I 5 nUOVI sANTI DELLA cHIESA CATTOLICA 

ALL'11 oTTOBRE 2009

 

1. SIGISMONDO FELICE FELIŃSKI

2. FRANCESCO COLL GUITART

3. JOSEF DAMIAAN DE VEUSTER (PADRE DAMIANO)

4. RAFFAELE ARNÁIZ BARÓN

5. MARIE DE LA CROIX JEANNE JUGAN

 

1.

SIGISMONDO FELICE FELIŃSKI

nacque il 1°novembre 1822 a Wojutyn

nella diocesi di Łuck, in provincia di Wołyń (oggi Ucraina),

dalla nobile famiglia di Gerard e di Ewa Wendorff, scrittrice, autrice

dei Diari della vita; fu il settimo di undici figli.

L'atmosfera evangelica della casa familiare gli offrì forti fondamenta

di fede e di moralità. Dai genitori imparò l'amore per Dio,

il sacrificio per la Patria, il rispetto verso l'uomo. Furono quei valori

che lo sostennero dopo la morte di suo padre, dopo la deportazione

di sua madre in Siberia per l'attività patriottica da lei svolta e dopo

la confisca da parte del governo zarista del patrimonio di famiglia.

All'età di 17 anni partì per il mondo con la fede nel cuore e la

fiducia nel sostegno della Provvidenza. La sua unica ricchezza erano:

«cuore innocente, religione ed amore fraterno per i simili ».

Ricevette l'istruzione matematica a Mosca, e quella umanistica a

Parigi. Come sua massima usò il motto: «Essere polacco sulla terra

significa vivere in modo divino e nobile ». Il suo patriottismo è

testimoniato dalla partecipazione all'insurrezione nella regione di

Poznań (1848) e la grandezza del suo spirito dall'amicizia con il vate

nazionale J. Słowacki. A Parigi, avvertendo la chiamata del Cristo,

decise di diventare prete.

Nel 1851 ritornò in patria ed entrò al Seminario di Żytomierz; la

successiva formazione proseguì presso l'Accademia Ecclesiastica di

Pietroburgo, dove fu ordinato sacerdote (1855). Ispirato dallo spirito

di misericordia fondò l'orfanotrofio e la congregazione religiosa

«Famiglia di Maria ». Al tempo stesso svolgeva gli incarichi di padre

spirituale e di professore dell'Accademia. Veniva considerato come

un « apostolo, pieno di umiltà, scienza e cultura », « protettore dei

poveri e degli orfani ».

Nominato il 6 gennaio 1862, dal beato Pio IX, arcivescovo di

Varsavia, governò sulla Vistola per soli 16 mesi, in condizioni parti14

colarmente difficili. Ciò nonostante in quel breve tempo sviluppò

un'attività fruttuosa finalizzata a ravvivare la vita religiosa dell'arcidiocesi.

Quell'«uomo della Provvidenza », segno della « Misericordia

di Dio », fondò nella capitale il Centro di rinascita spirituale;

organizzava le missioni e gli esercizi spirituali nelle chiese, negli

ospedali e nelle carceri; invitava i sacerdoti ad un lavoro zelante, alla

preoccupazione per la sobrietà della popolazione, alla divulgazione

della parola di Dio, alla catechesi, allo sviluppo dell'istruzione.

Propagava il culto del Santissimo Sacramento e della Madre di Dio

e per onorarla diffuse le funzioni di maggio; sosteneva l'ordine

francescano. Fondò l'orfanotrofio e la scuola e li consegnò alle cure

delle suore della Famiglia di Maria.

Perseguì l'unità e la solidarietà dell'episcopato; si impegnò a

creare un collegamento stretto fra i vescovi e il Sommo Pontefice. Si

fece avanti come «Angelo della pace», invitando i fedeli alla

riflessione e al lavoro fruttuoso per il bene del paese. Guidato

dall'esperienza, cercava di trattenere la nazione perché non fosse

travolta da una rivolta sconsiderata. Dopo lo scoppio dell'insurrezione

del gennaio 1863, prese le difese del popolo. Il cambiamento

della politica della Russia nei confronti del Regno di

Polonia fece sì che Feliński fosse diventato scomodo. Chiamato a

Pietroburgo lasciò Varsavia il 14 giugno 1863, sotto scorta militare

come prigioniero di stato.

Condannato all'esilio in Russia, a Jaroslavl sul Volga

passò 20 anni, splendendo per santità di vita. Dedito alla preghiera,

all'apostolato e alle opere di misericordia prese sotto le proprie cure

gli esiliati siberiani, portando loro il conforto spirituale e l'aiuto

materiale. La propria sorte l'aveva deposta nelle mani del Santo

Padre. La memoria del «santo vescovo polacco » rimase viva sul

Volga per lunghi decenni. Dopo 20 anni, a seguito dell'accordo tra il

governo russo e la Santa Sede fu liberato (1883), ma non gli fu

concesso di tornare a Varsavia.

Gli ultimi anni della vita Feliński li passò come Arcivescovo

titolare di Tarso a Dźwiniaczka (diocesi di Leopoli), sotto il dominio

austriaco, dedicandosi al lavoro sacerdotale, sociale ed educativo tra

il popolo contadino. Nell'ambiente di quella campagna portò lo

spirito della rinascita religiosa, della convivenza pacifica dei polacchi

ed ucraini ed anche della collaborazione fruttuosa in nome della

fratellanza evangelica. Il popolo lo considerava padre e tutore,

«santo sacerdote ».

Mons. Feliński morì il 17 settembre 1895 a Cracovia in concetto di

santità. Scrissero di lui: « cessò di battere un gran cuore »; lasciò

come eredità regale «un abito talare, un breviario e tanto amore tra

la gente ». Dopo un solenne funerale a Cracovia le sue spoglie mortali

riposarono per 25 anni al cimitero di Dźwiniaczka, circondate dalla

venerazione dei polacchi ed ucraini. E quando la Polonia riconquistò

l'indipendenza furono portate a Varsavia (1920) e deposte nella

Cattedrale di San Giovanni (1921).

La Congregazione delle Suore Francescane della Famiglia di Maria

come un piccolo granello sparso dal Feliński a Pietroburgo (1857),

crebbe e divenne una grande famiglia. Le suore lavorano

attualmente in Polonia, Brasile, Italia, Bielorussia, Ucraina, nella

Federazione Russa e in Kazakhstan.

La vita di Sigismondo Felice Feliński, dai tempi della giovinezza,

era caratterizzata dall'aspirazione alla santità. Cristo era per lui « Via,

Verità, Vita ». Desiderava raggiungere un tale grado di unione con

Dio per poter dire assieme a San Paolo: « e non vivo più io, ma Cristo

vive in me». Si distingueva per la sua incrollabile fede e per la sua

immensa fiducia nella Provvidenza; poneva al primo posto l'amore

verso Dio e la Chiesa, il sacrificio per la Patria, il rispetto per gli

uomini. Il tratto caratteristico della sua spiritualità stava nell'enorme

onestà, coraggio e giustizia. Accanto a quel tratto spiccava il suo

spirito di sacrificio e di misericordia, avvolto dallo spirito della

serenità, umiltà, semplicità, lavoro e povertà francescani.

La memoria di lui, la fama della santità e numerose guarigioni

contribuirono alla sua fama di santità. Il Card. Stefan Wyszyński,

Primate di Polonia, aveva aperto la sua Causa di beatificazione nel

1965 a Varsavia, che dal 1984 proseguì a Roma.

Il Santo Padre Giovanni Paolo II lo beatificò il 18 agosto 2002 a Cracovia.

Dalla vita del Feliński possiamo attingere anche per i nostri tempi

lo spirito e il lume che dà senso alla nostra vita. La sua canonizzazione

invita a riflettere sul proprio cammino, sulla famiglia e

sulla sua rinascita, sulla costruzione della casa di tutti — la Patria —

sotto le cure della Provvidenza Divina e di Maria Santissima.

 

2.

FRANCESCO COLL GUITART, O.P.

fondatore delle Suore Domenicane dell'Annunziata

nacque in Gombrèn, diocesi di Vic nella provincia

di Gerona in Spagna, il 18 maggio 1812. Il 19 dello stesso mese e anno

ricevette il battesimo. Fin dall'infanzia si sentì portato al sacerdozio

ed entrò nel seminario della sua diocesi nel 1823, dove fece gli studi

umanistici e il triennio filosofico. Nel 1830 entrò nell'Ordine dei

Predicatori nel convento dell'Annunciazione di Gerona. Dopo il noviziato

e la professione religiosa fino alla morte, nell'ottobre del

1831, fece gli studi teologici e ricevette gli ordini sacri fino al diaconato.

Nell'agosto del 1835, con i suoi fratelli della comunità, si vide

obbligato ad abbandonare il convento a causa delle leggi persecutorie

contro i religiosi in Spagna. Visse eroicamente la sua consacrazione

religiosa come frate exclaustrato, visto che per tutta la durata

della sua vita non fu possibile riaprire nessun convento di frati

dell'Ordine dei Predicatori nel territorio della Provincia di Aragona

alla quale apparteneva. Ricevette l'ordinazione sacerdotale a Solsona

il 28 maggio 1836 e, avendo la certezza che non si autorizzava la riapertura

dei conventi, in accordo con i superiori, offrì il suo servizio

sacerdotale al Vescovo di Vic. Questi lo inviò come coadiutore alla

parrocchia di Artés, prima e, subito dopo, nel dicembre del 1839,

a quella de Moià.

Sin dall'inizio del suo ministero assunse impegni che andavano

oltre quelli strettamente parrocchiali. Lo zelo che lo divorava lo salvò

dall'inerzia della exclaustrazione. All'inizio fece parte de la « Hermandad

Apostólica » che promosse Sant'Antonio Maria Claret e si

impegnò a predicare esercizi spirituali e missioni popolari. Nel 1848

ricevette il titolo di Missionario Apostolico. Vari prelati lo chiamarono

nelle loro diocesi affinché svolgesse una predicazione

missionaria che fu pacificatrice in tempo di frequenti guerre civili. Il

suo nome divenne popolare e venerato nelle varie regioni della Catalogna.

Con insistenza reclamavano la sua predicazione evangelica

orientata a ravvivare la fede in mezzo al popolo di Dio e a conseguire

il ritorno dei lontani dalle pratiche religiose. Si servì in modo speciale

del Rosario, che propagò tra le genti dei paesi e delle città attraverso

il rinnovamento delle confraternite, fondando il Rosario Perpetuo al

quale si iscrissero migliaia di persone e con istruzioni rivolte ai fedeli

affinché meditassero con frutto i suoi misteri. Sempre per

promuovere il Rosario, pubblicò piccoli libri intitolati La Hermosa

Rosa e La scala del cielo, di cui si stamparono diverse edizioni in

un gran numero di esemplari perché si distribuissero abbondantemente

durante le missioni. Predicava tutti gli anni la quaresima e i

mesi di maggio e di ottobre in onore di Maria in città importanti: Barcellona,

Lérida, Vic, Gerona, Solsona, Manresa, Igualada, Tremp, Agramunt, Balaguer…

Constatando l'ignoranza religiosa e la non corrispondenza alle

norme della vita cristiana da parte dei battezzati fondò il 15 agosto

1856 la Congregazione delle Suore Domenicane dell'Annunziata

per la santificazione dei suoi membri e l’educazione cristiana dell'infanzia

e della gioventù, che vivevano nell'abbandono e nell'ignoranza

religiosa. La Congregazione si estese, non solo in Europa,

ma anche in America, Africa e Asia.

L'impegno e la predicazione, particolarmente per mezzo degli

esercizi spirituali diretti a sacerdoti e religiose, missioni popolari,

quaresimali, novene e altri modi di evangelizzazione, si può ben dire

che durarono fino al termine della sua vita, anche quando negli

ultimi cinque anni si ammalò di apoplessia progressiva che lo rese

cieco. Tale malattia si verificò lo stesso giorno in cui i vescovi del

mondo cattolico si riunivano a Roma per iniziare i lavori del Concilio Vaticano I.

Morì santamente in Vic il 2 aprile 1875. Fu beatificato dal Servo di

Dio Giovanni Paolo II il 29 aprile 1979.

 

3.

JOSEF DAMIAAN DE VEUSTER

— il futuro Padre Damiano ss.cc. —

nasce a Tremelo, in Belgio, il 3 gennaio 1840, da una famiglia numerosa di

agricoltori-commercianti. Suo fratello maggiore entra nella Congregazione

dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria e, proprio quando suo

padre pensa a Giuseppe per affidargli l’impresa di famiglia, decide

anche lui, senza indugio, di diventare un religioso e, all’inizio del

1859, comincia il suo noviziato a Louvain, nello stesso convento dove

sta anche suo fratello; là prende il nome di Damiano.

Nel 1863 suo fratello, in procinto di partire per le isole Hawaii, si

ammala. Essendo già stato preparato il viaggio, Damiano ottiene dal

Superiore Generale il permesso di partire al posto di suo fratello. Il 19

marzo 1864 sbarca a Honolulu, il 21 maggio 1864 è ordinato sacerdote

e si getta immediatamente anima e corpo nella dura vita di missionario

in due villaggi delle Hawaii, la maggiore delle isole dell’arcipelago.

In quegli anni il governatore delle Hawai, per arginare la

propagazione della lebbra, decide di deportare nella vicina isola di

Molokai tutti quelli che sono colpiti dalla malattia per quei tempi

ancora incurabile. La sorte dei malati preoccupa tutta la missione

cattolica, in particolare il vescovo, Monsignor Louis Maigret, ss.cc.,

che ne parla con i suoi sacerdoti. Il vescovo, però, nonostante il voto

di obbedienza fatto dai suoi sacerdoti, non se la sente di inviare

nessuno a Molokai, perché sa che un simile ordine significherebbe

morte certa per chi va in quel luogo. Tuttavia quattro confratelli si

offrono volontari per andare a turno a visitare ed assistere i lebbrosi

soli con la loro disperazione. Damiano è il primo a partire e il 10

maggio 1873 arriva a Molokai. Su sua richiesta e su quella degli stessi

lebbrosi, ottiene di rimanere definitivamente sull’isola. Contagiato

anche lui dalla lebbra, muore il 15 aprile del 1889. I suoi resti saranno

rimpatriati nel 1936 e depositati nella cripta della chiesa

della Congregazione dei Sacri Cuori a Louvain.

Damiano è universalmente riconosciuto per aver liberamente

scelto di condividere la vita con i lebbrosi confinati sulla penisola di

Kalaupapa a Molokai. La sua partenza per l’isola « maledetta »,

l’annuncio della sua malattia nel 1885 e quello della sua morte

colpirono profondamente i suoi contemporanei di tutte le confessioni.

Dopo la sua scomparsa, il mondo lo ha considerato un

modello e un eroe di carità. Identificandosi con i lebbrosi, fino al

punto di dire «noi lebbrosi », ha continuato a ispirare milioni di

credenti e non-credenti, desiderosi di imitarlo e di scoprire la fonte

del suo eroismo.

Testimone e servitore ... senza ritorno

La vita di Padre Damiano ci rivela che la sua generosità lo portava

costantemente a fare sua qualunque iniziativa nella quale si riconoscesse

la mano della Provvidenza. Le molteplici circostanze

della sua vita sono dei segni e degli appelli che egli ha saputo vedere

e cogliere, seguendoli con tutta la sua energia e avendo la coscienza

di compiere la volontà di Dio. «Persuaso che il buon Dio non mi

domanda l’impossibile, affronto ogni cosa in maniera risoluta, senza

sconvolgermi...» (Lettera al Padre Generale, 21.12.1866), come

avviene durante un ritiro spirituale, a Braine-le-Comte, dove studia e

decide di seguire la chiamata di Dio alla vita religiosa, entrando nella

stessa Congregazione dove lo aveva preceduto suo fratello. La

malattia di quest’ultimo gli offre l’occasione di proporsi missionario

al posto suo. Dopo che la sua richiesta è accettata, si imbarca per le

Hawaii, dove il vescovo descrive ai suoi missionari la situazione

disperata dei lebbrosi di Molokai. A quel punto Damiano sente di

doversi offrire volontario per servirli.

Damiano concepisce la sua presenza tra i lebbrosi come quella di

un padre tra i suoi figli, pur sapendo cosa avrebbe significato la

frequentazione quotidiana dei malati. Prendendo tutte le precauzioni

ragionevoli, riesce ad evitare il contagio per più di dieci

anni, ma alla fine la lebbra lo colpisce. Riafferma la sua fiducia in Dio

e dichiara: «Sono felice e contento. E, se mi dessero l’opportunità di

guarire andandomene da qui, risponderei senza esitazione: “Resto

con i miei lebbrosi tutta la mia vita”».

Medico di corpi e anime

Spinto dal desiderio di alleviare la sofferenza dei lebbrosi,

Damiano s’interessa ai progressi della scienza. Sperimenta su di sé

nuovi trattamenti che condivide anche con i malati. Giorno dopo

giorno, cura gli infermi, fascia le loro orribili piaghe, conforta i

moribondi e seppellisce nel cimitero, da lui chiamato «il giardino dei

morti», coloro che terminano il loro calvario.

Cosciente del potente impatto della stampa, incoraggia coloro

che pubblicano libri e articoli sui lebbrosi di Molokai. Da lì nasce un

grande movimento di solidarietà che permette di migliorare ancora

la sorte dei malati. La sua familiarità con la sofferenza e la morte

avevano affinato in lui il senso della vita. La pace e l’armonia che

dimoravano nella sua anima si diffondevano intorno a lui. « Faccio

l’impossibile — dice — per mostrarmi sempre gaio, per rincuorare i

malati ». La sua fede, il suo ottimismo, la sua disponibilità toccano i

cuori. Tutti si sentono invitati a condividere la sua gioia di vivere, a

superare, nella fede, i limiti della miseria e dell’angoscia e allo stesso

tempo quelli dell’esilio nel quale vivono. Chiamati ad incontrare un

Dio che li ama, ne scoprono l’affettuosa vicinanza e quella del loro

caro «Kamiano ».

Costruttore di comunità

«L’inferno di Molokai», fatto di egoismo, di disperazione e

d’immoralità, si trasforma, grazie a Damiano, in una comunità che

sorprende lo stesso governo. Orfanotrofio, chiesa, case, edifici

pubblici: tutto è realizzato con l’aiuto dei più validi. Si amplia

l’ospedale, viene sistemato il porto e le vie di accesso, nello stesso

tempo viene costruita una condotta d’acqua. Damiano apre un

magazzino, dove i malati possono approvvigionarsi gratuitamente e

si prodiga per la coltivazione della terra e dei fiori. Organizza perfino

una banda musicale per allietare il tempo libero dei malati...

Così grazie alla sua presenza e alla sua azione, i lebbrosi

abbandonati al loro destino riscoprirono la gioia di stare insieme. Il

dono di sé, la fedeltà, i valori familiari riacquistano tutto il loro

valore. La vita in comune per necessità o costrizione lascia il posto al

rispetto dovuto a tutti gli esseri umani, anche se orribilmente

sfigurati dalla lebbra. Damiano fa loro scoprire che agli occhi di Dio

ogni essere umano è infinitamente prezioso, perché Dio li ama come

un Padre e, in lui, tutti si riconoscono fratelli e sorelle.

È facile capire come quest’uomo di comunione dovette soffrire

per l’assenza al suo fianco di un confratello di cui

non smise mai di reclamare la presenza.

Apostolo dei lebbrosi

È nel suo cuore di sacerdote e missionario l’eco della chiamata

per servire i lebbrosi. « I lebbrosi sono orribili a vedersi, ma hanno

un’anima riscattata al prezzo dell’adorato sangue del nostro Divino

Salvatore ». Damiano li beneficerà di tutte le ricchezze del suo

ministero sacerdotale, riconciliandoli con Dio e con loro stessi e

assicurando loro il mezzo per unire le loro sofferenze a quelle di

Cristo, attraverso la comunione con il suo Corpo e il suo Sangue.

Battesimi, matrimoni e sepolture si celebrano con l’intento di

aprire gli spiriti e i cuori alle dimensioni universali della chiesa di

Cristo. Rifiutati dalla società, i lebbrosi di Molokai scoprono che la

loro malattia vale la sollecitudine del cuore di un sacerdote totalmente

devoto a loro. «La mia più grande gioia è di servire il Signore

attraverso i suoi poveri figli malati, respinti dagli altri uomini » (L. 86).

Seminatore d’ecumenismo

Damiano si sente prima di tutto un missionario cattolico,

rimanendo però uomo del suo tempo. Convinto della sua fede,

rispetta tuttavia anche le convinzioni religiose degli altri, accettandoli

come persone da cui ricevere con gioia collaborazione e

aiuto. Con il cuore pienamente aperto alla più abietta delle miserie

umane, non fa alcuna discriminazione nell’avvicinarsi ai lebbrosi per

curarli. Nelle sue attività parrocchiali o caritative c’è posto per tutti.

Tra i suoi amici — e dei migliori — ci sono il luterano Mr. Meyer,

soprintendente dell’ospedale dei lebbrosi, l’anglicano Clifford, pittore,

il libero pensatore Mouritz, medico a Molokai, e il buddista

Goto, leprologo giapponese.

Damiano è stato molto più di un filantropo o l’eroe di un giorno!

Tutti lo riconoscono come il servo di Dio, quale sempre si è mostrato,

e rispettano la sua passione per la salvezza delle anime.

L’uomo dell’Eucaristia

«Il mondo della politica e della stampa possono offrire pochi eroi

come Padre Damiano di Molokai. Varrebbe la pena di cercare la

fonte d’ispirazione di tanto eroismo! ». Ecco come il Mahatma

Gandhi riassumeva gli interrogativi che suscitavano la vita di Padre Damiano.

La risposta la troviamo nella fede che egli ha vissuto come religioso

dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria. Damiano ha ricevuto la

grazia per contemplare, vivere ed annunciare l’amore misericordioso

di Dio rivelato in Gesù e al quale ci conduce la Vergine Maria.

Per compiere questa missione, la sua esperienza personale, guidata

dalla tradizione della sua Congregazione, gli fa trovare la forza nella

fonte stessa dell’amore e della vita: l’Eucaristia. Gesù, divenuto

pane di vita e presenza viva e confortante dell’amore di Dio.

La sua imitazione di Gesù, vita per affamati e infermi, lo spinge a

identificarsi con il suo povero gregge. Grazie all’amore di «Colui che

non mi abbandona mai», rimane fedele fino alla fine, al di là della

malattia crudele, della penosa solitudine, delle critiche ingiuste e

dell’incomprensione dei suoi...

La sua testimonianza è incontestabile. «Senza la presenza del

nostro divino Maestro nella mia piccola cappella, non avrei mai

potuto legare il mio destino a quello dei lebbrosi di Molokai».

La voce dei senza voce

Una tale presenza fra i reietti del mondo, non poteva non

interrogare le coscienze. Meno di due mesi dopo la morte di

Damiano, viene fondata a Londra il «Leprosy Fund», prima organizzazione

per la lotta contro la lebbra. Nulla può giustificare

l’isolamento e l’abbandono di un essere umano. «Noi lebbrosi » non

è un’espressione retorica, ma la verità di un’identificazione con

coloro che, malgrado la loro malattia, non cessano di avere diritto al

rispetto, alla dignità, all’amore. Condividendo la vita dei lebbrosi,

divenendo alla fine lui stesso un lebbroso, Damiano ha lanciato un

vibrante appello al riconoscimento della dignità di tutti coloro che

rischiano di essere emarginati per una malattia, un handicap o una

disgrazia. Nulla può giustificare l’isolamento o l’abbandono di un

essere umano.

Messaggero di speranza

La vita e la morte di Damiano sono dei fatti profetici. Non solo

sono una denuncia contro atteggiamenti contrari al rispetto dei

diritti dell’uomo, ma sono anche un appello alla speranza.

Oggi come allora, nel mondo ci sono emarginati di ogni tipo:

malati incurabili (colpiti da AIDS e tanti altri), bambini e anziani

abbandonati, giovani disorientati, donne abusate, minoranze oppresse...

Per tutti vale l’appello di Padre Damiano che ricorda

l’amore infinito di Dio fatto di compassione, fiducia, speranza e che

denuncia le ingiustizie. In Damiano tutti possono trovare l’araldo

dalla Buona Novella. Come il Buon Samaritano, si è accostato a tutti

coloro che la malattia aveva relegato ai margini del sentiero della

vita. Per questo Damiano è un esempio per ogni uomo e ogni donna

che desideri impegnarsi nella lotta per un mondo più giusto, più

umano, più conforme al cuore di Dio.

Servitore di Dio, Damiano è e resterà per tutti il servitore

dell’uomo che più che vivere ha bisogno di ragioni per vivere.

Ecco il Damiano che oggi ancora ci sfida.

 

4.

RAFFAELE ARNÁIZ BARÓN

nacque a Burgos (Spagna) il 9 aprile 1911

da una famiglia di elevato livello sociale e profondamente cristiana.

A Burgos fu battezzato e cresimato e iniziò i suoi studi nel Collegio dei

Padri Gesuiti, dove nel 1919 fu ammesso alla Prima Comunione.

Proprio in quegli anni ricevette la prima visita della malattia: delle

persistenti febbri colibacillari lo obbligarono a interrompere gli studi.

Una volta guarito, suo padre, in ringraziamento per quello che

considerò un intervento speciale della Santissima Vergine, alla fine

dell'estate del 1921, lo condusse a Saragozza e qui lo consacrò alla

Vergine del Pilar, fatto che non mancò di segnare profondamente

l'animo di Raffaele.

Quando la famiglia si trasferì a Oviedo, egli proseguì gli studi

secondari nel locale Collegio dei Padri Gesuiti, ottenendo la maturità

scientifica e iscrivendosi alla Scuola Superiore di Architettura di

Madrid, dove seppe armonizzare lo studio con una

fervorosa e costante vita di pietà.

D'ingegno brillante e versatile, Raffaele si distingueva anche per

uno spiccato senso dell'amicizia e per finezza di tratto. Dotato di un

carattere allegro e gioviale, sportivo, ricco di talento per il disegno e

per la pittura, amava la musica e il teatro. Ma man mano che

cresceva in età e sviluppava la sua personalità, cresceva anche nella

sua esperienza spirituale di vita cristiana.

A Madrid, durante gli studi universitari di architettura, nel suo

programma di studio e di vita molto ordinato ed impegnativo, aveva

introdotto una lunga visita quotidiana al Santissimo Sacramento (il

«Padrone ») nella Cappella del « Caballero de Gracia » ed era fedelissimo

nella partecipazione ai suoi turni di adorazione, come

membro dell'Associazione per l'Adorazione Notturna.

Nel suo cuore, ben disposto all'ascolto, Dio volle suscitare l'invito

ad una consacrazione speciale nella vita contemplativa. Preso

contatto con la Trappa di San Isidro de Dueñas, Raffaele si sentì

fortemente attratto verso quello che gli apparve come il luogo che

meglio corrispondeva ai suoi desideri più intimi. Nel dicembre 1933

egli interruppe improvvisamente i suoi corsi universitari e il 16

gennaio 1934 entrò nel monastero di San Isidro.

Dopo i primi mesi di noviziato e la prima Quaresima vissuti con

entusiasmo, abbracciando le dure austerità della Trappa, Dio volle

misteriosamente provarlo con una repentina e penosa infermità: una

forma gravissima di diabete mellito, che lo obbligò ad abbandonare

in tutta fretta il monastero e ritornare in famiglia, per essere curato

in modo adeguato dai suoi genitori.

Rientrò alla Trappa appena ristabilito, ma la malattia lo costrinse

più volte ad abbandonare il monastero. Ma altrettante volte egli volle

rientrarvi, nell'imperativo interiore di una risposta generosa e fedele

a quella che sentiva essere la chiamata di Dio.

Santificatosi nella gioiosa ed eroica fedeltà alla sua vocazione,

nell'amorosa accettazione dei disegni divini e del mistero della

Croce, nella ricerca appassionata del Volto di Dio, affascinato dalla

contemplazione dell'Assoluto, nella tenera e filiale devozione alla

Vergine Maria — « la Signora », come amava chiamarla — consumò

la sua vita all'alba del 26 aprile 1938, a 27 anni appena compiuti, e fu

sepolto nel cimitero del monastero e, in seguito, nella chiesa abbaziale.

Ben presto la fama della sua santità si diffuse al di là delle mura del

monastero. Insieme alla fragranza della sua vita, i suoi numerosi

scritti spirituali continuano a diffondersi e ad essere ricercati con

grande profitto per quanti entrano in contatto con lui. È stato definito

uno dei più grandi mistici del XX secolo.

Il 19 agosto 1989 il Santo Padre Giovanni Paolo II, in occasione

della Giornata Mondiale della Gioventù a Santiago de Compostela, lo

propose come modello per i giovani del nostro tempo e

il 27 settembre 1992 lo proclamò Beato.

Con la Canonizzazione il Papa Benedetto XVI lo offre come

amico, esempio e intercessore a tutti i fedeli, ma soprattutto ai giovani.

 

5.

MARIE DE LA CROIX JEANNE JUGAN

nasce in Bretagna, a Cancale (Francia), il 25 ottobre 1792

in piena tormenta rivoluzionaria, sesta di una famiglia di

otto figli di cui quattro moriranno in tenera età. Suo padre, marinaio

e pescatore, scompare in mare mentre lei ha solamente quattro anni.

Sua madre, crescerà da sola i suoi quattro bambini.

Da sua madre, dalla sua terra natale, Jeanne eredita una fede viva

e profonda, un carattere fermo, una forza d'animo che nessuna

difficoltà riuscirà a scuotere. Ecco cosa è stato scritto a proposito

della fede dei cancalesi: «Malgrado la persecuzione, il popolo

cancalese aveva conservato la fede. Nella notte profonda, in una

soffitta o un fienile, o anche in mezzo alla campagna, i fedeli si

riunivano, e là, nel silenzio della notte, il sacerdote offriva il santo

sacrificio e battezzava i bambini. Ma questa gioia era rara, c'erano

tanti pericoli» (cfr. Abbé BOULEUX, Registre des classes pp. 28, 30-31;

citato nella Positio p. 9)

A causa del clima politico e delle difficoltà economiche,

Jeanne non può andare a scuola. Impara a leggere e a scrivere

mentre apprendeva il catechismo, grazie alle terziarie eudiste

molto diffuse nella regione.

Jeanne appartiene a questo mondo dei poveri e dei piccoli dove,

ben presto, si conosce la legge del lavoro. Ancora bambina, pregando

il rosario, custodisce il gregge sulla collina che domina la baia di

Cancale, in un luogo meraviglioso che eleva e dilata la sua anima.

Di ritorno a casa, aiuta sua madre nelle faccende domestiche.

A 15 anni, va a lavorare a 5 km da Cancale, in una casa borghese

dove, con la proprietaria, andrà incontro ai bisognosi. Povera lei

stessa, ha potuto percepire un po' dell'umiliazione che si prova

 nell'essere assistiti. Viene anche messa in contatto con

un ambiente sociale diverso dal suo.

Il 1801 segna una tappa importante per la Chiesa di Francia.

Firmando il Concordato, il 16 luglio, Bonaparte autorizza di nuovo la

libertà di culto. È un vero risveglio spirituale. Nel 1803, a St Servan,

(comune di St Malo), il vescovo di Rennes amministra il Sacramento

della Confermazione a più di 1.500 persone. Vengono fatte molte

missioni simili a quelle predicate nei secoli precedenti da San

Vincenzo De Paoli, San Giovanni Eudes o San Luigi Maria Grignion

de Montfort, per aiutare la rinascita religiosa. Una missione ha luogo

a Cancale nel 1816, un'altra a St Servan nel 1817. L'eloquenza dei

sacerdoti era «così forte, così pressante, così persuasiva che ben

presto, dalle 5 del mattino e tutte le sere fino alle 7, le nostre chiese

si dimostravano troppo piccole».

È in questo clima di fervore che Jeanne sente la chiamata del

Signore. Al giovane che la chiede in matrimonio, risponde: «Dio mi

vuole per sé. Egli mi riserva per un'opera che non è ancora

conosciuta, per un'opera che non è ancora fondata». E rispondendo

prontamente, fa due parti dei suoi vestiti, lascia quelli più belli alle

sorelle e parte per St Servan dove, per 6 anni, il suo lavoro di aiuto

infermiera la metterà in contatto con la miseria fisica e morale.

Chiede anche di appartenere al Terz'Ordine eudista. In esso scoprirà

un cristianesimo del cuore: «Avere una sola vita, un sol cuore, una

sola anima, una sola volontà con Gesù». Farà al tempo stesso

l'esperienza di una vita attiva e contemplativa centrata su Gesù. Da

questo momento in poi, non avrà più che un solo desiderio: «essere

umile come lo è stato Gesù». È il suo stile personale, un dono che la

caratterizza e a cui risponderà con tutto il cuore.

Dopo una prova di salute, Jeanne deve lasciare l'ospedale ed è

accolta da un'amica terziaria, la Signorina Lecoq, che servirà per

12 anni, fino alla sua morte nel 1835.

Nel 1839, ha 47 anni e condivide due piccole camere con due

amiche: Fanchon, 75 anni, e Virginie Trédaniel, una giovane orfana

di 17 anni. A St Servan, la situazione economica è pessima. Su 10.000

abitanti, 4.000 vivono di mendicità. Un ufficio di beneficenza è

fondato dall'amministrazione locale. Potranno usufruirne solo i

poveri del comune, a condizione di portare appeso al collo un cartello

che riporta la scritta «Povero di St Servan». Jeanne si situerà nelle

profondità di questa miseria. Dio l'ha aspettata nel povero, lei lo

incontrerà nel povero. Una sera d'inverno del 1839, Jeanne, commossa,

incontra una povera donna, anziana, cieca ed inferma, che

ha perso da poco il suo unico appoggio. Jeanne non esita un secondo.

La prende tra le sue braccia, le dà il suo letto e se ne va a dormire in

soffitta. È la scintilla iniziale di un grande fuoco di carità. D'ora in poi

nulla più la fermerà. Nel 1841, affitta una grande stanza dove

accoglie 12 persone anziane. Alcune giovani si uniscono a lei. Nel

1842, acquista - pur non avendo denaro - un vecchio convento in

rovina dove ben presto saranno ospitati 40 anziani. Per far fronte al

problema finanziario ed incoraggiata da un Fratello di San Giovanni

di Dio, Jeanne si lancia sulle strade, cesto al braccio. Si fa mendicante

per i poveri e fonda la sua opera sull'abbandono alla Provvidenza.

Nel 1845, le viene conferito il Premio Montyon che ogni anno ricompensava

«un francese povero che durante l'anno aveva compiuto

l'azione più virtuosa ». Seguono le fondazioni di Rennes e di Dinan

nel 1846, quella di Tours nel 1847, di Angers nel 1850. Qui menzioniamo

solo le fondazioni alle quali Jeanne ha partecipato, poiché

molto rapidamente la Congregazione si estenderà in Europa,

in America, in Africa del nord, poi poco tempo dopo la sua morte

in Asia ed in Australia.

Ma questa fecondità è il frutto di uno spogliamento totale,

radicale. Nel 1843, mentre Jeanne era appena stata rieletta superiora,

inaspettatamente e di sua sola autorità, l'abate Le Pailleur,

consigliere degli inizi, annulla l'elezione e nomina Marie Jamet (21

anni) al suo posto. Jeanne vede in ciò la volontà di Dio e si sottomette.

D'ora innanzi e fino al 1852, è attraverso la questua che sosterrà la

sua opera, andando da una casa all'altra, incoraggiando con il suo

esempio le giovani sorelle ancora inesperte, ottenendo le autorizzazioni

ufficiali necessarie alla sopravvivenza dell'Istituto.

Nel 1852, il vescovo di Rennes riconosce ufficialmente la Congregazione

e nomina l'abate Le Pailleur superiore generale del94

l'Istituto. Il primo gesto di quest'ultimo sarà quello di richiamare

definitivamente Jeanne Jugan alla Casa madre per un ritiro che

durerà 27 lunghi anni. Mistero di nascondimento. Alla fine della sua

vita, le giovani sorelle non sapranno neanche più che lei è la

fondatrice. Ma Jeanne, vivendo in mezzo alle novizie e postulanti

sempre più numerose a causa dell'estensione della Congregazione,

trasmetterà con la sua serenità, la sua saggezza ed i suoi consigli il

carisma che la abita e che ha ricevuto dal Signore. E questo, in un

costante spirito di lode. In verità poteva dire: «Siate piccole, piccole,

piccole»; «È così bello essere poveri, non avere niente, attendere

tutto dal buon Dio»; «Amate il buon Dio, è così buono. Affidiamoci

a lui»; «Non dimenticate mai che il Povero è nostro Signore»; «Non

rifiutate niente al buon Dio»; «Guardate il Povero con compassione

e Gesù vi guarderà con bontà».

Il 29 agosto 1879, si addormenta serenamente nel Signore dopo

aver pronunciato queste ultime parole: «Padre eterno, aprite le

vostre porte oggi alla più misera delle vostre figlie, che ha però tanto

desiderio di vedervi!... O Maria, mia madre buona, venite a me.

Sapete che vi amo e desidero tanto di vedervi».

La Congregazione all'epoca contava 2400 Piccole Sorelle diffuse

in 177 case in tre continenti. «Se il chicco di grano caduto in terra non

muore, rimane solo, se invece muore, porta molto frutto ».

Il 13 luglio 1979, Giovanni Paolo II riconosce l'eroicità delle sue

virtù e la beatifica nella Basilica di San Pietro, a Roma,

il 3 ottobre 1982.

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