era incredibilmente bella. Forse,
azzardò, la femmina più bella che avesse incrociato la
sua strada, in oltre mille e seicento anni che stava al
mondo: pelle scura, occhi azzurri, lineamenti delicati,
il naso sottile, leggermente aquilino dei suoi antenati
arabi, il corpo snello e forte che avrebbe voluto
prendere lì stesso, in quel preciso istante…Si
vergognò dei suoi pensieri, e inghiottì il groppo di
tensione che gli serrava la gola, quando lei gli mise
intorno al collo il cordino con il dente di lupo e lo
annodò, sfiorandogli il collo e la nuca sotto i
capelli. E pensò che alle donne piacevano, i suoi
capelli morbidi, folti e lunghi.
-Anche questo viene dalla tua prima
esistenza?
Si era seduta sul suo giaciglio, e
non gli scollava gli occhi di dosso. Chissà se avrebbe
capito, pensò Massimo. Sicuramente lei non era come
Obregon lo spretato, non aveva abbastanza istruzione da
sapere come andavano le cose mille e seicento anni
prima, in quella grande città, la capitale del più
potente impero che mai fosse esistito. Sono stato
soldato e schiavo, le disse.
-Le cicatrici che ti segnano il corpo
sono il ricordo della tua prima vita.
Sì, rispose lui. Di quando, alla
testa dei miei soldati, combattevo contro i nemici del
mio signore e di quando, schiavo, mettevo la mia vita a
repentaglio per il sollazzo di un branco di pervertiti
che si divertivano a guardare due uomini ammazzarsi.
-Allora il mondo non è poi così
cambiato, in mille e seicento anni. Anche Biassou voleva
questo da te e da Babouin. E i bianchi, in certe
piantagioni, si divertivano a mettere gli schiavi uno
contro l’altro, come fossero stati galli, o cani. O…gladiatori.
No, il mondo non è cambiato, in
mille e seicento anni. La guardò, e ripensò al suo
primo combattimento nella grande arena di Roma. Rivide
il carro da guerra dirigersi verso lui e i suoi
compagni, le falci dei mozzi straziare i loro corpi, in
un inferno di sangue e di urla. C’era un arciere sul
carro. Una donna. Una bella donna nera che rassomigliava
a Solitude. Ricordò i bagliori della corazza dorata che
riproduceva impudicamente la sagoma del suo corpo, i
seni alti, i capezzoli eretti…Ricordò di averla
desiderata, e di essersi vergognato dei suoi pensieri.
Ricordò di averle piantato la spada nel ventre fino all’elsa.
Mors tua, vita mea.
* Colui che ritorna
** Rapace notturno simile alla
civetta.
IL CIONDOLO E LA CROCE
Massimo si toccò il dente di lupo
che gli pendeva sul petto. Che fine hanno fatto la croce
e il ciondolo di Louverture? Chiese alla donna. Mi
sembra di averti detto che quelli sono miei, Massimo.
Che mi appartengono. Di diritto.
La voce e il volto si erano induriti,
mentre pronunciava quella parole con un tono che non
ammetteva repliche.
-Una cosa che mi piacerebbe sapere è
come hai fatto a prenderglieli.
-E’ molto semplice derubare un
morto, Solitude.
Ai neri non è dato d’impallidire,
ma se un gesto o una parola, una verità o una bugia
sconvolgono i loro pensieri e le loro certezze, hanno
mille altri modi per dimostrarlo. Solitude aveva visto l’inferno.
Si vantava di non temere niente e di avere il pieno
controllo delle sue emozioni. Eppure, Massimo vide una
lacrima attraversarle lenta la guancia, per poi andare a
fermarsi alla commessura delle sue labbra..
-Non devi pensare che fosse la
verità, quella in cui ti hanno convinta a credere. Non
vi aveva venduti in cambio di un mucchio d’oro e di
una vita comoda e senza problemi in Francia. Quando l’ho
conosciuto, marciva in una fortezza tra le montagne,
consumato dall’etisia. Ai suoi carcerieri era stato
proibito di rivolgergli la parola e ingiunto di
risparmiargli cibo e coperte, per affrettarne la fine.
Io sono penetrato nella sua prigione con l’inganno,
per oltre un mese ho raccolto le sue confidenze, ho
ascoltato la sua storia…Ero il terzo ufficiale a bordo
della nave che l’ha portato in Francia e…e non
riuscivo a perdonarmelo. Incontrarlo, parlargli,
condividere il suo dolore è stato per me come
esorcizzare un rimorso che mi rodeva l’anima.
-Io amavo quell’uomo.
Forse lo aveva amato per davvero.
Senza speranza. Louverture aveva moglie e figli, e non
era il genere d’uomo che vien meno alle promesse
stipulate. Anche se Susanne, sua moglie, era una donna
grassa, ordinaria, sciatta, più vecchia di lui di
qualche anno e gli aveva portato in dote un figlio senza
padre. Anche se Solitude Martin Grinville De La Fère,
che gli si sarebbe data senza chiedere niente in cambio,
poteva essergli figlia e sembrava una dea.
-Il suo ultimo pensiero è stato per
te. Il nome che stava tentando d’incidere sulla
mezzaluna di madreperla quando la morte l’ha colto è
il tuo…Solitude.
Grazie, gli disse lei asciugandosi
gli occhi col dorso della mano e sforzando un sorriso.
Non fosse stato per te, anch’io mi sarei tenuta dentro
la convinzione che fosse un traditore della sua gente,
uno come tanti. L’oro corrompe, Massimo. L’oro fa
marcire le anime degli uomini. Forse non sai che…che i
nostri capi hanno venduto certi di noi schiavi agli
spagnoli. Biassou dice che erano cattivi soggetti e
bisognava liberarsi di loro. E che se questo andava
fatto, tanto valeva guadagnarci qualcosa che poteva
essere speso per la causa. Ma Toussaint Louverture non
avrebbe mai fatto niente del genere. Era un galantuomo,
lui.
Già. Un galantuomo. Massimo chiuse
gli occhi, rivide la sua faccia scavata dal dolore,
dalla malattia e dalla disillusione. E ricordò le sue
parole: “Sarei stato l’uomo più infelice della
terra, se non vi avessi conosciuto.”
LA MARQUISE*
Quella mattina, mentre guardava fuori
dalla finestra, l’aveva vista esercitarsi con la
spada. Si batteva bene, e sopperiva alla mancanza di
tecnica con l’agilità di una pantera. I neri sono
tutti molto scattanti, si era ritrovato a pensare
Massimo. Perfino quelli corpulenti o in età avanzata.
Gliel’avrebbe detto, quando l’avesse rivista. Sai,
Solitude, forse non sarei tanto tranquillo se dovessi
incrociare la lama con te. A prescindere dalle mie
grosse braccia, e da quello che ero e che sono.
Invece le aveva domandato se credeva
nella magia. E si era meravigliato quando l’aveva
vista scuotere la testa in segno di diniego. No, non ci
credo. Però mi fa comodo per mettere paura agli altri e
costringerli a girare alla larga da me. Sono una donna,
e sono più piccola e più debole della maggior parte
degli uomini. Ma quello che non può la forza lo può l’astuzia,
di solito. Non è così, Massimo? Sicuro, puoi ben
dirlo, Solitude.
Come qualche giorno prima, pensò
Solitude, quando era stato appena catturato e Biassou l’aveva
messo contro Babouin. Lui a mani nude, quell’altro
armato con due lunghi e affilati coutelas** che
di solito venivano usati per il taglio della canna.
Babouin aveva già ammazzato o storpiato decine di
uomini con quei coltelli, ma lui era riuscito a batterlo
e a umiliarlo.
-Ho ancora davanti agli occhi il modo
in cui ti sei battuto. Voglio conoscere il tuo segreto,
Massimo. Voglio farlo mio per diventare invincibile.
Come te.
-Oh, ma io non sono affatto
invincibile…Anzi, direi che la peggior figura di tutta
la mia lunga esistenza è proprio davanti a te che l’ho
fatta.
L’uomo rise, ricordandosi il modo
in cui si era lasciato catturare dalla donna e dal tipo
corpulento. Non era stato troppo scaltro, quella volta,
pensò, ma l’essersi reso conto solo all’ultimo
momento di aver a che fare con una donna l’aveva
spiazzato lasciando il tempo a lei di colpirlo con una
pedata nelle coglie che l’aveva tramortito. Era un
osso duro, Solitude. Non c’era da stupirsi se perfino
il sanguinario Biassou la temeva.
-No, Massimo. Era il modo in cui
muovevi le mani e i piedi per colpirlo, il modo in cui
hai trasformato tutto il tuo corpo in un’arma…Il
modo con cui guardavi il tuo avversario, facendogli
capire che non aveva speranze, malgrado quei coltelli
che Biassou gli aveva messo in mano. Era come…Come se
non vedessi un uomo, ma Ogun Feraille, il
dio della guerra.
-Hai un notevole spirito di
osservazione…
-…per essere una donna?
-Non intendevo offenderti.
-Ma non mi sono offesa. Conosco
abbastanza gli uomini da sapere che hanno la lingua più
veloce del cervello.
-Adesso potrei essere io a ritenermi
offeso dalle tue parole.
-Piantala, e parlami del tuo segreto.
-A un patto.
-Parlami del tuo segreto, ho detto.
-Risale alla mia prima vita. Ero
appena finito schiavo ed ero stato comprato da un
individuo che organizzava combattimenti di gladiatori in
una scalcagnata arena africana a margini meridionali
dell’impero. Un ex gladiatore anche lui, mezzo greco e
mezzo cartaginese…Elio Proximo. Come molti ex atleti,
con l’età si era appesantito e le articolazioni gli
facevano male, quando cambiava il tempo. Con i primi
soldi che gli avevo fatto guadagnare, s’era comprato
uno schiavo esperto di medicina per curargli i dolori.
Un ometto anziano con la pelle giallastra e gli occhi a
fessura. Veniva da molto lontano: dal Paese della Seta.
Dalla Cina. Non gli avresti dato il valore di mezzo asse
bucato, ed era anche molto vecchio, ma credo di non aver
mai conosciuto un uomo più sapiente. Si chiamava Sung.
E’ stato lui a insegnarmi a prevedere le mosse del mio
avversario con una semplice occhiata, a trasformare il
mio corpo in un’arma mortale con la sola forza della
volontà. Non mi sarebbe neppure stato necessario essere
grosso e forte come sono, per riuscirci, mi aveva
garantito. Ed era proprio così.
-Insegnami.
-A una condizione. Che tu mi dica chi
sei realmente, Solitude Martin Grinville De La Fère.
-Sono l’ultima della mia razza,
Massimo. L’ultima. Ed è per questo che il titolo di
marchesa spetta a me di diritto, anche se sono nera.
Anche se sono stata schiava.
*Marchesa.
**Machete.
IL RACCONTO DI SOLITUDE (Parte Prima)
Solitude si sedette al suo fianco, le
gambe incrociate, le mani sulle ginocchia. Di tanto in
tanto alzava gli occhi da terra per piantarli nei suoi.
Occhi che avevano il colore del mare e i bagliori dell’acciaio.
Parlava un buon francese, non il vernacolo
inintelligibile degli schiavi. E aveva dimostrato di
conoscere i fatti e i personaggi di cui Massimo le
diceva quando le parlava della sua prima vita. Era
sicuro che quella donna avesse un’istruzione che
andava ben aldilà del semplice saper leggere e
scrivere.
-Sono l’ultima della mia stirpe
maledetta. Dopo di me non ci sarà un altro marchese De
La Fère. E il mondo non piangerà per questo.
Aveva gambe e braccia esili, ma
sembrava temprata nell’acciaio. Come la donna nera e
bella che, dall’alto del carro da guerra, saettava sui
gladiatori i suoi dardi dalla punta ricurva come un amo,
che avrebbero aperto orribili ferite nei corpi di coloro
che avessero cercato di strapparseli via dalle carni.
Come colei che per un attimo aveva desiderato e in un
attimo ucciso. Augurandosi che non facesse in tempo ad
accorgersene. E a soffrire.
-Il titolo è molto antico, risale ai
tempi di Re Luigi Il Santo e della Settima Crociata. Ma
quando mio nonno venne qui vent’anni prima che in
Francia scoppiasse la rivoluzione, aveva una cattiva
fama e neanche il becco di un quattrino, dopo che s’era
bevuto, giocato e scialacquato con le puttane l’eredità
di suo padre e la dote di sua moglie. Questo paese
offriva…molte opportunità a chi era intraprendente e
capace…E abbastanza duro da chiudere gli occhi e
turarsi le orecchie di fronte a tutto.
-La proprietà era meno grande di
altre. Due campi coltivati a indaco, per gettare fumo
negli occhi a chi sa che i beccamorti, i ruffiani e i
raccoglitori di letame fanno schifo ma guai se non ci
fossero. Nel resto del latifondo, coltivava il granturco
e i fagioli, allevava i porci, le vacche e le galline
che servivano per dar da mangiare alla sua famiglia, ai
sorveglianti…e agli schiavi. Si era messo a trafficare
e addirittura ad allevare schiavi come se fossero
cavalli e in pochi anni era diventato uno tra gli uomini
più ricchi di Haiti. Specialmente dopo aver capito ciò
che i clienti volevano: i mulatti, quelli dalla pelle
chiara, che parlavano il francese e non era necessario
insegnargli tutto quanto, come ai bossales* che
venivano dall’Africa e erano cresciuti in mezzo alla
foresta. E non aveva mai esitato a mettere a
disposizione il suo seme, per generare figli chiari che
poi avrebbe venduto nelle isole e sul Continente.
-Aveva avuto quattro figli, figli
legittimi intendo dire, ma tre se li era portati via la
febbre gialla. Il quarto, il sopravvissuto, quello a cui
lasciò tutto, era mio padre. Il Marchese Guillaume
Martin Grinville De La Fére. Era bello, mio padre:
alto, biondo, robusto. Un po’ ti somigliava. Un
diavolo con la spada e con le donne. Quando sua moglie
morì dando alla luce il loro primo e unico figlio, non
volle risposarsi. Non aveva mai amato quella donna che
aveva sposato unicamente per i soldi della sua dote, e
preferì restare solo, nonostante non avesse che
ventotto anni. Tanto, se voleva metterlo in corpo a
qualcuna c’erano le negre. C’era mia madre.
Si chiamava Youma, ed era una Fulah
della Mauritania. Aveva quattordici anni quando la
portarono via, ed era talmente bella che il comandante
della nave su cui era stata imbarcata aveva proibito ai
marinai di toccarla. Chi avesse osato farlo, sarebbe
stato scaraventato ai pescicani. Lui sapeva che la
verginità di una schiava destinata al sollazzo dei
bianchi e non al lavoro nelle piantagioni vale denaro
sonante. Quando mio padre se la prese era intatta, le
vecchie streghe della sua tribù non avevano fatto
neppure in tempo a storpiarla** prima che i bianchi la
portassero via.
Le vendeva tutti i figli che
concepirono e quando le vendette l’ultimo lei impazzì
e si uccise gettandosi in un pozzo. Glieli tolse tutti,
meno me, e questo non sono mai riuscita a spiegarmelo.
Forse era stato suo figlio, a chiedergli di non farlo.
Benoit, il mio fratellastro. L’erede della casata e
dei beni. Ero diventata la sua compagna di giochi, anche
se ero donna, nera e di cinque anni più giovane.
Alloggiavo nella casa padronale, mi vestivano come una
piccola dama, assistevo con lui alle lezioni del
precettore…E imparavo. Ero svelta a imparare. Dai
bianchi, dai neri, perfino dagli animali di casa. A
quattordici anni, cavalcavo, sparavo e tiravo di scherma
meglio di parecchi uomini. E non avevo paura di niente.
Alla piantagione c’era una donna
che si occupava di me. Nina. Una di quelle che noi
chiamiamo dokté feuilles. E’stata lei a
insegnarmi i segreti delle erbe e dei veleni, a far
nascere i bambini ,a rimettere a posto le ossa rotte e a
cucire le ferite. Era la madre di Chacha, quel tipo
grande e grosso che mi segue sempre come un’ombra.
Chacha era strano. Dicevano che conoscesse il linguaggio
degli animali e parecchie delle cose che so le ho
imparate da lui, anche se tutti, ai quartieri,
affermavano che era mezzo scimunito. Ma il padrone non
lo vendeva, perché era forte come un bue, l’uomo più
forte che abbia mai conosciuto. Una volta, da solo, ha
disincagliato un grosso carro che si era impantanato nel
fango. Un’altra, ha ridotto alla ragione un toro
infuriato afferrandolo per le corna e facendolo crollare
a terra.
Nina mi diceva che la magia mi
avrebbe protetta. Nessun uomo oserebbe toccare una donna
che appartiene al dio, se lei non vuole. Damballa, il
dio-serpente. Io non ho mai creduto nella magia, ma
sapevo che Nina aveva ragione. Nessun uomo mi avrebbe
toccata. Nessun nero.
* Schiavo nero deportato dall’Africa.
** tra i Fulah, come tra molti altri
popoli africani, è ancora diffusa l’orribile pratica
dell’infibulazione femminile, che viene effettuata
nelle bambine o, come rito iniziatico, nelle
adolescenti, prima del matrimonio. Questa pratica, che
consiste nell’asportazione, totale o parziale dei
genitali esterni e spesso anche nella loro cucitura,
avrebbe lo scopo di preservare la castità delle donne
eliminando la fonte del piacere durante l’atto
sessuale.
IL RACCONTO DI SOLITUDE (Parte
Seconda)
Solitude si alzò e cominciò a
camminare avanti e indietro nella piccola stanza.
Taceva, ed evitava di guardarlo in faccia. Non sarebbe
stato facile, si disse, raccontargli quanto era stato
duro il risveglio dai sogni, e poi perché avrebbe
dovuto farlo?
-Solitude…
Lui le aveva detto di essere tornato
indietro dal mondo dei morti mille e seicento anni
prima. Le aveva detto di quando era stato capo di uomini
armati, poi schiavo e gladiatore. Era stato elusivo,
quindi niente lo autorizzava ad essere curioso. Eppure…
-Avevo quindici anni quando Benoit De
La Fère, che fino al giorno prima mi aveva chiamata
sorellina, che mi aveva insegnato ad andare a cavallo e
a maneggiare la spada, che passava ore e ore a
chiacchierare con me, tentò di mettermi le mani
addosso. Lo colpii con uno schiaffo in faccia, che lui
mi restituì. Quando mi difesi cercando di ricordargli
che io e lui avevamo lo stesso sangue nelle vene, mi
disse che non ne era poi tanto sicuro, visto che le
negre sono delle puttane che vanno con tutti, e che
quello schiaffo glielo avrei pagato con gli interessi.
Una piccola smorfia piegò verso il
basso gli angoli della bocca di Massimo Meridio. E’
così che va il mondo, Solitude. Le disse. In mille e
seicento anni, non è cambiato niente.
-Sapevo che sarei scappata. E lo
sapevano anche loro. Per i bianchi di Haiti erano
cominciati i tempi difficili, e quello avrebbe potuto
aiutarmi. Maneggiavo la spada e la pistola, andavo a
cavallo, i cani della maréchaussée*, i mastini
e i limieri che Guillaume De La Fère usava per
dare la caccia agli schiavi fuggiaschi mangiavano il
cibo dalle mie mani. Non avevo niente da temere. Almeno,
era così che credevo.
-Obregon mi ha detto che quando sei
scappata hai fatto fuori quattro uomini. Mi ha
raccontato tutto quanto.
Solitude gli indirizzò un breve
sorriso a labbra chiuse, prima di assentire. E a lui
tornarono alla mente le parole dello spretato.
“Aveva rubato un machete e nascosto
un lungo pugnale sotto la gonna. Sapeva che, all’occorrenza,
li avrebbe usati senza esitare. Per uccidere. O per
darsi la morte, visto che non aveva nessuna intenzione
di cadere viva nelle mani di Guillaume De La Fère.
Nulla avrebbe mai cancellato dalla sua mente le urla
degli schiavi fuggiaschi seviziati dopo la loro cattura.
Appena pochi giorni prima, a uno di loro erano stati
recisi i tendini di un calcagno e il suo complice, che
era recidivo, era morto sotto i colpi della sferza.
Aveva portato via dalla stalla il vecchio ronzino che
tirava la carretta quando si andava in città a far
provviste: conosceva le carezze e i gesti con cui è
possibile blandire gli animali…E conosceva anche le
parole con cui il Marchese comandava l’attacco ai suoi
mastini addestrati a saltare alla gola e a uccidere. Due
dei suoi inseguitori furono sbranati dai loro stessi
cani. Il terzo fu trascinato via dal suo cavallo
imbizzarrito, quando cadde e gli rimase il piede preso
nella staffa. E il quarto…”
-Chi era il quarto uomo, Solitude? E
che ne è stato di lui?
-Perché me lo chiedi, visto che lo
sai? Come saprai che sono stata io a far imbizzarrire il
cavallo di mio padre…altrettanto sai che quello era
Benoit. Mio fratello. E sai anche com’è morto.
-Voglio sentirlo da te.
Solitude gli voltò le spalle.
-E tu, quanti ne hai fatti fuori,
quando sei scappato, prima che gli uomini dell’usurpatore
ti giustiziassero? Quanti ne hai uccisi per compiacere
il tuo pubblico e il tuo padrone? Uomini che conoscevi,
con i quali hai diviso la gloria, la paura, la rabbia e
il dolore…con i quali hai mangiato, bevuto, parlato…Obregon
mi ha detto che eri un grande generale, prima di
diventare schiavo. Mi ha detto che le tue disgrazie sono
cominciate quando il tuo signore è morto ammazzato da
qualcuno che voleva prendere il suo posto e al quale hai
negato il giuramento di fedeltà. Mi ha detto che tua
moglie e tuo figlio sono morti per questo…E che ancora
non te lo perdoni. Tu non eri con loro quando li hanno
sterminati. E io non ero con loro quando…quando…
Quando il tuo gesto di ribellione è
stato pagato da coloro a cui volevi bene, Solitude?
Quando ti sei pentita di non averlo compiaciuto, il
giovane padrone che fino alla sera prima ti aveva
chiamata sorellina e di punto in bianco s’era messo a
trattarti come l’ultima delle puttane?
-A me sarebbe bastato afferrare una
mano bagnata di sangue, baciarla…E avrei avuto una
vita normale. Forse avrei perso il rispetto di me
stesso, ma sarei invecchiato accanto a mia moglie, avrei
visto crescere i figli dei miei figli. Invece…
Solitude aveva ripreso a misurare a
lunghi passi nervosi la piccola stanza, come una lupa
prigioniera. Gli disse che avevano preso Chacha e sua
madre, prima di andare a cercarla. Che li avevano
battuti per costringerli a parlare. Ma dalle loro bocche
erano uscite soltanto urla di dolore, poi lamenti
flebili, e dopo ancora rantoli d’agonia. Alla
cinquantesima sferzata, Nina era crollata morta. Ma suo
figlio era forte, aveva la pelle dura…
-E a me sarebbe bastato lasciarmi
prendere come una puttana da uno che aveva dentro le
vene il mio stesso sangue perché…Lo sapevi, tu, che
Chacha non è un uomo come tutti gli altri? Che per
fargli dire quello che non avrebbe saputo o potuto,e
nemmeno voluto, mio padre lo aveva fatto castrare, prima
di darmi la caccia con i cani? Lo sapevi che il corpo di
Nina è stato bruciato e che l’unica cosa che resta di
lei è una macchia di sangue nel cortile della casa
grande? E’ stato Benoit a dirmelo, pochi minuti prima
che lo colpissi. Forse né lui né mio padre si
aspettavano di morire per mano di una ragazza di
quindici anni.
La morte ha gli occhi biechi e il
viso truce. Ha il colore delle tenebre e il puzzo del
sangue. Lui l’aveva guardata in faccia tante volte,
troppe per pensare di non riconoscerla, qualsiasi
maschera avesse scelto per travestirsi. Può essere
pietosa, quando porta via con la vita anche la
sofferenza e il disonore, ma non è un fiore, una
farfalla, la fiamma di una candela che danza con grazia
nel vento. Massimo Meridio allargò le braccia, la
strinse a sé. Almeno, a te restano le lacrime, le disse
asciugandole le guance con le dita callose.
*Gruppo paramilitare adibito a
dare la caccia agli schiavi fuggiaschi.
LA PROMESSA
Adesso non era come qualche giorno
prima. Massimo non gemeva, ferito, nudo e indifeso,
senza che i suoi occhi vedessero chi lo stava toccando e
gli aveva ricucito la ferita, prima di sapere che a
quell’uomo il destino avrebbe negato la morte fino
alla fine dei secoli.
Era bello, si ritrovò a pensare la
donna, lo sguardo dolce, e come affamato d’amore, la
pelle color miele piacevolmente tiepida, sotto la
camicia di lino sbottonata. Tiepida, e coperta da una
sottile peluria chiara. La stringeva a sé con braccia
possenti come quelle di un dio invincibile, e il respiro
convulso di lei si perdeva nella seta dei suoi capelli.
Prima ancora che lo facesse, Solitude sapeva che l’
avrebbe baciata. Gli uomini sono tutti uguali, pensò. E
lei non gli avrebbe opposto resistenza. Era così forte…Ma
non solo. La sua bocca, piccola e ben disegnata, era
soffice, anche se i peli che la incorniciavano erano
ispidi, e graffiavano. Era eccitante immaginare la
carezza bruciante di quelle labbra rosee e sinuose in
ogni recesso del suo corpo, anche in quelli più
segreti, dove nessuno l’aveva mai toccata. Immaginare.
Perché in realtà non gli avrebbe permesso niente.
-Lasciami stare. Io…
Lo respinse, dibattendosi tra le sue
braccia, premendogli le mani contro il petto. Io sono di
un altro, e intendo rimanergli fedele. Per sempre.
Quasi urlò, quando lui le afferrò
entrambi i polsi con una mano sola, mentre con l’altra
le prendeva il mento e la costringeva a guardarlo.
-Intendi rimanere fedele…a un
morto?
Non si domandò come facesse a sapere
di lei e di Toussaint Louverture. Forse sapeva anche che
lui l’aveva respinta, quando Solitude aveva cercato di
rivelargli il suo amore. Con gentilezza, ma con
decisione. Ho moglie e figli, le aveva detto. Tu non sei
che una bambina, e confondi l’amore con la
gratitudine.
-Sei vissuta al suo fianco per alcuni
anni, io per poco più di un mese, ma credo di averlo
conosciuto abbastanza da poterlo giudicare. Beh, ho
avuto da subito l’impressione di un uomo retto,
fieramente leale…Di un uomo molto severo con se
stesso. Spietato, oserei dire. So che non beveva
alcolici e non mangiava carne, che si concedeva solo
poche ore di riposo per notte e che era un lavoratore
instancabile. Gli uomini della sua specie non
tradiscono, né per tornaconto… né per amore.
-Lo sai bene…Perché sei così
anche tu?
-Lo ero. Nell’altra vita. Ma l’amore
e l’odio non durano oltre la morte. Ed è duro
mantener fede a certi principi per mille e seicento
anni.
-E’ stata una donna a riportarti
indietro dall’aldilà…Una donna innamorata.
Lui annuì, prima di chiederle, e tu,
sei mai stata innamorata di qualcuno, anche se già
conosceva la risposta. Sì: di un uomo che mi aveva
accolta presso di sé salvandomi quando ero una
fuggiasca con quattro morti sulla coscienza, di un uomo
che aveva messo la sua vita in pericolo per liberare il
mio amico Chacha,di un uomo che mi ha insegnato a
credere in certi valori…Anche se lui non mi amava. Non
avrebbe potuto. Aveva moglie, figli e cinquant’anni
suonati. Ricordo che, un giorno, gli presi la mano fra
le mie e gliela carezzai a lungo. Soffriva di artrite,
quando il tempo cambiava le ossa gli facevano male, ma
lui stringeva i denti e non si lamentava. Mai. Gliela
tenni stretta a lungo fra le mie, poi me la posai sul
seno. Lui la tolse via subito, come se avesse toccato il
fuoco. Non c’è stato un momento soltanto in cui ho
creduto che potesse essere un traditore della causa e
della sua gente. Nemmeno prima che tu mi raccontassi
tutto quanto.
-Solitude, adesso lui…è in pace.
Ma noi no, pensò la donna. Ogni
giorno, l’alba avrebbe potuto far comparire dall’altro
versante delle colline i francesi con i cani feroci e i
fucili tirati a lucido. E non c’era più un uomo come
Louverture a guidare la lotta di liberazione: c’erano
capibanda avidi, scaltri e violenti, schiavi dei loro
vizi e spesso anche apertamente rivali tra di loro.
Fameliche canaglie capaci di vendere i loro stessi
compagni di lotta. Biassou l’aveva fatto. Lui rispetta
il coraggio e teme la magia, le aveva detto Louverture
poco prima di lasciare Haiti per andare incontro al suo
destino. Tienilo d’occhio, Solitude. E se… se
dovessi accorgerti che ha tradito gli ideali in cui
crediamo, lascia che sia il tuo cuore a consigliarti
come agire.
Gli ideali…Quali ideali? Allevata
in mezzo agli agi come una donna libera e ricca, aveva
sempre chiuso gli occhi di fronte alla realtà, almeno
finché questa non le era rovinata addosso all’improvviso
con la violenza devastante di una frana. E quando era
scappata, quando aveva liquidato quattro uomini, lo
aveva fatto per se stessa, non per gli altri. Certo,
Nina si era lasciata uccidere per coprire la sua fuga,
Chacha era finito storpiato…Ma la donna era vecchia e
malata, l’uomo solo un povero idiota coi muscoli
grossi e il cervello di un bambino di otto anni. Lo
avrei fatto, io, al loro posto? Si era domandata tante
volte quando, la notte, non riusciva a prender sonno. E
le sue domande non avevano ancora trovato una risposta
plausibile.
Scosse la testa, ingoiò le lacrime.
Non aveva mai fatto l’amore con un uomo, si ritrovò a
pensare, e aveva quasi venticinque anni. Colui che la
teneva tra le braccia non l’avrebbe respinta com’era
capitato con Toussaint Louverture. Perché anche Massimo
Meridio stava morendo dalla voglia. Perché lui aveva
trovato il coraggio di reciderlo già da molto tempo, il
legame che lo teneva unito ad una che con ogni
probabilità non era più nemmeno ossa.
ABBANDONO
-Anche se non c’è più, lui sarà
sempre con te, Solitude.
Adesso si era messo a parlare come un
prete. A dirle, per consolarla, cose che non erano vere,
e lei questo lo sapeva, perché anche se con la ragione
ti sforzi di farlo, l’oblio alla fine travolge tutto
quanto, e chi ti era caro è come se non sia mai
esistito.
Le parlava così, e si vedeva che
avrebbe voluto fare dell’altro, per consolarla, forse,
o semplicemente per dar sfogo ai suoi istinti in un
corpo di donna. Nel corpo di una donna che tanti avevano
voluto, e nessuno avuto.
Gli prese la mano. Era grande, rozza,
coperta di graffi e di calli, con le unghie corte e
smangiate. La mano di un uomo giovane e forte. Di un
contadino. La mano che aveva accarezzato teneramente le
spighe che crescevano nei suoi campi, un mare di tempo
prima, in un paese e in un tempo tanto lontani che
riusciva impossibile immaginarli. La mano che aveva
carezzato il mantello del suo cavallo, la pelliccia del
suo cane, la fronte gelida del suo vecchio signore morto…La
mano che aveva scavato la fossa a sua moglie e al suo
bambino, quando li aveva trovati dopo una cavalcata
estenuante, ed era troppo tardi.
Quella mano aveva sfiorato il corpo
di colei che aveva amato, e dato piacere a tante donne…Alla
principessa, colei che aveva chiamato la sua anima
indietro dall’aldilà, e poi…Il tempo per lui si era
fermato. Doveva avere poco più di trent’anni quando
era stato ucciso: li avrebbe avuti per sempre. Il
privilegio della vita senza fine e della giovinezza
eterna erano anche la maledizione della sua eterna
solitudine.
Solitude guidò la mano di Massimo
lungo la sua guancia, lasciò che le dita le
accarezzassero le labbra, che le entrassero nella
bocca,sfiorandola piano, e gliele succhiò, come avrebbe
fatto un agnello neonato con le dita del pastore.
Rabbrividì, quando quelle dita bagnate dalla sua stessa
saliva le sfiorarono il collo. Poi guidò la mano di lui
a posarsi sul seno sinistro. Come aveva fatto con
Louverture, alcuni anni prima.
Sentì il palmo, quindi i
polpastrelli premere, solleticare, stuzzicare la punta
sporgente del seno, sotto il cotone della camicia.
Gemette per il piacere e l’attesa. Gemette d’eccitazione
al pensiero di quello che lui le avrebbe fatto, dopo. Il
capezzolo era teso e duro da farle quasi male. Non si
sarebbe accontentato di quello, l’avrebbe succhiata,
leccata e morsa…Nella promiscuità in mezzo alla quale
viveva, le era capitato di guardare un uomo e una donna
darsi reciproco piacere. Le era capitato di domandarsi
quando sarebbe venuto il suo momento.
Lui la baciò. Era la prima volta che
la lingua di un uomo si insinuava dentro la sua bocca,
esplorandola e stuzzicandola, quasi una premessa di quel
che sarebbe accaduto dopo.
Non so se succede così anche a un
uomo, si ritrovò a pensare mentre le labbra di lui le
correvano, umide e ingorde, lungo il collo e sulla
delicata sporgenza della clavicola e mentre le mani,
frenetiche, scostavano i lembi della camicia dai suoi
seni. Il suo mondo era circoscritto alla fame, all’urgenza
di quel desiderio implacabile che le schiantava le
forze, riducendola debole e passiva come un gattino
neonato. Avrebbero potuto farle qualsiasi cosa, pensò
in quel momento. Anche ucciderla, e lei non avrebbe
reagito. Ma forse quel che valeva per lei non valeva per
lui. Aveva una bella pelle, pensò Solitude
accarezzandolo e baciandolo. Le piaceva la sensazione
della morbida peluria che gli copriva il petto contro le
labbra. La piacevano le cicatrici che aveva sul torace,
sul collo, sulla schiena e sulle cosce. Erano un segno
tangibile del coraggio con cui aveva affrontato i
pericoli, quando ancora poteva morire.
-Louverture era un pazzo.Adesso lo
so. Solo un pazzo avrebbe potuto rifiutarti…Solitude.
Disse Massimo affondando la testa tra
i seni della donna, strofinando le labbra morbide e i
peli ispidi della barba contro i suoi capezzoli
orgogliosamente eretti. Sei bellissima, le disse
leccando, succhiando, mordendo, divorando, come se lei
fosse stata pane e lui un uomo che moriva dalla fame. Mi
piace il tuo buon sapore confortante di femmina. E
bellissima lo era davvero, con quel suo statuario corpo
africano che aveva il colore e la lucentezza del legno
di ciliegio levigato. Aveva mammelle, alte e sode,
sorprendentemente grandi, ampie areole scure e quei
capezzoli duri e sporgenti che avrebbero appagato la
fame dei suoi figli, quando ne avrebbe avuti…e adesso
stavano appagando la sua lussuria.
La mano calda e ruvida di Massimo le
percorse la gamba, dalla caviglia alla sommità delle
cosce. Lei gemette quando la sentì sfiorare il rilievo
leggero del monte di Venere, insinuarsi ad accarezzarle
il sesso, la cui fenditura s’intravedeva in
trasparenza, tra il pelo ricciuto, non troppo folto. Era
umida e calda. Era pronta.
Solitude era come lui se la sarebbe
aspettata:calda e sensuale, il varco umido e accogliente
in cui annegare tutte le sue malinconie, come gli
accadeva da mille e seicento anni a quella parte.
Sospirò, pensando agli infiniti inganni della sua vita
senza fine, al compiacimento con cui lei gli aveva
accarezzato la coscia e guidato il pene dentro di sé.
Come avrebbe osato pensare che era vergine, quando
spinse forte, e la vide stringere i denti per non urlare
il suo dolore?
-Perdonami, Solitude.
-Che cosa avresti da farti perdonare?
Lo sapevo che sarebbe andata così, mi era già stato
detto.
Anche non sarà dolore soltanto.
Sarà piacere che ti si scioglierà tra le gambe denso e
bollente, sarà…Lui aveva abbassato la testa, e con la
lingua lambiva via il sangue e gli umori di lei misti al
suo sperma. Sai, gli aveva detto lei quando, appagati,
giacevano l’uno tra le braccia dell’altra, mi
piacerebbe un figlio tuo…Massimo aveva trattenuto il
respiro, sentendo la carezza leggera delle sue dita e
delle sue labbra sul petto, sul ventre, sul sesso
svuotato del suo turgore, della sua energia e del suo
seme. Non osò dirle nulla, si augurò soltanto che
Obregon le avesse detto tutto quello che sapeva, su
coloro che tornavano indietro dall’aldilà.. Che le
avesse detto che non potevano mettere al mondo figli,
perché era stato loro misericordiosamente negato il
dolore di sopravvivere a chi avevano generato.
COUP POUDRE’*
Li aveva visti uscire dall’acqua,
madidi e nudi, e non doveva essere la prima volta,
quella. Si sentì invadere dal languore, e la mano corse
alla patta dei calzoni. Il prigioniero, il bianco…il revenant
era arrivato dove gli altri avevano osato soltanto
sognare. Anche Biassou.
Però era bello, pensò Obregon, con
quel grande corpo muscoloso che sembrava scolpito nel
marmo. Era degno di lei. Massimo Decimo Meridio,
generale delle legioni sotto Marco Aurelio, schiavo e
gladiatore sotto il suo figlio e successore, il turpe,
sanguinario Lucio Aurelio Antonino Commodo, folle e
parricida.
“Solitude…Devo parlarti.”
La donna sentì la mano dello
spretato artigliarle il braccio, stringere forte. Che
cosa vuoi? Gli chiese. In realtà avrebbe potuto farne a
meno, lo sapeva. Lui non è uno di noi. Quando l’avete
trovato nella foresta, aveva addosso la divisa del
nemico. Solitude, lui è…
-Lasciamo stare. E smettila di
spiarmi.
-Solitude, ti rendi conto che se
Biassou sapesse…
-Biassou farebbe bene a vergognarsi
per com’è ridotto. Eppoi ho intenzione di chiedergli
conto di quel che sta facendo.
-Non hai le prove, Solitude…E prima
o poi questi non saranno più sufficienti a proteggerti
.
Obregon additò i serpenti tatuati
sul polso sinistro della donna. Biassou, pensò, era
astuto e anche coraggioso, ma la superstizione lo
rendeva vigliacco. Quella meticcia dai gelidi occhi
chiari apparteneva a Damballa, il dio serpente. Era
stato Toussaint Louverture a mettergliela alle calcagna,
visto che non si era mai fidato di lui . Tutti all’accampamento
sapevano che Biassou e il suo tirapiedi, il capitano
Riau, fabbricavano zombi. Tutti sapevano. E
tacevano, per paura di far quella stessa fine, o anche
peggio.
Forse era giunto il momento di agire.
Costasse quel che costasse. Lei non aveva mai creduto in
quelle superstizioni dietro le quali si era nascosta per
proteggersi, e sapeva come andavano in realtà le cose,
ma non era giusto che simili terrori divorassero la vita
agli altri. Ogni tanto, all’accampamento, qualcuno
moriva all’improvviso per una malattia grave,
fulminante e misteriosa. Si trattava perlopiù di uomini
giovani e forti il cui comportamento, per qualsiasi
motivo, era dispiaciuto al Comandante. Morivano, e
venivano sotterrati in gran segreto, dopo che il sole
era calato, in uno spiazzo abbastanza lontano, dove
nessuno s’azzardava a mettere piede. La maggior parte
degli haitiani erano atterriti dalla morte e dai
cimiteri.
Nella baia poco lontana da dove lei e
il suo amante bianco consumavano i loro incontri segreti
, qualcuno asseriva di aver visto una grande nave
ancorata al largo, e una barca a remi avvicinarsi alla
spiaggia e caricare un piccolo gruppo di uomini in
catene. Uomini dagli sguardi spenti, dai movimenti lenti
e stanchi. Morti viventi. Zombi. I gusci vuoti di
coloro che, pochi giorni prima, un repentino attacco di
febbre perniciosa aveva tolto dal mondo nel fiore dell’età,
della forza e della salute. I testimoni involontari di
quella mostruosità avevano taciuto, per paura di fare l’identica
fine dei poveretti…Biassou fabbricava gli zombi,
quando voleva liberarsi di coloro dei quali non si
fidava più. E dalle sue malefatte, oltre al vantaggio
di rabbonire qualche spirito ribelle, traeva anche un
discreto tornaconto, vendendo gli infelici a certi
contrabbandieri che li deportavano nelle piantagioni di
cotone e tabacco del Continente.
Tutti sanno…E tutti tacciono. Aveva
pensato mordendosi le labbra. Sanno, sì. A modo loro.
Erano in pochi, in realtà, a conoscere il segreto di
quell’atroce imbroglio. Lei, Obregon…Oltre a quei
criminali di Biassou e dei suoi tirapiedi. Il maleficio,
denominato coup poudré* veniva perpetrato
soffiando in faccia alla vittima un veleno che si
ricavava dal pesce palla. Caduto in catalessi e
apparentemente morto, il poveretto era seppellito in
tutta fretta, come consigliavano il clima torrido e il
pericolo di epidemie. Ma la mattina successiva la fossa
era violata e vuota. E il cadavere vivente, perché le
stesse vittime del maleficio erano convinte di essere
divenute tali, rinchiuso nella fetida stiva di una
vecchia nave, veniva condotto a quel destino da cui
credeva di essersi liberato: la schiavitù.
-Forse ti riesce difficile crederlo,
Massimo.
-Ho vissuto mille vite e ne ho viste
di tutti i colori, Solitude. Non mi è difficile credere
anche in questo…E in altro, per quanto strano possa
sembrare. La tirannia favorisce l’ignoranza e questi
orrori è proprio nell’ignoranza che prosperano.
-Louverture…
-C’è un altro mondo, Solitude. Un
mondo della cui esistenza François Dominique Toussaint
Louverture era pienamente convinto.
-Sono contenta che lui viva ancora.
Ma mi dispiace che veda, senta e sappia a che cosa siamo
ridotti.
-Lui…Lui ha restituito la dignità
alla sua gente. E io…noi…non possiamo…
Solitude si districò dal suo
abbraccio, si avviò a lunghi passi decisi verso la
porta. Massimo la chiamò, avrebbe voluto trattenerla,
raccomandarle ancora una volta di non buttare via la sua
vita. Chiuse gli occhi. E rivide se stesso nelle segrete
del Colosseo, seminudo, ferito, incatenato, battuto ma
non vinto, muto e immobile di fronte al tiranno.
-Chacha! Sellami il cavallo!
-Non verrà. E’ morto stamattina.
Le rispose una vecchia dagli occhi
cisposi e dall’aria afflitta. Anche lui sarebbe stato
seppellito al tramonto, nello spiazzo non lontano dalla
baia. Anche la sua tomba sarebbe apparsa, all’alba del
giorno dopo, violata e vuota. Anche lui sarebbe finito a
raccogliere il cotone in qualche piantagione sul
Continente finché la morte, quella vera, non fosse
giunta a liberarlo.
* E’ detto così il maleficio
grazie al quale, secondo il cerimoniale vudù, sarebbe
possibile trasformare un essere umano in uno zombi, un
morto vivente. Il veleno del pesce palla essiccato
induceva la vittima in uno stato di catalessi della
durata di qualche ora, al termine della quale veniva
fatto ad essa credere di essere stata riportata indietro
dall’aldilà da qualcuno a cui, dal momento, avrebbe
dovuto ubbidienza cieca. Era uno dei sistemi usati dai
molti tiranni e dittatori, compresi i più recenti, i
famigerati Duvalier padre e figlio, che si sono contesi
il potere sull’isola, per indurre all’ubbidienza con
il terrore i loro sottoposti.
LA RESA DEI CONTI
Chacha e sua madre avevano sangue
Eboe dentro le vene. I bianchi non acquistavano
volentieri gli schiavi di quella razza, malgrado
fossero, in genere, forti sani e docili. Gli Eboe
avevano una curiosa predisposizione al suicidio dovuta
alle loro strane credenze. Erano convinti, dopo la
morte, di poter tornare in Africa. E i coloni mozzavano
spesso il naso, le orecchie o le mani dei suicidi per
evitare che altri ne seguissero l’esempio: nessuno
schiavo, infatti, sarebbe mai potuto risorgere con quei
segni di disonore. Il cadavere di Nina era stato
bruciato, e Chacha…Non sarebbe ritornato nel luogo da
cui era venuto, adesso che non era più un uomo.
-Biassou?
-Ti Bon Ange…Che vuoi?
L’aveva sempre chiamata così,
anche nel segreto dei suoi pensieri o quando, tra i fumi
dell’alcol, sognava di farla sua. Sognava, e non
osava. Era una strega, quella. Una strega che sapeva la
magia e vedeva aldilà delle cose, con quegli occhi che
avevano il colore dell’acqua e i bagliori dell’acciaio.
-Lo sai bene quello che voglio…Mait
Carrefour*
-Chacha? Era un mauvais sujet
quello.
Solitude scosse la testa. Un cattivo
soggetto Chacha? Quel povero idiota ubbidiente,
servizievole, che non si sarebbe lamentato neanche se
gli avessero ordinato di camminare sui carboni ardenti?
Chacha? E perché non lui, con le sue dannate polverine,
lui, che vendeva i suoi simili, che si ubriacava come
una bestia e perdeva il controllo e la dignità?
-Sono venuta a chiederti il conto di
tutto, Ghede…**
Biassou sorrise. Era venuta a
chiedere il conto. Quale conto? Chacha? Quel pezzo di
bue che non capiva niente e doveva accucciarsi per
pisciare?Anche lui le avrebbe presentato il suo, allora.
Chi si credeva di essere, perché sapeva scrivere, aveva
la pelle chiara e faceva tutto quello che le altre donne
non fanno? Le donne non sparano, non cavalcano e non
tirano di spada. Le donne…
Si alzò dalla sedia, le si parò di
fronte. Era più basso di lei, ma forte abbastanza da
atterrarla, da stapparle i vestiti di dosso e
cacciarglielo dentro finchè non avesse smesso di
dibattersi e di urlare e avesse cominciato a dimenare i
fianchi e a gemere per il piacere. Non aveva niente,
quel francese, che lui non avesse, si ritrovò a
pensare.
-Mi hanno detto che te la intendi con
il prigioniero.
-Non sono affari che ti riguardano.
-Ah. Non sono affari che mi
riguardano. Quello ci porterà tutti quanti in bocca ai
cani di Rochambeau e questi non dovrebbero essere affari
che mi riguardano, dannata puttana…
Solitude scosse la testa. E tu dove
ci stai portando? Nella piantagioni sul Continente, a
quella schiavitù dalla quale Louverture ci aveva
liberati? Tra finire dinuovo schiava o sepolta nello
stomaco di quei cani non so davvero che cosa preferirei.
-Lui non è con i francesi. E’ con
Louverture. E Louverture non ammetterebbe quello che
stai facendo.
Biassou aveva la bocca piegata da una
smorfia amara e gli occhi arrossati dalla tafià.
Era grottesco e ripugnante, pensò Solitude
districandosi dal suo abbraccio. Era tutto quello che il
suo ex padrone, un colono rozzo e crudele, aveva fatto
di lui. Ed era forte come un toro, malgrado fosse
sbronzo. Forte e violento. Con un braccio riuscì a
bloccarla e con la mano libera a stracciarle la casacca.
Non è giusto, le disse con voce impastata mentre le
brancicava i seni, che sia un bianco a godersi le più
belle tette di Haiti.
Massimo non aveva fatto in tempo a
insegnarle abbastanza, pensò la donna. Si era sempre
rammaricata di non essere tanto forte da riuscire a
fronteggiare fisicamente l’assalto di un uomo. Era
finita a terra, e il corpo muscoloso di Biassou le
gravava sopra. Non avrebbe implorato pietà da lui,
pensò mentre questi le mordeva il capezzolo, e non per
farla godere come un amante, solo per farle male.
Solitude strinse i denti, mentre lui
le stracciava di dosso i calzoni. Non gli avrebbe dato
la soddisfazione di guardarla implorare pietà, tremare
di paura. Anche se sapeva che, con ogni probabilità,
Biassou non si sarebbe accontentato di fare di lei uno zombi:
l’avrebbe uccisa. Dopo aver abusato di lei in tutti i
modi. Dopo averla gettata in pasto ai suoi scherani
quando ormai si fosse ridotta a un nulla rotto, gemente,
livido e insanguinato.
Teneva sempre uno stiletto nascosto
nel gambale. Da quando, a quindici anni, era scappata
dalla Grand Maison del marchese De La
Fère. Lo stesso stiletto che era costato la vita a
Benoit, il suo fratellastro. E che sarebbe costato la
vita a quel mostro di Biassou. Riuscì a sfilarlo…Ma
Biassou era un combattente d’esperienza e non si
lasciò sorprendere. Le torse il polso, la disarmò. Si
impadronì del pugnale e glielo puntò contro. Lei
riuscì a rotolare via ma non a evitare il fendente, che
le aprì un’ampia ferita sul costato, sotto il seno
sinistro. Le avrebbe trafitto il cuore, pensò, se la
croce e il ciondolo di Louverture non avessero deviato
la punta della lama.
Sicuramente quella ferita non era
mortale ma poteva diventarlo se l’emorragia le avesse
tolto le forze, si ritrovò a pensare in quel lampo d’
istante in cui vide la lama calare di nuovo. Questa
volta, lei fu più veloce del colpo di Biassou. Ma ci
sarebbero stati altri colpi, e intanto le forze venivano
meno con il fluire inarrestabile del sangue. Non era
passato molto tempo dacchè Massimo le aveva parlato
della sua prima vita e di un vecchio saggio che veniva
dal Paese della Seta, che gli aveva insegnato a
trasformare il suo corpo in un’arma micidiale.
Colpisci con violenza il collo di un uomo con il taglio
della mano e gli romperai i vasi che portano il sangue
al cervello. Morirà all’istante…
Solitude guardò il corpo di Biassou
contorcersi per un attimo negli spasimi dell’agonia.
Si alzò, barcollò fino all’imboccatura della
baracca, gli occhi folli, gli abiti stracciati
impregnati di sangue. Vi ho liberati tutti quanti dalla
paura, bisbigliò a se stessa, prima di schiantarsi a
terra come una giovane palma abbattuta dall’uragano.
*Demone malvagio che custodisce i
cimiteri.
**Lo stesso di Mait Carrefour.
EPILOGO
Quando emerse dal torpore, vide il
viso di Massimo chino su di lei e comprese che non era
morta. Sei stata male, ho avuto paura per te…Le disse
stringendole la mano. Ma adesso è finita. Tu sei salva.
Chacha è salvo. E in quanto ai complici di Biassou…
Ho dato ordine che venissero passati per le armi.
Le dita fredde e sottili di Solitude
strinsero le sue. Non so, gli disse con un filo di voce,
quanto resterai. Il destino ti porterà lontano, questo
è certo. A quelli come te il mondo non basta. Ma
finchè…
-Finchè la vostra libertà e la
vostra vita saranno in pericolo, resterò qui a
difendervi. C’era un uomo, che ho conosciuto poco
tempo fa, al quale devo qualcosa. Si chiamava François
Dominique Toussaint Louverture. Il suo sogno si chiamava
libertà… e non è giusto che rimanga un sogno.
Fine
Lalla, 29 aprile 2003