Percorsi di Fede |
BIBBIA: LE DOMANDE SCOMODE
a
cura di Mons. Gianfranco Ravasi
Fonte:
Vita Pastorale, mensile ESP, Gennaio 2007 p. 56
Si è da poco consumato il
rituale idolatrico del vitello d’oro (in realtà si tratta di un toro, segno
di fecondità e simbolo divino nella religiosità dei cananei, gli indigeni
della Terra Santa). Il Signore confida a Mosè, in dialogo con lui sulla vetta
del Sinai, il suo sdegno: «Lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li
distrugga!». Mosè perora la causa dell’assoluzione attraverso una sottile
e appassionata argomentazione basata sulla stessa promessa divina di un futuro
per Israele.
La
parola è di matrice greca e
significa semplicemente “in forma umana”. Si tratta dell’applicazione
alla divinità di qualità umane, un processo simbolico adottato da tutte le
culture in modo ampio e con notevoli varianti: ad esempio nell’antico Egitto
si privilegiava, accanto all’antropomorfismo, lo “zoomorfismo”
ricorrendo al coccodrillo sacro,
al bue Api, all’ibis, al cobra e così via,
mentre per
i cananei era il toro a raffigurare
Baal, il dio della fecondità.
Ma se stiamo all’antropomorfismo in senso stretto, vediamo che il Dio
biblico, nella rappresentazione che della sua persona è fatta dagli autori
sacri, copre tutte le caratteristiche della persona umana, a partire dal corpo:
ha braccia, mani, piedi, volto, cuore, occhi, bocca e persino naso (in ebraico
l”’ira” è espressa col termine ‘af che evoca lo sbuffare delle
narici). Ha pure “viscere” materne, segno di amore istintivo, e in
questa linea prova tutta la gamma delle emozioni e passioni umane: dalla
collera alla tenerezza; dalla gelosia all’amicizia; dal pentimento alla fedeltà;
dalla paternità alla maternità; dall’innamoramento al rifiuto. Come un
vasaio, plasma l’uomo e, come un tessitore, stende la pelle sul corpo umano;
è un pastore che guida il suo gregge, un sovrano che passeggia a sera nel suo
parco reale o che sta assiso sul trono, un padre di famiglia che cuce le vesti
per i suoi figli, uno scriba che sulla pietra incide la legge, un nomade che
spiega i teli della sua tenda celeste, un generale che comanda il suo esercito,
un eroe assonnato ed ebbro, pronto, una volta sveglio, a riprendere la lotta,
e così via, per decine di altre immagini che toccano anche il Nuovo Testamento
ove, tra l’altro, si ha l’importante zoomorfismo dell’agnello applicato a
Cristo.
A questo punto scatta una duplice
domanda. La prima verte sulla legittimità di questa via rappresentativa
di Dio. Essa non solo è legittima, ma necessaria. Per parlare di ciò che ci
trascende, dobbiamo ricorrere a ciò che conosciamo trasponendolo verso un
Oltre e un Altro superiore, tendendolo alla pienezza e alla perfezione. È ciò
che fa il simbolo, che dalla realtà concreta e nota sale fino a tentare di
raffigurare l’ignoto. E in pratica una sorta di ascensione «all’eterno dal
tempo», come dice Dante nel Paradiso (Canto
31,25-51). È quello che il libro della Sapienza
(seguito dalla teologia medievale classica) definisce come
"analogia": «Dalla
grandezza e bellezza delle creature
per analogia si conosce l’autore» (Sap
13,5),
idea accolta da Paolo (Rm
1,20). La stessa concezione è ripresa con percorso
inverso nella tesi dell’uomo «immagine e somiglianza di Dio» presente
nella Genesi (Gen
1,27). Essa ha la sua piena attuazione o il suo inveramento (che
supera le pure immagini) nell’incarnazione quando Dio non solo è come
l’uomo ma è uomo, offrendoci un’inedita possibilità (cf
Gv 1,18).
Il secondo quesito è questo: gli ebrei, quando ricorrevano
all’antropomorfismo, capivano che si trattava di una via simbolica per
indicare una pienezza trascendente? La risposta è sì e no. Accade oggi con la
civiltà dell’immagine: quante volte si oscilla tra comprensione ed equivoco;
tra verità e illusione; tra dato e inganno e il fruitore non riesce a sceverare
immagine e realtà. O per fare un esempio più circoscritto: quando si usa
l’ironia, si dà un significato ulteriore alle frasi, ma molti le
interpretano alla lettera e c’è confusione. Nella Bibbia si attacca spesso
I’idolatria. Ebbene, essa è proprio l’incomprensione del vero valore
dell’antropomorfismo. Ci si ferma all’immagine senza capire che essa è un
“segno” che ci conduce oltre, verso l’Alto. E se volessimo scegliere un
antropomorfismo perfetto, il più alieno da equivoci? La scelta, a nostro
avviso, dovrebbe cadere sul giovanneo «Dio è amore» (1Gv
4,8).
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