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BIBBIA: LE DOMANDE SCOMODE

 

 

a cura di Mons. Gianfranco Ravasi

Antropomorfismi per dire il Trascendente

Fonte: Vita Pastorale, mensile ESP, Gennaio 2007 p. 56

Si è da poco consumato il rituale idolatrico del vitello d’oro (in realtà si tratta di un toro, segno di fecondità e simbolo divino nella religiosità dei cananei, gli indigeni della Terra Santa). Il Signore confida a Mosè, in dialogo con lui sulla vetta del Sinai, il suo sdegno: «Lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga!». Mosè perora la causa dell’assoluzione attraverso una sot­tile e appassionata argomentazione basata sulla stessa promessa divina di un futuro per Israele. A questo punto — conclude il racconto di Es 32 — «il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo». Espressione, questa, piuttosto sorprendente e teologicamente “scorretta”, come quella che si legge agli esordi del racconto del diluvio allorché si dichiara a tutte lettere che «Dio si pentì di aver fatto l’uomo» (Gen 6,6). Eppure, dopo altre pagine dello stesso Pentateuco, si legge che «Dio non è un uomo da potersi smentire, non è un figlio dell’uomo da potersi pentire» (Nm 23,19). E, allora, come si spiega questo fenomeno che attribuisce a Dio un profilo (talora anche pesantemente) umano e che è definito dagli studiosi col termine “antropomorfismo”?

La parola è di matrice greca e significa semplicemente “in forma umana”. Si tratta dell’applicazione alla divinità di qualità umane, un pro­cesso simbolico adottato da tutte le culture in modo ampio e con notevoli varianti: ad esempio nell’antico Egitto si privilegiava, accanto all’an­tropomorfismo, lo zoomorfismo ricorrendo al coccodrillo sacro, al bue Api, all’ibis, al cobra e così via, mentre per i cananei era il toro a raffigurare Baal, il dio della fecondità.

Ma se stiamo all’antropomorfismo in senso stretto, vediamo che il Dio biblico, nella rappresentazione che della sua persona è fatta dagli autori sacri, copre tutte le caratteristiche della persona umana, a partire dal corpo: ha braccia, mani, piedi, volto, cuore, occhi, bocca e persino naso (in ebraico l”’ira” è espressa col termine ‘af che evoca lo sbuffare delle narici). Ha pure “viscere” materne, segno di amore istintivo, e in questa linea prova tutta la gamma delle emozioni e passioni umane: dalla collera alla tenerezza; dalla gelosia all’amicizia; dal pentimento alla fedeltà; dalla paternità alla maternità; dall’innamoramento al rifiuto. Come un vasaio, plasma l’uomo e, come un tessitore, stende la pelle sul corpo umano; è un pastore che guida il suo gregge, un sovrano che passeggia a sera nel suo parco reale o che sta assiso sul trono, un padre di famiglia che cuce le vesti per i suoi figli, uno scriba che sulla pietra incide la legge, un nomade che spiega i teli della sua tenda celeste, un generale che comanda il suo esercito, un eroe assonnato ed ebbro, pronto, una volta sveglio, a riprendere la lotta, e così via, per decine di altre immagini che toccano anche il Nuovo Testamento ove, tra l’altro, si ha l’importante zoomorfismo dell’agnello applicato a Cristo.

A questo punto scatta una duplice domanda. La prima verte sulla legittimità di questa via rappresentativa di Dio. Essa non solo è legittima, ma necessaria. Per parlare di ciò che ci trascende, dobbiamo ricorrere a ciò che conosciamo trasponendolo verso un Oltre e un Altro superiore, tendendolo alla pienezza e alla perfezione. È ciò che fa il simbolo, che dalla realtà concreta e nota sale fino a tentare di raffigurare l’ignoto. E in pratica una sorta di ascensione «all’eterno dal tempo», come dice Dante nel Paradiso (Canto 31,25-51). È quello che il libro della Sapienza (seguito dalla teologia medievale classica) definisce come "analogia": «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13,5), idea accolta da Paolo (Rm 1,20). La stessa concezione è ripresa con percorso inverso nella tesi dell’uomo «immagine e somiglianza di Dio» presente nella Genesi (Gen 1,27). Essa ha la sua piena attuazione o il suo inveramento (che supera le pure immagini) nell’incarnazione quando Dio non solo è come l’uomo ma è uomo, offrendoci un’inedita possibilità (cf Gv 1,18).

Il secondo quesito è questo: gli ebrei, quando ricorrevano all’antropomorfismo, capivano che si trattava di una via simbolica per indicare una pienezza trascendente? La risposta è sì e no. Accade oggi con la civiltà dell’immagine: quante volte si oscilla tra comprensione ed equivoco; tra verità e illusione; tra dato e inganno e il fruitore non riesce a sceverare immagine e realtà. O per fare un esempio più circoscritto: quando si usa l’ironia, si dà un significato ulteriore alle frasi, ma molti le interpretano alla lettera e c’è confusione. Nella Bibbia si attacca spesso I’idolatria. Ebbene, essa è proprio l’incomprensione del vero valore dell’antropomorfismo. Ci si ferma all’immagine senza capire che essa è un “segno” che ci conduce oltre, verso l’Alto. E se volessimo scegliere un antropomorfismo perfetto, il più alieno da equivoci? La scelta, a nostro avviso, dovrebbe cadere sul giovanneo «Dio è amore» (1Gv 4,8).

 

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