Da “Cineforum 393” - Anno 40 - n.3 - Aprile 2000
LA PROFONDITA’ DEL DOLORE CHE AMMAZZA LE ANIME
Pier Maria Bocchi
Segni
The Insider è un film di
annotazioni. Decine di brevissime immagini di cose all'apparenza marginali:
dita affusolate dalle unghie appuntite su una scrivania, una macchina che
brucia, un paio di occhiali su un giornale illuminato da una luce
fortissima, gocce di pioggia che scendono su un finestrino. Punteggiature
nerissime di un'opera enormemente nera.
E’ un film che sta attaccato agli spigoli. La macchina
da presa si addossa a pezzi di volto, li tampina, li ingigantisce in
primissimo piano ai lati dello schermo. Rughe, tensione, esistenze.
E’ un film che guarda sempre attraverso il vetro: vetro
degli occhiali che tutti i personaggi inforcano, e che risaltano sempre
sopra i loro visi; vetro di finestre, parabrezza, porte girevoli, e, certo,
vetro del video. Oscuramento, mancanza di chiarezza.
E’ un film che non sta fermo un attimo, e che,
paradossalmente, si prende il tempo di una vita. Attraverso quei vetri,
attaccati a quegli spigoli di facce, la macchina da presa cammina frenetica
coi suoi protagonisti, si confonde con loro e con l'ambiente (si veda la
concitazione confusa dell'uscita di Pacino e soci dalla hall della Cbs
attraverso la porta girevole dell'ingresso), sembra non far caso a oggetti e
personaggi che stanno attorno al centro momentaneo dell'inquadratura, per
poi invece staccare improvvisamente, quasi casualmente, su di loro. Nello
stesso tempo, è una macchina che riesce a sedersi e a riprendere con
parecchi stacchi una conversazione: la sequenza nel ristorante giapponese è
un proseguimento geniale del campo-controcampo del dialogo tra Pacino e De
Niro in Heat, con ripresa rasoterra e ingigantimento di Pacino e
Crowe, che coprono e inghiottono tutto il panavision.
Instabilità, ansia, e, contemporaneamente, accettazione
dell'ordine disordinato e inafferrabile delle cose.
The lnsider conta centinaia di
personaggi. Nessuno superfluo. Come in Heat. Alcuni stanno in scena
per pochissimi secondi: eppure non credo potremmo fame a meno. Immensità
del mondo, immensità di un regista che ama la vita e i suoi protagonisti,
ma che sa perfettamente dell'incalcolabile dolore che questi portano dentro
e a cui sono destinati. Perdenti subito, di fronte a se stessi molto più
che agli altri, provati dall'assurdità di ogni impegno, dall'insensatezza
delle nostre azioni. Interrogarsi, e rispondersi con un gesto che rovina per
sempre
quello che ci eravamo illusi di essere, e di aver
costruito.
E’ un film che tappezza la scena con la voce
dolorosissima di Lisa Gerrard. A molti ha dato fastidio, ma è una ferita
che non si rimargina, apre voragini di sconsolatezza dentro un buio
accecante, corre di pari passo con l'enormità d'occhio di Mann. Senza
confini, mastodontica e pesantissima come la vita e l'inutilità di ogni
agire.
The Insider copre le immagini
con una fotografia grigio-chiaro che ristagna sulle cose, divorandole. Poi
accentua i toni del blu manniano, e il pallore cadaverico di Crowe. Come se
stessimo sempre dentro una sala operatoria, accecati da lampade
luminosissime che confondono le scritte, oppure immersi in un nero più nero
del nero, dove si confondono i contorni delle figure, ombre schizzano in un
batter di ciglia, o in un blu enorme come quello del mare e del cielo che
inghiotte Pacino mentre è al cellulare, e che inghiottiva Heat e Strade
violente. Bisognerebbe innalzare un monumento a Dante Spinotti, perché
è capace di raffreddare e riscaldare i
corpi come pochi altri, facendoceli sentire.
E’ un film di occhi. Quelli di Pacino in primissimo
piano da cui la camera si allontana; quelli di Crowe sprofondati dietro le
lenti, dalle quali non possono emergere. Occhi che sono anch'essi vetri per
guardare dentro, prima che fuori. Occhi, come quelli di Mann, che cercano in
tutti i modi di farsi una ragione del nostro esserci, prima che delle
circostanze attuali. Occhi abissali, sguardi che prendono il cuore e lo
stritolano.
Disegni
The Insider non è un film sulla
vittoria di un piccolo uomo su una grande potenza. Non è una denuncia
contro l'industria del tabacco. Non è un inno alla libertà di stampa, o al
giornalismo integerrimo. Non è Tutti gli uomini del presidente.
Non fa parte di quei conspiracy movies che negli anni Settanta ci dissero
molto (per fortuna). Non è certo una true fiction. Non è nemmeno la storia
della crudeltà oppressiva negli ambienti di lavoro. Ci mancherebbe. Tutto
questo lo dicono i fantomatici critici del Tgl e Tg5. Poverini. Non è Ron
Howard. E non è Sidney Lumet. The Insider è l'occhio di dio. Che
osserva come un padre, e non fa nulla per modificare, come un carnefice.
Osserva l'impossibilità di raggiungere un traguardo; la predestinazione
alla sconfitta, sempre e comunque; la profondità del dolore che ammazza le
anime; il lamento silenzioso dei corpi; le grida di rabbia, disperazione e
furore che non si sentono perché troppo assordanti; il pianto trattenuto a
fatica di una bambina e di tutti. Osserva l'uomo che si interroga sulle
proprie azioni; che cerca forza alleandosi con altri, e poi si accorge che
niente ha un senso, perché la disperazione è individuale, e resta dentro
senza possibilità di condividerla; che non ha nessun potere decisionale in
merito alle proprie idee, non per colpa dei banali meccanismi di potere, ma
per un'assoluta e tragica incapacità naturale di portare a compimento
quello per cui pensiamo di essere al mondo, che sia un mestiere, un affetto,
un vincolo, un impegno. Osserva degli eroi che sono tali soltanto quando lo
si dice attraverso un telefono: eroi, in verità, falliti.
Michael Mann è uno dei più grandi registi di questi
anni. Il suo operare con lo stile ha dell'impressionante. E' un lavoro
capillare e implicito, nel senso che non palesa un metodo, ma lo filtra
attraverso i personaggi, in modo che sono piuttosto questi a fare lo stile
di un film di Michael Mann. Soltanto i malati di mente non hanno ancora
capito che una delle forze più eclatanti del cinema di questo regista è la
capacità di scrittura attorno alle figure umane. Con loro, Mann crea il suo stile, che non ha pari.
Non si tratta soltanto della maniera in cui copre le
immagini con la colonna sonora o le luci della fotografia; il suo è un
allargare i confini della storia fino a inglobare il mondo intero per mezzo
dell'uomo. Lo stile proviene dagli uomini di Mann, ne è un'emanazione. Sono
le figure maschili e femminili nel cinema di Mann a fare un film di Mann.
Sono di più di personaggi ai quali ci si affeziona o appassiona. Sono
persone più grandi di noi, che falliscono come noi. Più grandi perché
immensamente umane più di quanto noi riusciamo ad essere: umane nel bene e
nel male, nei successi che non esistono e nelle sconfitte perenni, negli
amori che non muoiono e nelle paure che non allentano. Mann scava attraverso
loro la via per arrivare alla perfezione stilistica. Tutte le sequenze di The
Insider hanno il loro stile fatto dai personaggi che contengono. Mann
tende a intrecciare e sovrapporre questi stili per poi divaricarli di nuovo.
Procedimento a clessidra: si parte con stili differenti a seconda dei
personaggi, c'è un punto, più o meno a metà, in cui sembra che
coincidano, o quantomeno sembra che si sommino in un unico stile, e poi
riprendono strade diverse che, a guardare bene, si sono scambiate di ruolo:
- suppergiù fino alla scena della deposizione in
tribunale, Jeffrey Wigand-Russell Crowe sta dentro il buio, e Lowell
Bergman-AlPacino tenta di espandere la sua luce di successo (comunque
ombrosa) verso Wigand. Successo, quello di Bergman, ottenuto togliendosi la
benda con la quale entra in scena all'inizio del film, e aprendo le tende
sul chiarore del Libano (Israele è il set reale). Gli occhi di Bergman
vedono, ancora per poco; quelli di Wigand non più, immersi nell'oscurità
del suo studio a casa, nell'incubo terrificante della notte al golf, nelle
ombre che circondano la villa, nel grigiore nuvoloso e nella pioggia che
creano un muro alla comprensione e alla lucidità. Mann prende tempo, non si
lascia ingabbiare dalle regole del ritmo. Annusa più tracce, alcune delle
quali poi lascia cadere nel vuoto. Veste i personaggi, non li molla un
secondo: sembra che attacchi la telecamera sulle loro spalle. Fa durare una
decisione un'eternità: perché così deve essere. I doveri e l'orgoglio si
prendono giorni interi, come gli assensi che cambiano una vita. E intanto
dà prova di riuscire a fare
anche della suspense come pochi sanno fare (la sequenza
del golf, minacciosa).
- dopo la deposizione, c'è una scena (da pelle d'oca,
tipicamente manniana) in cui Wigand e Bergman stanno in piedi sul prato, la
sera, di fronte al mare; sorridono e chiacchierano, mentre noi sentiamo
soltanto la voce della Gerrard: una sorta di complicità male-bonding che è
l'esatto punto che dà il via alla discesa verso l'abisso. Una parentesi di
pace apparente, centro in cui due personaggi, due stili, due luci, due modi
di vivere si toccano tangenzialmente. Soltanto un momento: da lì in poi,
non si incontreranno più. E forse l'immagine più visivamente rilassata di tutto il film: l'aria della sera,
il mare, due uomini che hanno appena soddisfatto un ideale completamente
deleterio, e una telecamera che li abbraccia dolcemente. I loro sguardi
guardano il futuro: pessimismo più atroce.
- per tutta la seconda parte, la più mannianamente larga
(colossale, sfilacciata, sconfinata), Lowell cade ineluttabilmente dentro un
nero tempestato a volte da lampi di luce bianca agghiaccianti; ma è la
profondità dei due poli, mare e terra, entrambi blu-scuri, che lo
schiaccia. Wigand invece entra in un pallore cadaverico che già era in luce
precedentemente, ma adesso è marcato, quasi con sottolineature di trucco,
lasciando che l'ipnosi della disperazione e della solitudine prenda il
sopravvento (il morphing). In una luce blu-luminoso Bergman si impantanerà
nello splendido ralenti finale, ancora spezzato dai vetri della porta
girevole.
Mann è frammentario, esattamente come il suo mondo:
aggiunge personaggi che magari non si capisce chi siano, si concentra su
Lowell, seguendo la sua disperazione testarda e suicida, e, con un colpo
magistrale e coraggiosissimo di script, nasconde Wigand, accantonandolo
nella classe in cui insegna, dove una luce mortuaria lo ritaglia. Prima,
però, gli riserva una delle sequenze migliori e da groppo in gola: il
ritorno in auto dopo la deposizione, un viaggio a ritroso, biglietto di sola
andata, nella solitudine e nella morte di sé, del proprio credo,
dell'anima. Un'auto della polizia si avvicina al semaforo rosso, il
poliziotto lo guarda, e Wigand abbassa gli occhi: terribile.
Dentro la stanza dell'hotel, di fronte allo studio legale
che lo sta distruggendo, Wigand osserva minuto per minuto la sua vita che
fugge da lui.
Quelli che si sono aggrappati alla sequenza finale della
messa in onda dell'intervista per portare in palmo di mano la presunta
vittoria dei protagonisti, e quindi per affermare tutti contenti che The
Insider è una delle più titaniche vittorie del lavoro dell'uomo e del
giornalismo limpido sulle magagne del potere, dimostrano che Mann non è per
chiunque. La trasmissione del video è il definitivo conseguimento da parte
di Wigand e Bergman dell'annullamento della propria persona. I volti degli
sconosciuti che gettano occhiate alla televisione
suggellano in maniera globale questo livello. Le figlie di
Wigand, da qualcuno criticate per la loro presenza ingombrante e
inspiegabile, soprattutto nella sequenza a casa con I'Fbi, rappresentano la
più dolente, sconsolata, sanguigna chiusura del padre alla vita e al resto
di/da se. Le bambine assistono all'interrogatorio dell'Fbi non per una
svista di sceneggiatura, ma perché cominciano a prendere coscienza
(leggera, innocente, volubile) dello strappo che il padre ha operato su se
stesso e sulla famiglia; quando la figlia, durante la trasmissione dell'intervista, si volta in ralenti verso il
padre guardandolo, non si tratta di orgoglio filiale o di retorica
accomodante della serie «Ce l'hai fatta, papà», ma della consacrazione
ultima dell'entrata di Wigand nell'oceano dell'isolamento personale. Ormai
anche le piccole figlie hanno assistito allo strumento di sgretolamento del
padre: non rimane davvero più niente. Quale vittoria, allora? Di Wigand
sulla Brown &
Williamson? Di Bergman sulla Cbs? Di Wigand e Bergman in
merito alla loro integrità di uomini? Altro che successo: finale, e opera,
di una tristezza insopportabile, e di un pessimismo che lascia allibiti.
Come si può scambiarlo per un trionfo?
Malefatte
Ulteriori note di demerito alla distribuzione italiana: ha
tolto l'articolo determinativo, e lasciato il sostantivo, senza alcun
motivo; ha modificato completamente i titoli di testa (nella versione
originale, le scritte dei credits sfumavano gradatamente, lasciando il posto
alle successive; nella versione italiana, invece, sono caratteri del tutto
anonimi, cheap e da televisione provinciale da quattro soldi); c'è un rullo
in cui la fotografia è saturata, colori e toni scurissimi (la sequenza di
Pacino che parla al cellulare sulla spiaggia è quasi impossibile da
decifrare); coprono le parole scritte di alcune scene, come quella dei
messaggi via fax, con la traduzione italiana, col risultato di non lasciar
scorgere quelle originali. Una denuncia, subito, senza pensarci.
LOWELL BERGMAN E IL SUO DOPPIO
Adriano Piccardi
Vale la pena, ogni tanto, di ricordarlo: guardando un film
ci ritroviamo ogni volta di fronte alla medesima storia, quella dello
scontro tra il Desiderio e la Legge, che ogni volta si incarna in vicende,
personaggi, dinamiche differenti. La Legge si occupa di giustizia, della sua
definizione e della sua amministrazione, in vista di un ordine che conviene
mantenere. Il Desiderio punta a una meta che non coincide con quella della
Legge. E’ più alta? più modesta? nobile? disprezzabile? Semplicemente
diversa. Il Desiderio ha a che fare con la ricerca della verità, qualunque
sia il punto di vista che ce ne fornisce tratti e direzione; la ricerca
della verità è dunque un atto profondamente trasgressivo come i personaggi
che se ne fanno carico, che in quanto tali sono destinati a pagare, per ciò
che fanno, un prezzo. Il brivido di piacere provato assistendo alla
realizzazione, sia pure fittizia, del sogno proibito (chi non ha una sua
verità celata, custodita da un numero ignoto di guardiani, di cui conosce
soltanto il primo - e già gli è sufficiente per scoraggiarsi?) va così di
pari passo con la consapevolezza che quella non può essere in realtà
possibile senza generare un corrispondente destino di esclusione.
La pienezza che si accompagna al conseguimento della
verità produce dunque, senza soluzioni di continuità, una
smaterializzazione della persona, dell'individuo che ha osato, deprivandolo
di quei caratteri di socialità che gli hanno fornito e garantito fino a
poco prima un'identità: produce fantasmi, capaci di affascinare e di
terrorizzare, avviati su una strada a senso unico, lungo la quale troveranno
verosimilmente soltanto nuove occasioni per confermare a se stessi ciò che
sono diventati.
Pier Maria Rocchi scrive che The lnsider “non è
una denuncia contro l'industria del tabacco". Sacrosanto, così come
“non è un inno alla libertà di stampa o al giornalismo
integerrimo". Non è una denuncia né un inno: The Insider si
limita a dissezionare le forme in cui si è realizzata, nell'incontro
fortuito tra due individui una variante, tra le tante possibili, di ricerca
della verità, rendendo visibile il confine che improvvisamente conferisce
senso a tutto ciò che essi hanno fatto in precedenza e a tutto ciò che li
aspetta dopo. A dispetto di quanto sostiene fiduciosamente
Sharon, la compagna di
Lowell Bergman circa la possibilità/necessità di sapere con precisione
prima ciò che vogliamo ottenete con le nostre azioni, la questione è, in
realtà, un po' più complessa, e Bergman medesimo sperimenta su se stesso
quanto una tale complessità possa risultare, alla fine, lacerante. Il senso
dell'agire emerge, infatti, non da una presunta consapevolezza del soggetto
ma dalle tracce, dai residui che l'azione dissemina intorno: e, quando
questo avviene, spesso è troppo tardi.
Mi pare che negli ultimi mesi un solo altro film
importante abbia affrontato tematiche simili a quelle di The Insider:
si tratta di Fino a prova contraria di Clint Eastwood, e credo
che possa risultare interessante comparare il film di Michael Mann a quello
di Eastwood, uno che di fantasmi e di spaesamenti se ne intende... E'
curioso, a questo proposito, anche il rispecchiamento (casuale: ironia delle
coincidenze...) del medesimo concetto che si produce tra l'enigmatico titolo
originale del film di Eastwood, True Crime, e l'occhiello piattamente
didascalico (Dietro la verità) che la distribuzione italiana
ha deciso di offrire agli spettatori del film di Mann. Ciò che colpisce
immediatamente dei due film è il modo con cui entrambi rivelano il proprio
soggetto, il motivo comune su cui stanno lavorando, per mezzo di apparenze
ingannevoli quanto vistose: qui, lo si è gia detto, lo strapotere
dell'industria del tabacco, nel film di Eastwood la componente di
irreparabilità che l'applicazione della pena di morte porta con sé. Entrambi richiedono ai
propri spettatori un doppio livello di lettura, l'impegno a lavorare sulle
tracce disseminate nel corso della narrazione per approdare a una loro
comprensione non semplicistica, limitata ai soli aspetti, per così dire, di
popolarità dell'argomento/pretesto. Entrambi hanno scelto di ricondurre il
problema della ricerca di verità ,al mondo dell'informazione, dei media,
dell'attualità, ai comportamenti che lo caratterizzano, ne determinano il
funzionamento, il gradimento, l'attendibilità. Una scelta che, se da una
parte rientra nel solco di una tradizione consolidata nella storia il
cinema, dall'altra potrebbe apparire quasi "provocatoria",
ricordando del ruolo avuto dal sistema mediatico nella messa in piazza dei
diversivi sessuali del Presidente. D'altra parte, forse anche a proposito di
questa faccenda noi Europei ci collochiamo in una prospettiva inadeguata
alla comprensione dell'evento, formati come siamo da un secolo di critica
filosofica "continentale", quanto mai restia (è il meno che si
possa dire) a discutere del concetto di "verità" partendo dai
metodi e dai risultati di qualsivoglia inchiesta giornalistica. Accettare di
leggere "in allegoria" film come questi significa dunque anche
accettare che sia possibile, in un contesto di pragmatismo
"analitico" diffuso, attento alle forme del discorso (di ogni
discorso) ancor prima che ai suoi contenuti, riportare al prosaico e
intrinsecamente contradditorio contesto dell'informazione quotidiana, della
deontologia che ne garantisce la correttezza (al livello di un'opinione
condivisa), la discussione intorno a concetti che ci appaiono meritevoli di
ben altre sfere d'indagine.
Tornando all'immagine di quel confine, cui si accennava
più sopra, è intanto interessante notare che mentre Bergman/Pacino ne è per tutta la vicenda ancora al di
qua, Everett/Eastwood lo ha già varcato irreparabilmente. Fino a prova
contraria parte da dove The lnsider arriva: Everett è già
"in esilio" all'”Oakland Tribune" a causa di un suo scoop
che aveva nuociuto a un uomo politico di New York; la sua posizione
professionale/esistenziale lo pone in uno stato di consapevolezza e di
disincanto a cui, invece, Bergman, fino all'ultimo, non vuole cedere;
perciò, Steve Everett diventa immediatamente il tramite di un punto di
vista molto più radicale sul motivo in questione. Non ha più nulla da
perdere, e non soltanto sul piano della carriera ma, soprattutto, su quello
della fiducia (di una fiducia incondizionata, quanto meno) nel sistema in
cui lavora. Bergman, al contrario, si muove da una condizione di
integrazione gratificata dal successo e dal riconoscimento delle sue
qualità professionali, che ne fanno un emblema della persona
"realizzata"; la confusione in cui egli si muove quotidianamente
ci viene presentata come una necessità, vero e proprio riflesso del
disordine in cui i fatti si accavallano, si intrecciano, si nascondono,
attendendo l'intervento di persone come lui per essere identificati,
scontornati, messi a fuoco nei dettagli e nel senso. L'immagine che dà di
se è quella di qualcuno che sa tenere sotto controllo il disordine e sa
piegarlo ogni volta alle proprie intuizioni e ai propri obiettivi, mentre,
all'opposto, Steve Everett è il ritratto dell'approssimazione e
dell'inaffidabilità. Questione di mezzi messi a disposizione dei due
personaggi, anche. Ovvio. Ma anche la scelta di lavorare su un certo
arsenale piuttosto che su un altro è una questione di fondo, decisiva e
rivelatrice del rapporto tra contenuti e stile in vista delle conclusioni a
cui si vuole giungere.
Non intendo minimamente negare l'ammirazione provata di
fronte a The Insider. In particolare, ho trovato molto pertinente il
tema del rapporto tra raggiungimento (e diffusione) della verità e la sua
gestazione/sollecitazione (attraverso il continuo lavoro di aggiramento
degli ostacoli, che produce effetti di manipolazione e di
"complotto", di cui si sente legittimamente destinatario il
personaggio di Wigand e che vediamo manifestamente in atto quando Bergman si
muove, a titolo personale, con il redattore del New York Times), che si
sviluppa nel corso del film anche come motivo generatore di quella forma di
autocoscienza che porta Bergman a tradurre, nel finale, la sua
"vittoria" in un'ammissione di sconfitta.
Eppure, Fino a prova contraria mi sembra sia andato
ben più in là per quanto concerne il discorso sul carattere elusivo di
qualsiasi senso della "missione" collegato al mestiere: Everett
non dà mai l'impressione di lavorare veramente per i lettori del suo
giornale e il film ci consegna l'immagine di una persona per la quale la
ricerca della verità è prima di tutto un riscatto personale, poi lo
strumento per salvare un uomo da un'ingiusta condanna a morte; Eastwood ha
scelto un contesto classico (il mondo dell'informazione) e un soggetto
classico (la lotta contro il tempo per raccogliere elementi necessari a
salvare un innocente) per mostrarci come ormai tutti i facili ottimismi e i buoni sentimenti legati a un tale soggetto
narrativo non abbiano più alcuna ragione d'essere. Cancellati. Buoni per un
passato in cui ci si poteva ancora illudere di poter migliorare il mondo
divulgando al pubblico "la verità": Everett si muove in una terra
che non è ormai più di nessuno - se mai è veramente appartenuta a uno di
quei contendenti sfiancati che sono il Bene e il Male -, un luogo in cui non
è più possibile parlare di vero e di falso, per il semplice motivo che
l'uno si capovolge continuamente nell'altro in un movimento inestinguibile.
I LIMITI DELL'AZIONE
Emiliano Morreale
Insider parte come un
action-movie e per tutto il film si comporta da action-movie mascherato. Le
apparenze ingannano, nella sequenza iniziale: sembra un rapimento, un'azione
di guerra. In realtà l'uomo bendato (Al Pacino) conduce il gioco - è un
regista, si potrebbe dire, e tale rimarrà lungo tutto il film. Le azioni
che vediamo sono dapprincipio incomprensibili e insensate. E se il resto del
film non c'entra niente, dal punto di vista narrativo, con il preambolo in
un paese arabo, allora risulta chiaro il valore esclusivamente esplicativo,
quasi didattico in senso brechtiano di quest'inizio. Vengono introdotti
alcuni elementi su cui il film ruoterà: informazione, apparenze,
globalizzazione, violenza. Il film riguarderà l'economia internazionale e
sarà in qualche modo un action movie.
Il tabacco è con ogni evidenza una scusa: le prime
immagini del film ci chiariscono subito di cosa si sta parlando. Quello che
vedrete adesso, sembra suggerirci, è un'applicazione, una metafora. Ma nel
villaggio globale tout se tient, il nazionale e l'internazionale,
l'economia e l'informazione, il pubblico e il privato. Da un lato un
preambolo dall'altra parte del pianeta, senza alcun legame con la trama del
film; dall'altro un tema esilissimo, quasi una sfida, che deve reggere oltre due
ore e mezza di film. Evidentemente, nella sfida di Mann c'è una dimensione
teorica esplicita. La potremmo chiamare la rivendicazione dell'action movie
come chiave estetica di lettura del presente, come genere forte e come
metagenere.
Insomma: perché Michael Mann dirige un dramma
politicogiudiziario come se fosse un action movie? Meglio ancora: perché
pensa che l'action movie possa essere all'altezza di dar conto nientedimeno
che delle logiche del potere e del capitale? La risposta potrebbe essere
semplice e suggestiva: perché l'action movie evidenzia e smaschera le forme
di violenza insite nei rapporti tra gli individui e l'economia. Violenza,
sopraffazione, menzogna, segretezza: se io giro un film sulle multinazionali
come un film d'azione puro, come se le telefonate fossero sparatorie e le
violazioni della privacy fossero inseguimenti, come se i telefoni fossero
pistole e le redazioni quartier generali, la dimensione di violenza di
questi rapporti apparirà con assoluta chiarezza. Crowe è un pentito come
un altro ("insider" è l'infiltrato, la voce interna), al posto
delle multinazionali potrebbe esserci la mafia e al posto del tabacco
l'eroina. Si sparerebbe un po' più, ma la sostanza non sarebbe diversa. Il
procedimento di "Arturo Ui" vale ancora. Non credo sia
assolutamente un caso se il protagonista Al Pacino si dichiara ad un certo punto allievo di
Marcuse.
Mann dirige film d'azione sempre, e qui addirittura
costruisce delle sequenze "vuote" dal punto di vista narrativo al
solo scopo di mostrare i muscoli. Pacino si agita, si dimena per strada,
sbatte i pugni, si aggrappa alle cornette del telefono (e Giannini gode); e
si vede che il regista non vede 1'ora di mettere una pistola in mano a un
personaggio. Ci riesce, dopo il prologo, in un'altra occasione, quando
Russell Crowe esce in strada convinto di essere spiato.
In questa chiave, il film ha le sue idee migliori: come la
continua contrapposizione di luce e buio, e soprattutto di interni ed
esterni. I personaggi stanno sempre in interni in prossimità di una
finestra da cui si veda una città, spesso diurna, da cui provengono brusii,
rumori di clacson (o, all'inizio, il frastuono delle città arabe): l'uso
del sonoro è un indubbio punto di forza della regia di Mann. (Luce e ombra,
poteri occulti e palesi erano anche l'idea figurativa di base di un
altissimo film di metagenere sul Potere in America: Il padrino ). Il film è
prima di tutto, nella messa in scena, una indagine sui luoghi del potere, le
redazioni le anticamere i tribunali ecc. Centrato sul tema della
comunicazione, Insider è poi sovraffollato di telefoni, fax e
videocamere, e addirittura di scritte che commentano, davvero
brechtianamente, l'azione: “Our Nation”, “Lies” e vari
cartelloni e poster attraversano le inquadrature della redazione.
Eppure, descrivere Insider come un action-movie
brechtiano è insieme inesatto e parziale. Il film di Mann è anche e
soprattutto un film sull'etica dell'azione, e dunque dell'action movie. Un
film calvinista, neo-hawksiano.
La morale sta nel lavoro fatto bene, e la dignità dei
personaggi sta nella possibilità sempre aperta, per quanto contrastata, di
compiere bene il proprio lavoro. La cosa più discutibile è semmai che Mann
veda una forte contrapposizione tra il "Potere" e "Lavoro ben
fatto". Ad ogni modo, nonostante la sua ansiogena cupezza figurativa, Insider
non rinuncia alla prospettiva di fondo dell'individualismo democratico, ed
eventualmente della sua crisi. La solitudine è la prova che i protagonisti
devono attraversare, e che non sarà alla fine compensata da nessun ritorno
in seno alla comunità. E se all'inizio la vicenda del piccolo uomo di
fronte all'industria può sembrare prevedibile, è l'entrata in azione (e in
crisi) di Pacino a sdoppiare letteralmente la vicenda per cui, come in Heat,
due uomini si specchiano e si fronteggiano a distanza. Pacino, che sembra un
uomo forte e potente, ripercorrà le tappe attraversate da Crowe e
conoscerà la solitudine e l'isolamento; ma la solitudine e in definitiva il
radicale individualismo sono anche la chiave di una possibile, pur parziale,
vittoria: se è vero quel che Pacino dice, "sono solo stavolta",
è anche innegabile che anche davanti alla televisione, in ultima istanza,
ogni spettatore è solo e dunque libero, e dunque può (come ha fatto
Pacino) scegliere.
Nelle inquadrature di Mann, ogni spettatore guarda la
televisione da solo, e questo sembra essere per Mann non solo un tremendo
dato di fatto del nostro tempo, ma anche un paradossale fondamento di
libertà (eventualmente politica). Proprio perché tutto interno alla logica
dell'action movie, proprio perché così coscientemente teso a produrre
senso dall'azione filmica, a dotare il proprio "lavoro ben fatto"
di valore etico-estetico, Mann mostra suo malgrado i limiti del genere.
Insomma, se gli anni '90 sono stati, a Hollywood, gli anni
dell'action movie, ho idea che questo genere sia risultato nel suo complesso
non all'altezza dei tempi. Non è vero che tutti i generi sono uguali: nel
suo complesso, l'action movie non ha prodotto niente di lontanamente
avvicinabile non dico al western o al musical degli anni '60, ma neanche
all'horror degli anni '80. L'action movie non è un genere sufficientemente
denso (di archetipi, di figure retoriche, di radici letterarie ecc.) per dar
conto dei nostri anni, e proprio un risultato bizzarro e intelligente,
sperimentale come Insider ne dà la prova.
Mann non ha voluto fare un "sur-action movie",
ma ha compiuto una traslazione di procedimenti narrativi in altro ambito
(come certi western in abiti moderni, o certi horror mascherati da melò, o
come di recente, sempre con l'action movie, ha tentato il Cameron di Titanic,
dividendo però seccamente il film in action e storia d'amore fin quasi alle
soglie del fantastico). E così facendo rimane paradossalmente indietro non
solo al noir classico (che non è, ovviamente, un modello proponibile), ma
anche alle sue geniali deflagrazioni degli anni '70, agli Altman o ai
lentissimi ipnotici notturni Klute, Bersaglio di notte...
La perdita di candore degli autori del cinema americano
medio-alto, esemplificata da un film come American Beauty (i cui due
elementi validi, uno dei quali era il titolo, non sono che scolastiche
applicazioni delle idee di «Amore e morte nel romanzo americano", per
cui la "bellezza americana" è la morte, lo schizzo di sangue è
lacascata delle rose e la lolita è la belle dame sans merci), segna anche
un film certamente meno main-stream come questo Insider. Insomma,
l'etica professionale di Michael Mann rischia di essere una mistificazione
proprio perché l'innocenza è finita e il cinema americano non è più un
cinema di "generi". Proprio in autori che portano il genere alla
sua massima espressione, come Mann o Cameron, i limiti dell'action movie
americano si palesano. Il film d'azione americano degli anni '90 non ha
sufficienti luci ed ombre, non è abbastanza anarchico e distruttivo e
vitale, ne abbastanza sottile per poter diventare il cinema americano per
eccellenza.
Non è forse un caso che i veri maestri del cinema
d'azione contemporaneo, i registi di Hong Kong (da Woo a Ringo Lam a Tsui
Hark) siano rimasti più o meno imbrigliati al loro arrivo a Hollywood, o
abbiano tentato di trasportare il genere altrove (Face/Off). Il
grande cinema americano di oggi sta oltre i generi, o dopo la loro morte:
Malick è oltre il genere, Jarmusch, Ferrara, Lynch, Burton, sanno alla
perfezione i generi ma anche, come diceva Fiedler, i punti cardinali della
letteratura americana (il southern, il western, il northern e l'eastern). Michael Mann, spericolato e intelligente,
volutamente ignora il tragico del cinema americano, la potenza che esso ha
assunto in quanto narratore di crisi: non solo, per fare una battuta, il
tragico classico dell'altro (e ben più grande!) Mann, Anthony, ma anche il
tragico moderno dell'ultimo Scorsese, forse meno controllato ma assai più
dolente, più umano, meno generico.
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