Le Fan Fiction di croweitalia

titolo:  Si Vis Pacem, Para Bellum prima parte - (leggi la seconda parte)
autrice: Ilaria Dotti
e-mail: droit_et_loyal@telvia.it
data di edizione: 13 dicembre 2001
argomento della storia: Massimo Decimo Meridio
riassunto breve: Questa storia appartiene al genere del “Che cosa sarebbe successo se……?” : che cosa sarebbe successo se non fossero stati i mercanti di schiavi a trovare Massimo svenuto sulle tombe dei suoi cari?
lettura vietata ai minori di anni: 
note:  Questa storia non fa parte della serie di racconti che ho pubblicato finora, ma può eventualmente essere considerata un sequel ‘alternativo’ di Tempus Fugit e di tutti i racconti che lo precedevano. (Ilaria) - per leggere altre storie scritte da Ilaria, consulta l'elenco delle fanfic qui

 

SI VIS PACEM, PARA BELLUM

(Se vuoi la pace, prepara la guerra)

 

di Ilaria Dotti

 

Prima Parte: Aria e Polvere

I

"Più veloce, più veloce!" ordinò la donna e il conducente del carro obbedì frustando i cavalli.

Le colline di Trujillo si estendevano a perdita d'occhio tutt'intorno, ma Rea non le vide nemmeno, la sua attenzione concentrata su di un unico obiettivo.

Quando giunsero al punto dove una strada privata si dipartiva da quella principale Rea alzò la mano e subito il carro rallentò fino ad arrestarsi, imitato dai sei cavalieri che costituivano la sua scorta.

Rea fissò la colonna di fumo nero e denso, troppo alta per essere originata da un falò e mormorò, "Siamo arrivati troppo tardi."

La comitiva imboccò il viale e lo percorse lentamente. Ben presto gli ordinati vigneti e i lussureggianti campi di grano e orzo lasciarono posto alla terra bruciata e agli scheletri di poveri alberi ancora avvolti dalle fiamme. Qua e la erano visibili le forme contorte e carbonizzate di alcuni cadaveri. Rea si sentì invadere dallo sconforto, mentre lei e i suoi uomini avanzavano tra quello scenario di morte e distruzione. Il fronte dell'incendio era troppo vasto per essere stato causato da un focolaio lasciato incustodito e la posizione di alcuni cadaveri faceva intendere che quelle persone erano già morte prima che le fiamme li avviluppassero.

L'attenzione di Rea fu attratta dalla carcassa di un cavallo. La povera bestia giaceva su di un mucchio di sabbia, in una zona annerita dalle fiamme, ma essa era ancora integra, segno che l'animale vi era stramazzato dopo che il fuoco aveva distrutto quel campo. Il sauro recava tutti i segni di essere morto di sfinimento, il manto ricoperto da sudore secco come se qualcuno lo avesse spinto al limite delle sue forze per raggiungere quella casa.......

Un brivido le corse per la schiena nonostante il tremendo calore che la circondava e Rea ordinò ai suoi uomini, "Sparpagliatevi e cercate ovunque: potrebbe esserci qualche superstite."

"Come desideri, domina" risposero i servitori e si allontanarono.

La donna fece cenno al conducente del carro di avanzare fino alla piccola altura dove, circondata da alti pioppi, sorgeva la villa padronale.....o almeno quello che ne era rimasto: travi bruciate, un camino, i muri maestri.

Rea chinò la testa e si asciugò le lacrime con un gesto quasi di rabbia. Conosceva bene la gente che abitava in quella villa, anche se non li aveva mai incontrati. Le parole di suo fratello avevano fatto sì che quella famiglia sconosciuta entrasse a far parte della sua vita e ora sia lui sia loro erano morti.....

Un grido interruppe le sue riflessioni, "Domina, abbiamo trovato un uomo ancora vivo!"

Rea sollevò di scatto la testa e senza attendere l'aiuto del conducente scese dal carro. Sollevate con le mani i bordi della sua tunica avanzò con rapidità verso il punto da cui era provenuto il grido.

Ciò che vide le fece stringere il cuore.

Il corpo dell'uomo giaceva sdraiato a pancia sotto vicino a due mucchi di terra che avevano tutta l'aria di essere due sepolture. L'uomo sembrava voler abbracciare le due montagnole, che Rea notò essere l'una più piccola dell'altra, come se ricoprisse il corpo di un bambino.....Due piccoli mazzi di fiori viola erano stati posati amorevolmente sulla sommità dei cumuli.

Rea si avvicinò all'uomo, notando la sua tunica rosso scuro, e si chinò su di lui, posandogli una mano sul collo. Il battito cardiaco era affrettato e la pelle era calda e umida. Spostò la mano a toccargli la fronte e poi disse ad uno dei suoi accompagnatori, "Quest'uomo ha la febbre alta; fai venire qua il carro, dobbiamo portarlo via il più in fretta possibile." Il servo annuì e si allontanò di corsa.

Rea si rivolse ad un altro dei suoi accompagnatori, "Aiutami a voltarlo."

Quando l'uomo svenuto fu girato sulla schiena e Rea lo poté guardare in viso capì subito di chi si trattasse. Non lo aveva mai visto prima, ma sapeva di stare fissando il volto del generale Massimo Decimo Meridio. Le descrizioni di suo fratello e la sua tunica da soldato lo rendevano inconfondibile.

Mentre lo fissava Rea si chiese quale fosse la causa della sua febbre....finché non notò lo strappo della tunica lungo la manica sinistra. Scostò il tessuto con delicatezza ed un esclamazione inorridita le sfuggì dalle labbra quando vide la brutta ferita localizzata un poco più in alto del tatuaggio SPQR che tutti i legionari recavano vicino alla spalla. La ferita era infetta e sporca di terra e fuliggine, come del resto tutto il suo corpo.

Le mani, in particolare erano in condizioni pietose: gonfie, lacerate, con le unghie spezzate. Era tristemente evidente che il Generale aveva scavato le tombe dei suoi cari a mani nude, prima di crollare svenuto su di esse.

In quel mentre arrivò il carro e il corpo del Generale vi fu caricato con delicatezza sotto lo sguardo attento di Rea. La donna montò a sua volta sul veicolo e si sistemò a fianco al ferito.

"Due di voi rimangano qui e diano degna sepoltura a questa povera gente." disse ai suoi servi. Poi si rivolse al conducente del carro, "Torniamo a casa di corsa."

L'uomo annuì e frustò i cavalli.

II

La notte era calata da qualche tempo e la grande villa era addormentata.

Rea si avvolse uno scialle sulle spalle e percorse i pochi metri che separavano la sua camera da quella dove era alloggiato l'uomo che lei era certa essere il generale Massimo Decimo Meridio.

Aprì la porta senza fare rumore e si avvicinò al letto.

Il ferito giaceva supino, il suo sonno finalmente tranquillo dopo quattro notti e tre giorni passati ad agitarsi e ad urlare in preda al delirio.

Rea controllò la fasciatura al braccio sinistro e si ritrovò a sorridere: Galeno, suo medico personale e suo amico, era stato bravissimo, non solo a salvare la vita del soldato ma anche e soprattutto a riuscirci senza dover ricorrere all'amputazione del braccio. Galeno era rimasto al fianco del ferito notte e giorno, fino a che quel pomeriggio non le aveva annunciato con un sorriso stanco ma soddisfatto che l'infezione era stata debellata.....Dopo di che l'aveva salutata ed era andato a dormire.

Rea si sedette accanto al letto e passò una mano tra i capelli del malato.

"Dimmi, Generale, che cosa ti è successo? Perché sei corso qui dalla Germania con tanta urgenza da uccidere il tuo cavallo nello sforzo? Come facevi e sapere che la tua famiglia era in pericolo?"

L'uomo non rispose, ma del resto lei non si era aspettata che lo facesse. La sua curiosità avrebbe dovuto attendere, anche se si era già fatta un'idea di quello che poteva essere successo tra le fredde foreste del nord....

Rea chinò la testa e in quell'atmosfera tranquilla trovò alla fine il tempo di piangere suo fratello, cosa che non era ancora riuscita a fare: da quando i Pretoriani le avevano dato l'annuncio della sua morte lei non aveva più avuto un attimo di pace, fino a quel momento, in quella camera buia, vicino all'uomo che Marco aveva sempre considerato come un figlio.

*****

Massimo Decimo Meridio uscì piano piano dall'incoscienza attirato da uno strano suono. La sua mente annebbiata impiegò qualche minuto a rendersi conto che si trattava di qualcuno che stava piangendo vicino a lui. "Chi è? Perché piange?" pensò stancamente. Quindi aprì gli occhi.

Intorno a lui regnava l'oscurità della notte, rotta solo dai raggi lunari che filtravano dalla finestra. Massimo si guardò intorno. Quella stanza gli era sconosciuta.....dove si trovava? Che cosa era successo? Un movimento alla sua destra attirò la sua attenzione e lui voltò la testa. Quel piccolo gesto gli costò una fatica spropositata ma gli permise di vedere la persona che gli era accanto.

Si trattava di una donna dai lunghi capelli castani striati di grigio. Massimo aggrottò la fronte e si chiese, "Chi è?" Quindi chiuse di nuovo gli occhi e si sforzò di ricordare.

*

Rea sollevò la testa e si asciugò le lacrime dal viso. Non sapeva per quanto tempo avesse pianto, ma ora si sentiva meglio, anche se era esausta.

Si alzò dalla sedia, sistemò meglio il lenzuolo sul petto del ferito e mormorò, "Riprenditi presto, Generale, non vedo l'ora di conoscerti. Mio fratello mi ha parlato molto di te."

Dopo di che si voltò e fece per andarsene ma una debole voce l'arrestò all'istante.

"Fratello?"

Rea ruotò su se stessa e tornò affianco del letto. I suoi occhi incontrarono quelli del ferito e lei sorrise, "Bentornato tra noi Generale!"

"Generale? Ah, sì è vero sono un generale." Massimo pensò, mentre la donna si chinava su di lui, dandogli la possibilità di osservarla meglio. Doveva avere almeno una cinquantina d'anni ma il suo viso conservava ancora delle tracce della bellezza che doveva essere stata da giovane. I suoi lineamenti erano fini, aristocratici e i suoi occhi dovevano essere chiari, anche se era difficile dirlo nell'oscurità della stanza.

"Come ti senti?" chiese lei.

Massimo rispose con sincerità, "Confuso. Dove sono? Chi sei tu?" la sua voce si era fatta più forte, ma mancava del timbro deciso che normalmente la contraddistingueva.

"Ti trovi in Hispania, Generale Massimo, e io sono Rea Aurelia Vera, sorella dell'imperatore Marco Aurelio." Rea sperava che le sue parole avrebbero aiutato Massimo a debellare la sua confusione ma il risultato fu diverso.

Il Generale aggrottò la fronte e disse "Marco Aurelio? Chi è? E che cosa ci faccio in Hispania? Dovrei essere in Germania, a combattere i barbari......Come sono arrivato qua? Che cosa mi è successo?" La sua voce si era fatta ansiosa e lui guardò Rea mentre i suoi occhi si riempivano di terrore. "Perché non riesco a ricordare?"

Rea strinse i denti. Che cosa stava succedendo? Cercò di tranquillizzarlo come meglio poteva. "Sei stato ferito ad un braccio e hai avuto la febbre alta per molti giorni. Probabilmente è per questo che non riesci a ricordare, la tua mente è ancora sconvolta dal delirio." Rea si interruppe e vide che le sue parole avevano avuto l'effetto sperato: il viso del Generale si era rilassato e lui annuì rassicurato. Quella donna aveva ragione. Doveva aver ragione.

"Sono così stanco," mormorò, "e la testa mi duole molto."

Rea sorrise e prese una coppa dal comodino. "Questo ti aiuterà." disse e aiutò Massimo a bere il decotto che Galeno aveva lasciato pronto nel caso il Generale avesse ripreso i sensi.

Massimo vuotò il contenuto della coppa e poi riadagiò la testa sul cuscino.

La pozione ebbe un rapido effetto e nel giro di pochi minuti si riaddormentò.

Rea rimase a fissarlo, preoccupata per la sua amnesia, chiedendosi se il prolungato delirio non avesse danneggiato la sua mente. La donna alzò gli occhi al cielo e mormorò una preghiera agli dei affinché guarissero Massimo. Il sogno di suo fratello e il destino di Roma erano nelle sue mani.

III

"Dimmi Galeno, com’è possibile che un uomo possa ricordare il suo nome e niente altro?" domandò Rea mentre insieme al medico osservava Massimo passeggiare per il giardino della villa. Erano passati quattro giorni dal suo risveglio e Galeno gli aveva consigliato di stare all'aria aperta il più possibile, per godere dei benefici effetti del sole.

"La mente dell'uomo cela più misteri dei profondi abissi, Rea." le rispose il suo amico, un uomo alto e distinto con un marcato accento greco," Però, se vuoi la mia opinione, io credo che l'amnesia del Generale sia auto-indotta."

"Cosa?" esclamò stupita la nobildonna.

"Oh, lui non lo sta facendo di proposito, è la sua mente, la parte più nascosta della sua anima che non vuole ricordare."

"Ma perché?"

"Non è difficile formulare un'ipotesi. Tu stessa mi hai detto di averlo trovato svenuto vicino alle tombe di sua moglie e suo figlio....Io credo che lui non voglia ricordare questi eventi perché non vuole affrontare il dolore che ad essi si accompagna. La sua disperazione deve essere così grande che il suo cervello si rifiuta di accettarla, e così ha approfittato della malattia per cancellare la tragedia dalla sua memoria."

Rea annuì, la cosa aveva senso. "Per quanto tempo potrà durare questa situazione?"

Galeno scosse la testa, "E' difficile fare delle previsioni in questi casi ma secondo me non durerà ancora per molto. Ricordi così brutti non possono essere cancellati e presto riaffioreranno. Le sue continue emicranie e i suoi incubi notturni ne sono la prova. Presto o tardi un suono, una parola, un profumo o qualche oggetto familiare faranno scattare in lui qualcosa e allora tutto gli tornerà in mente."

Rea annuì ancora."Speriamo che succeda presto. Roma ha bisogno di lui."

Galeno le lanciò un'occhiata curiosa ma lei non aggiunse altro.

*****

Massimo stava camminando per il giardino, cercando di rilassarsi e di scacciare il mal di testa che da giorni era il suo inseparabile compagno. Il Generale si sentiva stanco e confuso e con le passeggiate cercava invano di trovare un po' di pace. La sua amnesia lo teneva in uno stato di continua preoccupazione. Galeno lo aveva rassicurato dicendogli che si trattava di una cosa temporanea ma a Massimo la cosa non piaceva lo stesso e lui passava ore a sforzarsi di ricordare.

Mentre stava ammirando la bella fontana che si trovava nel cortile, un odore dolciastro, molto particolare, raggiunse le sue narici portato dal vento e lui si fermò ad annusare meglio l'aria.

Quell'odore era familiare......era profumo di gelsomino. Massimo sorrise: il gelsomino gli faceva sempre pensare a casa sua. Casa sua? Il Generale lanciò un'occhiata alla grande villa grigia e seppe con certezza che quella non era casa sua. La sua villa era più piccola, più semplice, in pietra rosa...

L'immagine si formò chiara nella sua mente per essere però subito sostituita da altre: muri diroccati ed anneriti dal fumo...travi incenerite....cadaveri carbonizzati dalle forme contorte...due corpi inchiodati a delle croci......Selene......Marco...

I ricordi piombarono su di lui come l'onda di un fiume in piena e Massimo si sentì sopraffare dal dolore mentre tutto gli tornava alla mente: l'ultima conversazione con Marco Aurelio, la morte dell'imperatore, il tradimento di Quinto, la sua corsa forsennata attraverso la Germania e la Gallia, la scoperta della sua famiglia trucidata...

Massimo crollò in ginocchio, urlando al mondo e agli dei la sua disperazione. Le lacrime presero a scorrere copiose sul suo viso e il nodo alla gola si fece così stretto che respirare divenne quasi impossibile.

Una piccola folla, Rea e Galeno inclusi, si radunò subito attorno a lui, richiamata dal suo urlo animale e Massimo si sentì soffocare. Via, doveva andare via da lì....doveva tornare a casa. Si alzò in piedi, si guardò attorno con occhi spiritati e poi corse alle scuderie. Infilò la testiera al primo cavallo che vide, gli saltò in groppa e lo lanciò subito al galoppo.

Doveva andare a casa....a casa.

Rea e Galeno guardarono con occhi preoccupati Massimo allontanarsi e sparire tra gli alberi. Appariva chiaro ad entrambi che il Generale avesse riacquistato la memoria. I due amici si scambiarono uno sguardo.

"Che cosa possiamo fare? Che cosa dobbiamo fare?" domandò Rea al medico.

"Credi che stia andando a casa sua?"

"Penso di sì, in quale altro posto potrebbe andare?"

"Allora sarebbe meglio che qualcuno andasse a controllare che non commetta qualche atto irreparabile."

Rea annuì e disse, "Andrò io."

"Rea...." iniziò Galeno.

"Non cercare di fermarmi: mio fratello amava quell'uomo come un figlio e io non permetterò che gli accada qualcosa." E così dicendo si diresse rapidamente verso le scuderie.

IV

Massimo si aggirò tra le rovine di quella che era stata la sua casa barcollando come un ubriaco.

La sua mente sconvolta notò che mani pietose avevano raccolto e seppellito i corpi dei suoi servi, sottraendoli ai denti dei predatori. Raggiunse il grosso pioppo sotto cui aveva seppellito Selene e Marco e si inginocchiò, accarezzando dolcemente i due cumuli di terra. I suoi occhi erano asciutti - non aveva più lacrime da versare - e il suo cuore era sprofondato in abisso di dolore. L'unica cosa che voleva era raggiungere sua moglie e suo figlio e trovare con loro la pace che era certo non avrebbe mai più trovato in questa vita.

Un rumore improvviso ruppe l'innaturale silenzio che lo circondava. Massimo girò la testa e vide la donna che lo aveva aiutato. Era alle sue spalle, e lo fissava gravemente.

"Che cosa fai qui?" le chiese con una voce che non riconobbe come la sua.

"Sono venuta a controllare che tu non commetta qualcosa d’irreparabile." rispose lei con voce pacata.

"Non vuoi che mi uccida, eh? Non avrei bisogno di farlo, se tu mi avessi lasciato dove mi hai trovato. L'infezione avrebbe fatto il suo corso e tutto sarebbe finito in poco tempo."

"Forse. O forse no. I mercanti di schiavi nord africani si aggirano spesso da queste parti e se ti avessero trovato loro, chi può dire che cosa sarebbe stato di te?"

Massimo scrollò le spalle. Che cosa gliene importava di quello che avrebbe potuto succedergli? Lui era morto nel momento in cui aveva scoperto i suoi cari bruciati e crocifissi. Tutto il resto, la casa, la sua fama, la sua vita, non erano altro che aria e polvere, nulla di più.

Il Generale voltò la testa, "Ti ringrazio per ciò che hai fatto per me ma ora lasciami solo."

"Solo se mi prometti che non commetterai qualche sciocchezza." rispose Rea decisa.

Massimo si alzò di scatto, invaso dalla rabbia, "Ma che t'importa di me?" urlò.

"Mio fratello ti amava e io non permetterò che ti succeda qualcosa, non me lo perdonerei mai."

"Tuo fratello?"

"Marco Aurelio, non ricordi? Ne abbiamo parlato subito dopo il tuo risveglio." la voce di Rea era calma, suadente.

Massimo annuì, ricordando. Marco Aurelio gli aveva parlato spesso di sua sorella, durante le loro innumerevoli conversazioni durante le lunghe notti germaniche. Al pensiero dell'imperatore Massimo si sentì invadere dalla colpa....Non era riuscito a salvarlo, come non era riuscito a salvare la sua famiglia.

"Come fai a sapere che è morto?"

"Una squadra di Pretoriani è venuta ad avvisarmi..." Rea si morse le labbra, indecisa se continuare o no, poi proseguì, "Io temo che fossero gli stessi uomini mandati a compiere questo scempio."

Massimo annuì ancora e poi chiese, "Tu sapevi che questa è...era la mia casa?"

"Sì, Marco Aurelio me la indicò l'ultima volta che venne a trovarmi, circa un anno fa. Quando i pretoriani mi hanno annunciato la sua morte e mi hanno recato i saluti del nuovo imperatore ho capito che c' era qualcosa che non andava e conoscendo Commodo, mi sono precipitata qui.....Purtroppo era troppo tardi."

Massimo la guardò e domandò, incuriosito suo malgrado, "Perché sei venuta qui? Perché sapevi che c'era qualcosa che non andava?"

"Perché io sapevo che Marco non voleva che Commodo gli succedesse - aveva in mente un altro uomo come erede." Rea si interruppe un istante e guardò la sua reazione. "Il fatto che invece mio nipote fosse sul trono e che una squadra di venti pretoriani fosse da queste parti era la prova evidente che qualcosa era andata storta nei progetti di mio fratello."

Massimo la guardò, mentre l'indifferenza tornava ad avvolgerlo come un manto. Quella donna sapeva, ma che importanza poteva avere?

"Lasciami solo." le intimò ancora una volta e si allontanò.

Massimo camminò fino al frutteto, che le fiamme avevano miracolosamente risparmiato. Lì, fissata al ramo di un melo, vide l'altalena che aveva costruito per suo figlio l'ultima volta che era stato a casa. Era molto semplice, due funi fissate ad un asse di legno ma per Marco era stato un dono speciale perché suo padre gli aveva permesso di aiutarlo mentre la costruiva. Massimo sorrise, ricordando la gioia del suo bambino quando era salito sull'altalena per la prima volta, e sfiorò una delle corde con mano amorevole. Sarebbe stato così facile staccarla dall'asse, farne un cappio, avvolgersela intorno al collo e farla finita con il mondo e con il suo dolore. Ma Massimo sapeva che non l'avrebbe fatto, che non poteva farlo. Qualcosa in lui glielo impediva. Non era mai stato un codardo e non avrebbe incominciato ad esserlo proprio adesso.

Onore.

Dovere.

Sua moglie, suo figlio, Marco Aurelio stesso erano morti per onore e per dovere....Non poteva permettere che il loro sacrificio fosse stato vano. Non poteva permettere che Commodo continuasse a regnare e condannasse altre persone al dolore e alla disperazione a cui aveva condannato lui. No, non poteva permetterlo e non glielo avrebbe permesso. Il soldato dentro di lui rialzò la testa. Era stanco, amareggiato, ferito e disperato ma non era battuto. Avrebbe lottato fino alla fine, con tutte le sue forze.

"Io servirò sempre Roma." Quelle parole presero a riecheggiargli nella mente mentre con passo deciso si diresse verso il luogo dove aveva lasciato il cavallo.

Rea era lì ad attenderlo insieme al conducente del suo carro. Lo vide avvicinarsi, il passo cadenzato, il portamento fiero, lo sguardo indurito.

"Andiamo via." le disse, le ordinò. "Qui non c'è più niente per me." E si allontanò senza più voltarsi indietro.

Rea annuì e lo seguì.

V

 

Quella sera dopo cena Massimo e Rea si chiusero nella biblioteca, ordinando ai servi di non disturbarli per nessuna ragione.

Dopo alcuni attimi di silenzio in cui si fissarono negli occhi come per valutarsi a vicenda Rea esordì, "Come è morto mio fratello?"

"Commodo lo ha ucciso. Probabilmente lo ha soffocato." rispose Massimo, la voce priva di emozione, il volto una maschera inespressiva.

Rea sospirò. "Sospettavo che fosse successa una cosa del genere. Perché ha fatto uccidere la tua famiglia?"

"Perché ho rifiutato di giurargli fedeltà." Ancora una volta la sua voce risultò fredda e impersonale.

"Oggi pomeriggio, quando ho accennato al fatto che Marco Aurelio avesse scelto un altro uomo come erede, non ho visto alcuna sorpresa sul tuo volto. Posso dedurne, Generale, che mio fratello ti avesse detto che tu eri quell'uomo?"

Massimo annuì, "Me lo disse il giorno in cui morì."

"E tu cosa gli rispondesti?"

"Che avevo bisogno di tempo per decidere."

"Ma non hai avuto il modo di comunicargli la tua decisione, non è vero?"

"Esatto."

"E quale sarebbe stata la tua decisione?"

Massimo strinse gli occhi, "Avrei fatto ciò che Cesare mi aveva chiesto di fare."

"E ora che Cesare è morto?"

"Lotterò affinché le sue ultime volontà siano esaudite. E' il mio dovere."

Rea annuì, approvando le sue parole anche se dentro di se sentiva che c'era qualcosa che non andava nel comportamento del Generale. Nelle sue lettere Marco Aurelio le aveva sempre descritto Massimo come un uomo dalle profonde emozioni e dai forti sentimenti. Un uomo che non aveva paura di mostrare ciò che provava. Ma quella descrizione non si adattava all'uomo seduto di fronte a lei: nei suoi occhi e nel suo viso non c'era alcuna traccia di quei sentimenti. Ma forse, considerata la tragedia che aveva appena subito, quel comportamento, quell'assenza di emozioni era prevedibile e naturale.

Rea tornò al presente "E come pensi di riuscirci Generale?"

"Non lo so ancora, ma so che servirò sempre Roma, in un modo o nell'altro. Marco Aurelio mi disse che Commodo non poteva regnare, che non doveva regnare.....E non regnerà." Gli occhi del Generale fiammeggiarono pieni di rabbia.

"Bene, io ti aiuterò."

Massimo la guardò "Mi aiuterai anche se questo comporterà la morte di tuo nipote? Perché io lo ucciderò, fosse l'ultima cosa che faccio."

Rea annuì decisa "Anch'io, come te e mio fratello ho sempre servito Roma. L' ho servita sposando un uomo che non amavo affinché il trono di Marco fosse più sicuro e la servirò liberandola da un tiranno. Anche se si tratta di un membro della mia famiglia." Detto questo la donna si alzò e si avvicinò ad uno scrittoio dove era posato un piccolo porta gioielli. Rea tirò fuori una chiave che teneva legata al collo come un ciondolo e aprì il cofanetto, estraendone una lettera sigillata. Poi tornò a sedersi e continuò, "Quando Marco venne a trovarmi per l'ultima volta, aveva già deciso che Commodo non avrebbe dovuto succedergli e che tu eri l'uomo destinato a prendere il suo posto. Come ben sai mio fratello era un uomo previdente e nell'eventualità che potesse succedergli qualcosa, prima di partire per tornare in Germania, mi lasciò in custodia queste lettera con l'incarico di consegnartela."

E senza aggiungere altro gliela mise il mano.

Massimo ruppe i sigilli e spiegò due fogli di papiro, vergati con calligrafia chiara e precisa dell'imperatore, sfiorando con la punta delle dita i segni lasciati da quelle vecchie e sagge mani.

Poi cominciò a leggere il primo foglio.

VI

Mio caro Massimo,

quando riceverai questa lettera io sarò morto. La mia speranza è che prima di morire io abbia avuto la possibilità di parlarti di persona e che queste righe non siano più necessarie, ma se così non fosse, spero che quanto segue possa aiutarti a portare a compimento l'ultimo incarico che voglio affidarti.

Amico affettuoso e suddito leale, spero che tu sappia quale conforto sia stato per me l'averti avuto accanto in tutti questi anni e sono certo che in questo momento tu stia piangendo per me. Non farlo, Massimo, ma invece gioisci: il posto dove mi trovo ora è sicuramente più tranquillo e pacifico del mondo che ho lasciato e qui potrò dedicare più tempo alla mia amata filosofia. Guidare Roma e l'impero sono stati il mio onore e il mio onere per vent'anni e io ho sempre cercato di fare ciò che era giusto per il bene del mio popolo, per quanto difficile o doloroso fosse. E ora che sento avvicinarsi la fine sempre più spesso sento in me l'ansia per il futuro.

Oh, non ho paura di morire. La morte sorride a tutti, un uomo non può far altro che sorriderle di rimando. No, quello che mi preoccupa è il futuro di Roma dopo che me ne sarò andato. E' la corruzione che vi si è diffusa che mi preoccupa, che mi angustia, che non mi lascia dormire la notte. La corruzione deve essere fermata o l'impero sarà roso dall'interno, come un pezzo di legno dai tarli. Ormai da qualche tempo mi sono reso conto che mio figlio Commodo non potrà cambiare questo stato di cose perché lui stesso è corrotto e nel modo peggiore, nella sua anima. La colpa di ciò è mia, non sono stato un buon padre: ho servito Roma sacrificando la mia famiglia sull'altare del dovere e ora ne sto pagando il prezzo. Lucilla è diventata una donna forte e giusta anche senza il mio aiuto ma disgraziatamente è una donna e suo figlio Lucio è solo un bambino, e io non posso scaricare su di loro il peso del potere e dell'inevitabile scontro con Commodo.

No, Massimo, c'è solo una persona che può riuscire nell'impresa di sconfiggere la corruzione e quella persona sei tu.

Tu sei forte, giusto, nobile nel cuore e nello spirito. Non ti chiedo di diventare imperatore, so che per te non sarebbe un onore ma una condanna. No, ti chiedo di diventare il Protettore di Roma dopo la mia morte e di sovrintendere alla sua trasformazione da Impero a Repubblica cosicché il potere possa tornare al popolo. Una volta che il potere sarà nuovamente nelle mani del Senato, tu potrai tornare dalla tua famiglia.

Ti prego Massimo, ascolta questa mia supplica, tu sei l'unico di cui mi fido. Ti prego di servire ancora Roma come hai fatto per tutta la vita. So che quello che ti chiedo è tanto, forse troppo, ma ti prego in ginocchio, accetta quest’ultimo incarico, solo così la mia anima avrà la pace che cerca.

Che gli dei ti assistano e ti aiutino sempre.

Ad in perpetuum ave atque vale, figlio mio

Marco Aurelio Antonino

Massimo ripiegò il foglio e lo ripose poi si concentrò sul secondo papiro che al contrario del primo non era una lettera ma un documento pubblico redatto con tutti i crismi dell'ufficialità

Esso diceva:

Io, Marco Aurelio Antonino Augusto, Cesare ed Imperatore di Roma, Padre della patria, con questo documento ordino che alla mia morte il posto alla guida dell’Impero sia preso da Massimo Decimo Meridio, comandante dell Esercito del Nord e Generale delle Legioni Felix.

Ad egli io conferisco con quest’atto, il titolo di Protettore di Roma che egli potrà conservare per un tempo indefinito. Ad egli spetterà il compito di trasformare Roma da in impero a repubblica. I tempi e le modalità di questa trasformazione saranno a sua unica discrezione e il Senato dovrà seguire le sue direttive.

Egli avrà inoltre il completo controllo dell'esercito e chiunque dovesse osare ribellarsi alla sua autorità dovrà essere considerato un traditore della Patria.

Ai membri della mia famiglia spetteranno tutti i miei possedimenti personali ed una congrua parte di quelli imperiali e la possibilità di mantenere i propri titoli ma non potranno avanzare alcuna pretesa sul trono.

Queste sono le mie volontà per il bene di Roma, da sempre il mio unico pensiero e scopo di vita.

Affido quest’atto nelle mani di mia sorella Rea Aurelia Vera affinché lo consegni nelle mani del Generale Massimo Decimo Meridio in caso di mia morte improvvisa.

Che gli Dei proteggano sempre Roma.

Hispania, anno 932 ab Urbe condita, terzo giorno prima delle calende di ottobre.

 

Massimo sollevò lo sguardo e passò il foglio a Rea che lo lesse velocemente. I due si scambiarono una occhiata.

"Dobbiamo rientrare a Roma il più presto possibile e mostrare questo documento al Senato, prima che Commodo possa conquistarsi il favore del popolo." disse il Generale.

"Darò immediate disposizioni per la partenza. Io di solito trascorro in Hispania tutta l'estate ma, viste le circostanze, nessuno si stupirà del mio ritorno improvviso."

Massimo annuì approvando, poi si alzò e andò alla finestra. Guardando fuori, alzò lo sguardo verso il cielo e pensò "Padre, il tuo sogno non morirà con te, te lo giuro."

 

Seconda Parte: il sogno che era Roma

I

Il grande mausoleo era freddo nonostante il clima fosse mite. Rea percorse il pavimento di marmo verde fino ad arrivare davanti alla tomba più recente, dove erano conservati i resti mortali di suo fratello, l'imperatore Marco Aurelio. Inginocchiatasi davanti ad essa cominciò a pregare.

Un rumore alle sue spalle attirò la sua attenzione e lei voltò lentamente il viso.

C'era qualcuno con lei nella stanza e lei lo riconobbe subito. Commodo.

Rea fece un profondo respiro e si alzò in piedi, avvicinandosi a suo nipote.

L'imperatore rimase fermo ad aspettarla, il viso serio e adatto al luogo solenne dove si trovavano.

Rea si avvicinò e si inchinò davanti a lui, "Cesare." disse in tono rispettoso.

Commodo sorrise nel vedere la sua orgogliosa zia inchinarsi davanti a lui e poi recitando la parte del grazioso monarca le tese la mano e la invitò a sollevarsi.

Rea obbedì, baciò l'anello sulla mano che le fu porta, ma rimase a capo chino, non tanto in gesto di rispetto, quanto per il fatto che desiderava avere il pieno controllo delle sue emozioni prima di incrociare il suo sguardo con quello di Commodo.

Non voleva che lui potesse vedere l'ira che ribolliva dentro di lei.

"Mia cara zia Rea, ti prego solleva lo sguardo." esordì Commodo e Rea lo accontentò.

"Mi auguro che tu abbia fatto buon viaggio." continuò l'imperatore.

"Sì, Cesare, il viaggio è andato benissimo."

"Mi ha sorpreso sapere che tu non abbia preferito la via di terra ad una nave.”

Rea strinse i denti. Sembrava una domanda innocente ma con Commodo e la sua paranoia non si poteva mai sapere. Lei e Massimo avevano viaggiato via terra per evitare i rigorosi controlli che erano effettuati al porto di Ostia, ma così facendo avevano impiegato quasi due mesi per giungere a Roma, contro i pochi giorni che avrebbero impiegato se avessero preso una nave. "Cesare, la mia salute non è più quella di un tempo e il mio stomaco è così delicato che non riesce più a sopportare il movimento del mare."

Commodo annuì e desideroso di mostrare alla zia la sua città, la prese per un braccio e la condusse fuori del mausoleo. Appena furono all'aperto Commodo iniziò a parlarle dei festeggiamenti che aveva organizzato per onorare la memoria e la grandezza di suo padre e Rea dovette fingersi interessata e stupita per tanta magnificenza e per l'amore figliare messo in mostra dal nuovo Cesare.

"...e poi ho organizzato dei grandi giochi. Tutti i migliori gladiatori dell'impero vi parteciperanno e così.." Commodo si interruppe mentre un largo sorriso gli si dipingeva sul volto e animava i suoi freddi occhi verdi.

Rea seguì la direzione del suo sguardo e vide Lucilla dirigersi verso di loro.

"Sorella," esclamò entusiasta l'imperatore, " Guarda un po' chi ho trovato davanti alla tomba del nostro augusto genitore!"

Lucilla sorrise e si avvicinò a Rea, abbracciandola con calore. "Zia Rea, bentornata a Roma."

"Grazie, nipote mia. Come ti senti? Come sta il piccolo Lucio?" Rea domandò mentre la sua mente prendeva nota del viso tirato della giovane donna.

Lucilla si animò nel sentire il nome di suo figlio ma prima che potesse rispondere Commodo si intromise, "Lucio sta benissimo. E' un fanciullo molto acuto e i giochi dei gladiatori gli piacciono molto."

Rea spalancò gli occhi e lanciò un'occhiata a Lucilla. Che ci faveva un bambino di otto anni a vedere i giochi?

Lucilla vide la domanda negli occhi della zia e scosse la testa, inclinandola leggermente verso il fratello.

Rea annuì e disse a voce alta, "Spero, Cesare, che vorrai farmi l'onore di essere mio ospite una di queste sere. Ho assoldato un attore perché impari e ci reciti "I ricordi" di Marco Aurelio e pensavo di invitare nella mia domus alcuni filosofi per commentarli."

Come aveva previsto - e sperato - alla menzione della parola "filosofi", Commodo fece una smorfia disgustata. Rea sapeva quanto il nipote odiasse la filosofia.

"Cara zia, mi dispiace molto di dover rifiutare ma sono molto occupato in questi giorni. Come mio padre diceva sempre guidare l'impero non è cosa facile e io sto ancora imparando. Tuttavia sono certo che Lucilla sarà più che lieta di rappresentarmi."

Sua sorella annuì, "Certo che verrò zia Rea." e le lanciò un'occhiata carica di significato. Lucilla sapeva che Rea voleva parlarle lontano da suo fratello.

"Bene, allora è tutto sistemato. Ti aspetterò il giorno delle Idi." Poi tornò a rivolgersi a Commodo

"Se vuoi scusarmi ora, Cesare, sono molto stanca e vorrei tornare a casa."

Commodo, felice di essersi risparmiato una noiosissima serata in compagnia della zia, fu più che contento di concederle di congedarsi e Rea si allontanò, non prima di aver scambiato un altro sguardo di intesa con Lucilla.

Tutto procedeva secondo i piani.

II

Massimo mimò l'ennesimo affondo contro un immaginario avversario e poi posò il gladio su di una panchina di pietra, detergendosi il sudore dalla fronte con la manica della tunica. La primavera romana era calda e umida ma non era il clima a disturbare maggiormente Massimo, era l'inattività.

Da quando era arrivato a Roma, dieci giorni prima, non aveva fatto altro che dormire (male), mangiare (poco) e allenarsi (molto) con la spada per recuperare il tono muscolare perso durante la malattia e il lungo viaggio dalla Hispania. Ma ora incominciava a non essere più sufficiente. L'incontro con Lucilla organizzato Rea si sarebbe tenuto la sera successiva e Massimo era in preda all'ansia e all'impazienza. Rea gli aveva parlato del suo incontro con Commodo e Lucilla e gli aveva detto di aver trovato la nipote molto stanca e tesa. L'anziana donna era sicura che Lucilla si sarebbe schierata dalla loro parte, una volta messa al corrente delle ultime volontà di Marco Aurelio, ma Massimo non era così certo, anche se il ricordo del suo viso spaventato e rigato di lacrime la sera in cui suo padre era stato ucciso si insinuò nella sua mente. Ad ogni modo lui avrebbe fatto il suo dovere fino in fondo, con o senza l'aiuto di Lucilla.

Il Generale prese di nuovo in mano il gladio ma invece di sollevarlo in posizione di combattimento lo assicurò alla cintura e vi sistemò sopra la toga.

"Non ce la faccio più a stare chiuso in questa casa, " pensò mentre lasciava il giardino e rientrava nella domus. "Probabilmente andare in giro per Roma da solo non è la cosa più saggia da fare, ma le probabilità di essere riconosciuto da qualcuno sono davvero poche."

Attraversò l'atrio a grandi passi e lasciato detto ad uno schiavo di avvertire Rea della sua assenza, uscì dalla villa e cominciò a discendere il Viminale diretto verso il centro della città.

*****

La sua camminata lo portò verso la zona più bella dell'Urbe e nonostante il suo senso dell'arte non fosse molto rifinito, Massimo rimase affascinato dai templi, dalle basiliche e dalle statue delle divinità che vedeva attorno a sé. Quando arrivò ai piedi dell'Anfiteatro Flavio, il Generale rimase senza fiato: mai in tutta la sua vita aveva visto qualcosa di così imponente e maestoso. Non poté fare a meno di alzare lo sguardo verso la sommità dell'edificio mentre vi camminava intorno. Pochi momenti di distrazione e Massimo si ritrovò circondato da una folla urlante che spingeva e sgomitava per riuscire ad entrare nell'anfiteatro per assistere ai giochi offerti dall'imperatore. Massimo imprecò contro se stesso per la sua disattenzione e cercò di uscire dal flusso di persone in cui era rimasto incanalato ma si trattava di una battaglia persa così, alla fine, decise di rinunciare a lottare contro la marea umana e di prendere posto con essa sugli spalti.

 

*

Massimo si sedette sulla tribuna di marmo e si guardò intorno con curiosità. Il Colosseo era stracolmo di gente che invocava a gran voce l'inizio dei giochi.

"Giochi, " pensò disgustato il Generale, "come si possono definire "giochi" delle carneficine umane? Come si fa a considerare divertente vedere degli uomini uccidersi a vicenda?" Massimo scosse la testa: sapeva che Marco Aurelio aveva soppresso per alcuni anni i combattimenti a Roma ma che essi erano continuati nelle province e sapeva che Commodo li aveva riaperti per conquistarsi il favore di un popolo che non l'amava. Massimo fece una smorfia, "Mi chiedo che cosa farebbe il popolo se sapesse che per pagare i 150 giorni di giochi promessi, Commodo ha prosciugato le casse del tesoro imperiale e sta ora vendendo le scorte di grano della città. Alle prime avvisaglie di carestia il prezzo del pane andrà alle stelle e molta povera gente non sarà più in grado di permetterselo."

Il suo sguardo colse un movimento nell'arena e lui guardò verso il basso: una delle porte che immettevano nella grande elisse ricoperta di sabbia si era aperta e un gruppo di gladiatori vi fece il suo ingresso, salutato dal boato della folla. Si trattava di una ventina di uomini vestiti con delle tuniche blu, delle rozze corazze ed elmi dalle forme più disparate. Ognuno di essi aveva in mano una lunga lancia e uno scudo rettangolare, simile a quello in uso nell'esercito. I gladiatori avanzarono fino al centro dell'arena e si schierarono di fronte al palco imperiale.

Al grido ripetuto di "Cesare!", Commodo fece il suo ingresso nel Colosseo e andò a sedersi, salutando la folla con la mano.

"La carogna sembra raggiante." pensò Massimo con odio, mentre un sorriso crudele gli increspava le labbra, "Divertiti pure finché puoi, principe, perché il tempo per onorarti arriverà presto alla fine."

Guardando meglio il Generale vide che Commodo era accompagnato da altre persone tra cui riconobbe Quinto, Lucilla e un bambino che ritenne essere il figlio di lei, Lucio.

La sua attenzione tornò a concentrarsi sui gladiatori sotto di lui, che il maestro delle cerimonie annunciò come "orda barbarica di Annibale." Massimo riuscì a stento a trattenere uno sbuffo sprezzante. Ma quale orda barbarica?! Lui aveva visto decine di orde barbariche negli anni passati a combattere in Germania e quel patetico gruppo di poveri schiavi non aveva proprio nulla a che spartire con esse. Pochi istanti dopo un'altra porta si aprì e ne uscirono alcune bighe, con altri gladiatori chiamati ad impersonare i legionari di Scipione l'Africano, che cominciarono a percorrere l'anello esterno del campo di battaglia, tutt'attorno ai "barbari".

Il combattimento ebbe inizio e per gli uomini a piedi le cose volsero subito al peggio, poiché essi erano un facile bersaglio per le frecce dei “legionari”.

Suo malgrado Massimo si ritrovò coinvolto dallo scontro e si ritrovò a gridare come le persone che lo circondavano. Ma al contrario degli altri spettatori che incitavano i “legionari” al massacro, il Generale si schierò dalla parte dei “barbari” urlando loro a squarciagola "State vicini, state vicini! Unite gli scudi come un sol uomo, solo così potrete difendervi!" Purtroppo però le sue grida si persero nel clamore che lo circondava, mentre nell'arena i “barbari” soccombevano uno ad uno. Gli ultimi a cadere furono un gigante dai capelli chiari, forse uno schiavo germanico, ed un agile uomo di colore, probabilmente un Nubiano. I due gladiatori si erano battuti con coraggio e ardimento ma contro un avversario troppo forte per loro e Massimo chinò la testa rattristato quando li vide accasciarsi sulla sabbia ormai rossa. La folla intorno a lui lanciò grida entusiaste e, mentre l'odore dolciastro del sangue raggiungeva gli spalti , Massimo capì di averne avuto abbastanza e si alzò, dirigendosi verso l'uscita.

*

Una volta fuori dell’anfiteatro, Massimo respirò a pieni polmoni l'aria fresca e pulita e decise di rientrare subito alla villa. Mentre camminava si accorse di sentirsi profondamente sconvolto e non a causa di quello che aveva visto: era abituato allo spettacolo della morte, anche se mai prima di allora aveva assistito ad esso come semplice spettatore. No, non era quella la ragione del suo turbamento interiore, era la sua reazione a quello che aveva visto. Per la prima volta in mesi si era interessato a qualcosa di diverso che non fossero i suoi piani di vendetta o la sua rabbia nei confronti di Commodo. Per la prima volta in mesi il destino di altre persone aveva avuto importanza per lui, e le sue grida d'incitamento ai gladiatori ne erano la prova. L'indifferenza nei confronti di tutto e di tutti che era stata la sua compagna e il suo scudo dal giorno in cui aveva riacquistato la memoria e aveva voltato le spalle a tutto ciò che era stata la sua vita era improvvisamente sparita, ed egli non era in grado di decidere se il cambiamento fosse da considerare positivo o negativo.

III

Una volta rientrato alla villa, Massimo corse nella piccola stanza dove Rea gli aveva mostrato essere l'altare della sua famiglia e chiusosi la porta alle spalle si inginocchiò sul freddo marmo.

Massimo unì le mani e guardò le statuette davanti ai suoi occhi, illuminate dalla fiamma tremolante delle candele: non erano i penati della sua famiglia ma in quel momento non aveva importanza. Aveva un disperato bisogno di schiarirsi le idee e quell'altare era esattamente ciò di cui necessitava.

Chiudendo gli occhi iniziò a pregare.

"Sacri Antenati, invoco la vostra guida. Madre mia, aiutami a ritrovare la pace dell'anima e la chiarezza necessaria per portare a termine il mio compito. Padre mio, mostrami il volere degli dei per il mio futuro e guida il mio cammino in questo momento così difficile. Moglie mia, figlio mio, perdonatemi per aver scacciato il vostro ricordo dalla mia mente e per avervi ignorato per così tanto tempo. Sappiate solo che l' ho fatto per il dolore immenso che mi provoca il pensare a voi, anche se ora ho capito di aver bisogno del mio dolore, perché esso è parte di me, parte di ciò che sono. Inoltre ho capito che il dolore per avervi perso non deve farmi dimenticare la gioia di avervi avuto. Vi chiedo inoltre perdono per non essere stato in grado di proteggervi come avrei dovuto e per non potervi raggiungere subito nell'altra vita. Spero che capiate e sappiate aspettarmi. Sacri antenati, io vi onoro: aiutatemi a realizzare il sogno del mio imperatore e a fare ciò che è giusto per la città di Roma..."

Massimo rimase a lungo in ginocchio e quando si rialzò i muscoli protestarono per la sua lunga immobilità, ma egli non vi fece caso: per la prima volta da quel tragico giorno in cui aveva trovato la sua famiglia massacrata si sentiva in pace con se stesso. Ciò non significava che una parte del suo io non desiderasse più morire e raggiungere i suoi cari, ma che egli aveva imparato ad accettare ciò che era successo e a guardare al futuro con occhi nuovi....con una nuova speranza nel cuore.

Quando uscì dalla piccola stanza Massimo Decimo Meridio era un uomo nuovo. O forse, più semplicemente, era tornato ad essere quello di un tempo.

*

Quella sera a cena, Rea guardò l'uomo seduto di fronte a sé e sorrise. Non aveva fatto commenti sulla sua improvvisa uscita pomeridiana né, tanto meno, sul suo precipitoso rientro, ma sentiva che in lui c'era qualcosa di diverso. Lo aveva percepito nella sua voce, l’aveva visto nei suoi occhi, l’aveva osservato nel suo modo interagire con gli schiavi e con lei stessa. Fino allora era stato sempre educato con lei, nulla di più, ma quella sera era stato anche gentile....premuroso. Il suo sorriso divenne ancora più ampio.

"Che cosa c'è?" le chiese il suo compagno.

Rea notò il suo sguardo incuriosito e disse, "Niente di importante: stavo solo pensando a quanto sia piacevole conoscere finalmente il vero Massimo Decimo Meridio, l'uomo che mio fratello mi ha sempre descritto. Ero stanca di avere a che fare con una statua animata.....o forse dovrei dire orso irascibile?"

Massimo spalancò gli occhi nel sentire le ultime parole e poi sorrise: mai si sarebbe aspettato da lei un commento del genere! Tornando serio disse, "Mi dispiace di essermi comportato così male. So che non deve essere stato facile vivere con me in questi mesi e me ne scuso. Mi ero convinto che il non provare niente fosse il metodo migliore per non farsi coinvolgere troppo e per non soffrire. Fortunatamente oggi ho capito che non solo sono già coinvolto ma anche che ho bisogno dei miei sentimenti. Il soldato dentro di me non può vivere senza l'uomo."

Rea annuì e non aggiunse altro. Non c'era bisogno.

Nella sala da pranzo calò un amichevole silenzio e Massimo si abbandonò un poco, lasciandosi cullare dall'atmosfera pacifica e dimenticando per un po' i problemi che lo affliggevano, come aveva fatto tante volte in compagnia di Marco Aurelio durante i lunghi anni passati al fronte. L'imperatore gli aveva parlato spesso di sua sorella e lo aveva sempre fatto con affetto ed ammirazione, sentimenti che anche il suo cuore appena risvegliatosi dal sonno stava incominciando a provare per lei.

IV

La sera seguente come d'accordo Lucilla giunse alla villa sul Viminale, accompagnata da due ancelle e quattro Pretoriani, che furono lasciati di guardia fuori del salone principale.

Rea condusse la nipote nella sala e le presentò gli altri commensali, i due filosofi invitati per commentare "I ricordi" di Marco Aurelio.

Non appena ebbero preso posto sui triclini i camerieri cominciarono a servire il cibo e a mescere il vino mentre un attore iniziò a declamare i passi più significativi del trattato filosofico dell'imperatore.

Lucilla sapeva che quella rappresentazione non era il vero motivo dell'invito di sua zia ma sapeva anche che quella finzione avrebbe dovuto durare per qualche tempo, per non destare sospetti nei servi e soprattutto nei Pretoriani.

Mentre mangiava, a stento gustando il sapore del cibo, l'Augusta si sforzò di mostrare interesse nei confronti delle dissertazioni filosofie portate avanti dai due anziani studiosi seduti al suo tavolo, pregando che il tempo passasse in fretta.

Finalmente, dopo circa due ore, Rea si portò una mano alla testa e adducendo con i suoi ospiti la scusa di non sentirsi bene, pose fine alla serata. Lucilla si incaricò di congedare gli ospiti e poi accompagnò la zia a letto, dicendo ai servi e ai Pretoriani che si sarebbe trattenuta con lei per qualche tempo.

Le due donne uscirono lentamente dalla sala, e si diressero verso la stanza da letto.

Una volta che la porta si fu chiusa alle loro spalle Rea parve riacquistare di colpo la salute e abbracciò con affetto la nipote.

Lucilla contraccambiò il gesto e poi sedette sulla sedia indicatele dalla zia che invece si sistemò sul letto, la schiena appoggiata ad una montagna di cuscini. La finzione era perfetta: se qualcuno avesse guardato dalla finestra avrebbe solo visto la giovane nipote chinata premurosamente sull'anziana zia.

"Allora, Lucilla," esordì Rea "come stai?"

Lucilla guardò quegli occhi così simili a quelli di suo padre e mormorò, "Sono stanca zia, molto stanca."

Rea annuì, "Servire Roma - e servirla bene - è un compito gravoso."

La giovane donna sospirò, "Vedo che mi capisci. Spero di riuscire a fare il mio dovere ancora a lungo ma non so per quanto ancora riuscirò a tenere testa a Commodo. Vuole sciogliere il Senato, sai? Sta solo aspettando il momento giusto. Finora sono riuscita a fermarlo ma è solo questione di tempo."

Rea la sguardo con occhi penetranti, "C'è dell'altro vero?"

Lucilla annuì, "Saprai già che per allestire i suoi giochi mio fratello sta prosciugando le casse dello Stato...Quello che forse non sai è che per poterle rimpinguare ha messo gli occhi sulle proprietà di alcuni senatori e ricchi mercanti. Presto o tardi tutti questi uomini saranno accusati di tradimento, uccisi e le loro proprietà confiscate."

Rea strinse le labbra, "Lucilla non possiamo permettere che Commodo continui a regnare: in poco tempo distruggerà tutto quello che tuo padre ha costruito in tanti anni e con tanti sacrifici."

"Lo so zia, ma cosa potremmo fare? Congiurare contro di lui? E con chi? Nessuno si fida di nessuno in città, Commodo ha spie dappertutto."

"C'è sempre l'esercito..."

"Le legioni hanno tutti nuovi comandanti fedeli a Commodo ed inoltre nessuno di loro ha sufficiente prestigio o carisma per evitare che gli altri gli si rivoltino contro." Lucilla abbasso la testa e poi continuò con un tono di voce più basso e triste, "L' unico uomo che avrebbe potuto opporsi a mio fratello è stato anche il primo ad essere eliminato."

Lucilla rimase a capo chino, persa nei suoi pensieri finché la voce di sua zia non la riscosse.

"Ne sei proprio sicura, Lucilla?" le domandò con uno strano tono di voce.

La giovane donna alzò di scatto la testa e vide Massimo uscire dalle ombre che lo avevano avvolto fino allora.

(fine prima parte - segue)


leggi la seconda parte

 

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