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Russell
Crowe sulle riviste italiane... e non
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(pagina 51)
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C'era una volta
un sito... dalle pagine di crowie,
"Duel" 80, maggio 2000
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Russell Crowe
Duel
[80]
Mensile di cinema e cultura dell'immagine
Maggio 2000
Ridley
Scott:
la science fiction
del passato
Epico e rutilante, Il Gladiatore
mette in scena l'apoteosi del guerriero per ragionare in realtà sulla nuova
identità dello spettatore
di Gianni
Canova
La fotografia è livida, bluastra.
Sembra di sentire il gelo che ti graffia la pelle, e la tensione che tira i
nervi allo spasimo. Dagli alberi scheletrici della foresta esce al galoppo un
cavallo bianco con in sella un guerriero senza testa. Il cavallo si impenna
all'improvviso e il cadavere crolla al suolo mescolando il suo sangue con il
fango. Due eserciti si
fronteggiano: da una parte le legioni romane, dall'altra le orde dei 'barbari'.
Di qui l'ordine, di là il caos. Come in Spartacus
di Kubrick, anche in
Il gladiatore di Ridley Scott la
disposizione dei soldati prima della battaglia esprime di per sé una diversa
visione del mondo, un differente modo di predisporsi al conflitto: la
ratio e l'istinto, la guerra come progetto o come furore, come
pianificazione a freddo del dominio o come rivolta a caldo contro l'aggressione
di dominatori. Lo
spazio è diviso, il tempo è sospeso: dura solo un attimo, ma il cinema sembra
(ri)nascere dall'immobilità di un dipinto di Bruegel o di Bosch. Poi il
combattimento inizia, ed è subito epos: ralenty e dettagli, sangue a
fiotti, corpi fatti a pezzi. Sferragliare di corazze e d'armature. Lame nella
carne e frecce di fuoco nel cielo. Mentre la foresta va in fiamme, e sullo
schermo piove cenere (o è neve?), vien da pensare che pochi altri registi, oggi,
saprebbero filmare la guerra (il suo fascino, la sua barbarie) così. Ma la
Storia e l'antica Roma c'entrano poco: fin dalla prima sequenza è chiaro che
Il galdiatore non è il ritorno del peplum, ma - caso mai - la
nuova maschera della fantascianza.
Sarebbe fin troppo facile dire che
Il gladiatore narra - ancora una volta - di alieni e replicanti, di
androidi e duellanti. Che nella grana luministica delle sue immagini vibrano i
fosfeni di Legende le
caligini ferruginose di Alien, che
nella sua banda sonora rieccheggiano i fendenti metallici di The Duellists
o i babelici brusii da fine del mondo di Blade
Runner. Tutto questo c'è, senza dubbio, ma passa in secondo piano (in un
film che gioca sempre su più piani sovrapposti) rispetto alla necessità di
raccontare prima di tutto la storia di due antagonisti che - come spesso in
Scott - sono di fatto l'uno il 'doppio' dell'altro: Commodo e Maximus,
l'imperatore tiranno e l'ex-generale divenuto gladiatore ribelle. Due destini
incrociati, due percorsi chiasmici: uno (Commodo) è lo Spettatore che scende
nell'arena e sogna di diventare il divo dello spettacolo di cui è anche
produttore, l'altro (Maximus) è l'Attore condannato a essere solo un
oggetto scopico passivo, ma che rivendica il diritto a ridiventare soggetto, e a
poter rivolgere il proprio sguardo sulle rappresentazioni che contribuisce a
realizzare. Mai Ridley
Scott aveva portato così a fondo la sua riflessione sulla società dello
spettacolo come in questo film. Il suo Colosseo (ridisegnato al computer) è come
una grande macchina teatrale piena di trucchi e di sorprese, di effetti
trompe l'oeil e di meraviglie barocche: un montaggio delle attrazioni,
una festa pirotecnica sons et lumières, una féerie fantasmagorica
costruita sulla produzione di morte 'vera'. Tutte le ideologie della guerra come
spettacolo sono chiamate in causa, dal combattimento di uno contro tutti alla
caccia con le bighe, dalla coreografia bellica in costume all'esibizione delle
belve feroci. Spettacolo, solo spettacolo: quello che ci attrae nella sua
barbarie, quello che ci inchioda come accade nel film agli spettatori dei
circenses gladiatori. Forse Il gladiatore è prima di tutto questo:
una parabola fantascientifica sull'identità e la mutazione dello spettatore, sul
suo bisogno di fruire non del 'bello' o del 'vero', ma sempre e solo di
un'eccitazione continua che si appaga pienamente solo quando lo spettatore
diventa a suo volta attore. Anche a costo di morire nell'arena, come accade a
Commodo dopo che ha pugnalato a tradimento il suo primo e unico oggetto del
desiderio. Maximus e
Commodo si uccidono l'un l'altro: gioco alla pari, a somma zero. Tutti e due,
nel film, manipolano statuette di legno: uno le colloca in un modellino
miniaturizzato del Colosseo, l'altro le tiene con sé come talismani. L'uno e
l'altro sono demiurghi: muovono burattini sulla scena dello spettacolo, e usano
lo spettacolo come unico linguaggio in grado di mettere in circolo e di
redistribuire il potere. Il gladiatore è la microfisica del potere nell'era
dello Spettacolo, qundo il dominio si nutre prima di tutto di visioni. Tanto che
Maximus deve ricorrere al sogno per liberarsi dalla condanna a essere solo un
oggetto scopico, per ridiventare soggetto di visione.
Bisognerebbe rileggere Barthes, dopo
aver visto Il gladiatore. In particolare quella pagine dei Miti
d'oggi in cui il Giulio Cesare di Mankiewicz viene analizzato
alla luce del ricciolo di capelli che si avvolge vezzoso sulla fronte dei
personaggi. Segno di traboccante evidenza, dice Barthes. E ha ragione. In Il
gladiatore non c'è nulla di tutto questo. Qui le acconciature e i costumi
non hanno nulla di significante: non sono realistici nè storicamente
attendibili. Sono maschere barbare, acconciature futuristiche. Ma è appunto qui
- in questa esibita inattendibilità - che Scott ci dice l'impossibilità di
leggere il suo film secondo canoni o criteri 'realistici'. Non è Storia, questa.
E' fantasy, racconto, allegoria. E' Shakespeare rifatto con un occhio a Baz Luhrmann e l'altro
alla Julie Taymor di
Titus. E'
un Anthony Mann (con al
sua Caduta dell'impero
romano) sottoposto ad un'energica cura di ormoni e vitamine. Scott non
ricostruisce Roma, disegna un paradigma architettonico molto postmoderno in cui
mette in scena, enfatizzandole, tutte le pratche dello spettacolo su cui - dai
circenses a Hitler - l'Occidente ha costruito le sue pratiche di
potere. Poi, bruscamente, chiude il suo film su uno sguardo 'altro': quello del
gladiatore africano che seppellisce i feticci di Maximus nella terra, quasi
gettando i semi di un nuovo possibile rapporto con il proprio sguardo. E' un
rapporto che il cinema contemporaneo non sa ancora immaginare, e che può
soltanto intuire come necessità in una sorta di acrobatico e paradossale ritorno
al futuro.
Pgg. 19 - 20 [duel] ottanta
Guerriei o
Mercenari?
Un altro punto di vista: e se
fosse il film di un regista che stà invecchiando male?
di Alberto
Pezzotta Quali sono i calcoli perversi, le indagini di
mercato appaltate a folli, i sogni sfrenati di megalomania per cui a un
produttore viene in mente, all'alba del terzo millennio, di resuscitare il
peplum, il genere più mastodontico e invedibile, quello degli anni 50
(quando uscì I
Gladiatori di Delmer Daves) sanciva un
concordato tra Hollywood e il Vaticano? Si potrebbe dire che era nell'aria, vista la
corsa di bighe di Ben Hur
citata in Ogni maledetta
domenica. O che in era di tribalismo mediatico, l'arena è una metafora
perfetta dello schermo catodico, con l'imperatore Berlusconi che rincoglionisce
le masse, non esitando, alla bisogna, a scendere in campo di persona. Avrà
tenuto presente Ridley Scott, questi valori aggiunti metaforici? O si sarà
acontantato di evocare Shakesperare tra i sandaloni, con complotti di famiglia e
amori incestuosi? Probabile che, alla fin fine, abbia fatto affidamento
unicamente sulle immagini, lui, ex regista di spot, fratello di Tony Scott, che negli anni
Ottanta si è conquistato una nomea a mio avviso del tutto immeritata. Regista di
supefici, all'epoca sicuramente al passo coi tempi e anzi investito dello
Zeitgeist come pochi, quale eredità ci ha lasciato? E cosa ha girato di recente,
negli anni Novanta? La risposta è una sola: niente. E il suo cinema di patina e
solleticamento del nervo ottico, il suo cinema più profumato (e volatile) che
tattile, più elusivo che allusivo, oggi mi sembra vecchio e invecchiato male.
Basterebbe guardate la tecnica, a cominciare dalla deprecabile e stucchevole
proliferazione di orpelli digitali: la folla, i palazzi, gli stormi di uccelli
che con la regolarità del cucù di un orologio svizzero danno un tocco di finta
animazione a quelle scenografie in cui, ogni tanto, pare di scorgere l'ombra del
Cupolone di San Pietro e del Vittoriano. Il digitale avrebbe sostituto il reale,
come in Titanic? In
Ridley Scott è solo retroguardia. E parliamo dei duelli, delle scene di
battaglia; riprese a volte il stepmotion, tutte sbavate e fintamente
rallentate nello stile di The
Blade di Tsui
Hark; ma per lo più minutamente analizzate grazie a riprese con un
otturatore superveloce. Cerco di spiegarmi, dichiarando il mio debito a Filippo
Mazzarella: se riprendo una scena d'azione con questo otturatore, ottengo
immagini nitidissime e senza sbavature. Ma conservando inalterata la durata, ho
un effetto a scatti, a moviola, che appare importunatamente e goffamente
velocizzato. Scott, al contrario dei registi di Hong Kong degli anni passati,
non vuole vedere peggio, o rinunciare alla visione: si illude, da vero
pubblicitario, che si possa vedere sempre meglio e di pù. Comunque niente di
nuovo sotto il sole. Un John McTiernan, quando
gira il 13°
guerriero, non fa mica molto peggio. D'altra parte chi è che non gira
bene, oggi, a Hollywood? Girare bene non è più un merito.
Gianni Canova mi dice che è inutile e
poco interessante scandalizzarsi per gli anacronismi, i casali toscani da Mulino
Bianco spacciati per ville romane in Spagna, le scritte latine sbagliate, la
cialtroneria che affiora fin nei nomi dei personaggi (perchè uno si chiama
Maximus e un altro Proximo? Perchè per un anglofono ignorante,
italiano e latino sono la stessa roba, e la desinenza -us del latino vale tanto
quanto quella in -o che caratterizza l'italiano). A parte il fatto che un
Kubrick non sarebbe stato mica tanto d'accordo, mi sembra solo la riprova che
questo è il cinema dell'arroganza del capitale , dei produttori ignoranti, dei
registi mercenari, di coloro che disprezzano il pubblico perchè qualunque
schifezza gli dai quello se la trangugia lo stesso. Così come mi sembra
offensivo il finalino con il nero di Amistadche
saluta il prode amico bianco morto, e parte un'allegra musichetta africana in
sottofondo. Roba che neanche in una fiction di Raiuno. Questo è cinema morto,
finto cinema, tanto quanto Anna and the
King, Entrapment,
Gioco a
due, La mummia,
Jacob il
bugiardo, The Astronaut's
Wife, Wild Wild
West, End of Days -
Giorni contati, Happy,
Texas, Se scappi ti
sposo, Colpevole
d'innocenza, Stigmate.
Visti tutti, cari miei. E' il cinema sintomatico del vuoto che ci circonda,
della nostra condizione postmoderna? E Michael Mann, allora? Jarmusch? David Lynch? Man on the
Moon? Scorsese? Il cinema è
di nuovo diviso in due. La sola idea che si possa prendere seriamente un film
come Gladiator mi butta nello sconforto. Non ci sto. Allora mi ritiro in
campagna, non scrivo più su 'Duel', d'ora in poi vedo solo film di Jean Renoir e di Radley
Metzger.
Pag. 22 [duel] ottanta
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Elenco
articoli
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Russell Crowe
Duel
[80]
Warriors
Due declinazioni estreme - lontane
nel tempo e nello spazio - di un archetipo eroico - quello del guerriero
-
che il cinema contemporaneo sembra
non saper riesumare se non atraverso la maschera
dell'eccesso
o quella della (filosofica)
ironia.
Il
Gladiatore
di Ridley Scott
Sonatine
di Takeshi Kitano
Uomini-cosa e
preludi di morte
Nella diversità dei loro
approcci, Il Gladiatore e Sonatine manifestano un fondo
comune
e contengono una riflessione
complementare sulla reificazione dell'uomo, sulla sua riduzione a meccanismo
ludico, che trova nella morte volontaria l'unico modo
per
affermare (per via nagativa) il
proprio essere-non essere (e forse anche il proprio cinematografico riessere,
direbbe Ghezzi...)
di Ezio
Alberione
Tralasciando ogni valutazione su
sistemi produttivi, basterebbe considerare il periodo storico e il contesto
geografico dell'ambientazione di Il Gladiatore e di Sonatine per
tracciare una netta linea di demarcazione tra i due film.
Eppure, a un altro livello di
lettura emergono linee e prospettive comuni. Basta soffermarsi sul fatto che i
due eroi protagonisti - il gladiatore di Scott e lo yakuza di Kitano - sono
accomunati dall'essere dispensatori di morte, ma anche pronti a morire. Se
fossero personaggi di Jarmusch, li chiameremmo Dead Men. Questo
riferimento all'autore di Dead Man e Ghost Dog non è solo sfizioso
e funzionale, visto il legame tra Oriente e Occidente dei suoi ultimi film, ma
anche illuminante, se solo si considera che i personaggi dei suoi film si
muovono nell'arco di tempo che va da una morte scampata a una morte accolta. Il
tempo-cinema di Jarmusch - come quello di Scott e Kitano - è quello di un
appuntamento differito ma ineluttabile con la morte (è questo il
tempo cinema?). Il
gladiatore e il killer, più che uomini, peraltro sono corpi in azione. Macchine
di morte e di spettacolo (che differenza fa?). Se esiste il termine, li potremmo
chiamare Dead Showmen. Nell'arena di un circo romano come su una spiaggia
giapponese si dispiega il loro ludus. O, meglio, il loro pre-ludio
di morte. A vantaggio dell'imperatore o di una ragazza, per una folla inferocita
o per pochi intimi, i due attivano meccanismi ludici che ritualizzano,
anticipano e preparano la morte (certa per tutti, ma per loro decisamente
prossima). In un caso come nell'altro più che di un homo ludens - secondo
la terminologia di Huizinga - si tratta di morituro ludens, ossia di un
condannato che gioca una partita con la morte, in maniera meno esplicita ma non
tanto diversa dallo scacchista del Settimo sigillo. Del mondo tragico e
del fondo drammatico (che era ancora di Bergman) è andato perso il fondo etico,
quello che mette in gioco scelte e consapevolezze, ed è rimasto solo il regime
della necessità e l'inevitabilità degli eventi. Murakawa, il malavitoso di
Sonatine, dice che sta pensando a ritirarsi, ma è più che mai bloccato,
immutabile come la ricorrente luna piena nel cielo. Come scrive Giona A. Nazzaro
a proposito di Sonatine: "Murakawa, macchina priva di senso come un congegno di
Alfred Jarry, distribuisce 'morte' (ma sarebbe più corretto affermare che
interrompe l'attività funzionale di altri meccanismi) ... Privato di
qualsiasi profondità, il suo agirsi si offre superficialmente libero da
qualsiasi costrizione segnica e di senso. Ciò che resta sono una serie di atti e
gesti, implacabili, che si compiono nella più assoluta banalità. Nella placida
requie di un mondo minerale la cui superficie è perturbata dalla presenza di
uomini cosa" (in Kitano Beat Takeshi, a cura di M. Fadda e R. Censi,
Sorbini editore, 1998, p.117). Queste considerazioni si attagliano anche al
gladiatore se è vero come osserva Michael Meslin nel suo studio antropologico
sul mondo romano che i giochi "costituiscono uno straordinario mezzo di
alienazione politica nelle mani di un potere che tenderà... a diventare sempre
più totalitario. Sempre più i giochi sono stati sentiti come una soddisfazione
assolutamente necessaria dovuta a un popolo che non aveva mai altro diritto che
questo. ...Bisogna rendersi ben conto che questo atteggiamento dei Romani è
condizionato dall'esistenza della schiavitù che abbassa l'individuo allo stato
di oggetto puro e semplice " (in L'uomo romano, Oscar Studio Mondadori,
1981, pp. 165-166). Non c'è spazio per la volontà, non c'è libertà, né per il
killer né per il gladiatore. Sono macchine, ingranaggi inseriti in un qualche
piano di quella struttura gerarchica che corrisponde, per l'uno e per l'altro,
alla società. Le due
parabole sull'annichilimento dell'uomo, riescono dunque a dirci - anche su un
piano politico - di cosa è sostanziata la contemporanea società dello
spettacolo. Ci parlano di uomini cosa, di schiavi senza scelta, di una morale
ridotta a codici di comportamento, di sistemi gerarchici, e dello stretto legame
tra potere e spettacolo (non stupiamoci più se Berlusconi continua a vincere)...
E ci chiedono quali utopie e quali rivoluzioni possano ancora avere diritto di
cittadinanza in un mondo in cui l'unico affrancamento possibile coincide con la
morte. E se questa, in Il gladiatore, ha ancora un rigurgito alfieriano
di valenza antitirannica, in Sonatine ha perso ogni impeto romantico. In
un caso come nell'altro è diventato punto di fuga a cui tende il destino dei
personaggi non meno che l'economia narratica e di senso del film. Per intenderci
sul valore da attribuire a punto ci si può rifare a Kandinsky, il quale spiega
perfettamente che "il punto... appartiene al linguaggio e significa silenzio.
Nello scorrere del discorso, il punto è il simbolo dell'interruzione, del non
essere... e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere ad un altro essere" (in
Punto linea superficie, Adelphi, pp. 17-18). Essere. Non essere. Essere con un altro
essere... E' per questo che il momento della morte dell'eroe in entrambi i film
è collegato da un deuteragonista (l'imperatore e la ragazza).
Morire... Forse sognare. Oriente e
Occidente su questo punto troviamo il ponte che li collega. Dopo i clangori
delle armi e le luci della ribalta, anche il cinema di Scott e Kitano - come
quello di Jarmusch - tesse l'elogio della sconfitta e del silenzio. E' questo
l'ultimo atto politico possibile?
Pg. 23 [duel] ottanta
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Russell Crowe
Duel
[80]
Russell
Crowe
di Silvia
Colombo Pronti a
Morire di Sam Raimi: Russell Crowe passa tutto il film incatenato alla
fontana nel centro del paese in mezzo a un vorticoso carosello di attori. E
mentre infuria il balletto diabolico e giocoso di Raimi, Crowe è l'unico ad
essere solo carne di personaggio, corpo perfettamente dissolto nel ruolo.
Annullato. Scaraventato in un film corale, Crowe è l'unico a valere solo per il
posto che occupa nell'economia del racconto: nessuna origine, nessun futuro. Gli
altri - Gene Hackman, Sharon Stone, Leonardo Di Caprio - sono anche
merce, attori, divi. Sul loro volto, in trasparenza, la sovrapposizione di
altri indimenticabili ruoli, la stratificazione della maschera, sotto pelle la
storia del cinema. Dietro di loro, la memoria di mille film, gli echi palpabili
di altre storie e di altre reincarnazioni. Attorno a loro, l'aura sfolgorante
dell'Attore che, passato al setaccio della finzione, si lascia comunque indietro
la polvere d'oro di altri saperi, i residui di un'immagine pubblica e la scia
luminosa di ogni divismo. Di origini australiane, arrivato tardi in terra hollywoodiana, è stato
messo ai margini o comunque snobbato dall'industria dello star system; forse è
per questo che è rimasto (nonostrante non sia giovane e abbia alle spalle un
considerevole numero di film) un attore defilato, senza mitologia, senza storia
e senza memoria. Non ha un'immagine pubblica, non deve rispondere ad
aspettative, non deve sottoporsi agli sforzi patetici dell'attore per sottrarsi
alla tirannia del personaggio o all'opposto impegnarsi per aderirvi
completamente e rispondere così alle presunte esigenze del
pubblico. Russell Crowe, figura atipica nel panorama del cinema contemporaneo, può permettersi di
restare al di fuori delle logiche del riciclaggio postmoderno, non ha niente da
far dimenticare e nulla da dimostrare. E' un corpo massiccio, una piramide salda
sul terreno, è qualcosa di pesante e bolla di leggerezza: corpo in contrasto col
viso, in cui l'espessione passa per accenni lievissimi, per lievi increspature,
per linee che si muovono appena. Così, quando la sua figura intera colma
l'inquadratura, il campo medio diventa subito film d'azione, senza che abbia
bisogno di muovere un muscolo. E il primo piano divemta invece sfumatura, crepa
che si apre, tenera voragine di dubbi e delicatezze improvvise. Prendiamo il
celebre campo-controcampo di L.A.
Confidential: "Tu sei molto meglio di Veronica Lake", dice il poliziotto
Bud White a Lynn, la prostituta. La mdp si attarda un attimo sul viso immobile,
un tremito sulla fronte è come foglia che cade sul nero di un lago profondo (Russell Crowe mi strappa accenti di esecrabile lirismo). E' un volto che può
ammorbidire o indurire la superficie dell'immagine nel volgere di un
attimo. Così diventa
l'alter-ego perfetto per i 'grandi attori', a cui dà la possibilità di
specchiarsi nella sua superficie pulita, netta, limpidissima, un cielo vasto
dove i mostri sacri possono dispiegare il loro mestiere senza paura di
interferenze o sorpassi sgraditi: Al Pacino, in Insider è
grande, grandissimo; si agita, urla, gesticola, ci convince. Porta nel film di
Mann l'energia stordente di una rincorsa partita da lontano. Russell Crowe è
libero: nessuna eredità, nessun bagaglio, nessun peso da portare. La libertà
rara del personaggio; senz'altra vita, senz'altro credo al di fuori della sua
inarrivabile bravura.
Pg. 9 [duel] ottanta |
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n. 52 |
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