Percorsi di Fede

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Il grande profeta Daniele

l'attendibilità storica della profezia delle Settanta settimane

che precedono l'Avvento del Messia in 9,24-27

Roma: Basilica di San Paolo fuori le mura

da sinistra a destra: Isaia Geremia Ezechiele Daniele

 Il profeta Daniele sul Web

Isaia - Geremia - Ezechiele - Daniele

Daniele e i 4 Regni prima del Messia

 

Chiarimenti: nelle note de “La Bibbia di Gerusalemme” (EDB, Bologna, 1974, p. 1938) si afferma che la profezia delle settanta settimane in Daniele 9,24-27 “si riferisce agli eventi della persecuzione di Antioco”. Lo sconcerto che ne sorge per chi non può contrastare tale affermazione, è superato dalla spiegazione della profezia contenuta nel libro di Antonio Socci, Indagine su Gesù, Rizzoli, Milano 2008, pp. 169-197. Antonio Socci, sebbene non sia professore di Teologia ed Esegesi, bensì direttore della Scuola di Giornalismo di Perugia, da giornalista, raccoglie studi e approfondimenti esegetici basilari, in gran parte trascurati, che contrastano opinioni dominanti e acriticamente accettate. Già come collaboratore della rivista Il Sabato, e poi di 30Giorni, lavorava con forza per sostenere la storicità dei fatti neotestamentari. Nel suo libro La guerra contro Gesù, Rizzoli, Milano 2011, passa a mostrare l’insostenibilità degli attacchi contro la storicità dei contenuti dei Vangeli, a partire dalla negazione della loro conoscenza e diffusione già nel primo decennio dopo la Risurrezione di Gesù a Roma stessa e nell’impero romano, fino alle asserzioni distruttive dell’Illuminismo e delle ideologie susseguenti e attuali.

Spunti per un approfondimento che asseriscono l’attendibilità storica della profezia di Daniele si trovano pure in internet, anche se per lo più in siti non cattolici. Degno di nota nel sito biblistica.it, il corso Il libro biblico di Daniele di Gianni Montefameglio.

 

Il testo di Daniele 9,24-27 nella traduzione CEI 2008:

 

24Settanta settimane sono fissate

per il tuo popolo e per la tua santa città

per mettere fine all’empietà,

mettere i sigilli ai peccati,

espiare l’iniquità,

stabilire una giustizia eterna,

suggellare visione e profezia

e ungere il Santo dei Santi.

25Sappi e intendi bene:

da quando uscì la parola

sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme

fino a un principe consacrato,

vi saranno sette settimane.

Durante sessantadue settimane

saranno restaurati, riedificati piazze e fossati,

e ciò in tempi angosciosi.

26Dopo sessantadue settimane,

un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui.

Il popolo di un principe che verrà

distruggerà la città e il santuario;

la sua fine sarà un’inondazione

e guerra e desolazioni sono decretate fino all’ultimo.

27Egli stringerà una solida alleanza con molti

per una settimana e, nello spazio di metà settimana,

farà cessare il sacrificio e l’offerta;

sull’ala del tempio porrà l’abominio devastante,

finché un decreto di rovina

non si riversi sul devastatore».

 

Uno dei fattori che tendono a rendere inefficace la vita e la visione cristiana sia nella singola persona che nella società (nella gestione civile, giudiziaria, amministrativa, nelle scelte socio-politiche) è il cedimento anche solo parziale alla convinzione che l’intervento di Dio nella storia non sia che fantasia e proiezione di aspettative umane, trasfigurazione in dimensione divina di realtà naturali, di dinamiche interiori all’uomo comprendenti l’intelligenza con i suoi postulati universali, ma chiuse in se stesse, nell’esclusione di ogni apertura a una realtà personale superiore. Da questa convinzione deriva che si ritiene che a reggere il corso della vita umana, delle società e degli avvenimenti siano solo forze naturali, le più potenti, individuate di volta in volta a seconda di ciò che appare ottenere successo e assegnando ad esse un valore assoluto, atto interiore questo da cui la mente umana non può esulare: l’intervento di Dio, la sua rivelazione nella storia, la Redenzione attraverso il Verbo incarnato, la sua presenza nella Chiesa e nei Santi (il dono della vita cristiana di grazia), sono ridotti a mito o a pure sublimi capacità umane. Di fatto l’annullamento del riferimento alla fede cristiana nella politica avvenne (illuminismo, rivoluzione francese, liberalismo, positivismo, marxismo) e avviene (modernismo, relativismo postmoderno) in concomitanza con la negazione della storicità dell’opera salvifica dell’Incarnazione, nella tolleranza, quindi, tutt’al più della fede come atteggiamento privato, insignificante a livello pubblico, il livello riguardante la conduzione della società. La fede cristiana, però, si regge sulla storicità della Rivelazione e dell’Incarnazione: e se il Creatore entra nella storia, non può non esserne il dominatore, il centro, il senso ultimo, la fonte di ogni norma. In questa storicità è affermata la regalità di Cristo, certo nel suo mistero di morte e di risurrezione che comporta la distinzione dell’ambito religioso da quello politico, ma non la loro separazione e il reciproco riferimento sia teorico che pratico. Essendo la realtà umana esteriore ed interiore (vita nello spazio come materia e vita interiore intelligente spirituale), negare la storicità di un avvenimento equivale a renderlo evanescente, inefficace. Il cedimento acritico, anche parziale, ad affermazioni di non storicità di eventi della storia della salvezza (salvezza che abbraccia l’intero l’uomo, corpo e spirito, e l’intera storia dalla creazione al compimento finale), rende, quindi, tendenzialmente ogni riferimento soprannaturale evanescente e l’azione interiore trasformante dello Spirito di Cristo Gesù indistinguibile dall’azione di un determinismo naturale.

L’esame critico delle Sacre Scritture e l’approfondimento dei suoi generi letterari – soprattutto nell’Antico Testamento – ha portato, particolarmente dal secolo scorso in poi, a distinguere nei fatti riportati – in alcuni casi con piena evidenza – dati storici da –ad esempio – intenzionali inclusioni interpretative di fede, da sviluppi all’interno di una accettata prospettiva originata da un carisma particolare, da narrazioni intenzionalmente costruite come simbolo. In una operazione di questo tipo è rilevante il pericolo che le ricerche – magari sulla scia di studi già inficiati da questa mentalità – siano influenzate dall’accennato convincimento di principio, oggigiorno dominante nella società e nella politica, dell’infondatezza storica della Rivelazione, convincimento frutto a sua volta non di ricerca, ma di un’opzione di principio a sfavore della fede. Il tendenziale indebolimento della fede, l’evanescenza di questa, ne è il frutto, con la propensione a ridurre a sole dinamiche umane l’azione della grazia, di rendere quindi ad essa insensibili.

Nell’esame critico del libro di Daniele il cedimento parziale a questa mentalità è apparso latente nella diffusa accettazione che l’indicazione temporale delle settanta settimane di anni per il compimento dell’avveramento messianico della “giustizia eterna” (Dn 9,24-27) per il “popolo” e “la santa città”, sia una segnalazione, posteriore ai fatti, riguardante la profanazione del tempio di Gerusalemme da parte di Antioco IV, tra il 167 e il 164 a.C., se pur proiettata in prospettiva messianica. Trattandosi di uno dei passi veterotestamentari più conosciuti e con precisa indicazione dei tempi, è latente in questa accettazione la convinzione dell’inattendibilità storica della rivelazione profetica e quindi uno scadimento del piano salvifico divino quasi a casualità e quindi a dinamica naturale. Ciò ha un’incidenza tanto maggiore in quanto il libro di Daniele affronta proprio il rapporto tra gli avvenimenti storico-politici e l’azione del Dio vero nella storia stessa. La profezia nel libro di Daniele, a confronto di altri profeti, è “apocalittica”, cioè rivelatrice, proprio perché indica modo e tempi dell’azione di Dio nei confronti degli avvenimenti storici.

Non può sorprendere il riconoscimento della sapienza e di capacità di governo in deportati giudei alla corte dei sovrani babilonesi, e questo in connessione con la loro fede nel Dio che adorano. Che essi assumessero nomi diversi dai propri è attestato, e che questi nomi indicassero un “programma” corrisponde all’agire intelligente. La sapienza che in loro risiede relativizza il potere politico (che costruisce false divinizzazioni), e attende un intervento salvifico di Dio che non si identifica con un dominio politico raggiunto con le armi, con conquiste di eserciti. E questo in una continuità, in tal modo teologicamente giustificata, con quanto richiedeva il profeta Geremia: di accettare la sottomissione al sovrano babilonese, ciò che avrebbe risparmiato la distruzione di Gerusalemme. Il nome “Daniele” significa “Dio è il Giudice”: è da Dio quindi che si aspetta la salvezza, non da forze politiche e militari. Mentre molteplici profezie negli altri libri veterotestamentari lasciano indeterminato il modo della realizzazione del dominio che il messia instaurerà, il libro di Daniele esclude, dunque, il modo militare-politico. L’interpretazione dei sogni, particolarmente quello della grande statua composta di diversi metalli e di creta ai piedi, distrutta da una pietra proveniente non da mani d’uomo (Dn 2), manifesta che il piano di Dio si basa sulla sapienza e sulla santità, mentre il resto è tutto caduco. Parimenti le vicende di Daniele e dei tre giovani giudei, il modo in cui sono salvati, manifestano che la potenza del Dio vero non è nella forza naturale. In questa dinamica, nel contesto delle visioni di carattere storico-politico, l’apparire nel c. 7 del Vegliardo e del Figlio dell’uomo a cui è dato “potere, gloria e regno” e che ricompare nel c. 12 “vestito di lino”, “sulle acque”, rivela e concretizza il modo dell’intervento di Dio nella storia, adombrando il mistero dell’Incarnazione. E il titolo messianico che Gesù applica a se stesso è proprio quello di “Figlio dell’uomo” (in tutti e quattro i vangeli) preso dal libro di Daniele, che va inteso all’interno della realizzazione messianica non politico-militare accennata.

Se le visioni, soprattutto quella dettagliata dei cc. 10-12, sembrano basarsi sulla conoscenza di fatti già avvenuti, si può supporre che il nerbo contenuto nel libro di Daniele che ha per centro l’intervento di Dio nella storia nel modo in cui si è accennato e che confluisce nel mistero del Figlio dell’uomo, nell’Incarnazione del Verbo, sia stato trasmesso e coltivato da un gruppo di giudei credenti e che essi abbiano inserito in visioni più indefinite dettagli dei fatti avvenuti nel corso del tempo fino alla persecuzione di Antioco IV. La redazione finale del libro sembra infatti risalire immediatamente a dopo questa persecuzione (167-164 a.C.). Tuttavia, non si mostra entusiasmo per l’azione militare dei Maccabei, pur non disprezzandola: si rimane così nella prospettiva danielitica del modo dell’intervento di Dio nella storia. Si ritiene che esistesse o sia sorto in quel periodo il gruppo degli esseni che si distanziava dalla politica dei Maccabei e dei loro successori, forse in continuità con il gruppo che coltivava il lascito di Daniele.

La profezia delle settanta settimane di anni, rivelata a Daniele dall’arcangelo Gabriele (Dn 9,24-27), l’arcangelo che chiederà alla Vergine Maria l’assenso all’Incarnazione in lei del Verbo, si inserisce in concomitanza con la preoccupazione di Daniele di comprendere come avverrà il termine della cattività babilonese ora che ormai si erano compiuti i settant’anni indicati da Geremia riguardo alla sua durata (Ger 25,11-12 e 29,10). È profezia apocalittica in quanto contiene tempi e modo dell’azione di Dio: in essa si rivela non solo la fine dell’esilio e la ricostruzione del tempio e della città di Gerusalemme, ma tutta la parabola storica del giudaismo fino al termine della potenza politica che, nella prospettiva danielitica, è quella che “dissipa le forze del popolo santo” (Dn 12,7). Questa profezia apocalittica, fa parte senz’altro del nerbo originario del libro di Daniele. Il modo, qui rimasto, succinto e alquanto indistinto nelle indicazioni, mostra, forse, come fosse il nucleo originario delle altre visioni su cui poterono inserirsi successivi redattori.

Il metro di misura del tempo indicato da Gabriele è il settenario di anni, una settimana di anni: “settanta settimane [di anni] sono fissate” (v. 24), cioè 490 anni. Il settenario corrisponde ai sette giorni della creazione che così sono posti a criterio da parte di Dio dello scorrere del tempo fino al riposo sabbatico definitivo. Corrisponde anche all’anno sabbatico e all’anno giubilare che dovevano essere celebrati relativamente ogni sette anni e ogni sette settimane di anni (49 anni), prescritti da Dio per il condono dei debiti, il riposo della terra, il suo cedimento ai vecchi proprietari, la liberazione di schiavi per insolvenza economica (Dt 15,1-3; Es 23,10-11; Lv 25,2-9). Il settenario corrispondendo alla visione del Dio Creatore assurge a criterio della misura del tempo, del compimento della sua volontà salvifica. Nello scorrere del tempo sono scelti (“fissati”) durate che richiamano la creazione e la redenzione.

La volontà salvifica di Dio consiste nel “mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei santi” (v. 24). Ciò che si compì solo con la Redenzione attraverso l’Incarnazione del Verbo in Cristo Gesù, la sua vita, passione, morte e risurrezione, e l’invio dello Spirito Santo. L’unzione del “Santo dei santi” è l’elevazione del Salvatore alla destra di Dio stesso.

Stabilire a quando risalga “la parola [il decreto] sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme” (v. 28) è di capitale importanza per il calcolo degli anni indicati. Non si può prendere il decreto di Ciro del 538 a.C. con cui permise il ritorno degli esiliati e la sola costruzione del tempio, in quanto non diede il permesso di ricostruire Gerusalemme, non volendo che si riedificasse una fortezza di cui si servissero eventuali ribelli. Il decreto che meglio corrisponderebbe all’indicazione della profezia è quello del 445 a.C. concesso a Neemia da Artaserse I per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme (Ne 2). La datazione – l’anteriorità o posteriorità – dell’operato di Esdra in rapporto con quella dell’operato di Neemia è alquanto discussa. Così c’è chi propende a stabilire che il decreto indicato dalla profezia sia quello a favore di Esdra concesso da un Artaserse nel suo settimo anno di regno (Esd 7, 6-7): se fosse Artaserse I si tratterebbe del 457 a.C., quindi dodici anni prima del 445 a.C., ma forse si tratta di Artaserse II, e in questo caso la missione di Esdra si sposterebbe nel 397 a.C., 49 anni più tardi.

Fino a un principe consacrato vi saranno sette settimane” (v. 25), cioè 49 anni. L’identificazione di questo “messia [= unto, consacrato] principe” – così in ebraico – molto dipende dalla punteggiatura che si stabilisce per l’originale ebraico, che è senza punteggiatura. Se dopo “sette settimane” si mette un punto, come nella traduzione CEI, il riferimento è senz’altro ad Esdra che, con l’approvazione di Artaserse II nel 397 a.C. (49 anni più tardi del 445), come si propende a ritenere, rimise in piedi lo stato ebraico ed è una “figura chiave della rinascita di Israele nell’epoca del secondo tempio, sia dal punto di vista religioso che civile. Il suo ruolo può essere paragonato a quello di Mosè per l’epoca precedente, finita con la prima distruzione di Gerusalemme. Da qui l’importanza che la profezia attribuisce al ‘principe sacerdote’ ” (A. Socci, Indagine su Gesù, Rizzoli, Milano 2008, p. 190). Se invece si unisce a “sette settimane” l’indicazione che segue “sessantadue settimane”, che nell’originale ebraico è preceduta dalla congiunzione “e” (“sette settimane e sessantadue settimane”) e dopo vi si pone il punto, alcuni ritengono di poter identificare il “messia principe” con il Messia per eccellenza stesso, Gesù, di cui nel v. 26 si afferma che sarà soppresso dopo sessantadue settimane. Non si nega, tuttavia, che la separazione delle sette dalle sessantadue settimane abbia come motivazione la rifondazione dello stato ebraico al compiersi delle prime sette settimane di anni.

Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi” (v. 25). A parte il quesito del legame dell’indicazione “sessantadue settimane” con le “sette”, a cui si è accennato, e che significherebbe il perdurare dei “tempi angosciosi” non necessariamente per tutte le sessantadue settimane di anni, il periodo di vassallaggio (non ci fu più una piena indipendenza) dello stato ebraico postesilico conobbe il travaglio, tra l’altro, dell’infiltrazione pagana attraverso i matrimoni, delle guerre dei sovrani persiani, della conquista di Alessandro Magno, delle persecuzioni di Antioco IV, della successione ai Maccabei, della conquista romana, fino all’insediamento di Erode il Grande, proveniente da famiglia idumea, non giudea.

Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui” (v. 26). “Adottando l’anno biblico di 360 giorni … le sessantanove settimane [le sette più le sessantadue], attraverso un calcolo preciso di giorni, vanno a cadere nel 32 d.C., che coglie in pieno il tempo della Passione di Gesù” (A. Socci, l.c., p. 190). La parola “consacrato”, “messia”, è in ebraico senza articolo e potrebbe anche riprendere – sotto le premesse su indicate – il “messia principe” indicato nel v. 25. L’affermazione della sua soppressione, lo avvicina al servo di Jahwe del Secondo Isaia (particolarmente il quarto canto in Is 52,13-53,12) e illumina la posizione danielitica della distinzione tra salvezza da Dio e politica.

L’indicazione “senza colpa in lui” oltre che a tradurre interpreta le parole che in ebraico letteralmente sono “e non a lui”, a cui si può dare anche altri significati come, ad esempio, “ e” o “perché a lui non è riconosciuto il regno, la realizzazione messianica”.

L’indicazione “dopo sessantadue settimane” e non “nella settantesima settimana” indica che la settantesima settimana è separata dalle altre sessantanove e segna il tempo della fine dell’aspettativa di un messia politico, la fine del tempio e del relativo culto, ciò che avvenne di fatto nei sette anni dal 63 al 70 d.C. Se il sette è il numero della creazione, dell’espiazione e della remissione, il rifiuto e la soppressione del messia avviene al di fuori dei settenari, nel rifiuto, appunto, dell’espiazione e della remissione. Il rifiuto, dopo un tempo in cui è offerto un ripensamento, induce a fissare, a scegliere come settantesimo settenario di anni, l’ultimo, il periodo (in effetti l’assedio di Gerusalemme durò sette anni) della fine del tempio e del rispettivo culto con la dispersione d’Israele: pur essendo castigo, in quanto settenario racchiude un piano provvidenziale che è, appunto, la fine dell'aspettativa politico-militare del messia, quella modalità del “regno di Dio” a cui il libro di Daniele fondamentalmente richiama. Va notato che questo procedere nell’indicazione del tempo, non in maniera necessariamente susseguente, mostra che si tratta di una “scelta” che racchiude in sé un significato.

La continuazione del v. 26 e il v. 27 sono di difficile lettura: vanno compresi in generale come profezia della fine, della distruzione del tempio, del termine del culto antico, della distruzione di Gerusalemme, della dispersione di Israele. Nei dettagli ci sono interpretazioni diverse. Ad esempio: l’identificazione del “principe che viene” – in ebraico “veniente”, un participio usato pure in riferimento al messia in Mt 11,3, e nell’Apocalisse di Giovanni in riferimento a Dio e a Cristo in 1,4; 1,8; 4,8; e di lui si invoca la venuta in 22,17.20 – non con Vespasiano o Tito , ma con il “consacrato”, “messia”, in rapporto all’attesa messianica; il verbo “distruggere” sarebbe usato nella forma e significato causativo: “farà distruggere”; quindi “il popolo di principe veniente farà distruggere la città e il santuario”. Così la profezia ricondurrebbe la distruzione del tempio e la fine del culto antico alla soppressione del “consacrato”, “messia” vero a favore di un messia politico. Questo corrisponderebbe alla posizione di Gesù che piange su Gerusalemme (Lc 19,41-44) e su di essa si lamenta (Mt 23,37 e par.). Dall’opera di Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, VI, 408 risulta che “fu il popolo giudaico ad aizzare la feroce reazione romana” (indicazione e citazione dal corso di G. Montefameglio nel sito sopra indicato).

Da quanto esposto l’attendibilità storica della profezia danielitica delle settanta settimane di anni risulta confermata. Quanto in essa indicato corrisponde ai dati storici di nostra conoscenza, mentre l’applicazione alla persecuzione di Antioco IV, da qualsiasi editto di ritorno si parta, non porta a convergenze storiche e non soddisfa i contenuti espressi (distruzione del tempio e fine del culto antico). La Septuaginta, la traduzione in greco dell’Antico Testamento, terminata probabilmente verso il 150 a.C., contiene il libro di Daniele e la profezia delle settanta settimane. Offre però una traduzione che sembra in certa misura propensa ad una sua applicazione alla persecuzione di Antioco IV. Ciò corrisponderebbe all’eventuale prassi, a cui si è accennato, di sottoporre da parte di successivi redattori il nucleo originario del libro di Daniele, in particolare le visioni e profezie, a interpretazioni applicative di avvenimenti già avvenuti. La profezia delle settanta settimane, però, nella versione originale non poteva adattarsi alla persecuzione di Antioco IV ed è forse per questo motivo che rimase senza interpretazione, con i suoi punti oscuri, fino al suo avverarsi.

 

L’attendibilità della profezia significa rafforzamento della fede nell’agire di Dio nella storia, nel suo piano salvifico realizzato in Cristo Gesù, nella concretezza e verità della vita cristiana. Ne è conseguenza il rendimento di grazie e lo stupore per le meraviglie che Dio compie.

 

Bologna 26 Maggio 2017

 

Angelo Lanzoni da Bologna - Pagina creata Martedì e migliorata Mercoledì 1 Novembre 2017 alle ore 10.17

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